NICOLA PECCHENEDDA DA POLLA di Nadia Parlante – Numero 12 – Ottobre 2018

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NICOLA PECCHENEDDA  DA POLLA

 

 

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Soprattutto autentica, efficace, comunicativa. Un “corpus” di opere davvero immenso quello dell’artista di Polla, non ancora definitivo che, di anno in anno, si arricchisce di nuove scoperte autografe, come le splendide Nozze di Cana e La Piscina Probatica, forse bozzetti per opere di maggiori dimensioni, rintracciate in una collezione privata fiorentina.

Dalla natia Polla, nel salernitano, Nicola Peccheneda di strada ne aveva fatta tanta.


Le modeste commissioni di paese, poi la decisione maturata in famiglia di andare a Napoli a perfezionarsi nell’arte della pittura e del disegno in qualche bottega importante. 

 

Nella capitale del Regno dei Borbone si era trasferito da tempo suo fratello Francesco, esperto giureconsulto che non tarderà ad inserirsi nell’ambiente cortese, uomo stimatissimo dallo stesso sovrano tanto da essere promosso, anni dopo, all’ambita carica di segretario della Real Camera di Santa Chiara e caporuota. Mastro Carlo “fabricatore”, il padre di entrambi, aveva messo su un’impresa edile di tutto rispetto che l’arte di Nicola, una volta rientrato al paese, avrebbe impreziosito con il suo operato.

E così fu. Una famiglia, quella dei Peccheneda di Polla, di “mastri” muratori, 

artigiani sapienti e operosi che in maniera capillare, ha lavorato 

sinergicamente tra Basilicata e Campania,.

 

supportata dall’opera talentuosa di Nicola, che nelle chiese realizzate dall’impresa paterna e in molte altre, ha lasciato dipinti e ampi cicli pittorici distintivi per originalità e fattura. 

 

Polla, Atena Lucana, Sant’Arsenio, Padula, Caggiano, Sassano, Vibonati, Buccino, Altavilla Silentina, Petina, Giffoni Valle Piana, Marcianise (CE), senza escludere le molteplici commissioni lucane: Melfi, Marsiconuovo, Brindisi di Montagna, Picerno, Brienza… Non si contano poi le opere distrutte o disperse.

 

I primi studi sull’artista e la sua bottega, effettuati dagli studiosi Vittorio Bracco 

e Antonella Cucciniello, sono stati favoriti dalla riscoperta e dalla necessità 

di catalogare l’immenso patrimonio artistico ferito dal sisma del 1980

 

ed hanno fatto luce su una vicenda esistenziale e artistica tutt’altro marginale della pittura devozionale campana del XVIII secolo, favorendo la valorizzazione, il restauro e la giusta ricollocazione storico-critica delle sue opere, che si va ulteriormente arricchendo ma certamente non può ancora dirsi conclusa. I notevoli apporti documentari degli ultimi venti anni, hanno tracciato un profilo meno incerto della sua attività artistica e quella della fiorente impresa edile familiare, che tuttavia andrà ulteriormente indagata, soprattutto per quanto riguarda il periodo della formazione napoletana, ancora piuttosto lacunoso di informazioni. 

 

Il pittore, che si era formato nell’ambito della cultura raffinata della capitale del Regno, allora all’apice di una stagione artistica senza precedenti, pur avendo la possibilità di inserirsi nell’entourage cortese napoletano, scelse la periferia come luogo di vita e di lavoro, riuscendo ad “importare” i fortunati modelli napoletani di matrice solimenesco-demuriana, innestandoli in un linguaggio personale e distintivo, senza mai perdere il senso di una coerenza stilistica che rimane sostanzialmente fedele a se stessa.

Tale formula espressiva conciliò le esigenze devozionali del popolo 

e quelle della committenza, assicurandogli molto lavoro

 

senza tuttavia negare al pittore una certa libertà personale e la possibilità di realizzare le sue aspirazioni sociali, spiccatamente antibaronali, che gli aprirono anche le porte della politica. Una vicenda singolare quella dei due Peccheneda, l’artista e l’avvocato, i fratelli di Polla che, grazie alla loro intraprendenza e capacità, riuscirono a superare le barriere sociali della loro umile nascita e a guadagnarsi l’ammirazione dei contemporanei e la considerazione dei posteri, ponendosi a modello di quella nuova borghesia che faticosamente tentava di emergere dal mai sopito strapotere feudale, e proprio al culmine del secolo dei Lumi, ribadiva attraverso la forza delle idee e dell’arte, l’inesauribile e sapiente vivacità creativa e intellettuale della periferia.

 

 

Quello di Nicola Peccheneda è un linguaggio pittorico inconfondibile, ricercato e contemplativo che, dopo quasi tre secoli, riesce ancora a coinvolgere chi entra nelle chiese della Basilicata e del Vallo di Diano e a trasportarlo in un’atmosfera velata, plasmata da una devozione dai toni classici, aulica e popolare allo stesso tempo.

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IL VOLO DELL’ANGELO di Lorenzo Salazar – Numero 12 – Ottobre 2018

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IL VOLO DELL’ANGELO

 

Esiste però un percorso alternativo, che richiede meno di due minuti, ma anche una certa dose di sangue freddo. 

 

Accanto alla naturale e selvaggia bellezza dei luoghi, da circa un decennio il Volo dell’Angelo costituisce uno dei principali fattori di richiamo delle Piccole Dolomiti Lucane (ci troviamo una trentina di chilometri a sud-est di Potenza) le cui cime, pur in scala ridotta, ricordano da vicino talune vette delle più blasonate cugine trivenete. Robusti cavi di acciaio hanno così riunito i due paesi, da sempre così vicini e così lontani, consentendo di “volare” dall’uno all’altro in ambo i sensi.

Si “decolla” da siti diversi e diversamente impervi, da raggiungere 

prevalentemente a piedi.


Il volo da Castelmezzano a Pietrapertosa (sicuramente il più eccitante e spettacolare dei due con la sua lunghezza di 1415 metri ed il suo dislivello di 130), si spicca da una cresta raggiungibile dopo una ascensione (definirla passeggiata è sicuramente riduttivo) di circa mezz’ora dal punto dove il minibus abbandona gli aspiranti emuli di Icaro raccolti al punto di ritrovo in paese od a quello di arrivo del rientro. Da essa, in attesa del proprio turno, si ha il tempo di scoprire gli incantevoli scorci offerti dalle Piccole Dolomiti e dal circostante Parco Regionale Gallipoli Cognato che si estende su una superficie di oltre 4000 ettari, equamente divisi tra la provincia di Potenza e quella di Matera.

 

La partenza del volo da Pietrapertosa si trova invece quasi in cima al paese. Una volta raggiunto l’ingresso di quest’ultimo, sempre grazie ad un minibus che muove dal sottostante arrivo della fune, potremo così scoprirne le strette viuzze e le botteghe che offrono prodotti tipici lucani.

La laboriosa cerimonia di vestizione prevede una imbracatura, un casco 

di protezione e l’affidamento, sino al vicino punto di partenza, 

della pesante carrucola che costituirà il nostro solo appiglio 

al cavo per tutta la durata del salto da un paese all’altro. 


L’esperienza è mozzafiato. L’augurio di “buon volo” ne segna l’inizio; subito dopo, annunziato dallo scatto metallico del moschettone, ci si stacca repentinamente dalla base di partenza. Si guadagna velocità in pochi secondi, trattenendo il respiro e giungendo rapidamente a toccare i 120 km/h. 

Riavutisi dallo shock iniziale si può godere un panorama superbo, col terreno 

sotto di noi che si allontana sempre più rapidamente. Appena il tempo 

di ammirare l’abisso, ascoltando il vento che riempie le orecchie, 

ed ecco che il fondo valle comincia a riavvicinarsi 

e la velocità a decrescere.


A quel punto, se avremo il coraggio di volgere nuovamente lo sguardo in avanti, potremo cominciare a scorgere il punto di arrivo che si avvicina ad una velocità che apparirà sempre e comunque eccessiva; il fiato è tagliato di nuovo, sino all’impatto… 

 

Chi invece proprio non se la senta di tentare l’esperienza di volo, potrà egualmente assaporare il gusto dell’avventura affrontando un percorso di trekking di circa 2 km. (detto “delle sette pietre”) che, recuperando l’antico sentiero contadino che collegava i due Comuni, scende dai 920 metri di Pietrapertosa ai 660 della sottostante valle del torrente Caperrino per risalire quindi ai quasi 800 di Castelmezzano. Per compiere l’intero circuito del volo di andata e ritorno occorrono non meno di 3 ore, ma non vi è ragione di perseguire inutili performances agonistiche che non lascerebbero il tempo di godere dei colori e sapori locali. Meglio, molto meglio, concedersi l’intera giornata e, 

ancora inebriati dall’esperienza del volo della mattina, perdersi tra le stradine 

del paese di “atterraggio” ammirandone gli scorci, sempre contornati 

dalle straordinarie cime delle Piccole Dolomiti.


Ci si potrà quindi rifugiare presso uno dei numerosi ristoranti locali che, nonostante il crescente afflusso turistico, mantengono elevato il livello della cucina locale ed un ottimo rapporto prezzo-qualità, come del resto quasi ovunque in Basilicata. 

 

Le numerose specialità lucane placano piacevolmente gli appetiti accesi dal cammino verso le basi di partenza. Su tutte troneggia il “crusco” – un tipo di peperone dolce e saporito che viene seccato sui balconi delle case di paese annodato in fotogeniche trecce – che viene qui declinato in tutti i suoi diversi abbinamenti, da originale succedaneo delle chips in aperitivo, ad accompagnamento delle “strascinate” fatte in casa od ideale coronamento purpureo del candido e saporoso baccalà che anche in questa parte del meridione costituisce insostituibile elemento della cucina delle regioni meno favorite dalla vicinanza al mare. 

 

Evitando le ore più calde per intraprendere il volo di ritorno, coltivando al contempo l’illusione di ridurre il pesante debito calorico ereditato dal pranzo, si potrà passeggiare alla ricerca di un caffè, continuando a godere del panorama rupestre.

Se a Pietrapertosa il contatto con le cime è immediato, scendendo le stesse 

sin dentro il paese che ad esse sembra armoniosamente aderire, 

Castelmezzano è stato recentemente inseritoda un giornale britannico 

tra i 19 borghi più belli d’Italia


(“…progettato non da un urbanista, I presume, ma da un gigante che ha preso un mucchio di graziose case e le ha spalmate tra le rocce”, così Lee Marshall sul Daily Telegraph). 

 

Le iniziative di taglio sportivo-avventuroso sembrano proliferare in tutta la Regione. A quello dell’Angelo si è di recente aggiunto il Volo dell’Aquila, con quattro persone alla volta che planano da San Paolo Albanese a San Costantino Albanese, nel Parco Nazionale del Pollino. A Sasso di Castalda invece – non lontano dalla statale che congiunge il Vallo di Diano, ancora nel Salernitano, con la costa ionica – due ponti tibetani, con gradini trasparenti stesi al di sopra del dirupo che costeggia il paese, hanno dato vita alla passeggiata del Ponte alla Luna, richiamando nuove frotte di ardimentosi del fine settimana.

La Basilicata (o per me la Lucania, come sempre si è detto in famiglia) 

è una delle regioni meno conosciute d’Italia. Proprio al rientro da un “Volo”, 

non molto tempo fa percorrevo una sperduta stradina di montagna in direzione 

di San Chirico Raparo, paese della nonna paterna; all’uscita di una curva, 

come nella scena di un film di James Bond, mi si spalancò improvviso 

di fronte l’immenso sito del giacimento “Tempa rossa”,


con decine di bulldozer intenti a spianare il terreno e drappelli di operai e tecnici in divisa azzurra disciplinatamente intenti ai propri compiti. Lo sfruttamento intensivo del più grande giacimento petrolifero su terraferma del continente, pur conosciuto dalla prima metà del ‘900, è iniziato solo in tempi relativamente recenti e ha indubbiamente costituito un fattore di relativo dinamismo economico che non ha mancato di scuotere gli apparentemente immobili equilibri locali.

Gli enormi investimenti hanno prodotto un effetto di ricaduta sull’economia, 

pagato però con la creazione di non sempre trasparenti 

appetiti di varia natura


ed un crescente impatto ambientale i cui effetti, nonostante le inchieste avviate dalla magistratura, non appaiono ancora pienamente misurabili; ad esso vengono ad esempio da taluno imputate le misteriose ed ormai ricorrenti morie di pesci del lago del Pertusillo, nella Val d’Agri. 

 

La capacità di attrazione esercitata da queste nuove attività che aggiungono un pizzico di avventura soft a portata di tutti al richiamo turistico delle tradizionali mete culturali – alcune delle quali, come Matera, oramai di rinomanza mondiale –  

può contribuire a bilanciare la progressiva affermazione nella Regione 

di una monocultura legata al petrolio (ed alle generose royalties 

dallo stesso generate) ed a prevenire l’abbandono di località 

ricche di fascino preservando le tradizioni locali.


Permane, come troppo spesso nel nostro Meridione, il problema delle infrastrutture; l’automobile o la corriera rimangono infatti quasi sempre gli unici o comunque i più rapidi mezzi a disposizione per raggiungere tanto la Capitale Europea della Cultura 2019 come gran parte delle principali località di interesse della Regione, con l’eccezione dell’incantevole Maratea che ha la fortuna di incontrare la linea ferroviaria tirrenica.

Inseguire l’utopia di un nuovo Texas, al quale prevedibilmente contrapporre 

un modello di sviluppo fondato su di una sorta di Disneyland diffusa, 

o confidare invece in una convivenza reciprocamente sostenibile –


sognando tute azzurre che attraversano il cielo delle piccole Dolomiti – nelle dimenticate terre che si stendono a sud dell’invisibile frontiera di Eboli? 

 

Intanto, “buon Volo”…!

 

 

 

separate in linea d’aria da meno di 1500 metri e da un orrido profondo centinaia di metri, occorre affrontare oltre mezz’ora d’automobile ed una serie interminabile di tornanti.

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ALESSANO, LA PIAZZA DEI DUE CASTELLI di Giusto Puri Purini – Numero 12 – Ottobre 2018

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ALESSANO,  LA PIAZZA dei due castelli 

 

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importante borgo del sud Salento, chiamato Messapia dai Greci, “terra fra i due mari”, non si può prescindere da un balzo a ritroso nella storia tumultuosa della penisola salentina, protesa nel Mediterraneo e terra di approdo per tanti naviganti, lontana dai condizionamenti dei grandi centri urbani di allora, Roma, Sparta, Atene.

Vennero dall’Oriente i Messapi e gli Spartani, che occuparono le terre dei Dauni 

e dei Pucezi dando inizio ad una rivalità secolare, narrata da Erodoto, 

che non finiremo mai di ringraziare per le sue cronache 

puntuali e precise.


In molti dei miei viaggi ho seguito con cura i suoi racconti, dalla Puglia salentina alle lontane porte dell’Anatolia ai confini con la Siria. Memorabile la vista da lui descritta, in un viaggio via mare, lungo le coste della Lycia (nel 300 circa a.C.), delle migliaia di fiammelle che sgorgavano dalla terra, lungo i declivi dei monti circostanti, discendenti verso il mare, accanto all’Olimpia Jonica, a ricordare lo schianto al suolo della Chimera, colpita dal dardo infuocato di Bellerofonte.

Lucani e Messapi, popoli di grandi guerrieri, sconfissero gli spartani 

di Taras (Taranto) nel 473 a.C., consolidando, fino alla conquista romana,

 la supremazia sulla “Calabria”, l’antico nome della penisola salentina.


L’avvenimento fu ricordato da Aristotele che precisa: “Accadde un po’ dopo che i Persiani invasero la Grecia.” Queste premesse ci fanno capire l’impronta profonda e strutturale che i Messapi lasciarono sul territorio. Guerrieri e contadini, lo trasformarono profondamente con le loro architetture megalitiche, facendo largo uso del duro, morbido zoccolo di pietre calcaree, di cui il territorio salentino è composto, aprirono inoltre nuovi itinerari e rotte nel basso Mediterraneo. Anche Tucidide li cita, nella sua Storia, durante la guerra del Peloponneso, tra Atene e Siracusa, dove furono caricati, alle isole Cheradi (Porto Cesareo), 150 lanciatori di giavellotto messapi, capitanati da Arta, un potente capo locale. La dodecapoli messapica nella penisola salentina, vedi l’analogia con quella etrusca, riguardava 16 città, di queste Vereto, dista pochi chilometri da Alessano.

La lunga dominazione romana dal 230 a.C. portò nel Salento 

infrastrutture e opere pubbliche,


come la via Appia fino a Brindisi, che divenne un porto importantissimo per Roma, con lo scalo verso la Grecia e l’Oriente lontano, vi fiorirono in quei tempi anche grandi personalità ed artisti, quali Livio Andronico, Quintinio Ennio e Marco Pacuvio. A Brindisi tristemente morì il grande Virgilio. Ai Romani succedettero i Bizantini, i Longobardi, poi i Normanni, i Veneziani, gli Svevi, gli Angioini, gli Aragonesi, infine i Borboni. Molteplicità di culture intrecciate ed a volte fuse, determinarono un’unicità del Salento, terra dalle fondamenta strutturali antropologicamente potenti ed aperta verso le terre d’oltremare. Durante la dominazione Angioina, Alessano fu capoluogo di Contea, dal mare di Capranica del Capo fino alla dorsale di Specchia.

Alessano, quindi, ebbe il suo momento di massimo splendore e sviluppo 

tra il XV ed il XVI secolo,


importanti famiglie nobiliari si succedettero, i Della Ratta, i Del Balzo, i De Capua, i Gonzaga, i Guarini ed altri, garantendovi il prestigio e lo sviluppo del territorio. S’insediarono anche numerose famiglie di mercanti-commercianti veneziani ed una piccola comunità ebraica, il centro città si arricchì di numerosi palazzi in stile rinascimentale e si svilupparono arte e cultura. 

 

In particolare il Palazzo Ducale ed il Palazzo Sangiovanni, rispettivamente, oggi, della famiglia Sangiovanni e di una importante famiglia belga, gli Adriaenssen, affacciati entrambi sulla stessa piazza, Piazza Castello, sul cocuzzolo più alto di Alessano, a coronamento finale di un centro storico ricco e modulato.

Il Palazzo Ducale, importante centro di cultura durante il governo dei Gonzaga, 

è un castello fortificato a forma di quadrilatero,


con torri e merli ed un ampio parco giardino e frutteto all’interno. Fu realizzato nel tardo ‘400 durante il governo dei feudatari Del Balzo, di cui resta memoria nella stella a sedici punte, simbolo della casata.

La facciata del Palazzo Sangiovanni, invece, riprende il motivo 

delle bugne diamantate del Palazzo dei Diamanti a Ferrara,


all’interno una struttura architettonica più articolata, immersa nei giardini di frutta e negli oliveti secolari. 

 

“Il Palazzo S.Giovanni” o la “casa del Mercante” (o la “casa del Cavaliere”) e le “Silenti Attenzioni” del Vasari. Palazzo dei Diamanti o Sangiovanni ad Alessano (Lecce)…così si chiama il capitolo a cura di Ferruccio Canali e di Virgilio Carmine Galati, dedicato ad “Alessano, la più grande Signoria del Salento meridionale, lo sviluppo urbano e i suoi Palazzi tra Quattro e Cinquecento”. Scrive Galati: “Alla severità dei fortificati anni precedenti, nel tardo Cinquecento compaiono vezzi di gusti antiquari come finestre che richiamavano quelle realizzate da Giorgio Martini ad Urbino, oppure decorazioni a bugna di diamante, estese circoscritte o a filari verticali scalati zigzaganti ed ancora paramenti a fasce bicromatiche.

Un nuovo modello decorativo, se non tipologico si era dunque fatto strada 

anche nella parte meridionale del ‘Golfo di Venezia’ dall’Apulia al Salento,


all’interno dei gruppi baronali e nei ceti emergenti (con singolari realizzazioni anche in Sicilia e Campania)”. Le corti feudali procedevano ad un aggiornamento e ad una qualificazione delle loro residenze, mentre i mercanti, arricchitisi con i traffici transadriatici, caratterizzavano le loro abitazioni. Leandro Alberti ricorda Alessano così:

“Alessano con luoghi ben coltivati, ed ornati di belle vigne, di olive, di aranci e di altri alberi fruttiferi, che paiono giardini, dando gran piacere ai ‘Riguardanti’”.

Oggi, i due Palazzi, lassù, nell’alto di Alessano, Piazza Castello, in parte ristrutturati con l’intervento di validi architetti, godono della fortuna di aver avuto 

proprietari avveduti e ricchi d’iniziative.


Entrambi i Palazzi si aprono al pubblico, a momenti, in un fervore d’iniziative artistiche e culturali, ora mostre, concerti, avvenimenti, ricevimenti, incontri con moderni “viandanti” italiani ed europei, alla ricerca di quel mondo semi-nascosto italiano, che dovrebbe diventare permanente, pieno di quei tanti tesori d’arte e di cultura, punti di riferimento della continuità storica di Alessano.

 

 

 

 

 

 

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SAN CLEMENTE A CASAURIA E I SUOI DUE PADRI di Gianluca Anglana – Numero 12 – Ottobre 2018

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SAN CLEMENTE A CASAURIA

 

 

E I SUOI DUE PADRI

 

Mandrie di bovini osservano impassibili gli itinerari degli umani. Cavalli allo stato brado brucano con indifferenza. Dal fianco della montagna risalgono nuvole. Panorami da Gustave Doré. 

Una bambagia di nubi sembra poggiarsi soffice sulle sommità spoglie. È quassù che si rende omaggio al Sovrano degli Appennini. Il “Tibet d’Italia” accoglie i viandanti del ventunesimo secolo, pellegrini versione 2.0. Un mare di verde. Onde di pascoli disegnano avvallamenti che paiono curve di donna.

 

Rocca Calascio all’imbrunire: quando ormai il profilo dei monti è solo un acquarello su carta di riso. Questo è un luogo stupendo e spettrale a un tempo. Le rovine dell’antica fortezza svettano sulle cime. Tra le pietre erose dal tempo, il vento sibila: sembra il lamento di una qualche Catherine che tormenta ancora il suo Heathcliff. 

 

L’Abruzzo e la bellezza. L’Abruzzo e il silenzio.

 

La quiete è quella dell’Abbazia di San Clemente a Casauria,


contrada di Castiglione a Casauria, provincia di Pescara. La riconosci subito dalla sua squadrata austerità. Il suo portico è solenne e severo: si apre in tre archi, di cui solo i laterali a sesto acuto.

 

Questa magnificenza si deve a due uomini.

La sua fondazione certamente a un Franco: Ludovico II1


Oltre che Imperatore, Ludovico divenne anche Re d’Italia e fu particolarmente attivo nelle regioni meridionali della Penisola. Ebbe molti grattacapi. Faticò non poco per tenere a bada i Saraceni a Sud2; indispettì i Greci piantando in asso la figlia del Basileus Teofilo preferendole Engelberga dei Supponidi3, una delle famiglie più influenti dell’aristocrazia franca (mogli e buoi…); litigò a più riprese con Papa Niccolò I e soprattutto entrò in conflitto con il principe beneventano Adelchi. Costui gli si ribellò nell’871, aizzandogli contro i dignitari del Ducato: la coppia imperiale fu tenuta in cattività per un mese intero e liberata solo dopo avere «promesso di non cercare di vendicarsi e soprattutto di non ricomparire più con le sue schiere nel territorio di Benevento»4. Dopo il rilascio, Ludovico piegò su Roma: qui ricevette da Papa Adriano II le reliquie del martire Clemente.

È in questi anni, precisamente a partire dall’871 secondo il Chronicon Casauriense (oggi conservato alla Bibliothèque Nationale de France)5, che l’Imperatore 

ordinò di erigere in Casauria un monastero


(dapprima dedicato alla Santissima Trinità, quindi appunto a San Clemente), che si ergesse come segno inequivocabile della sua presenza rispetto all’Italia meridionale anarchica. 

 

Un simbolo della maestà imperiale o un gigantesco ex voto per la fine della prigionia.

La Regola fu quella di San Benedetto.


Forte della sua posizione strategica
«lungo il fiume Pescara, ai confini dei ducati di Spoleto e Benevento e presso la Via Claudia-Valeria, l’Abbazia al tempo dell’Abate Lupo nel 911 vantava i possedimenti in quasi tutta la regione»6. Per via delle cospicue donazioni, il Monastero condivise con altri del suo stesso ordine la medesima sorte scintillante.7

Poi il buio, dovuto all’invasione dei Saraceni nel 916 e a quella dei Normanni 

nel 10768.  Il Cenobio ritrovò il suo splendore solo grazie a Leonate, 

consacrato abate nel 1156


Costui intendeva restituirgli lustro: fu anche per questo che ne concepì la facciata come una sorta di accesso trionfale, perché fossero chiari a tutti il prestigio e la potenza di quella comunità. Egli morì il 25 Marzo 1182 e non fece in tempo a vedere completato il suo progetto. Ai lavori contribuirono maestranze provenienti da più parti: sicuramente dalla Puglia e dalla Borgogna.

 

Il portico appare tutt’ora poderoso, ingentilito da quattro bifore e sormontato 

da un oratorio dedicato a San Michele Arcangelo, alla Santa Croce 

e a S. Tommaso Becket,

 

uno di quei santi inglesi «di rango aristocratico – vescovi e nobili laici – che si erano opposti al potere regio»9 e la cui fama si propagò in tutta Europa: la canonizzazione dell’Arcivescovo di Canterbury avvenne nel 1173. Allora, già da circa cento anni, gli Abati di Casauria sottoponevano le questioni di loro competenza non più agli imperatori, bensì ai papi. 

 

All’interno della lunetta sovrastante il portale principale, Leonate è raffigurato nell’atto di presentare a Clemente la chiesa rimessa a nuovo. 

 

Più sotto,

 

un architrave narra le origini dell’Abbazia: la sua genesi è a Roma, 

dove Adriano II consegna a un più che mai deferente Ludovico II 

la teca contenente i resti del Santo;


accompagnato da Suppone armato (parente di Engelberga?), l’Imperatore segue l’asino carico delle reliquie; nei pressi dell’Abbazia circondata dalle acque del fiume Pescara, il Sovrano consegna a Romano, primo Abate del Monastero, lo scettro abbaziale e il potere sui fertili feudi circostanti.

I capitelli, su cui poggia l’architrave, insegnano cosa sia il male e cosa il bene:


sul capitello di sinistra (la regione del male), un drago è la calunnia, che sussurra all’orecchio di un uomo le parole del peccato; sul capitello di destra (la regione del bene), in groppa ad un animale fantastico, un uomo volge le spalle al vizio e ne rifugge per sempre.

Nella lunetta sovrastante il portale laterale di sinistra, San Michele Arcangelo 

infilza il drago, simbolo del male.


Maria col Bambino, tutrice dei pellegrini, è assisa sul portale di destra. 

 

Racchiusi negli stipiti come dentro a delle garitte, sono a guardia quattro re, forse i carolingi Ugo, Lotario, Lamberto e Berengario. 

 

All’Abate Gioele (1182-1189) va ascritta la porta bronzea centrale.

L’interno, a tre navate, è spoglio ed elegante.


Il pezzo forte è l’ambone, la cui cassa poggia su quattro colonne ed altrettanti capitelli adornati di palme. Queste, simbolo del martirio, sono scolpite nell’atto di dischiudersi in una successione facile a indovinarsi, se si guardano i capitelli in senso antiorario, partendo dal primo sulla destra. Un invito ai fedeli ad aprirsi alla parola del predicatore. E ce n’è anche per lui: lungo il perimetro del manufatto, scorre in latino l’esortazione ai retori della Chiesa a condurre una vita coerente con le proprie omelie. Dei fiori sono mirabilmente scolpiti. Un’aquila afferra un libro, che a sua volta sormonta un leone (questa gerarchia verrà invertita sulle colonnine esterne all’abside), e guarda al candelabro poggiante su un’ara adornata di quattro teste leonine.

 

L’altare, al di sotto di un ciborio, è in realtà un sarcofago paleocristiano 

della fine del IV secolo o degli inizi del V.


Al suo interno, era forse conservato il reliquiario di alabastro, che oggi si trova alla destra della mensa, protetto da una teca, e

all’interno del quale furono deposte le ossa di Clemente.


Per nostra fortuna, oggi possiamo ancora ammirare questi capolavori.

 

Ciò grazie alla tenacia di un uomo:

Pier Luigi Calore. È lui il secondo padre.


A lui, vissuto nel diciannovesimo secolo, mille anni dopo Ludovico, si devono la riscoperta e la valorizzazione di questi luoghi: sfidò la burocrazia, investì energie e pagò in prima persona, allo scopo di salvarli dal grave stato di degrado in cui li avevano ridotti i terremoti, le devastazioni delle solite truppe francesi, l’incuria e la cupidigia degli uomini ai quali erano stati affidati10. Amico di Gabriele D’Annunzio che lo stimava, lottò con tenacia fino ad ottenere la dichiarazione di San Clemente quale monumento nazionale con un regio decreto del 28 giugno 1894. 

 

Ed è a lui che è intitolato l’antiquarium nei locali adiacenti alla chiesa, dove sono raccolti alcuni reperti di eccezionale fattura (come il capitello decorato con aquile di federiciana memoria che ghermiscono una serpe oppure la commovente statua della Madonna con Bambino, in pietra della Maiella). 

 

In questo piccolo museo, non puoi non chiederti che volto abbiano i Pier Luigi Calore dei nostri giorni, sempre che ne esistano. E rabbrividisci, nell’uscirne, alla lettura dell’ammonimento di Basilide di Alessandria11 appeso al muro di sinistra (la regione del male), augurandoti che sia tutto fuorché una profezia:

 

“E verrà… il tempo in cui non vi saranno uomini spirituali, ma soltanto ignoranti 

che rifiutano ciò che appartiene allo spirito”.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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1 – Nipote di Ludovico I il Pio, fu il primogenito di Lotario I e di Ermengarda di Tours. Fu incoronato Imperatore a Roma, nell’Aprile dell’850, da Leone IV. Morì a Ghedi nel bresciano. Le sue spoglie riposano nella Basilica di Sant’Ambrogio a Milano (cfr: www.treccani.it).

2 – Nell’871 condusse una spedizione a Bari, per strapparla ai Musulmani: v. UTET, Torino, 1967, p. 519: «di tutti i Carolingi fu quegli che più si interessò al nostro Paese e più caldamente vagheggiò il disegno di riunirlo in un solo Regno».

3 – Il fidanzamento contratto a Treviri con la principessa bizantina nell’842 fu rotto unilateralmente da Ludovico, il quale tra l’851 e l’853 sposò Engelberga, figlia del conte di Parma, Adalgiso (www.treccani.it).

4 – Ibidem.

5 – Su: www.sanclementeacausaria.beniculturali.it (invece, su www.regione.abruzzo.it, l’anno di fondazione è individuato nell’873).

6 – Opuscolo illustrativo del MIBACT – Polo Museale dell’Abruzzo.

7 – «Per il rapido moltiplicarsi delle donazioni la proprietà dei monasteri benedettini assunse presto proporzioni grandiose» F. Panzini-A. Rogmann, Pagine di critica storica, Ferraro, 1990, p. 75.

8 – Le notizie storiche e le informazioni di ordine artistico sono attinte ai siti internet indicati nella nota 5.

9 – André Vauchez, La santità nel Medioevo, Il Mulino, 1989, p. 124-125.

10 – San Clemente divenne oggetto di un istituto denominato Commenda Perpetua, consistente nella pratica di affidare abbazie o monasteri in difficoltà a cardinali o prelati affinché ne risollevassero le sorti: spesso offriva a gente priva di scrupoli, anche all’interno della Chiesa, l’occasione di depauperare gli stessi enti che si sarebbero dovuti salvaguardare.

11 – Eresiarca gnostico del II secolo d.C.

 

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LA FONDAZIONE FORTUNATO di Francesco Antonio Genovese – Numero 12 – Ottobre 2018

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LA FONDAZIONE FORTUNATO

 

 

 

RIONERO IN VULTURE, GIUSTINO FORTUNATO e NINO CALICE

 

1. Rionero città di frontiera. In che senso? Aveva ragione il compianto Nino Calice quando affermava che Rionero in Vulture, oggi importante centro dell’articolazione urbana della Basilicata, è stato (lo è ancora?) un paese di frontiera, nel senso di un luogo urbano senza conti da regolare con centri sociali e di potere preesistenti, feudali o clericali, spregiudicata, diversamente da Melfi, dove la presenza plurisecolare di vescovi e feudatari aveva dato luogo ad una società verticale, gerarchica e perciò timida, portata alla dipendenza1. Dopo la secessione dal Vescovo di Rapolla, fatta per ragioni fiscali dal 1314 al 1330, passando sotto la circoscrizione di Atella (e già questo dice del carattere della città), accogliendo nuove genti di ogni tipo, dagli albanesi di Scutari alle maestranze di ogni genere e provenienza (irpina, sannitica o pugliese: un melting pot unico in quella Basilicata moderna) in occasione dei tagli al bosco del Gualdo o alle pendici del Vulture, di commerci vari, 

 

“Rionegro” divenne un paese aperto e mobile, passando dagli originari 500 ai 9000 abitanti nel secolo dei lumi, capace di sfuggire, per la sua connaturata diffidenza 

e inquietudine, anche all’opera missionaria di un S. Alfonso dei Liguori.  


Ne venne fuori una realtà urbana viva ma anche aspra, “senza esclusione di colpi, di intrighi, di malandrinerie, di calunnie, di bugie, di vendette”, in cui ogni volta “bisogna ricominciare daccapo”, ricucendo gli strappi “dei costumi, delle feste, delle classi, delle case, dei quartieri, delle piazze”2

2. La Famiglia Fortunato e don Giustino a Rionero.

 

Secondo la ricostruzione di Calice, neppure i Fortunato sfuggirono a questa realtà conflittuale, nonostante le apparenze ieratiche delle due ultime figure rappresentative di questa importante famiglia del nostro Sud e della nostra storia nazionale: Ernesto e Giustino. Nel capitolo intitolato Dove è finito il barone Rotondo? Calice racconta di una vicenda di ordinaria turbativa degli incanti. Nel 1837, la Mensa vescovile di Melfi mette in vendita i diritti di enfiteusi sui beni della tenuta di Gaudianello, in agro di Lavello (città che con Venosa, assieme alle due già menzionate, completa il quadrilatero dei grandi centri della Basilicata settentrionale), estesi ben 3900 tomoli (terre a bosco e pascolo), quelli che diverranno dal 1872 il cuore dell’azienda modello cerealicolo-pastorale organizzata e diretta da Ernesto Fortunato3.

 

Alla gara i Fortunato offrirono 2400 ducati e i Rotondo 2600 ducati (i Tedesco di Minervino non erano competitivi) ma la tenuta venne aggiudicata ai Fortunato, con lo stratagemma dell’elevazione posteriore dell’offerta, passata da 2400 a 2800 ducati, non senza che una tale opportunità (non del tutto trasparente) fosse divenuta possibile grazie a qualche intervento extra ordinem: un favore del vescovo di Melfi ad Anselmo Fortunato (allora, a Napoli, Presidente della Corte dei conti) o la promessa di non riscattare il canone enfiteutico4. E la promessa venne persino imposta agli eredi da don Giustino con il suo testamento5. Sta di fatto che,

 

vincendo quella gara, i Fortunato innescarono il volano dello sviluppo della loro potenza economica, quella stessa (intelligentemente e progressivamente amministrata da Ernesto: la guida imprenditoriale della famiglia) 

che consentì di garantire al più noto fratello Giustino di recitare 

un ruolo di grande importanza nella politica 

e nella vita civile nazionale.

 

Ci sarà poi da stupirsi tanto se, dopotutto, sui Fortunato, nel 1861, verranno riversate accuse di protezione verso i briganti e se gli accusati sdegnosamente abbandoneranno Rionero per trasferirsi a Napoli? Quello, Rionero, era pur sempre un Paese di frontiera, di lotte politico-sociali aspre, “senza esclusione di colpi, di intrighi, di malandrinerie, di calunnie, di bugie, di vendette”, in cui ogni volta “bisogna ricominciare daccapo”.

 

Il Palazzo Fortunato, perciò, resterà vuoto fino al 1878 quando avvenne la ricucitura tra la Città e il suo più illustre notabilato, con il sindaco (Pierro) 

che va incontro ai due fratelli fuori dal paese e va a riverire 

il candidato al Parlamento nazionale.

 

Ernesto, perciò, poté tornare a Gaudiano, a gestire l’azienda più avanzata dell’intera Basilicata (e fra le più avanzate dell’intero Mezzogiorno), mentre Giustino da parlamentare vivrà tra Napoli (la residenza di via Vittoria Colonna) e Roma, con brevi rientri estivi a Rionero e Gaudiano. Ci sarà da stupirsi ancora se nel 1917, passeggiando a Rionero con alcuni degli amici più fedeli, don Giustino verrà ferito da un esaltato che l’aveva accusato di essere responsabile, addirittura, della guerra? Ma stavolta Fortunato non tornerà più a Rionero, fino al giorno della sua morte, avvenuta il 23 luglio 1932. Purtroppo, occorrerà solo quella per conseguire finalmente il desiderio “di vivere nella gratitudine vostra, miei concittadini”6?

 

3. Rionero si è veramente riappacificata con Giustino Fortunato? 

 

A Rionero, sulla piazza principale c’è il Palazzo Fortunato, composto dal fabbricato di circa cinquanta stanze, da un giardino e da un cortile, per una superficie di circa 4000 metri quadri: un importante monumento architettonico che vide passare, ospiti della famiglia, personaggi storici di rilievo: Giuseppe Bonaparte, Ferdinando di Borbone, Giuseppe Zanardelli, Benedetto Croce, Gaetano Salvemini, Francesco Saverio Nitti.

 

Oggi il Palazzo ospita la Fondazione Fortunato e la Biblioteca di famiglia, forte di circa 11.000 volumi, tra cui molte cinquecentine e libri dal Seicento all’Ottocento; nelle scuderie, un Museo della Civiltà Contadina e l’archivio storico e fotografico della famiglia e del Comune di Rionero nonché, quasi un paradosso, 

anche una mostra permanente sul Brigantaggio.

 

La città sembra essere definitivamente riconciliata con il suo più importante personaggio, il grande intellettuale e meridionalista che gli ha dato prestigio e fama.

Ma le iniziative della comunità locale non si può dire che siano del tutto all’altezza del grande concittadino e della sua storia, basti vedere anche semplicemente il sito internet che dovrebbe orientare il visitatore ed il curioso, per non dire lo studioso del pensiero e dell’organizzazione familiare.

 

Ma forse sarebbe anche il caso di pensare ad un Parco Letterario Giustino Fortunato, per far conoscere i luoghi della sua vita

 

(perlomeno di quella non vissuta a Napoli): un’iniziativa – possibile anche solo in sede locale, sebbene non riferita strettamente ad uno scrittore o un poeta, ma a uno storico, a un politico e politologo di razza, a uno statista come pochi – che farebbe svanire del tutto il dubbio circa il fatto che la sua città natale abbia mantenuto ancora qualche ombra sull’intellettuale nazionale di cui può invece trarre incondizionato vanto.

Sembra allora che la città si sia fatta perdonare per quegli screzi sol perché un altro intellettuale e politico rionerese, Nino Calice, ha dedicato ai Fortunato alcune opere importanti della sua complessiva produzione storica e politologica.

Non solo. La casa editrice da Lui fondata ha anche stampato alcune opere di don Giustino e, tuttora, dopo la morte del fondatore, mostra di proseguire la sua preziosa attività

 

4. Un erede rionerese per don Giustino: Nino Calice.

 

La verità è che Nino Calice (1937-1997), professore di storia e di filosofia nei licei, ma poi anche consigliere regionale (eletto con il PCI), Sindaco del Comune di Rionero, deputato al Parlamento e poi Senatore della Repubblica, componente del Consiglio d’Europa, fondatore del centro studi Giustino Fortunato, storico, e protagonista di tante iniziative culturali e politiche, oltre che di importanti ricerche storiche anche sulla vita della Basilicata, è indubbiamente – si proprio Lui – il vero erede di don Giustino e non solo per le ragioni legate alla comune origine cittadina.

 

Il ponte di passaggio tra le due figure mi pare ascrivibile alla grande tradizione democratico-liberale nazionale, quella che ha avuto varie declinazioni, 

fino al sacrificio personale, di importanti e prestigiose figure,

 

da Salvemini a Fortunato, dai Fratelli Rosselli a Giovanni Amendola, da Gobetti a Nitti, di cui si è detto, in gran misura, erede il cessato Partito comunista italiano (o importanti parti di esso), che se ne è intestato, pur tra distinguo e precisazioni, il filo della continuità.

La coscienza di tale linea è ancor viva, come si è visto e sentito, nel corso di un convegno svoltosi di recente (il 5 dicembre 2017) nel Castello di Lagopesole (Avigliano), non lontano da Rionero, proprio dedicato alla figura di Nino Calice. Giorgio Napolitano, ad esempio, ha scritto del suo commilitone politico:

 

“Se noi avessimo dieci, venti Rionero nel Mezzogiorno, coltivate, dissodate 

da organizzatori culturali come Nino Calice, credo che sarebbe un po’ diverso 

il Mezzogiorno da quello che è,

 

o potremmo essere meno allarmati di come, purtroppo, dobbiamo esserlo. Io mi auguro che davvero i giovani, ai quali tocca l’impresa del rilancio della politica, prendano esempio dalla lezione di Nino Calice”. Emanuele Macaluso, a sua volta, ha dichiarato: “Quando penso a figure come Nino Calice penso subito a cos’è stato il Partito comunista italiano, perché io penso che Calice è stato quello che è stato, nella sua specifica complessità, perché c’è stato il Partito comunista. E il Partito comunista è stato quel che è stato perché ci sono stati uomini come Nino Calice”.

Più specificamente, sul rapporto tra Calice e Fortunato, uno storico di matrice cattolico-democratica, Giampaolo D’Andrea, ha affermato:

 

“Nino Calice ci ha lasciato una grande passione civile e per la storia della sua terra 

e del Mezzogiorno. Passione ereditata da tutta una tradizione che in Basilicata 

è molto viva e che lui riannoda spesso con quella di Giustino Fortunato.

 

Una lettura non dico sorprendente ma non consueta negli intellettuali della sua generazione e della sua ispirazione culturale è la rivalutazione che fa del meridionalismo fortunatiano insieme alla rivalutazione del meridionalismo classico e con le spinte alla modernizzazione che inevitabilmente sono venute. In uno dei suoi ultimi saggi fece una riflessione lucidissima sull’illuminismo diffuso in Basilicata e su quello che aveva rappresentato, caratteristiche di una riflessione culturale che ha influenzato anche le sue posizioni politiche nel dibattito sui temi che di volta in volta si presentavano alla sua attenzione. Ha cercato di inserire la Basilicata in un contesto più ampio del Mezzogiorno per riconnetterlo all’Italia e in sintonia con la tradizione dei grandi meridionalisti della nostra terra come Fortunato e Nitti non ha mai pensato alla Basilicata come un’isola né felice né infelice e mai ha pensato al Mezzogiorno separatamente dall’Italia. Questo era un punto fermo della posizione dei meridionalisti: non rivendicavano attenzioni per il Mezzogiorno ma solo perché il Mezzogiorno potesse contribuire meglio al futuro dell’Italia.”7

 

 

C’è solo da sperare che la città di frontiera, se tale essa è ancor oggi, nel suo continuo dubitare, non sia troppo irriconoscente anche con Nino Calice,

poiché sono certo che il più giovane intellettuale, vissuto nel secolo scorso, avrebbe approvato (e lavorato per) la creazione di un Parco letterario dedicato alla complessa e poliedrica figura di Giustino Fortunato. Un simile Parco, coinvolgendo una gran parte del territorio della Basilicata Settentrionale (le ricerche storiche di Giustino, da sole, creerebbero una mappa-reticolo dei luoghi storici da lui riscoperti e individuati, traendoli dall’oblio e dalla dimenticanza; senza dire dei luoghi delle Strade ferrate propugnati come direttrici di sviluppo o dell’azienda familiare di Gaudiano o dei giovani intellettuali lucani, provenienti da tanti piccoli centri, da lui seguiti, valorizzati ed incoraggiati), si inserirebbe nello stesso rilancio dell’immagine della Regione, perché percorsa da un tenace filo di pensiero liberal-democratico, di respiro nazionale. 

 

 

 

 

 

 

 

 

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1- N. Calice, Rionero. Pagine sparse e disperse, II ed. 2012, p. 41.

2- N. Calice, ivi, p. 50.

3 – N. Calice, Ernesto e Giustino Fortunato: l’azienda di Gaudiano e il Collegio di Melfi, Bari 1982. Dello stesso A. si veda anche: La famiglia Fortunato, in AA.VV, La Borghesia tra Ottocento e Novecento in Basilicata. Storie di famiglie, Rionero in Vulture 2006, pp. 87-102.

4 – Così N. Calice, Rionero. Pagine sparse e disperse, p. 57. La vicenda era già stata ricordata in Id. Ernesto e Giustino Fortunato, cit. pp. 20-21 ove riporta anche la partecipazione alla polemica di Basilide Del Zio e Gennaro Araneo.

5 – Id. Ernesto e Giustino Fortunato, cit., p. 21.

6 –  G. Fortunato, Agli elettori del Collegio di Melfi, 10 febbraio 1909.

7 – Sul convegno, si rinvia a quanto scritto dall’Agenzia giornalistica della Regione Basilicata: http://www.consiglio.basilicata.it/consiglioinforma/detail.jsp?otype=1120&id=3399954#ad-image-0.

 

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L’ECONOMIA DELLA BELLEZZA di Patrizia Di Dio – Numero 12 – Ottobre 2018

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L’ECONOMIA DELLA BELLEZZA

 

Palermo, la mia città, può essere presa a simbolo di una Italia che investe sulla sua bellezza e sulla sua capacità di meravigliare il mondo intero, nonché quale emblema delle grandi potenzialità del Sud che, tuttavia, non si sono ancora compiutamente espresse a vantaggio di chi ci vive.

Come il Sud, Palermo è metafora di città splendida e nello stesso tempo decadente, dalle enormi potenzialità e grandi stimoli, eppure spesso in indolente inerzia; memoria di ferita e lacerazione, eppure esempio di recupero fascinoso 

e stimolante, antico e moderno insieme.


Città in cui abbiamo il percorso arabo-normanno patrimonio dell’UNESCO da un lato e che ospita, dal 16 giugno al 4 novembre nel 2018, “Manifesta 12”, una delle più importanti iniziative di arte contemporanea al mondo, la biennale itinerante europea. E sempre quest’anno, è capitale italiana della cultura 2018. Insomma, emblema insieme del nostro passato e del nostro futuro, di crisi e di opportunità. Palermo è anche una storia di impegno in campo umanitario, dove Stato, istituzioni, forze dell’ordine fino al più semplice dei cittadini, agiscono senza esitazioni.

Mentre le discussioni in Europa e in Italia si imperniano su cosa e chi deve fare, 

qui si fa senza chiedersi a chi tocca, pensando solo che ci sono cose 

che non posso attendere.


Noi del Sud siamo fatti così ed è in fondo la nostra grandezza. C’è poi la convivenza, l’esempio materiale di interazione e interscambio tra diverse componenti culturali di provenienza storica e geografica eterogenee che, a Palermo, ha generato un originale stile architettonico e artistico, lo stile arabo-normanno. Di eccezionale valore universale, vi sono mirabilmente fusi elementi bizantini, islamici e latini, capace di volta in volta di prodursi in combinazioni uniche e sincretiche.

La nostra storia di accoglienza e integrazione è il nostro paradigma di bellezza.

 

Palermo è la città dove l’Arcivescovo, monsignor Lorefice, per il discorso in occasione del festino, che si celebra ogni anno da oltre 390 anni in onore di Santa Rosalia, la nostra santuzza patrona, ha espresso considerazioni sulla dignità, sul significato di umanità e sul valore di appartenenza a un sistema e a una comunità di “senso”: parole che ci toccano particolarmente, non solo per la forza innovativa e profondamente cristiana ma anche per l’anelito a porre le basi di un rinnovato modo di intendere le prospettive della nostra vita. Perché, come dice l’Arcivescovo, “le relazioni vere nascono e crescono dove c’è sintonia, c’è finezza, c’è rispetto, ascolto”. Insomma dove c’è bellezza!

La città di Palermo, luogo simbolo di incontro di culture, di religioni, della possibilità 

di vivere nel segno della solidarietà e della pace, esempio di riconciliazione 

e rispetto reciproco, muove nella direzione di un’Economia consapevole 

del livello valoriale della società che le dà vita. Valori che rispecchiano

 quella che chiamo Economia della Bellezza. 

 

Il Sud è considerato, appunto, sinonimo di Bellezza, in virtù del suo patrimonio culturale, artistico, monumentale, paesaggistico, ma anche per la sua alimentazione, il gusto, il design e la moda. La ripresa deve partire da questo immenso patrimonio materiale unito a quello immateriale di Benessere, per un nuovo modello economico, di cui imprenditori e imprenditrici illuminate sono interpreti e protagonisti. Ritengo anche che, nella prospettiva di un mondo futuro dominato dalla tecnologia, si debba coltivare il fattore umano, riportando l’individuo al centro delle dinamiche produttive e riservando alle relazioni umane un posto di prim’ordine nelle strategie aziendali. Per noi, dunque, l’Economia della Bellezza si esprime con una cultura d’impresa che sa guardare lontano e che promuove comportamenti virtuosi sempre più attenti all’individuo e alla comunità, permeata delle specificità femminili di cura, visione dell’altro, “ricerca di senso”, coraggio, istinto ecologico, cultura, relazioni, solidarietà.

L’economia della bellezza che desideriamo promuovere, quindi, è anche
Economia del nuovo Umanesimo, che rappresenta la necessità
di favorire, nel concreto, una visione dell’umanità con una
prospettiva 
arricchente, migliorativa, inclusiva,


fatta di amore, cura, passione, sensibilità, ascolto: l’arte, il paesaggio, il cibo, la musica, la lingua coniugati con il saper vivere, con la capacità di entrare in sintonia, di creare relazioni empatiche, di esaltare intuito, creatività e abilità, cioè i talenti che ci contraddistinguono nel mondo. È un immenso patrimonio di ricchezza, un giacimento ancora quasi del tutto da utilizzare in tutte le sue potenzialità.

Una irripetibile pluralità che determina, nel suo insieme, quello “stile di vita” 

che il mondo intero ci invidia e tenta di imitare.

 

Un tesoro unico che ci appartiene e che abbiamo il dovere di proteggere e valorizzare, per vivere meglio il Sud di oggi e per lasciare ai cittadini di domani un Sud migliore; ma soprattutto per costruire subito nuove opportunità che consentano ai nostri “cervelli”, e in generale a giovani e meno giovani, di non essere costretti ad andar via, abbandonando. 

 

Questo Sud non può più attendere. Va riconosciuto, guardato con attenzione, raccontato con passione, per costruire prosperità. E dunque non solo pensando a quelle attrattive evidenti e generalmente riconosciute presenti nelle grandi città, come la mia Palermo, ma anche a tutti gli angoli più nascosti, e tuttavia non meno affascinanti, che costituiscono le caratteristiche riconnesse alle identità culturali e sociali tipiche delle piccole città e dei piccoli borghi.

Credere nell’Economia della Bellezza significa costruire un’identità 

competitiva per il Meridione,


contribuendo al rilancio del Paese e trasformando il suo straordinario potenziale in una risorsa strategica di sviluppo economico e sociale.

 

 

 

 

 

 

 

 

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IL MUSEO VIVO CHE PARLA A TUTTI di Gianluca Anglana – Numero 11 – Luglio 2018

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          IL MUSEO VIVO            CHE PARLA  A TUTTI

 

 

Taranto è un abbraccio, quello della natura che con i suoi dintorni è sempre stata particolarmente benevola.

Il viaggiatore che vi si approssima è abbagliato dallo sfavillio delle acque: lo splendore dello Ionio avvolge di blu le coste del Golfo, in una sorta di amplesso ancestrale. Il mare e la terra. Poseidone e Gea. Dopo tutto, Taranto stessa è una creatura del mito1. Taranto e la sua bellezza. Chi creda che questa sia solo una landa di veleni e di insuccessi ha una visione parziale della realtà2: il centro cittadino è elegante, i suoi palazzi luminosi e raffinati. Piccoli ponti creano un’atmosfera vagamente romantica. Ci sono colori ovunque.

Myrrha torna a Taranto. Myrrha torna al MArTa.

Per due anni consecutivi, il Museo Archeologico Nazionale della città dei due mari 

ha registrato un sensibile incremento degli accessi:


se nel 2016 si è osservato un aumento dei visitatori nella misura del 50% rispetto al 2015, i primi sei mesi del 2017 hanno fatto registrare un 30% di ingressi in più sull’analogo periodo del 20163. E non è finita: quello di Taranto è sul podio dei musei più smart, tra i più amati dai visitatori, riuscendo a comunicare al meglio con i suoi utenti4 e a ritagliarsi ampi spazi di presenza digitale. Istituito nel 1887, diventa nel 2015 il primo e unico museo ad autonomia speciale di Puglia, grazie alla riforma del Ministero dei beni culturali. La seconda vita del MArTa è affidata alla Professoressa Eva Degl’Innocenti. Toscana di nascita, la Direttrice è un’archeologa: numerose le campagne di scavo cui ha preso parte, in Italia e all’Estero. Ha insegnato Archeologia e Storia dell’Arte islamica presso l’università di Firenze. È stata direttrice del Servizio dei Beni Culturali di un ente locale, una specie di consorzio di comuni, con sede nei pressi di Saint Malo, nel Nord della Francia. E nel 2013 ha persino creato il Museo Coriosolis in Bretagna. La incontro nel suo ufficio.

 

Direttrice: «Nel progetto bretone, ho lavorato molto sul territorio.

Le strutture museali devono essere incluse all’interno di un progetto strategico 

di sviluppo dei luoghi di cui fanno parte,


in primis sotto il profilo socio-culturale e quindi turistico ed economico. Prenda il MArTa: il museo più importante della Puglia, l’unico ad autonomia speciale della regione, quello che raccoglie molti reperti provenienti un po’ da tutta l’area della Magna Grecia, deve dialogare con il territorio. Dalla mia esperienza francese ho mutuato prima di tutto questo. Vi ho attinto anche una visione di progetto ben determinata.

La comunicazione culturale deve avvenire a più livelli di approfondimento 

e rivolgersi a vari tipi di pubblico: al neofita così come al visitatore medio 

e allo specialista e soprattutto ai bambini, agli adolescenti o ancora 

al pubblico generalista, al pubblico turistico 

e anche al pubblico con disabilità.


In particolare, quest’ultimo: la disabilità è per noi un target molto importante». 

 

Myrrha: «Può spiegarci meglio?»

 

Direttrice: «Nella nostra visione, il museo è inclusivo, è una realtà che parla a tutti e che offre a tutti le chiavi di lettura e di interpretazione del patrimonio. Affinché il messaggio comunicato arrivi a ogni target di pubblico, è necessario che la comunicazione si esplichi in metodologie adatte ad ogni tipo di fruitore, ivi compresa la disabilità.

Un museo accessibile non va inteso solo come un edificio scevro da barriere architettoniche, ma anche come un intreccio di attività mirate. 

Qui, noi cooperiamo con associazioni della zona 

che si occupano di disabilità specifiche 

e di polihandicap:


è grazie a questo che prendono vita dei laboratori multisensoriali pensati per tutti, accessibili al pubblico con e senza disabilità».

 

Myrrha: «In cosa consistono esattamente?».

 

Direttrice: «Abbiamo creato un itinerario esperienziale, un racconto del museo, che si avvale di tutti i sensi: la vista, il tatto, l’olfatto, il gusto, l’udito. È un percorso multisensoriale gestito dal nostro staff, affidato dunque alla mediazione umana.

La mediazione, appunto: da una parte, quella digitale dei supporti informatici


(come i touch screen e simili), che sarà presto potenziata;

dall’altra, la mediazione umana, quella in cui crediamo 
e che si affianca alla strumentazione tecnica.

Il nostro team si fa mediatore culturale al servizio di tutti i tipi di pubblico. Ho importato anche questo dalla Francia, che, sul piano della valorizzazione, è all’avanguardia, avendo propugnato l’idea che il patrimonio pubblico appartiene a tutti e che noi, operatori scientifici, dobbiamo farci mediatori tra il bene culturale e paesistico e i vari tipi di pubblico che abbiamo davanti». 
 
Myrrha: «Cos’altro, della sua esperienza oltralpe, mette al servizio del MArTa?». 
 
Direttrice: «Altro elemento è sicuramente il management.

Il dirigente non è solo una persona con un curriculum vitae scientifico 
(che peraltro è la conditio sine qua non), ma deve avere anche 
delle capacità manageriali,

soprattutto in seno ad un museo ad autonomia speciale con l’obbligo di bilancio. Sì, perché noi abbiamo un bilancio nostro, a sua volta collocato in quello più ampio del Ministero dei Beni Culturali, abbiamo il collegio dei revisori dei conti, un consiglio di amministrazione e un comitato scientifico. Qui il management guarda sia alle risorse umane sia ad aspetti di ordine gestionale. Nel quadro delle normative e della legislazione di riferimento, abbiamo creato una struttura dal nulla5
Detto questo, io sono prima di tutto un’archeologa. Ho un dottorato di ricerca in archeologia: ho fatto parte di équipe di ricerca per molti anni, sul campo, e soprattutto mi sono dedicata allo studio dei materiali e all’elaborazione di progetti museologici e museografici. 
La mia figura professionale è quindi l’unione di due componenti, il che in definitiva era alla base della selezione internazionale condotta dal Mibact: si ricercava una persona che disponesse di un curriculum scientifico e di ricerca ed in aggiunta avesse esperienze manageriali e soprattutto competenze in fatto di finanza pubblica (in Francia ho avuto modo di fare una formazione specifica in gestione delle risorse umane e finanziarie). La finalità della riforma era dare ai musei un respiro europeo, puntare sulla valorizzazione là dove si è invece lungamente privilegiata la conservazione dei beni culturali, scommettere sulla vitalità del museo, cui oggi è richiesto di seguire l’evoluzione della società e di essere parte di un tutto, cioè della comunità». 
 
Myrrha: «Nel corso di un’intervista ha dichiarato che “il Museo è del territorio, coinvolgerò l’Università del Salento, specialisti, e studenti. Una gran bella sfida”. Ce l’ha fatta?».
 

Direttrice: «Voglio evidenziare che fin da subito

 

il principale obiettivo è stato quello di svolgere un lavoro di squadra: 
il team scientifico, quello tecnico, quelli deputati ad accoglienza, 
fruizione e vigilanza costituiscono un tutt’uno con la Direzione.

Il lavoro, lo svolgiamo tutti insieme. Ecco, io sono molto grata al personale che mi ha accompagnato fin qui: è stato tutt’altro che semplice passare da una tipologia museale ad un’altra, caratterizzata da una mission ben determinata, da scopi molto diversi e serrati e soprattutto vincolata ad un obbligo di risultati, da obiettivi a breve, medio e lungo periodo che il Ministero ci fissa. 
La struttura per tanti aspetti era obsoleta. Tutto era superato, dall’arredamento agli strumenti di attività professionale: il personale era costretto a lavorare in condizioni di obsolescenza. Sono intervenuta su tutto, dagli arredi degli uffici alle postazioni informatiche. 
Inoltre,

abbiamo avviato una comunicazione interna il più possibile trasparente 
al fine di raccontare, condividere le informazioni, tramite assemblee, 
documenti scritti e soprattutto programmi.

Noi facciamo una programmazione annuale, un progetto strategico e programmatico. Per cui dobbiamo anticipare, pianificare e quindi agire». 
 
Myrrha: «Sul sito del Ministero dei Beni Culturali si riporta che il 2017 è stato un anno davvero eccezionale, poiché i visitatori sono aumentati in quattro anni di circa 12 milioni (+31%) e gli incassi di circa 70 milioni di euro (+53%)6. In quanto a tasso di crescita, tra i grandi Musei, quello da Lei diretto si è fatto decisamente notare. Obiettivo raggiunto, dunque?».
 
Direttrice: «Sono riuscita a raggiungere tali obiettivi grazie al supporto di tutto lo staff, che ha lavorato alacremente, e di tutta la comunità tarantina. Io sono sempre qui: torno poco in Toscana. Avendo poco personale, soprattutto all’inizio, io stessa dovevo fare molto.

Appena sono arrivata a Taranto, ne ho preso la residenza: mi sembrava importante condividere con tale comunità le sue gioie e i suoi dolori.

Fin dall’inizio ho concepito questo progetto, molto ambizioso, come una sorta di missione di vita. Sì, io sono sempre qua, anche nei weekend. 
 
Myrrha: «Perché Taranto?». 
 
Direttrice: «Quando all’inizio si potevano scegliere le sedi, io ho indicato Taranto come prima opzione.

Taranto per tre motivi: primo, perché io sono un’archeologa e per un archeologo 
è un sogno dirigere il museo di Taranto,

che possiede una delle collezioni più importanti al mondo e persino dei pezzi unici, quindi un’importanza scientifica innegabile (dopo quello di Napoli, il museo archeologico di Taranto è il più importante d’Italia);

secondo, perché qui è in crisi un intero modello economico e mi interessava partecipare alla proposta di un nuovo concetto di sviluppo complementare, 
basato sulla cultura e sulla sostenibilità

(vorrei ricordare che Taranto ha un patrimonio naturalistico considerevole, a cui non si pensa mai: ha fra le colonie di cetacei più importanti del Mediterraneo; un’oasi del WWF, la Palude La Vela all’interno del Mar Piccolo; specie faunistiche rarissime, come alcuni cavallucci marini);

terzo, per via di un legame affettivo, perché ci venivo da piccola 
con i miei genitori in vacanza e quindi è un territorio che conosco.

Pur non essendone originaria, ho dei legami di amicizia profondi. Sono terre che ho sempre amato molto. La cultura è il motore della rinascita del Sud: è falso l’assunto che la questione meridionale non esista più. Esiste tuttora, anche se con sfaccettature più complesse. La capofila di una possibile rinascita del Mezzogiorno può essere la Puglia. Il grande progresso, la grande evoluzione di tale Regione è un dato di realtà, innegabile per chiunque. La Regione Puglia dovrebbe ripensarsi, perché è un esempio virtuoso di eccellenza e di best practice. Ciò che la Puglia ha fatto nella cultura è stato determinante». 
 
Myrrha: «Ha detto che la comunità di Taranto l’ha sostenuta. In che senso?». 
 

Direttrice: «Nel senso della partecipazione.

 

All’inizio il museo veniva visto come una sorta di torre d’avorio invalicabile. 
Su questo luogo, che sembrava solo per addetti ai lavori, pendeva 
un velo di diffidenza. Progressivamente abbiamo avviato 
una politica inclusiva e di apertura. 
 
Innanzitutto le attività didattiche per i bambini: i bambini sono stati gli ambasciatori del museo in città, nel senso che sono stati loro a portare con sé le famiglie, i genitori, gli amichetti.
 
 Fin da subito, abbiamo pensato a programmazioni mensili.
 
Ad ogni mese un tema: la donna; il cibo; i miti; gli eroi. Ciascun tema è a sua volta declinato a seconda del pubblico destinatario. Mi spiego. Mentre il bambino ha i suoi laboratori didattici sulla determinata trattazione, il pubblico generalista può contare sul percorso permanente con uno specifico approfondimento. Al pubblico degli specialisti si rivolgono invece i mercoledì del MArTa, cioè conferenze tenute da ricercatori o accademici (oltre a giornate di studio e convegni). Ogni settimana, quindi, un microtema si innesta nel tema principale: il museo si orienta così a vari target di pubblico.

E si apre altresì a eventi in coprogettazione con gli attori culturali, sociali 
ed economici del territorio, stipulando numerosi protocolli di intesa.
 
Penso ad esempio alle rassegne musicali come i concerti al MArTa, in collaborazione con il conservatorio Paisiello di Taranto. La collaborazione con Cambusa di Assonautica, un’associazione di cui sono parte Confindustria e Camera di Commercio di Taranto, è stata l’incubatrice per la realizzazione di concerti seguiti da aperitivi finalizzati alla valorizzazione delle eccellenze alimentari del territorio (anch’esse patrimonio da salvaguardare e rilanciare): abbiamo scelto dei produttori locali quali ad esempio alcuni frantoi molto antichi, che insistono su siti d’interesse archeologico, o ancora masserie storiche, oggi impegnate nelle tecniche di coltura biologica. Penso alla sinergia con gli artigiani, primi fra tutti quelli di Grottaglie o ancora quelli che si occupano di tessuti ed oreficeria: ci è sembrata una scelta in sintonia con la celeberrima collezione degli ori di Taranto. Penso infine alle Tarentillae, festival di danza realizzato in collaborazione con Mibact e Teatro Pubblico Pugliese». 
 
Myrrha: «A proposito di musica. Sui social è di recente comparso un post di Medimex7 per pubblicizzare una mostra, in esclusiva italiana, proprio qui al MArTa, dedicata a Kurt Cobain (leader dei Nirvana) e al Grunge8. Che cosa l’ha spinta a realizzare un’idea così discontinua rispetto alla tradizione museale italiana? E che legame ci potrebbe essere tra l’archeologia e uno dei più carismatici frontmen della storia del Rock?» 
 
Direttrice: «La nostra idea dell’archeologia è tutt’altro che passatista. Essa parla e si confronta con la contemporaneità.

La musica ha nel MArTa un luogo d’elezione.
 
Torno alle Tarentillae ovvero il MArTa riletto attraverso gli occhi degli artisti, del calibro di Peppe Servillo e Danilo Rea chiamati a fare un concerto nel chiostro del museo. C’è un nesso assai stretto tra la musica e le collezioni di Taranto.

Qui la musica è di casa. Le è dedicato tantissimo spazio, 
anche in termini di reperti:


al secondo piano è esposta una lira antichissima, della quale oggi è possibile ammirare la sola cassa ricavata dal carapace di una tartaruga. È un reperto prezioso. E poi l’iconografia legata alla musica: si pensi alle rappresentazioni dei culti dionisiaci, forse antenati della Taranta salentina. Cito i grandi intellettuali del passato, come Archita, colui che qui, nell’era prima di Cristo, ha inventato il senso dell’armonia musicale, o Giovanni Paisiello, compositore noto in Italia e all’estero. E sono tutti geni nati a Taranto.

 

Il museo è aperto al mondo e quindi anche all’evoluzione della società 
così come ai nuovi registri musicali.

Siamo contrari al MArTa come mero contenitore o luogo di esposizione e basta. È un fatto di coprogettazione. Medimex si è messa in contatto con MArTa per il tramite del Teatro Pubblico Pugliese e la Regione Puglia: abbiamo iniziato questo rapporto di collaborazione e vorremmo tenerlo nel tempo. Il museo vuol farsi trovare pronto per intercettare l’attenzione di un pubblico molto difficile da captare: quello degli adolescenti. Per questo abbiamo spalancato le porte anche all’arte contemporanea e alle sue espressioni più innovative: dalla penna di Squaz9 ha preso forma, ad esempio, un fumetto dedicato all’Atleta di Taranto10». 
 
Myrrha: «Il MArTa diffonde di sé l’immagine di un luogo realmente vitale. C’è un evento o una manifestazione, di cui va particolarmente orgogliosa?». 
 
Direttrice: «Le Tarentillae. O anche MArTa for Appia, mostra di Paolo Rumiz e Compagni ideata per la valorizzazione della via Appia. O ancora MArTa 3.0, un robusto progetto europeo al quale stiamo lavorando e che prevede la digitalizzazione del Museo con un allestimento ad hoc. Infine, i Tesori mai visti del MArTa , la selezione di alcuni pezzi inediti di proprietà del museo, tesa a consentire agli addetti ai lavori l’approfondimento scientifico e al pubblico la possibilità di ammirarne la bellezza. Vede,

il fatturato più importante che si possa fare è la cultura che si trasmette 
ai cittadini e alla comunità come patrimonio ereditario.

D’altro canto, cosa sono le persone se non una comunità di eredità11?». 
 
Già. Cosa sarebbero gli esseri umani senza eredità, senza un patrimonio da tramandare? 
Saluto la mia ospite. Mi attardo ancora un po’ nella hall: attorno alla titanica testa di Eracle, il brusio di alcune scolaresche. I bambini, gli ambasciatori della cultura, sciamano e disseminano allegria nelle sale del museo dal nome di donna. L’avvenire della bellezza sarà affidato a loro. 
Anche la bellezza di questa città che guarda il mare e che dall’acqua ha sempre tratto forza, fin dai suoi albori. Taranto è allenata da millenni a lottare come il suo Atleta: come lui, pronta a vincere ogni sfida. 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

 

 
 
 
 

 

 
 
 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

1 – Cfr. La Storia di Taranto, su: www.comune.taranto.it.

2 – Roberta Lucchini, Taranto non è solo Veleni. Il MarTa in Myrrha – Edizione n. 10 (https://www.myrrha.it/taranto-non-e-solo-veleni-il-marta-di-roberta-lucchini-numero-10-marzo-2018/)

3 – Domenico Palmiotti, Il Sole 24 Ore, 16 agosto 2017.

4 – Lorenza Castagneri, La Stampa, 26/06/2017. Vedi anche AdnKronos, 12/06/2017.

5 – Si rammenta che la riforma c.d. “Franceschini” ha individuato poli museali per farne strutture dotate di autonomia finanziaria.

6 – Cfr.: http://www.beniculturali.it/mibac/export/MiBAC/sito-MiBAC/Contenuti/visualizza_asset.html_249254064.html)

7 – Medimex è un progetto Puglia Sounds, il programma della Regione Puglia per lo sviluppo del sistema musicale regionale attuato con il Teatro Pubblico Pugliese nell’ambito del Fondo di Sviluppo e di Coesione 2014-2020. L’edizione 2018 del suo festival ha ospitato, a Taranto, band del calibro di Placebo e Kraftwerk.

8 – Al MArTA dall’8 giugno all’1 luglio.

9 – Fumettista nato a Taranto.

10 – Campione di pentathlon tarantino vissuto nel V secolo a.C.

11 – Si fa riferimento alla Convenzione di Faro del 27/10/2005. Ultima nata fra le Convenzioni culturali internazionali, muove dal concetto che la conoscenza e l’uso dell’eredità culturale rientrano fra i diritti dell’individuo a prendere parte liberamente alla vita culturale della comunità e a godere delle arti sancito nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (Parigi 1948) e garantito dal Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali (Parigi 1966).

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LAMPEDUSA IL PESCATORE E SCHUBERT di Francesco Festuccia – Numero 11 – Luglio 2018

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LAMPEDUSA IL PESCATORE E ScHUBERT

 

E poi, ancora ingrandendo, ci si approda. Un punto piccolissimo, sembra uno scoglio buttato lì. Stringi ancora sull’immagine ed ecco Lampedusa. E poi, spostandosi ancora un po’, quel segno che guardando la mappa ci fa capire che siamo nell’estremo dell’Europa.

Ecco, partiamo da qui, in quel luogo dove ora c’ė la Porta d’Europa, 

un piccolo monumento in pietra, simulacro per i migranti, 

per tornare al 2001.


Lampedusa non era ancora nota come punto critico dell’accoglienza, ma si parlava solo di mare meraviglioso, selvaggio. Ci fermiamo per un attimo e in quel tempo per raccontarvi la meraviglia di una scoperta con un personaggio d’eccezione: il grande violinista Uto Ughi. 

 

Eravamo andati a Lampedusa per realizzare una lunga intervista che avrebbe poi fatto parte di un Tg2dossier. E qui il giornalista deve uscire dal suo ruolo, perché eravamo lì per cercare una bella location, un bello sfondo. Per poter raccontare questa grande emozione che ci colpì, noi volevamo solo che il Maestro dialogasse davanti a un’altra sua grande passione, oltre la musica: il mare. E lui era lì fuori stagione – era metà ottobre – perché lì poteva ancora fare il bagno e nuotare per tenere in allenamento il suo magico braccio. 

 

Ma lì, sulla barca, tirò fuori il violino e scosse la testa. “Non posso – disse – così all’aperto il suono si disperde. Dobbiamo tornare a riva e trovare un posto chiuso”. Mi prese un vero smarrimento. Eravamo con il Maestro in mare aperto, nel punto simbolico dell’estremo sud dell’Europa.

A quel punto guardai smarrito l’anziano pescatore che ci aveva portato fin lì. 

Il suo viso tormentato dai segni di mille battaglie in mare si illuminò. 

E mi sorrise. Disse qualcosa in lampedusano stretto. 

Forse “fazzu da me. Se firassi?” 


Cos’altro potevo fare? Il Maestro era impaziente e voleva tornare. Ma il pescatore calmo spostò la leva del comando del motore e puntò dritto. Lo guardammo perplesso, ma ora il vento era cambiato, avevamo superato quel punto più a sud d’Europa. E, come se fosse stato preso da un demone, continuò a ripetere sottovoce, accarezzandosi la sua barba bianca incolta, “se firassi”. Il mare si calmò e lì non tirava più vento, coperti dall’isola, e il ronzio del motore era sottofondo al nostro nuovo paesaggio.

La parte dietro, meno conosciuta e più inaccessibile di Lampedusa, 

perché da terra visto lo strapiombo non si può arrivare e per mare 

non è consigliato per chi non è esperto.


Basta un guasto, il vento e le correnti e in un attimo ci si trova in mezzo al mare che ci separa dall’Africa. 

 

Il nostro pescatore invece andava deciso, passando a pochi metri da quella roccia. “se firassi” mi disse ancora, con il viso ancora più illuminato, e ruotò la barca verso la roccia. Calò i giri del motore, poi lo spense. Ora ci stavamo accostando ancor più alla roccia e intravedemmo un passaggio. Borbottava, ancora, “se firassi, se firassi.” E fu la “meraviglia”. 

 

Entriamo piano, abbassando la testa, in una meravigliosa e inaspettata grotta. Il motore è spento e

la vecchia barca di legno scivola in quell’acqua azzurra illuminata, 

nel silenzio. Ci guardiamo, al pescatore si illumina il viso. 

Noi non possiamo che fare un “oh” di meraviglia.


E a qual punto il Maestro ci zittisce con un segno delle braccia. E poi comincia a battere le mani. Il suono rimbomba in maniera fantastica. E lui continua a battere le mani ritmicamente e il suo volto si illumina. Si ferma e ancora silenzio. Ricomincia a battere e dice qui c’è un’acustica perfetta, meglio che nell’auditorium di Vienna. Si piega sulla custodia di violino e tira fuori il suo strumento. Quasi per scusarsi dice: “Non è né il mio Stradivari e né il Guarneri…è un violino da combattimento che mi porto in viaggio per esercitarmi”. E cominciano questi straordinari momenti, Uto Ughi in maglietta e calzoncini lì in mezzo a quella grotta, sulla barca con il fondale accesso da una luce che arriva da un taglio di roccia, comincia a suonare un movimento di Schubert.

È un attimo e quella grotta si riempie di musica. Uto Ughi che suona senza fermarsi. Trasportato in un altro mondo con una ispirazione diversa dai soliti concerti.


Lì gli unici spettatori erano il pescatore che sembrava aver disteso le rughe del viso, l’operatore di ripresa che incredulo stava testimoniando qualcosa di irripetibile, e chi vi sta raccontando. E questa storia sembra tramutarsi in un miracolo laico, di quelli che poi fanno pensare alla grandezza e all’eternità dell’arte.

Ad un tratto cominciano a cadere delle piccole gocce, bagnano anche il violino


che il Maestro lasciando la musica un momento asciugava, con amore. Sembravano lacrime, forse di gioia, della grotta. Fui preso quasi da un’allucinazione: la musica celestiale di uno dei più grandi musicisti, il mare azzurro, la luce che entrava dal basso. Guardai il pescatore, mi disse ancora “se firassi”. Non è un miracolo. Sembrano lacrime, ma sono lacrime per noi. La chiamano a Lampedusa proprio la grotta delle lacrime.

È una grotta di cui nelle guide si parla poco o nulla, un fenomeno fisico dovuto all’umidità, gocce dal sapore dolce, come delle lacrime. Una storia quasi segreta, 

che viene raccontata da generazioni di pescatori, lacrime che arrivano 

dal profondo cuore di quel grande scoglio in mezzo al mare 

che è Lampedusa, oggi approdo per tanti migranti.


E magari di Lampedusa si parla per questo, o per l’isola dei conigli che è dalla parte opposta, ma non di questo anfratto selvaggio che è un piccolo capolavoro della natura, forse affascinante quanto la grotta azzurra di Capri, con un’acustica incredibile. 

 

Il maestro lo continuava a ripetere, lui non aveva mai suonato in una grotta, l’ha fatto e quelle lacrime di gioia cadevano anche su sul volto. “se firassi”, ci aveva detto il vecchio pescatore, facendoci credere in un miracolo. Sì, gli abbiamo creduto.

 

su Google Earth bisogna cliccare molto per arrivare ad intravedere quel puntino sperduto in mezzo al mar Mediterraneo, tanto al di sotto della Sicilia e tanto vicino alla Tunisia.

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BURRI A GIBELLINA IN CONTROLUCE di Alessandra Oddi Baglioni – Numero 11 – Luglio 2018

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BURRI              A GIBELLINA  IN CONTROLUCE

 

Una che ci vuole raccontare un Burri in controluce, un Burri dietro le luci accecanti che hanno illuminato le espressioni della sua arte. Un Burri vicino di casa, un Burri che siede alla stessa vostra tavola. Un Burri che vi prende per mano e vi spiega non la sua opera – perché quella lui non ha mai voluto spiegarla – ma vi spiega se stesso.

Eh già! Io Burri non l’ho conosciuto di persona, non l’ho conosciuto 

in carne ed ossa. Ma è un personaggio 

che mi ha sempre affascinato.


Ho cominciato piano piano ad avvicinare le persone che lo avevano incontrato, dapprima quelle ufficiali, poi gli amici, quelli delle partite di calcio, quelli degli appostamenti per la caccia. 

 

Al mio lavoro però mancava ancora un tassello, che per una donna è essenziale: mancava di parlare con chi aveva trascorso con lui le sere, con chi aveva condiviso gli attimi che rendono due esseri fusi in un solo pensiero. La moglie, l’enigmatica, l’estrosa Minsa, era morta. Altri con cui avevo parlato erano elusivi su questo tema. Finalmente un incontro ha da dato una svolta alle mie ricerche e, condotta per mano da una donna – anche lei grande artista, ho scoperto anche il cuore di Burri.

Pian piano mi si è ricomposto un mosaico; e credo di aver vissuto 

con la sua ombra, calpestato i suoi terreni, respirato la sua aria, 

addirittura mangiato ciò che mangiava lui: in una parola 

è come se avessi vissuto per sei mesi con la sua anima.


Ho cercato di raccontare “L’Umbrietà” di Burri, i suoi neri ed oro rispecchiavano i colori del rinascimento, le sue tele stracciate, l’estrema povertà della nostra terra, i territori aspri e difficili dell’alta valle del Tevere. Così, anche nel raccontare la sua presenza a Gibellina, ho voluto dare una immagine inusuale, convinta che la nostra Umbria, che pure è squassata continuamente dai terremoti, lo avesse segnato nelle sue decisioni.

Il più grande capolavoro europeo di land art poteva nascere solo 

da quella caparbietà che confronta l’uomo 

con la natura distruttrice.


Nel mio capitolo su Gibellina, estratto dal volume Controluce. Alberto Burri. Una vita da artista, edito da Donzelli, ho cercato di mostrare il momento in cui Alberto decide di occuparsi del territorio terremotato.

 

“Arrivai a Gibellina, alla nuova Gibellina, quella ricostruita a venti chilometri dal luogo della distruzione, nel primo pomeriggio, accolto dalla stella di Consagra. Una porta d`acciaio attraverso cui si intravedeva un cielo striato: la scultura sembrava impedire anche alle nuvole rosate di entrare in città. Diane aveva tanto insistito, Corrao mi chiamava quasi ogni giorno, ho dovuto accettare di andare almeno a fare un sopraluogo. Per fortuna c`era lei, Giovanna, l`unica in grado di capire l’angoscia che mi provocava quella desolazione: mi ricordava la guerra e la disperazione del dopoguerra. Ma lei con il suo sorriso, con le sue parole mi incoraggiava. 

 

Ero lì, seduto nella hall dell`albergo, incapace di muovermi, ma lei mi prese per mano, mi fissò negli occhi: «Pensa alla ricostruzione, a ciò che puoi fare per questa povera gente.» In quel mentre entrò Diane: «Andiamo, Zanmatti vuol farci fare un giro.» Vagammo per la città piena di cantieri. Ci fermammo nel portico del comune. Avevano voluto rappresentare la città ideale, e le ceramiche della Attardi richiamavano un colore rinascimentale, ma c`era qualcosa di discordante come un bellissimo pezzo musicale dove qualcuno stonava. Camminavamo in un immenso museo all`aperto, fuori dal tempo, vivo, ma la città… dov’era la città? 

 

Poi entrammo nella Chiesa di Quaroni. Mentre gli altri discutevano sulle rotondità della palla, io cercavo Dio in quel luogo, ma avevo l`impressione che se ne fosse tenuto lontano. L`avvolgersi su se stesso di quella palla non aveva nulla dello slancio verso il cielo dei miei campanili umbri. Diane cominciò a parlare con Giovanna: il gorgoglio delle parole rintronava nelle mie orecchie, uscii di scatto da quella chiesa alla ricerca di qualcosa di diverso. 

 

A cena dissi: «Basta andiamocene io non potrò mai intervenire in questo guazzabuglio, perché mi avete portato qui? Diane domattina ripartiamo.» Uscii infuriato, e Giovanna mi seguì mi prese per mano e cercò di calmarmi. Udimmo un leggero scampanellare e in fondo, di fronte alla montagna di sale di Paladino, da cui i cavalli spezzati cercavano invano di uscire, vidi passare un carretto siciliano luminoso nei suoi colori, tirato da un cavallo bardato a festa che faceva dondolare i campanellini dalle sue orecchie. Dietro di lui una processione di gente che cantava litanie, invocava la vergine e si dirigeva verso i luoghi della vecchia Gibellina, i luoghi spazzati via dal terremoto. Ci unimmo a loro, Giovanna stringeva sempre più forte la mia mano: in quel momento capii cosa volevo fare.

Gli occhi di quella gente che riflettevano il bisogno disperato di tornare 

alla loro Gibellina, che ormai era solo nei loro sogni mi aveva fatto venire un`idea. La mia opera avrebbe dovuto sorgere dove il terremoto aveva colpito, dalla rovina sarebbe sorto il simbolo della speranza, del futuro, di tutto ciò 

che sarebbe potuto accadere un giorno qui.


La mattina dopo mi diressi velocemente all`ufficio del sindaco: «Ho deciso, interverrò». Corrao tirò un sospiro di sollievo. Continuai: «Perimetreremo tutta la zona terremotata, la ricopriremo di cemento bianco lasciando emergere le vecchie vie. Farò in modo che dalle superfici bianche emergano i cretti.» Corrao impallidì: «L`idea è splendida, ma un`opera così colossale non posso affrontarla con le risorse modeste che mi sono state affidate.» Intervenne il mio angelo custode Diane: aprì una sottoscrizione internazionale, sollecitò gli emigrati denarosi: da tutto il mondo arrivarono i fondi. I lavori iniziarono alla fine del 1984 e continuarono per cinque anni.”

Dopo le importanti celebrazioni del grande artista Alberto Burri mi potrete chiedere cosa ci viene a dire una che Burri non lo ha conosciuto di persona.

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1 – A. Oddi Baglioni, Controluce. Alberto Burri. Una vita da artista, Donzelli Editore, 2015.

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LE CORALLARE DI TORRE DEL GRECO di Stefania Conti – Numero 11 – Luglio 2018

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LE CORALLARE DI TORRE    DEL GRECO              

 

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Solo lì, sul collo bianco e saldo delle donne, nell’immediata vicinanza dell’arteria pulsante, sorella dei cuori femminili, rinascevano a nuova vita, acquistavano splendore e bellezza ed esercitavano il loro innato magico potere di attrarre gli uomini e ridestare le loro voglie amorose”. 

 

Una visione poetica come solo uno scrittore della sua epoca può dare. E, a dire il vero, non solo le contadine hanno amato gli Antozoi (questo il nome scientifico). Usato da Sumeri, Egizi, Celti, presente nell’arte bizantina, diffuso nel Medioevo occidentale, ha avuto una particolare fioritura in Italia nel 17° e 18° secolo. Tra le nobili, come tra le plebee. Come gioiello o come oggetto di ornamento. Ma se si trascende da questo aspetto,

si può leggere una storia molto interessante dal punto di vista economico 

e sociologico. Perché i coralli hanno scritto una pagina importante 

nella storia dell’emancipazione femminile meridionale. E non solo.


Uno dei centri di pesca del prezioso materiale è stato per secoli Torre del Greco. Nel 1805 un imprenditore francese, Bartolomeo Martin, ottiene da Ferdinando IV di Borbone l’autorizzazione ad impiantare una fabbrica per la lavorazione. Fino a quel momento i pescatori avevano venduto il corallo pescato dalle coralline di Torre del Greco ai mercanti di Livorno, che poi a loro volta lo vendevano a Trapani, Genova, Marsiglia. 

 

Se Martin era un rappresentante del new age napoleonico, un borghese imprenditore con lo sguardo lungo, Ferdinando di Borbone era l’espressione dell’ancien régime, ma era molto interessato al tema delle manifatture (è lui il fondatore delle seterie di San Leucio, ancora oggi un vero e proprio modello di organizzazione). Ed è proprio il re Borbone che impone al Martin la clausola che qui ci interessa: la manodopera deve essere femminile.

Il motivo era semplice. Gli uomini impegnati nella pesca del corallo 

stavano fuori casa anche per anni. La famiglia 

veniva mandata avanti dalle donne.


Ma spesso i soldi non bastavano, anche perché non si sapeva mai con certezza la data del rientro e bastava un niente per farla saltare. Le povere torresi erano costrette a ricorrere agli usurai e, nei casi peggiori, a prostituirsi. Torre del Greco stava diventando una vera e propria piaga. Per questo Ferdinando interviene. Non solo. Nel 1807 si decide anche di aprire una scuola nel Real Albergo dei Poveri a Napoli, dedicata alle “donzelle” per la manifattura del corallo. Scuola che ben presto sarà aperta anche ai giovani reclusi. Le cose al Real Albergo di Napoli non andarono bene. Ma a Torre, sì. Già nel 1806 Il lavoro delle donne andava particolarmente bene.

Avevano una forte motivazione che le rendeva particolarmente abili nel bucare, 

infilare e confezionare collane. Con misure ante litteram potevano anche scegliere 

di lavorare a casa o part time, così potevano accudire i bambini.


Ce la mettevano tutta, lavorare in fabbrica era il mezzo per uscire dalla povertà e dall’emarginazione.

 

“C’erano bambini, a Torre, cresciuti praticamente nelle cassette di corallo grezzo: quando erano piccoli, le mamme li mettevano lì per averli sotto gli occhi e continuare a lavorare”, ricorda Caterina Ascione, storica dell’arte e appassionata studiosa del corallo.

Nel 1878 sorse in città addirittura una Scuola per l’incisione e la lavorazione 

del corallo, tuttora esistente, presso la quale nel 1933 

fu istituito l’omonimo museo.


Caduti i Borbone, arrivano i francesi. Giuseppe Napoleone prima e Gioacchino Murat dopo. Anche con loro la fabbrica di Bartolomeo Martin continua. Anzi, tra alti e bassi va avanti per oltre vent’anni. I due sovrani francesi incoraggiano e promuovono l’attività industriale meridionale. E per quanto riguarda il corallo, Martin certamente è aiutato dalla moda che esplode nelle corti napoleoniche. Una ambasciatrice autorevole è stata Carolina Bonaparte Murat, che per l’oro rosso aveva una vera e propria passione. Al punto di regalare a suo fratello Napoleone (sembra per far pace dopo una lite) i cammei di corallo finemente lavorati che decorano la spada di gala del Gran Corso. Oggi la si può vedere nel museo napoleonico di Fontainebleau. 

 

Carolina va oltre. Lo sponsorizza come prodotto speciale del Regno.

Diventa le souvenir de la Reine. Le riviste di moda francesi lo propongono 

come gioielleria “da giorno”. Una parure di corallo associata ad uno chale cachemire morbidamente appoggiato sulle braccia di una dama, e, voilà, il gioco è fatto.


Una rapida e duratura fortuna presso le signore dell’alta borghesia e dell’aristocrazia che presto conquisterà tutta l’Europa, e stavolta non sarà più pour les dames di più alto lignaggio, ma anche presso le popolane. 

 

La lavorazione ancora oggi è in mano femminile. Torre del Greco è considerata una capitale del corallo e combatte da pari con la concorrenza dei prodotti asiatici.

 

 

 

 

 

nel suo libro Il mercante di coralli immaginava che l’anelito dei coralli fosse quello “di essere colti e portati sulla superficie della terra dai palombari, essere tagliati, levigati e infilati per adempiere infine il vero scopo della loro esistenza: diventare il monile di belle contadine.

Museo del corallo 1 Cattura
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Foto: autorizzate da Soprintendenza Archeologia, Belle arti e Paesaggio per il Comune di Napoli Istituto d’Istruzione Superiore “Francesco Degni” Torre del Greco

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