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1656. LA PESTE CHE «DESOLÒ» NAPOLI di Tommaso Russo – Numero 18 – Settembre-Ottobre 2020

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1656. LA PESTE che «DESOLÒ» NAPOLI

 

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Breve nota introduttiva   

 

Il libro di Salvatore De Renzi – “Napoli nell’anno 1656” – è un importante crocevia in cui confluiscono vicende legate a un momento particolare della storia del Mezzogiorno vicereale: la peste del 1656. Il volume contiene le risposte della comunità napoletana aggredita da una destrutturante pandemia nei suoi legami più profondi e nelle dinamiche demografiche.   

 

Nel ricostruirne l’andamento e nel documentare le decisioni prese dalle autorità politiche e religiose, l’autore sembra invitare i lettori di tutti i tempi a tentare un confronto. Per quanto possa sembrare assurdo e inverosimile questo suggerimento del grande patologo napoletano, esso ha dalla sua il fascino della lunga durata con l’obbligo della cautela e della prudenza per non creare un artificioso clima di similitudini, di differenze e tener conto delle novità.

 

Napoli e il Mezzogiorno vicereale

 

La pace di Cateau-Cambresis (1559) tra Francia e Spagna consacrò il dominio di questa in Italia. Los Rejnos: ducato di Milano, Genova, Sicilia, Sardegna, Stato dei Presìdi (Talamone, Orbetello…) e il Mezzogiorno entrarono a far parte del multietnico e sovranazionale impero spagnolo come sentinelle nel Mediterraneo.

 

Al Sud venne affidato anche il compito di fare da polmone finanziario 

nei conflitti in cui era impegnata la Spagna.

 

Ne è prova la decisione, presa nell’ultimo decennio della guerra dei Trent’anni, di raccogliere 8.075.965 ducati per “la difesa et conservatione dell’Istato di Milano”.   

 

In politica interna vennero aggrumandosi nodi ancora oggi oggetto di querelles storiografiche. Si tratta del significato da attribuire alla nascita della Nazione e dello Stato napoletani, al rapporto tra questo e il baronaggio e tra entrambi con la montante borghesia, al peso di Napoli rispetto alle province, al ruolo degli intellettuali, del ceto dei togati, dei forensi e delle gerarchie ecclesiastiche. A tal proposito 

nessuno studioso crede che i decreti applicativi del Concilio di Trento trovassero 

nel Mezzogiorno l’identica accettazione avuta nel Centro-Nord.


Altre cose accaddero. Si pensi solo alle chiese ricettizie. Certo ci furono le folle fanatizzate dal clero contro gli eretici ma si ebbero anche significative manifestazioni di segno diverso. E’ il caso di ricordare il lascito visionario, presso i ceti subalterni, della predicazione di Gioacchino da Fiore o la campanelliana «Città del Sole», cioè “il sogno di una società ordinata su basi comunistico-ascetiche sotto la guida tecnica, religiosa e politica di un sacerdozio iniziatico di sapienti”, come ebbe a scrivere Giorgio Spini.   

 

Profeti solitari, imbonitori, ciurmatori, picari, girarono le contrade meridionali che, in molti casi, si aprirono alla predicazione di movimenti ereticali organizzati come l’Eresia dei Fraticelli che a partire dal XIV sec. si diffuse in Abruzzo, Basilicata e Puglia.   

 

È il caso di ricordare l’insediamento dei calabro-valdesi in Val di Crati e l’esito terribile a cui andarono incontro. Nel 1561 per ordine del Viceré e dell’Arcivescovo di Napoli furono massacrati, squartati, impalati dai soldati del principe Spinelli.   

 

Sorte diversa toccò invece al cenacolo di Juan de Valdés giunto a Napoli nel 1534 e ivi morto nel 1541.Riunì intorno a sé la parte più colta e sensibile della nobiltà napoletana: Galeazzo Caracciolo, emigrato poi nella calvinista Ginevra, Marco Antonio Flaminio, le principesse Isabella Bertagna, Caterina Cybo, Giulia Gonzaga, vera animatrice del salotto, solo per fare dei nomi.

 

Nobiltà, borghesia, plebe urbana insieme respinsero per ben due volte il tentativo 

di introdurre in Napoli la pericolosa Inquisizione sul modello spagnolo.

 

Per le questioni religiose era sufficiente il Tribunale diocesano al cui interno i Domenicani si mostrarono i più spietati, come avvenne per due episodi. Nel 1577 posero fine agli scandali del Monastero di Sant’Arcangelo a Bajano, “abolito per le immoralità che vi si commettevano”. Ai primi del ‘600 soppressero la Congregazione “della carità carnale”, un misto di sensualismo e misticismo, fondata da suor Giulia De Marco e da padre Aniello Arciero.   

 

Tra l’Accademia degli Oziosi e quella di Medinaceli furono gli Investiganti, con Tommaso Cornelio, a battersi per ridimensionare il peso della Scolastica, per sviluppare l’eredità del naturalismo rinascimentale, per difendere la libertas philosophandi.

 

Accanto a questa modernità meridionale occorre aggiungere che il ‘600 europeo 

e italiano fu il secolo delle crisi e delle paure che si manifestarono su piani intrecciati.

Basti ricordare il seguito di violenze di ogni specie che accompagnò il passaggio degli eserciti mercenari impegnati nella guerra dei Trent’anni. Il costo di quell’ennesimo conflitto innescò una profonda crisi sociale, finanziaria, demografica, che si manifestò anche con sollevazioni e rivolte. Se ne ricordano alcune: quella dei contadini e dei mietitori della Catalogna (1640); Masaniello (1647); quella del cosacco Sten’ka Razin contro i boiardi russi (1670).   

 

Diversi furono i piani di proiezione delle paure e differenti le cause. Le guerre viaggiavano allora con le carestie, le pandemie, i saccheggi. La paura in questi casi afferrava i singoli, i villaggi, i paesi, le province in un crescendo di panico collettivo che destabilizzava le comunità colpite. La peste del 1656 fu un evento destrutturante al pari dei “tremuoti” che scuotevano le province meridionali.

   

«Napole scontraffatta dapò la peste»

 

Il libro di De Renzi (1800-1872), costruito con documenti d’epoca, è diviso in tre parti: eziologia del morbo; raccolta delle ordinanze emanate dal Regio Consiglio Collaterale (l’organo politico che governava il Viceregno); quadri di cronache locali. Numerosi sono i temi affrontati: la paura come sentimento diffuso nelle società di antico regime; l’immaginario collettivo, l’ignoranza scientifica sui mezzi per intervenire. De Renzi osserva tutto ciò con l’occhio dello storico della medicina, del patologo laico e deista, dell’indagatore attento al costume sociale e al peso che in esso avevano religione, magia, credenze popolari, superstizione, bisogni elementari di sopravvivenza.

 

«La peste barocca» giunse a Napoli dalla Sardegna nei primi mesi del 1656.


Nell’isola, importante anello di congiunzione militare e commerciale tra Spagna e Napoli, era arrivata con navi provenienti da Valenza dove era giunta da Algeri fin dal 1647 per diffondersi in altre regioni iberiche. Soldati e merci sbarcati a Napoli tra dicembre ’55 e gennaio ’56 furono il veicolo di contagio.

 

Nonostante i sintomi tipici della peste bubbonica, le autorità politiche 

e religiose decisero di non creare allarmismi.

 

Ben presto però si ebbe “gran numero di morte subitanee” nei quartieri popolari e ad alta densità abitativa. Due medici compresero la natura del morbo.  

 

Gerolamo Gatta intuì che si trattava di peste bubbonica,

 

come pure che alle autorità non interessava molto conoscere la verità per non turbare le attività economiche e l’ordine pubblico. Così tacque e se ne tornò al suo paese.

 

Giuseppe Bozzuto “un buon medico di quelli del popolo del Mercato”, 

a chi gli chiedeva della diffusione del morbo ricostruiva la catena del contagio:

“…si muore improvvisamente ma dopo la morte nell’Ospedale dell’Annunziata di una persona venuta di Sardegna” e via esemplificando. A quanti sostenevano la tesi dell’ira di Dio, Bozzuto rispondeva con calma: “…vi vedete la successione, la vicinanza, il contatto?” Il suo comportamento non piacque per cui fu tradotto nelle carceri della Vicaria. A fronte dell’evidenza, però, venne liberato dopo qualche mese. Riprese il suo apostolato tra le plebi urbane e morì di peste. Oltre 40 furono i medici che persero la vita.   

L’invito a ragionare non ebbe proseliti. 

 

La tacita intesa tra Viceré e Chiesa fece del castigo divino 

un potente atto di accusa politica al popolo.

 

La colpa divenne “aver osato commettere l’imperdonabile delitto di rivoltarsi contro il Re cattolico”, nel luglio del 1647, quando Masaniello guidò l’assalto al gabbiotto delle tasse al grido di “leva la gabella”, diffondendo la rivolta nel Mezzogiorno. Dunque, pur a distanza di anni, Dio non aveva dimenticato e la sua punizione arrivò inesorabile. Era questo il messaggio che doveva depositarsi nell’immaginario dei ceti subalterni: alle rivolte sociali non poteva far seguito che una pena divina.

 

L’insistenza sul divino comportò l’intensificarsi di penitenze, messe, processioni 

che “allargano vieppiù il contagio sull’affollata moltitudine”.

 

Si scatenò, altresì, fra i vari ordini religiosi (per es. Teatini contro Gesuiti) una competizione su chi avesse maggior potere di intercessione presso Dio per placare la sua ira, far scomparire il morbo, per presentarsi agli occhi dei fedeli come interlocutore forte e affidabile.

 

Al divino si affiancò la tesi complottista:

 

“Nel qual tempo insorse una voce che alcune persone andavano seminando e spargendo polveri velenose”. In piazza Mercato una vecchia che cercava l’elemosina divenne il capro espiatorio di “dette polvere” e venne uccisa “in detto loco”.   

 

Saracche e baccalà individuate come veicolo di trasmissione furono gettate in mare. Cani e gatti vennero sterminati. Spostati in conventi fuori Napoli si salvarono solo i porcellini di Sant’Antonio.

 

Tra maggio e agosto la peste toccò vette altissime. Solo allora 

il Collaterale ordinò drastiche misure di isolamento:


i contagiati nei quartieri popolari venivano chiusi in casa se non si riusciva a portarli in ospedale. Trasportati su sedie o su carri i cadaveri, raccolti dalle strade, mischiati con gli agonizzanti venivano gettati in fosse comuni e ricoperti di calce viva. Fu Micco Spadaro, più di altri pittori coevi, a restituire quelle scene di orrore urbano nel famoso dipinto: “Piazza Mercatello a Napoli durante la peste del 1656”.   

 

Furono vietati gli spostamenti da Napoli verso tutte le province e gli altri Stati e viceversa. 

 

Potevano circolare solo i pochi forniti di “bolletta della salute”.

 

Il ritardo nel predisporre misure di contenimento è da ascriversi alla paura, al panico in cui caddero le autorità di fronte alla virulenza del morbo. Ci sono anche altre ragioni che spiegano il loro indugio: la necessità di non turbare i traffici per mare e per terra tra Napoli le sue province e gli altri porti del Mediterraneo; la subalternità culturale all’Arcidiocesi che subito si impossessò politicamente della pandemia per farne un cavallo di battaglia del suo piano di disciplinamento sociale e religioso.

 

È il caso di ricordare alcune ordinanze che danno il termometro di quei mesi. 

Il Collaterale ordinò l’impiego di molti rimedi

 

di cui se ne offre un campionario parziale: profumare le case “con fumo di rosmarino, bacche di lauro, di ginepro, incenso e simili”, usare “acqua teriacale”, e “pillole di Rufo contro la peste”; preparare una “mistura di fichi secchi, ruta, noce e sale”, e un intruglio di “aceto (…) con solfo, ruta aglio garofali zafferano e noci, l’uso del quale è bagnarci una fetta di pane”. A tutto ciò venne affidato un compito curativo e preventivo che però dimostra solo quanto fosse lungo il passaggio dall’alchimia alla chimica, dalla magia alla medicina.

 

Si decise della quarantena con ordinanza del 12 giugno 1656, mentre 

la libera circolazione fu autorizzata il 25 febbraio 1657.

L’11 ottobre 1657 venne ordinato “concedersi alle dette Università [così allora si chiamavano i Comuni], che hanno patito il contagio sospensione, per insino ad altro ordine, di quanto per esse si dee così alla Regia Corte, come a’ Consegnatarii”. In altri termini veniva 

 

sospesa la fiscalità

 

dalle province alla capitale.   

 

L’anno successivo il 19 giugno, per il forte aumento dei prezzi, 

 

si vietò la vendita di “dette mentovate robbe a maggior prezzo di quello 

che si vendevano prima del passato contagio”

 

con multe fino a 1000 ducati “et altre pene corporali”. A settembre vennero

 

bloccati i salari

 

di “Potatori, Vendemmiatori Zappatori” a prima del contagio. Pena: tre anni di carcere agli uomini e “frusta alle femine”. Sono, come si vede, provvedimenti antinflazione.   

 

La peste andò scemando a Napoli verso dicembre, focolai restavano in Abruzzo Citra, Basilicata, Capitanata, Calabria Ultra, Terra di Lavoro. Alla paura si sommarono incertezze sociali ed economiche. Nelle province si ebbe una recrudescenza del banditismo sociale e dei rapimenti a scopo di riscatto.

 

La riapertura totale dei traffici e commerci avrebbe dovuto rimettere 

in piedi il precedente circuito. Non fu così.

 

Lo  documenta  De  Renzi  che  fra  i  tanti  indicatori  scelti  per  calcolare  il  numero  dei morti a Napoli utilizza quello delle scorte alimentari:  grano,  vino,  olio,  farina, pane, carne salata e fresca. Il consumo urbano  egli dice  “si ridusse  a  proporzioni  infinitesime di quel che era avanti la peste”.  Vale a dire una caduta dei consumi quasi verticale a causa del tracollo demografico. 

 

A Napoli morirono tra 200 e 250mila persone.

 

Considerando un’arcata temporale tra il 1648 e il 1669 la popolazione delle province passò da circa 2.501.015 a 1.973.605 abitanti circa.   Si può infine dire che l’impatto del “pestifero morbo” nella stratigrafia della memoria collettiva fu duraturo e profondo.

 

 

 

 

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