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PREZIOSA MEMORIA. CULTURA DEL SUD di Grazia Francescato – Numero 9 – Dicembre 2017

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PREZIOSA MEMORIA. CULTURA DEL SUD

 

intervista a
di grazia francescato
un sacerdote della natura

Esagero? Affatto. Giampiero Indelli, fotografo e naturalista di rango, grande esperto di zone umide e wildfowl, si è sempre considerato, innanzitutto, un “officiante” dedito a celebrare la bellezza e la sacralità della natura. Il suo obiettivo si è puntato principalmente sulle sue terre d’origine, quel Sud nascosto e dimenticato, dove non crescono solo i limoni cantati da Goethe, ma anche i faggi del Cilento e i salici in riva al verde Sele.

Uno sguardo al di là degli stereotipi, quelli romantici ma anche quelli moderni dello sviluppo e della crescita, come medicine
per gli antichi mali del Meridione.

 

Lo sguardo di un artista del Sud che ha saputo conquistare un primato ragguardevole nel raccontare, con professionalità e amore, lo splendore ignorato ma anche la metamorfosi dei territori meridionali, intento a cogliere quel di più di valori naturalistici, artistici, storici e culturali che rappresentano la vera ricchezza di questa vasta parte d’Italia.

 

Ti definisci “uno che entra in un bosco in punta di piedi, come se entrassi in una chiesa”. La fotografia naturalistica, dunque,
non solo come professione ma come vocazione?

 

Esattamente. Fin da bambino, quando accompagnavo mio nonno Federico a caccia negli oliveti del Cilento o mio zio Antoniuccio a pesca lungo il fiume Sele, mi sono subito reso conto, istintivamente, della bellezza e maestosità del paesaggio meridionale. La mia prima foto pubblicata su una rivista, quando avevo quindici anni, ritrae appunto mio zio a pesca sul Sele. Ancora una foto di mio zio campeggia sulla mia prima copertina di una rivista a tiratura nazionale: “Pescare”. Nei primi anni della mia carriera di fotografo mi sono dedicato esclusivamente alla caccia fotografica. Anatre, aironi, beccaccini, limicoli erano i miei soggetti abituali. Immagini pubblicate sulle riviste di caccia, perché all’epoca non c’erano ancora le riviste di natura. Quando queste ultime hanno fatto la loro comparsa, ho cominciato a fotografare anche fiori, alberi, paesaggi e a pubblicare su “Airone”, “Oasis”, “Gardenia”, “Bell’Italia”. In seguito mi sono dedicato a fare libri fotografici: Le Oasi del WWF, Cilento, Persano. Recentemente ho pubblicato un libro, La prima luce del giorno, che racconta questo mio percorso esistenziale e professionale. 

 

Dagli animali al paesaggio. Quali le motivazioni di questo cambiamento?

 

Sostanzialmente due. Da un lato ho fatto tesoro delle indicazioni di Fulco Pratesi, mio maestro, il quale sosteneva che i veri fotografi dovevano vendere alle riviste non le foto singole ma l’intero servizio. Dall’altro, è maturata in me la consapevolezza che la foto di paesaggio è un genere fotografico più colto, complesso ed espressivo del ritratto di un’anatra o di un beccaccino. Per fare una buona foto di uccelli, devi conoscerne le abitudini, sapere dove cercarli, costruire un capanno adatto, avere molta pazienza. Nella foto di paesaggio confluiscono invece molti motivi d’ispirazione: dipinti, fotogrammi di film, brani di libri, foto di altri autori. La foto di paesaggio costituisce, secondo me, un’evoluzione culturale e professionale rispetto a quella degli uccelli.

 

E la tecnica? Conta davvero tanto, come molti credono?

 

Fino a un certo punto. Ovviamente è necessario imparare a usare al meglio l’attrezzatura, affinare la tecnica… Ma è lo sguardo che conta. La fotografia di paesaggio è fondamentalmente inquadratura. Così come si nasce con un orecchio per la musica, si nasce con un occhio per l’inquadratura. E’ un talento naturale, che permette di riconoscere automaticamente, tramite un processo inconscio, i rapporti tra i volumi, l’armonia dei colori, l’equilibrio tra le linee. Insomma, aveva ragione Picasso che affermava: “Io non cerco, trovo”.

 

Il Sud è spesso protagonista delle tue immagini. Una vera passione, 

nel senso etimologico del termine: estasi di fronte alla bellezza, sofferenza per gli scempi e le ferite.

 

La spinta originaria a diventare fotografo naturalista è stata proprio innescata dal fatto che mi sono subito reso conto di avere a disposizione, vivendo a Salerno, un enorme patrimonio di natura e di paesaggi, quasi del tutto sconosciuto agli italiani e sottovalutato dai residenti. Un patrimonio ancora sostanzialmente intatto, quando ho cominciato a fotografarlo. Ho fotografato quasi sempre luoghi a me cari, che mi parlavano, con cui scattava una risonanza affettiva, emotiva, un legame con la mia infanzia e adolescenza. Luoghi con cui c’era una simbiosi, un’identificazione profonda: il Cilento interno, il fiume Sele, l’Oasi WWF di Persano. Il mio nome è ormai associato automaticamente a queste aree, che sono diventate così il mio ubi consistam artistico. Questa identificazione tra un artista e un luogo si è verificata spesso nel mondo della fotografia e dell’arte. Basti pensare ad Ansel Adams e al Parco di Yosemite, a Fulvio Roiter e a Venezia, a Shinzo Maeda e la catena montuosa chiamata Kamikochi, ma anche a Theo Angelopoulos e alla Grecia interna, a Fellini e Rimini… l’elenco potrebbe continuare a lungo. Quanto alla passione, intesa come sofferenza di fronte alla devastazione di tanta parte del paesaggio meridionale, in particolare le coste e le pianure, ho vissuto con dolore queste alterazioni di luoghi a me cari, ma ho anche combattuto, insieme al WWF, per arginare gli scempi. Per questa ragione ho scelto di non tornare, negli ultimi anni, in alcuni luoghi a me cari, particolarmente segnati dall’urbanizzazione dilagante. Comunque non dobbiamo trascurare le evoluzioni positive: molte zone interne sono migliorate, in seguito allo spopolamento delle campagne e alla diminuzione delle capre, formidabili divoratrici di piante e arbusti. Sull’Appennino meridionale i boschi si sono estesi notevolmente e molti paesaggi hanno ritrovato un’arcaica bellezza.    

 

A parte la visione del paesaggio, cosa distingue le tue immagini 

da quelle di altri fotografi che hanno fotografato il sud?

 

Io mi sono sempre considerato, più che un fotografo-naturalista, un naturalista-fotografo. Non è un semplice gioco di parole. Essere un naturalista vuol dire conoscere intimamente gli ambienti naturali. Significa saper dare un nome agli alberi, ai fiori, agli animali, a tutto ciò che compone un paesaggio, al di là della sua semplice apparenza. La bellezza, intesa come armonie di linee e di volumi, è la patina superficiale di un paesaggio. E’ forma. Il contenuto di quel paesaggio ha un valore, un’importanza che solo un occhio esperto sa riconoscere. Le mie foto raccontano di quel contenuto di natura, racchiuso in un involucro accattivante. Parlando di un altro ambito, non ci sono descrizioni dei paesaggi meridionali scritte da naturalisti. Se uno vuole conoscere com’erano certi luoghi del sud, deve leggere i racconti di caccia ambientati in quei posti. Fra i pochi autori che hanno descritto il sud, con l’occhio del naturalista, ricordo soltanto i libri di Edwin Cerio su Capri e quelli di Norman Douglas sulla Calabria e la Penisola Sorrentina.

 

Quale importanza attribuisci al tuo archivio d’immagini del sud?


In molti casi le mie foto raccontano com’erano i luoghi prima delle trasformazioni degli ultimi decenni. Penso, per esempio, al fiume Sele, che ho fotografato per trent’anni, dagli anni ’70 agli anni ’90. Il paesaggio lungo le sue rive era ancora in buone condizioni. Poi è successo di tutto. E’ stata realizzata la terza corsia sull’autostrada Salerno-Reggio Calabria, sostituendo molti tratti curvilinei con tracciati rettilinei. In realtà è stato costruito un nuovo tracciato, parallelo al primo, a breve distanza dalle rive del fiume. Una miriade di pale eoliche segna il profilo di ogni collina. Edifici e capannoni si sono moltiplicati a dismisura. L’elenco potrebbe continuare a lungo…

 

Tu lamenti spesso la scomparsa della “grande luce del Sud”, 

elemento chiave per una professione che significa proprio 

“scrivere con la luce”…

 

Il mutamento della luce, nel Sud e ovunque, è un vero dramma. La cappa di smog si estende, sale in quota e ormai si ritrova anche sopra i mille metri. La luce che sfolgorava nei quadri dei vedutisti del ‘700 è ormai un remoto ricordo.

 

Negli ultimi anni, ti stai orientando sempre più verso la foto astratta. Perché?

 

Infatti oggi mi sento più attratto dalla foto astratta. Negli ultimi anni ho fatto più di 15.000 foto di nuvole. Quest’anno ho fatto molte foto di licheni. E’ una mia personale ricerca sul colore e sulle armonie presenti in natura. La vivo anche come una forma di ricerca spirituale. E’ un percorso comune a molti pittori, che iniziano con il figurativo e approdano all’astratto.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

  

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Credit foto Giampiero Indelli 

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