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LE RINASCITE DELLA FENICE di Gianluca Anglana – Numero 6 – Ottobre 2016

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«Non c’è nulla di più fragile dell’equilibrio dei bei luoghi».

Nelle Memorie di Adriano, Marguerite Yourcenar lancia un monito al mondo, perché abbia a cuore l’armonia che sovente s’intreccia tra il paesaggio e le opere dell’uomo, un rapporto talvolta indissolubile, come di radici che impugnano saldamente le zolle di terra.
Eppure, altrettanto spesso, l’essere umano dimentica, deturpa, offende la bellezza: l’insipienza è uno sfregio all’arte, la noncuranza sa stendere per secoli il suo velo di nebbia su veri e propri capolavori.
Oblio e violenza. Questa è stata, a lungo, la condanna inflitta ad uno tra i più significativi complessi architettonici di Puglia.
Nell’agro di Squinzano, a pochi chilometri dalla costa adriatica salentina, sorge Santa Maria di Cerrate. Si tratta di un’abbazia di notevole interesse storico-artistico, perfettamente coniugata al fascino delle campagne leccesi. Oggi, Cerrate è avvolta da un manto di vegetazione tipica mediterranea: querce, pini marittimi e cipressi, così come gli ulivi monumentali, sono una legione di guardiani silenziosi, un esercito di guerrieri incaricato di difendere un tesoro.

La leggenda narra che Tancredi d’Altavilla, durante una battuta di caccia, sia rimasto impietrito davanti all’immagine della Vergine, comparsa tra le corna di una cerva: nel luogo del miracolo, il nobile normanno avrebbe fatto elevare un tempio in onore di Maria. Le tradizioni esigono dunque che il nome di Cerrate derivi da Cervate e prima ancora, appunto, da cerva.

Fu allora che la fulgida traiettoria dell’esistenza dell’Abbazia parve avere una definitiva conclusione. 
E invece no. La fenice si ricompose tra le ceneri e i tizzoni in cui il fuoco delle razzie ne avevano disarticolato il corpo.
Nel 1531 tutte le proprietà e le ricchezze, che appartennero ai sacerdoti bizantini, passarono all’Ospedale degli Incurabili di Napoli.

Il buio della memoria cessò solo nella seconda metà del Novecento con l’intervento della Provincia di Lecce ed un primo ciclo di restauri. Oggi Santa Maria è ancora una volta risorta dalle ceneri del disdoro: dal 2012 è affidata alle cure del FAI.

Il modulo lessicale in cui si articola il monumento nel suo complesso potrebbe per certi versi rammentare gli enclos parroissiaux bretoni: attorno al nucleo centrale del luogo di culto vero e proprio si dipana una serie di edifici ancillari. A differenza però dei recinti parrocchiali di Bretagna, i manufatti “laici” di Cerrate (ovvero la Casa del Massaro, il pozzetto cinquecentesco, il frantoio ipogeo o gli alloggi per i mezzadri) non si qualificano come coevi alla Chiesa, ma le si sono sedimentati attorno lungo l’arco dei secoli.
L’Abbazia, romanica, è di eccezionale fattura: l’esterno, con facciata a capanna tripartito, è sobrio ed elegante. Il portale, ad arco, è impreziosito da un’edicola sorretta da colonne, a loro volta sormontate da suini. L’arcata narra il ciclo della Natività di Cristo e ospita vari personaggi (delizioso il gruppo dei tre Magi, vestiti alla maniera di pope ortodosso; così teneramente convincente Santa Elisabetta, nell’atto di poggiare il capo sulla spalla di Maria, in un gesto di sororale intimità).
Il portico offre al visitatore l’occasione di indugiare su elementi figurativi splendidamente eseguiti e commoventi. Tra i capitelli della loggia spuntano cespugli di pietra, racconti fantastici e bestiari dal sapore squisitamente medievale, si affollano sirene, arpie, grifi, draghi e centauri: particolarmente pregevole è la raffigurazione del monaco in lotta con dei ramarri, a loro volta sopraffatti da aquile.
L’interno dell’Abbazia, a tre navate, corre fino all’altare centrale sotto un ciborio duecentesco e contiene un prezioso ciclo di affreschi due e trecenteschi raffiguranti quegli stessi santi guerrieri (San Giorgio e San Demetrio), che guidarono le potenze crociate contro i Turchi e consentirono l’espugnazione di Antiochia: la propaganda normanna aveva forse preteso un dazio, piegando a sé il talento degli artisti di scuola bizantina.

Durante recenti lavori di restauro, sul fianco della navata destra e nella cornice di un altare barocco, è emerso un affresco, eseguito da maestranze resesi permeabili alla lezione giottesca. Si tratta della rappresentazione di uno spazio architettonico in prospettiva. Ciò che colpisce sono l’abiura del registro stilistico bizantino e il chiaro rimando a nuovi linguaggi figurativi. Lì accanto, sulla sinistra, un altro dipinto di matrice occidentale fissa il momento esatto in cui un santo, avvolto in un piviale scuro e assisi su un trono così maestoso da sembrare esso stesso una cappella, indica all’osservatore, nei testi sacri, l’unica via per la salvezza.
Cerrate è un vaso di Pandora al contrario, un gorgo delle ere, in cui sono stati tumultuosamente risucchiati miti, battaglie, leggende, racconti, potere, violenze, vite umane, Oriente, Occidente, il male, il bene.
Cerrate sembra dare voce al lento scorrere del tempo, sembra dare un senso alle stagioni, massimamente all’euforia dell’estate o alle incipienti vanità della primavera. Qui tutto è in equilibrio: il tempo e lo spazio, le opere dell’uomo e quelle della natura, la flora, la fauna. Qui si assapora la storia. Qui si degustano i frutti dell’arte, nel turchese cielo salentino e nel silenzio metafisico, rotto solo dal frinire delle cicale.

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1 Sulla vita di Boemondo cfr. UTET, 1967, p. 222. 2 Pietro Serio, Appunti per una storia di Campi Salentina, 1963, pp 53-54. 3 Gli storici evidenziano che quello di “basiliano” è un vocabolo solo convenzionale, non essendo di fatto mai esistito un ordine monacale con questo nome. 4 Lara Leovino, Bell’Italia n. 360, Ed. Aprile 2016. 5 Teodoro Pellegrino, Santa Maria a Cerrate, Capone Editore (2004), p. 21. 6 Teodoro Pellegrino, Santa Maria a Cerrate, Capone Editore (2004), p. 21. Notevole importanza per gli scambi commerciali della zona ebbe la fiera che, per cinque giorni (dal 20 al 25 Aprile di ogni anno), animava gli atrii dell’Abbazia. Preciso che l’istituzione ufficiale della fiera avvenne per volontà di Giovanni Antonio Del Balzo Orsini, con decreto del 20 Dicembre 1452. 7Teodoro Pellegrino, Santa Maria a Cerrate, Capone Editore (2004), p. 26-27: è appurato che lo scrittorio di Cerrate avesse rapporti con quello celeberrimo di Casole, nei pressi di Otranto.

LE RINASCITE DELLA FENICE

 

La storia obietta che la paternità del sito sia da ascrivere ad un altro membro della casata, ovvero a Boemondo d’Altavilla1, padrone di feudi tra Oria e Otranto2. L’edificazione del complesso abbaziale fu dunque decretata nel XII secolo con l’intento di ospitare una comunità di monaci basiliani3, provenienti dall’Oriente per sfuggire alle persecuzioni iconoclaste4. Questa seconda teoria, giudicata più attendibile anche se meno accattivante della prima, ipotizza che il nome di Cerrate discenda piuttosto dalla nutrita popolazione di cerri (alberi simili alle querce) presenti nella zona.
Boemondo fu figlio di Roberto il Guiscardo, duca di Puglia e di Calabria. Era quindi un normanno, entrato più volte, invero quasi mai pacificamente, in contatto con la superpotenza greca di Bisanzio. Di lui traccia un profilo Anna Comnena, figlia dell’imperatore bizantino,

nella sua Alessiade: «Ora [Boemondo] era uno, per dirla in breve, di cui non s’era visto prima uguale nella terra dei Romani, fosse barbaro o Greco (perché egli, agli occhi dello spettatore, era una meraviglia, e la sua reputazione era terrorizzante). (…) Era così fatto di intelligenza e corporeità che coraggio e passione innalzavano le loro creste nel suo intimo ed entrambi lo rendevano incline alla guerra. Il suo ingegno era multiforme, scaltro e capace di trovare una via di fuga in ogni emergenza».

Anna ci consegna un ritratto assai lusinghiero di Boemondo: uomo bellicoso, di bell’aspetto e dalla fervida intelligenza, egli era un condottiero valoroso e tenace, sapeva ben destreggiarsi nelle arti militari. Si distinse in particolare nell’assedio di Antiochia, che strappò ai Turchi Selgiuchidi nel 1098 e dove fondò un regno destinato a durare, di sovrano in sovrano, ben 190 anni. Egli stesso assunse il titolo di Principe della città siriana e diede vita al ramo antiocheno degli Altavilla. La gloria di questo leggendario clan normanno avvampò con inusitata rapidità, mentre il mito di quella battaglia assunse presto le sembianze della propaganda autocelebrativa. In tutta Europa, deflagrò la leggenda che gli eserciti cristiani, nella loro crociata contro gli infedeli, fossero stati affiancati e sostenuti persino da tre santi militari: San Giorgio, San Demetrio e San Maurizio.
La fama di Boemondo, come abile stratega e principe sagace, brillò, si allargò presto, da Oriente a Occidente, come incendio nella foresta.
Fu probabilmente il suo acume a indurlo a fiutare il prestigio e le potenzialità di arricchimento che sarebbero potute piovere sulle sue terre italiane dalla concessione di un rifugio sicuro ai transfughi.
Costoro abitarono stabilmente a Cerrate, in prossimità della Via Traiana Calabra che collegava Brindisi con Lecce ed Otranto, dalla metà del XII secolo, epoca in cui le fonti testimoniano della vivace attività di una biblioteca e di uno scriptorium. I loro alloggi erano disposti all’interno della casa monacale, che tuttora si erge nella sua massiccia austerità.
La convivenza dei Basiliani era disciplinata da una precisa gerarchia, in cima alla quale era l’Igumeno «che osservava e faceva osservare rigorosamente le regole della comunità e puniva con penitenze, a volte gravi e severe, le infrazioni ad esse»5. Il superiore era assistito nelle sue mansioni da altre figure sacerdotali, quali gli Ieromonaci o ancora l’Ebdomadario, colui cui era demandata, con turni a rotazione settimanale, la celebrazione della liturgia sacra.
Generazioni di calògeri diedero impulso e slancio all’economia6.
Oltre che alla contemplazione e alla preghiera, i monaci si dedicavano anche alla trascrizione di opere della letteratura cristiana, ma soprattutto allo studio dei classici greci7. Ai Basiliani quindi si deve la conservazione e la diffusione, in gran parte della penisola salentina, della più nobile cultura greca. Essi stessi divennero cultura greca, al punto che, quando decisero di darsi ad un nuovo esilio perché prostrati dalle continue scorrerie saracene, la loro Schola greca perse di linfa vitale, appassì e si estinse.

L’Abbazia parve riaccendersi di rinnovato splendore e prosperò lungamente, fino al 1711, quando cadde in declino a causa di una violentissima incursione da parte dei pirati turchi. Cerrate, con le campagne circostanti, venne, di nuovo, abbandonata.
In seguito essa divenne una masseria: i salentini ricordano tuttora che la chiesa fu degradata a pollaio e il suo sagrato ad aia. Alcuni capitelli furono strappati alle loro colonne, il pavimento sfondato, alcuni affreschi irreparabilmente danneggiati. I giorni dell’abbandono divennero mesi, anni, secoli.

Quegli stessi artisti cui dobbiamo un’altra meraviglia, oggi conservata nel piccolo museo attiguo alla chiesa: la Dormitio Virginis. Maria, agonizzante, è vegliata da una schiera di Angeli e di Santi, mentre Cristo si mostra all’interno di una mandorla ed attira a sé l’anima della genitrice in un turbinoso vortice di colori e creature celesti. La Madre ha generato il Figlio nella vita terrena, il Figlio accoglie a sé la Madre nella vita eterna.

Qui ci si lascia ammaliare dalle suggestioni di un Medioevo che ritorna come magma dolce dalle profondità dei secoli; ci si attarda su ogni dettaglio, su ogni singolo animale (reale o immaginario) sapientemente evocato sui capitelli di ciascuna delle colonnine del portico, sul fantasma di scomparse comunità di monaci, sul tramestio dei loro passi sul selciato o sul suono ormai perduto dei loro canti. Qui riecheggia ancora il nome della rosa, che, nel susseguirsi d’iscrizioni in greco, arabo e latino, tra le navate abbaziali, riemerge dal passato.