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QUESTO SUD di Giuseppe Soriero – Numero 15 – Dicembre 2019

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QUESTO SUD

 

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“Rete delle infrastrutture” e “Rete dei talenti” – Due obiettivi impellenti.
“In particolar modo è necessario ridurre il divario che sta ulteriormente crescendo tra Nord e Sud d’Italia.  

A subirne le conseguenze non sono soltanto le comunità meridionali ma l’intero Paese, frenato nelle sue potenzialità di sviluppo” – ha proclamato il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella nel messaggio per il nuovo anno 2020.

Avevamo colto già codesta sua sensibilità quando, il 14 novembre scorso, la delegazione Svimez ha illustrato al Quirinale il recente Rapporto 2019,

 

presentato alla Camera dei Deputati il 4 novembre, alla presenza del Presidente del Consiglio Conte. La rivista Myrrha, presente alla Camera, adesso lodevolmente apre le proprie pagine a commenti sul tema, per ispirare ulteriore fiducia nei doni del Sud. 

 

A ben pensarci,

 

la fiducia nelle proprie energie è stato il filo conduttore del discorso 

del Presidente Mattarella,  

 

poiché a suo avviso “per promuovere fiducia, è decisivo il buon funzionamento delle pubbliche istituzioni che devono alimentarla, favorendo coesione sociale…. La democrazia si rafforza se le istituzioni tengono viva una ragionevole speranza”.  

E’ questo il sentiero irto e stretto lungo cui si muove da anni la valutazione periodica del Rapporto Svimez: nutrire di speranza la battaglia meridionalista, aggiornando continuamente la lettura critica delle difficoltà meridionali la cui soluzione è elemento strategico per il futuro dell’Italia. Il Nord da solo non ce la può fare, l’Italia ha bisogno dello sviluppo del Sud. Non a caso la descrizione quest’anno paventa i caratteri di un nuovo divario tra l’Italia e l’Europa.

Insomma, negli ultimi dodici mesi è aumentato non solo il dualismo tra Nord e Sud, 

ma l’affanno dell’intero sistema Italia rispetto al resto d’Europa. 

 

“Ristagnano soprattutto i consumi (+0,2%), ancora al di sotto di -9 punti percentuali nei confronti del 2018, rispetto al Centro-Nord, dove crescono del +0.7%, recuperando e superando i livelli precrisi”. 

Tuttavia il Nord Italia non è più tra le locomotive d’Europa dacché talune regioni dei nuovi Stati membri dell’Est superano per PIL alcune regioni ricche italiane, essendo quelle “avvantaggiate dalle asimmetrie nei regimi fiscali, nel costo del lavoro, e in altri fattori che determinano ampi differenziali regionali di competitività”  

 

Fatto 100 il Prodotto interno lordo dell’ Area europea (dei 28 Stati membri), dalle ricerche Svimez si desume che tra il 2006 e 2017 il valore della  Lombardia cede da 138 a 128; il Veneto da 121 scende a 112, l’Emilia scivola da 131 a 119; ad Est il PIL sale: a Praga da 170 a 187, a Bratislava da 147 a 179, a Bucarest da 87 a 144.

Queste cifre hanno indotto subito alcuni importanti giornali a titolare che “Il Nord spegne i motori dell’industria e si ferma anche la locomotiva Italia”, 

 

narrando essi anche il raffreddamento dei ritmi di crescita in Germania, il prevalere della Brexit in Gran Bretagna, il crollo dell’export UE che arriva a lambire aree sicure che finora avevano trainato l’economia italiana, dalla Brianza ad alcune zone dell’Emilia.  

 

La crisi internazionale insomma ha clamorosamente squarciato il velo rendendo lo scenario più netto: o le due aree del Nord e del Sud cresceranno insieme o la ripresa dell’Italia rimarrà sempre più tiepida proprio mentre il Mediterraneo è in ebollizione e spinge comunque verso la modifica di secolari equilibri con protagonisti del tutto inediti: la Cina, con ambiziosi investimenti lungo “La via della seta”; la Russia, che impone un ruolo primario nello scacchiere geopolitico; e adesso anche la Turchia, che vota rapida l’intervento militare in Libia per pesare di più nelle acque del Mediterraneo.

 

E l’Italia che fa ?  

 

Mentre le grandi potenze del mondo si misurano su programmi internazionali d’investimento a fini bellici, militari, di egemonia industriale e commerciale, qui da noi continuano le crociate ideologiche sugli egoismi territoriali e prevalgono le polemiche localistiche sul cosiddetto “regionalismo differenziato” e su ipotesi di sviluppo “ a geometria variabile”. E’ questo il portato di una dissennata dispersione della coscienza unitaria della nazione che si frantuma lasciando ampi varchi al sentimento del “rancore” indentificato dal Censis come elemento coagulante di nuovi egoismi territoriali. E’ appena il caso di ricordare che, nell’inerzia del Sud, ripiegato nel trascinamento prevalente di misure economiche assistenziali, la bulimia nordista è riuscita a concentrare solo per le infrastrutture ben 47,5 cinque miliardi nelle aree del Nord, relegando solo 5,7 miliardi alle aree dell’anoressico Mezzogiorno.

Emblematica in tal senso la foto Svimez del dualismo ferroviario. 

 

Adesso finalmente si comincia a discettare da più parti sul rispetto del criterio del 34% nella ripartizione della spesa statale, ma ancora siamo terribilmente indietro. I dati fermi al 28,4% fotografano gli effetti di quella che alcuni commentatori, ironicamente, hanno definito la “Secessione light”, un paradossale gioco delle parti perpetrato cinicamente ai danni della coesione e della comunità nazionale.  

Proprio la ricognizione sull’uso delle risorse europee del QCS 2000-2006 e del QSN 2007-2013 ha messo in evidenza le fragilità del modello. Quanto il meccanismo italiano fosse inceppato è stato, anni fa, ad esporlo il primo Rapporto Fondazione Hume-Sole 24 Ore:

mentre complessivamente, a partire dal 1992, le disuguaglianze nel mondo 

si riducono il differenziale interno nel caso italiano cresce.  

 

E all’origine degli squilibri italiani c’è non solo il divario del PIL, ma “la fisiologia di un sistema economico che non riesce a trovare una via autonoma di creazione e di distribuzione della ricchezza attraverso il mercato, e che dagli anni ’90 resta vincolato a meccanismi di trasferimento della spesa pubblica in via di assottigliamento”.  

 

Non riuscendo lo Stato ad affrontare questi nodi strutturali del modello, solo in Italia, rispetto ad altre esperienze europee,

ogni 3 anni si è preteso di cambiar nome, tipologia e finalità dell’intervento pubblico con la chiusura e la riapertura di Ministeri e Agenzie,  

 

oscillando tra audaci sperimentazioni di funzioni e di poteri che però non sono riusciti a sradicare il pervicace “gattopardismo” diffuso negli apparati burocratici. Hic Rhodus, hic salta! A 160 anni dall’Unità d’Italia, 25 dopo l’abolizione dell’intervento straordinario e della Cassa per il Mezzogiorno, 50 anni dopo l’entrata in funzione delle Regioni e dopo 10 anni di esaltazione acritica della riforma federalista (legge 42/2009) non si riesce ancora a correggere le visioni contrapposte tra le pretese dell’ egoismo “nordista” di riservare per quei territori ingenti risorse e l’autoisolamento che il Mezzogiorno stesso si è inflitto, incapace di debellare il degrado istituzionale, la gestione clientelare dei fondi pubblici e le incursioni del poteri mafiosi in tutti i gangli dello sviluppo economico.

A questo punto un interrogativo è d’obbligo: come è plausibile stoppare 

lo stucchevole conflitto tra Nordisti e Suddisti, in breve tra gli epigoni 

del “Sacco del Nord” e i cantori dello “Scippo del Sud? 

 

Per intanto Svimez si è recata in Parlamento a documentare che le pretese di alcune Regioni del Nord di trattenere per sé il cd. residuo fiscale era non solo culturalmente, ma anche tecnicamente infondato (audizione Commissione Finanze, Camera dei Deputati, 10/12/2019). Le Regioni meridionali finora hanno solo balbettato; Governo e Parlamento si trovano in questi giorni impelagati a dirimere un contenzioso non facile, per correggere, con le proprie funzioni d’indirizzo e di controllo, i guasti indotti sia dal potere centrale che dalle classi dirigenti meridionali.  

 

Il Rapporto Svimez quest’anno, esaminando i costi enormi del divario italiano, insiste segnatamente sul bisogno di strategie di sviluppo che sappiano competere a livello internazionale.

 

E indica tra le priorità almeno due proposte strategiche che attengono 

alla dotazione di nuove infrastrutture materiali e immateriali, 

per rafforzare l’armatura urbana e per connettere in rete 

le tante competenze giovanili. 

 

Il Sud diventa così l’emblema dell’Italia che può innovare, se si considerano le potenzialità incommensurabili delle condizioni logistiche e territoriali, innanzi nell’utilizzo pieno dei grandi porti, da Gioia Tauro a Napoli a Taranto, a Palermo  che consentirebbero al Sud di essere davvero utile anche al Nord e all’Italia, di essere preziosa cerniera tra l’Europa ed il Mediterraneo.

Il Bel Paese dunque non può indugiare oltre in politiche di corto respiro, 

 

deve saper debellare l’arroganza della mafia, ed anche la complice vischiosità di qui settori della pubblica amministrazione che hanno messo a dura prova la voglia di tanti giovani di vivere e lavorare nelle città meridionali. 

 

Solo così forse sarà possibile risvegliare davvero l’anima del Sud e suscitare fiducia tra le forze più innovative.  

 

Quella fiducia che va trasmessa ai giovani – ha ricordato tuttora il Presidente Mattarella “ai quali viene sovente chiesta responsabilità, ma a cui dobbiamo al contempo affidare responsabilità”.   

 

E’ questo un aspetto di evidente rilievo! La rivendicazione di un ruolo da protagonisti scaturisce proprio da una recente indagine Svimez su un campione significativo di circa 400 allievi che studiano nelle tre università della Calabria. La risposta prevalente e perciò confortante è che

 

essi non vogliono scappare; sono pronti anzi a misurarsi, producendo idee 

per lo sviluppo, cooperando tra loro per delineare 

una vera e propria “Rete dei giovani talenti”.  

 

Una struttura cioè che, attraverso l’uso delle nuove tecnologie, sappia fare leva su tutto ciò che di positivo riescono ad esprimere adesso le università meridionali.  

 

Potrà essere una novità di assoluto rilievo, se finalmente Parlamento, Governo e Regioni decideranno di concentrare, per alcuni anni, ingenti risorse, indirizzando così un uso più virtuoso di fondi europei e nazionali. 

 

La rivista Myrrha saprà approfondire questo confronto e già altri commenti in questo numero cominciano a riflettere efficacemente sull’esodo devastante dei giovani e sull’impellente necessità della tutela dell’ambiente. Io concludo con una solo interrogativo a proposito di giovani, formazione e innovazione. L’anno 2020 si apre proprio con la istituzione di un nuovo Ministero per Università, ricerca, alta formazione; e un Ministero certo da solo non può bastare!

Può comunque indicare la direzione di marcia per una incisiva
competizione italiana, culturale e civile, a livello europeo? 

 

 

 

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