IL BRIGANTAGGIO MERIDIONALE di Agostino Picicco – Numero 19 – Dicembre 2020 gennaio 2020

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IL BRIGANTAGGIO MERIDIONALE

 

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Al di là dei favoleggiati tesori nascosti dai briganti in antiche torri, le cui storie avventurose e romantiche si raccontano ancora oggi, magari con meno fascino di un tempo,

il fenomeno del brigantaggio meridionale postunitario è progressivamente 

disvelato nei suoi aspetti più prosaici.


Contribuisce a quest’opera di verità la recente pubblicazione dello studioso Valentino Romano, autore di vari volumi sul tema, con particolare attenzione alle radici sociali del fenomeno. Nel volume “Un popolo alla sbarra” (Secop Edizioni), Romano porta alla luce

gli atti processuali relativi alla lotta al brigantaggio attuata 

dal Generale marchese Emilio Pallavicini, 


inviato a debellare definitivamente il fenomeno, con poteri speciali rispetto alla giustizia e ai compiti di polizia ordinari.  

Il Generale è già noto alla storia perché il 29 agosto 1862 aveva guidato la colonna che all’Aspromonte aveva fermato la spedizione che Garibaldi conduceva dalla Sicilia per la conquista di Roma e aveva ordinato l’attacco durante il quale lo stesso Garibaldi fu ferito. Superata la resistenza opposta dai volontari garibaldini,

Pallavicini ottenne la resa di Garibaldi.


Tra il 1863 ed il 1864, riuscì a sgominare le bande dei briganti, facendo pagare un grande prezzo in vite umane. Pallavicini e la sua “Colonna Mobile”, comprendente vari reparti dell’Esercito,

fu infatti inviato dallo Stato a sedare le rivolte,


settore in cui era militarmente esperto, e lo fece in modo spregiudicato pur di raggiungere gli obiettivi che si era posto, senza tenere conto del valore della vita umana e delle istanze sociali del popolo. E così riuscì a sconfiggere e distruggere nella zona murgiana della Puglia le bande di Ninco Nanco, Carmine Crocco, Ciucciariello (Riccardo Colasuonno). Ecco allora che –

esaminando le carte dell’epoca – emergono i tanti casi di briganti fucilati 

durante i trasferimenti, mentre tentano la fuga 

(così dicono i rapporti della scorta), 

e non si tratta di casi isolati.


É fondato il sospetto che si tratti di un modo per liberarsi di loro evitando pastoie burocratiche e procedure garantiste.  

Il libro di Romano rivela, grazie all’esame dei documenti processuali e di polizia, tutta una casistica, anche umana, con storie di paese, drammatiche e talvolta ironiche, di un mondo di povertà in cui si incontrano soldati, grassatori, manutengoli, pubblici amministratori che facevano a “scaricabarile” delle loro incombenze. 

Il brigantaggio, che è sempre tema attuale di studio, diventa la feritoia per esaminare la storia post unitaria, al di là degli stereotipi e delle posizioni ideologiche.  

L’esame approfondito delle sentenze, proposto dall’autore, denuncia il pressapochismo spesso doloso della giustizia militare, in qualche caso rimediato dalla magistratura ordinaria.

Essere parenti di un brigante era in sé una colpa, lo stesso incrociare per caso

i briganti per strada, portare una pagnotta in più in tasca (fosse anche per i figli) 

voleva dire voler rifornire di viveri i briganti.


Tante ingiustizie furono evitate, a prezzo di discredito e di numerosi mesi in carcere, che non prevedevano risarcimenti di alcun genere. 

Il contesto è quello di una società poverissima, dove non lavorare un giorno voleva dire la fame per la famiglia, e dove il furto in fattoria, da parte dei briganti, di un mulo o di un maiale, il primo come strumento di lavoro e il secondo come mezzo di sostentamento, era un danno gravissimo. Quanto descritto nel libro di Romano ci restituisce

una realtà complessa ancora da studiare e interpretare bene, 


perché non si è ancora trovata la verità. E il contributo dell’autore va proprio in questa direzione

 

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IL FIGLIO DEL SUD E LA CULTURA AL POTERE di Gianluca Anglana – Numero 19 – Dicembre 2020 gennaio 2021

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IL FIGLIO DEL SUD E LA CULTURA AL POTERE

 

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dell’incoronazione di Federico II di Svevia imperatore: la sua consacrazione avvenne a Roma, per mano di papa Onorio III, il 22 novembre 1220.

Sono passati ottocento anni da allora. Eppure,

il fascino e il carisma di questo monarca sembrano sopravvivere 

allo scorrere del tempo.


L’Italia contemporanea gli è per varie ragioni debitrice. Il patrimonio artistico, moltiplicatosi grazie ai poderosi investimenti di Federico nel settore dell’edilizia regia, è composto di una fitta rete di residenze e fortezze: di esse l’emblema più noto è senza dubbio Castel del Monte, simbolo della maestà che si autoproclama assoluta, gigantesco diadema ottagonale apposto dal sovrano sull’amata Puglia, a ratifica del proprio imperio e sigillo di un’unione quasi sponsale.

Lo sforzo finanziario nell’architettura e l’ideologia ghibellina della Corte sveva 

diedero impulso a un’insigne generazione di artisti


e linfa a una delle due correnti interpretative in cui, nel corso del Duecento, venne a declinarsi la scultura italiana: la riscoperta, tutta meridionale e in chiave filoimperiale, di linguaggi espressivi attinti alla romanità classica, in alternativa al naturalismo di matrice padana. In questo clima culturale eccelse Nichola de Apulia, passato alla storia come Nicola Pisano: acclamato dai contemporanei come le archistar dei giorni nostri, fu autore di capolavori che tuttora impreziosiscono chiese e piazze dell’Italia centrosettentrionale.

Per Federico, la cultura era un tramite con cui esercitare la propria autorità: 


il recupero della classicità era funzionale alla propaganda imperiale, l’istituzione a Napoli, nel 1224, della prima università statale d’Europa era finalizzata alla formazione e all’impiego di giuristi al servizio della Corona. Ma la cultura era anche uno spazio di dignità affiancato al potere: Federico implementò l’autorevolezza della scienza, potenziando la scuola di medicina di Salerno, e incoraggiò la produzione lirica della poesia volgare di cui Palermo divenne centro propulsore. 

Lui stesso compose versi. 

Il suo celeberrimo trattato, De arte venandi cum avibus, dedicato alla caccia praticata con l’utilizzo di rapaci, è tanto una delle maggiori testimonianze scientifiche del Medioevo quanto la spia della vivida curiosità dell’autore per le scienze naturali.

Il sapere, da cui Federico fu forgiato, era per definizione privo di confini; 

la sua Sicilia un microcosmo fertile di contaminazioni, un luogo insolito 

in cui convivevano greci, ebrei, musulmani e cristiani.


Egli crebbe all’insegna delle diversità: se dai cinque ai sette anni ebbe come tutore il frate Guglielmo Francesco che lo avviò all’apprendimento del latino e all’educazione cristiana, dai sette ai dodici anni fu affidato alla guida di un imam musulmano, venendo così in contatto con riti, costumi e religione islamici. Federico parlava arabo, greco, provenzale, siciliano e latino, tutti idiomi di latitudine meridionale: das Kind aus Apulien, il fanciullo di Puglia, seppur di stirpe autenticamente germanica, necessitava di un interprete per il tedesco[1].

Affascinato dall’Oriente, fece di Lucera una medina araba adorna di moschee 

ed echeggiante delle voci dei muezzin, 


concentrandovi i saraceni prelevati dalla Sicilia (costoro sarebbero divenuti un corpo scelto della guardia dell’imperatore, garantendogli una fedeltà incondizionata). 

Fu grazie alla sua formazione poliedrica e alla sua tolleranza che, in età matura, Federico poté intessere

 

scambi epistolari con dotti islamici


e che, in occasione della sesta crociata,

riuscì a riconquistare la Terrasanta con il solo ricorso alla diplomazia,


quando altri avrebbero di gran lunga preferito uno spargimento di sangue come si deve e lo sterminio degli infedeli.

Il sovrano svevo amò circondarsi di intellettuali, che ospitò a corte


(come nel caso di Michele Scoto, Teodoro di Antiochia, Ibn Sab’in, Jakob Ben Abamari) o da cui si recò in visita (come nel caso del matematico toscano Leonardo Fibonacci, che incontrò a Pisa nel 1226).

I giureconsulti furono spesso precettati


sia nella progettazione di riforme di rilevanza capitale (come le Costituzioni di Melfi del 1231) sia nella gestione sul territorio delle concessioni imperiali (se è vero che Federico fu incapace di comprendere le istanze delle autonomie comunali italiane, è altrettanto vero che, nelle province più settentrionali dell’impero, fece scelte che avrebbero avuto conseguenze a lungo termine: ad esempio, l’elevazione di Lubecca a “città di immediatezza imperiale” avrebbe creato un modello per altri centri urbani e posto le basi per l’affermazione, nei secoli successivi, della Lega Anseatica). Gli intellettuali dovevano essere quanto più possibile prossimi al baricentro del potere, cioè al trono.   

 

Federico fece largo uso della guerra per difendere il prestigio imperiale e si armò anche della cultura, ma

perse nella lotta con i papi che lo scomunicarono per ben tre volte


e gli lanciarono contro interdetti e una battente campagna di discredito, fino al punto di trasformare in Anticristo colui che tempo prima era ribattezzato Filius Ecclesiae o celebrato come Meraviglia del Mondo. 

Egli finì per soccombere, forse anche perché precorse i tempi, non ancora maturi per figure di prìncipi inclini alle arti o bulimici di erudizione.

Federico era persuaso che è sterile la vita di chi resti lontano 

dall’astro della conoscenza. 


Ottocento anni dopo, in un’era in cui le ragioni della cultura sono spesso sacrificate ad altre rivendicazioni, in cui si diffida delle scienze, in cui l’avversione al sapere può persino diventare un vessillo, è forse questo il lascito più significativo dell’imperatore che fu il Figlio del Sud.

 

 

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 [1] Teresa Sardella, Federico II tra impero, papato e aristocrazie, in Federico II e il suo tempo, Edizioni di storia e studi sociali, 2016, p. 16.

 

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L’ISOLOTTO ASINELLI NELL’ENEIDE – Gemme del Sud – Numero 19 – Dicembre 2020 gennaio 2021

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L’ISOLOTTO ASINELLI NELL’ENEIDE

 

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Asinelli

 

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Di fronte alla frazione di Pizzolungo, alle porte di Trapani si trova il piccolo isolotto Asinelli. Il suo nome si deve alle sue rocce appuntite che sembravano le “lesine” dei calzolai. Da lì isola “Lesinelle”, trasformata poi nell’attuale isola Asinelli. 

Immersa in un mare cristallino, è stata nel passato base di appoggio delle reti della tonnara di Bonagia, oggi accoglie un fanale e un traliccio segnalatore per i naviganti alimentato a pannelli solari, nonché è meta di numerosi sub alla ricerca delle meraviglie marine circostanti.

 

Durante la Seconda Guerra Mondiale l’isolotto veniva spesso bombardato 

perché scambiato per un sommergibile dall’aviazione alleata. 

Infatti il suo soprannome è “isola sommergibile”.


Nel V libro dell’Eneide, Virgilio ha così descritto Asinelli: “V’è lontano nel mare uno scoglio di fronte alle rive schiumose, che spesso sommerso i gonfi flutti percuotono, quando il maestrale d’inverno nasconde le stelle; nella bonaccia tace, e si erge sull’onda immota, superficie e dimora gratissima agli smerghi amanti del sole”.   

 

Le numerose descrizioni virgiliane hanno dato vita a varie ipotesi sulla morte e tumulazione di Anchise, padre di Enea.

Secondo la storiografia, fu proprio a Pizzolungo, solo 1 miglio marino dall’isolotto, 

che approdò Enea dopo la morte di Anchise.


Lo storico siciliano Giuseppe Castronovo, riprende la tradizione virgiliana della morte di Anchise sulle spiagge ericine: «In queste spiagge perdea [Enea] il suo padre Anchise, in queste spiagge gli ergeva il tumulo, in queste spiagge l’onorava di giuochi funebri…» (Memorie storiche di Erice, p. 11). Alle porte della frazione, è presente la famosa “stele di Anchise” eretta nel 1930. 

 

Dall’isolotto Asinelli si vedono, partendo da sinistra, lo splendido monte Cofano, un gioiello di rara bellezza a picco sul mare, la tonnara e il golfo di Bonagia e, di fronte, la frazione marittima di Pizzolungo sovrastata dal monte Erice. 

 

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IL PULO DI MOLFETTA – Gemme del Sud – Numero 19 – Dicembre 2020 gennaio 2021

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IL PULO  DI MOLFETTA

 

Gemme del Sud

Molfetta

 

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Uno dei più rilevanti monumenti naturali che si trovano nell’area costiera a nord di Bari è il Pulo di Molfetta, situato a circa due chilometri dalla città da cui prende il nome. 

“Pulo” è il termine che nell’area murgiana si utilizza per indicare la dolina, cioè 

 

una cavità formatasi per la dissoluzione della roccia calcarea 

ad opera dello scorrere di acque superficiali,


esempio tipico del fenomeno del carsismo, che interessa tutta la Puglia.  

Il Pulo di Molfetta è una vasta voragine di forma ovoidale e profonda 30 metri, creatasi in seguito al crollo della volta di numerose cavità sotterranee, con pareti a strapiombo, 

all’interno delle quali si aprono molteplici grotte su differenti altezze 

e comunicanti tra loro.


La più spettacolare fra tali grotte è quella, con sviluppo su tre livelli, detta “del Pilastro”, dal pilastro calcareo presente sull’ultimo livello. 

Il cedimento della volta sembrerebbe risali+re all’epoca del Neolitico, come si deduce dagli importanti reperti archeologici ritrovati nella zona, che testimoniano anche la presenza di comunità che vivevano nei pressi della dolina. All’epoca in quell’area scorreva copiosamente l’acqua, responsabile dell’erosione della roccia e del conseguente crollo. 

Sul lato occidentale della voragine, in una posizione elevata dalla quale la si osserva molto bene, è di notevole interesse l’ex monastero dei Cappuccini, oggi di proprietà privata, costruito nel 1536 e attivo fino al 1574, successivamente convertito in Lazzaretto.

Verso la fine del Settecento, sul fondo del Pulo, grazie al fatto che le sue grotte 

erano ricche di nitrati, componenti naturali della polvere da sparo, 

i Borboni autorizzarono la realizzazione di una nitriera,


cioè una vera e propria fabbrica per l’estrazione e la lavorazione di tali minerali. Il Pulo è dunque anche un prezioso esempio di archeologia industriale. 

Estremamente importante è inoltre la biodiversità faunistica e botanica, per la presenza di piante sia autoctone, sia introdotte dall’azione umana. 

 

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GRUMENTO NOVA – Gemme del Sud – numero 19 – Dicembre 2020 gennaio 2021

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GRUMENTO NOVA

 

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Grumento Nova

 

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Da Grumentum – antica città romana – a Saponaria fino a Grumento Nova (dal1932), il Borgo conserva numerose testimonianze della sua storia più antica

 

Svetta nella piazza principale il castello Sanseverino,


testimonianza del processodi incastellamento successivo all’abbandono dell’insediamento di epoca romana; le scuderie sono i locali meglio conservati.

Di rilievo la Chiesa Collegiata di Saponara, sorta in epoca altomedievale su preesistenti strutture sacre, riferibili ad un “Tempio di Serapide”.
Da rimarcare la presenza della

 

Biblioteca Nazionale “Carlo Danio”, ospitata all’interno di Palazzo Giliberti,


recentemente restaurata ma risalente al XVI secolo. La biblioteca è una delle più ricche in territorio lucano e consta, tra l’altro, di una collezione di

oltre 2000 volumi antichi, con manoscritti, incunaboli, cinquecentine e seicentine. 

Alcuni esemplari sono stati stampati utilizzando la tecnica di Gutemberg


a caratteri mobili appena un decennio dopo questa invenzione. Il paese può contare anche su due belvederi che affacciano verso est e verso ovest, fornendo una panoramica a 360° sull’intera Val d’Agri.

 

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CLEMENTE SUSINI E LE SUE CERE – Gemme del Sud – Numero 19 – Dicembre 2020 gennaio 2021

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CLEMENTE SUSINI E  LE SUE CERE

 

Gemme del Sud

Cagliari

 

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A Cagliari, nella Cittadella dei Musei, non potete perdere le Cere Anatomiche di Clemente Susini (Firenze 1754-Firenze 1814), che le ha personalmente firmate e che

fanno parte del Patrimonio Scientifico e Tecnologico italiano.


Le 78 cere, che troverete in 23 vetrine in legno di noce e vetro, furono modellate a Firenze (Museo La Specola) dal 1803 al 1805. Il Susini, per realizzare le sue cere ha riprodotto delle vere e proprie dissezioni effettuate dall’Anatomista sardo Francesco Antonio Boi (Olzai 1767 – Cagliari 1855).

Non solo i modelli sono originali, ma la collezione è l’unica, tra quelle 

create a Firenze, a portare la firma di Clemente Susini.


Giunse a Cagliari nel 1806 dopo l’acquisto di Carlo Felice di Savoia Viceré di Sardegna; venne donata, nel 1857, all’Università di Cagliari che la pose sotto la tutela del Professore di Anatomia e numerata con criteri anatomici e numeri romani nel 1963 ad opera di Luigi Cattaneo (1925-1992), allora Direttore dell’Istituto Anatomico cagliaritano.

Le potrete vedere, in esposizione permanente, nella sala pentagonale della Cittadella dei Musei di piazza Arsenale. Buona visita!

 Bacheche anatomiche – Clemente Susini 1798

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NAPOLI VIA DEI GUANTAI NUOVI di Stefania Conti – Numero 19 – Dicenbre 2020 – Gennaio 2021

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arriva a Parigi nel 1625, gli viene sottratta la lettera di presentazione per arruolarsi tra le Guardie del Re da tale con il quale si era battuto a duello.

L’intimazione al duello avveniva sfiorando la guancia dello sfidato con un guanto. 

Quel guanto, con ogni probabilità, era italiano


Anzi, napoletano. In tutta Europa, ma soprattutto in Francia, nel Seicento i guanti erano un accessorio indispensabile per la moda sia per gli uomini che per le donne, e non solo: erano adoperati dalle Guardie del Re, incarico al quale, appunto, d’Artagnan aspirava. 

L’arte della fabbricazione dei guanti a Napoli è antica. Già nel 1600 quelli di pelle arrivavano nelle maggiori corti europee


e così è stato nei secoli successivi, fino agli anni Sessanta del Novecento. Furono i Borbone a voler incentivare la produzione artigianale locale, in particolare quella dell’alta sartoria: dalle raffinatissime sete di San Leucio, la cui fabbrica, voluta da Ferdinando IV, oggi è patrimonio dell’Unesco, per arrivare, con il passare dei secoli, alle pregiatissime cravatte, alle camicie, ai completi da uomo di sapiente taglio. I Borbone fecero diventare la capitale partenopea “capitale della moda”.  E in questo empireo di bellezza c’erano (e ci sono tuttora, anche se in misura estremamente ridotta rispetto al passato) anche i guanti.

Il segreto era nei dettagli, eseguiti con minuziosità e fantasia,


che riuscirono a togliere il primato in tale manifattura alla Francia, fino al 1700 faro cui si guardava per essere à la page.   

 

Le prime botteghe nacquero in una strada che ancora oggi si chiama Via dei Guantai Nuovi (“nuovi” perché ai guantai era già stata intitolata una strada, distrutta però nella Seconda Guerra Mondiale), nel quartiere Sanità, noto per aver dato i natali a Totò.

Nel 1800 vi lavoravano intere famiglie che tagliavano, cucivano, ricamavano la pelle che poi veniva trasformata in guanti ed esportata in tutto il mondo.


A loro volta, queste famiglie davano lavoro anche ad altre persone di quel quartiere o di quelli limitrofi, familiari o conoscenti, e così andava avanti una vera e propria economia di scala. Perché la guanteria aveva anche un ruolo, per così dire, sociale. La miseria era veramente nera e avere un mestiere, anzi, essere abili in un mestiere era una garanzia per tutta la famiglia, anche allargata.  

 

L’arte guantaia riuscì a resistere anche all’arrivo dei Savoia. Le industrie del Regno delle Due Sicilie si trovavano, subito dopo l’Unità d’Italia, in grande difficoltà. L’immediato abbattimento delle barriere doganali messe in atto dal governo borbonico per proteggerle “fu peggiore di un terremoto per quanti erano coinvolti nelle varie attività industriali” (Gustavo Rinaldi, Il Regno delle Due Sicilie: tutta la verità). Ma i guanti no: piacevano anche ai piemontesi. Tanto che

fino al 1930 si contavano ancora ben 25.000 guantai. E negli anni Sessanta 

del secolo scorso un’intera fetta di economia campana viveva della pregiata manifattura: il 90 per cento dell’esportazione italiana dei guanti 

veniva da Napoli. 


Ad abbattere l’attività dei maestri artigiani fu il boom economico. L’Italia si industrializza, le produzioni arrivano in serie, realizzate dalle catene di montaggio, il prezzo si abbassa. Si abbassa ancora di più quando, negli anni Novanta, sul mercato arrivano i cinesi, rendendo praticamente impossibile reggere la concorrenza. E un’arte così pregiata comincia a morire. 

 

Ma non del tutto.

A Napoli ci sono ancora dei guantai.


Non sono molti, ma per resistere alla globalizzazione hanno preso una saggia decisione: specializzarsi nell’altissima gamma della moda, riproponendo lusso, raffinatezza e capacità. Sono napoletani, tanto per fare un esempio, i guanti utilizzati nel famosissimo film Titanic. Sono napoletani molti dei guanti dei più costosi marchi di moda che vediamo nelle vetrine di Parigi o New York.

  

Ancora oggi non c’è nemmeno un passaggio automatizzato


ed il mestiere si tramanda di padre in figlio, perché tutta la famiglia è ancora impegnata in questa preziosa lavorazione. C’è chi pensa al modello, chi lo lavora, chi lo cuce, chi lo rifinisce e chi lo taglia.   

 

Il guanto napoletano nasce dopo ben 25 passaggi, tutti fatti a mano con l’aiuto di macchine da cucire, quasi sempre le vecchie Singer della nonna (c’è una piccola azienda partenopea che è in perenne contatto con una ditta tedesca per la manutenzione della vetusta signora). Le pelli sono scelte con perizia perlopiù dal capofamiglia (o da chi dovrà prenderne le veci) e devono essere pregiatissime e morbidissime. La tintura viene fatta seguendo le regole stabilite dalla normativa internazionale sul controllo della qualità. Il taglio deve essere accuratissimo, perché solo se è ottimo esso garantisce la valorizzazione al meglio del pellame.

Ogni fase richiede controlli di qualità continui, con l’occhio attento 

di chi ha imparato il mestiere da bambino e la capacità 

di sentire al tatto anche la più piccola imperfezione. 


E questa capacità si ottiene solo dopo aver maneggiato pelli per decine di anni.  Anche per tale motivo, oggi non è facile trovare chi possa continuare questa tradizione.   

 

Eppure il distretto dei guanti in Italia fino al 2017 fatturava 50 milioni di euro, l’80 per cento dei quali proveniva da Napoli e dintorni. Sfogliando le Pagine Gialle, infatti, troviamo guantai a Casoria, Arzano, Mugnano, Marano, Calvizzano, San Giorgio a Cremano, Melito. 

Testardi, innamorati del loro mestiere, decisi a continuare un’arte,


proprio come si faceva ai tempi dei Borbone. Forse ha ragione lo scrittore Philip Roth, che in Pastorale americana rende loro omaggio: “Nessuno più taglia i guanti in questo modo… tranne forse in qualche fabbrichetta a gestione familiare di Napoli o Grenoble».

 

 

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NOBILI INTELLETTI PER GLI INTERESSI DEL SUD di Tommaso Russo – Numero 19 – Dicembre 2020 – Gennaio 2021

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NOBILI INTELLETTI PER GLI INTERESSI DEL SUD

  L’ASSOCIAZIONE NAZIONALE PER gLI INTERESSI DEL MEZZOGIORNO D’ITALIA: ANIMI  

 

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Le origini 

 

 

Nel dicembre 1908 un violento terremoto distrusse Messina e Reggio. Si costituirono subito Comitati di solidarietà in molte città d’Italia per far fronte ai danni. Il vicentino Giovanni Malvezzi (1887-1972), componente del board del Credito italiano, vicedirettore dell’IRI, arrestato per partecipazione alla Resistenza, fu uno dei primi manager-filantropi a concretizzare il suo impegno per il Mezzogiorno. All’indomani del sisma, con Umberto Zanotti Bianco (1889-1963) prese a girare l’Aspromonte occidentale per un’inchiesta sui Comuni disastrati. Al termine del lavoro, mentre facevano rientro a casa, nella stazione di Pizzo i due si imbatterono in Padre Giovanni Semeria. Accusato di modernismo e perciò costretto da Pio X ad andare all’estero, il “prestigioso barnabita” li ascoltò attentamente: “Non esaurite la vostra azione con qualche bel racconto;” – disse – “bisogna agire, seriamente agire se volete ottenere qualcosa in questa disgraziata terra”. 

 

Quell’invito, innestandosi sull’entusiasmo di entrambi, avrebbe dato vita, di lì a poco, all’ “unica forza finora organizzata in Italia per il risveglio delle provincie meridionali”, come disse Giustino Fortunato. 

 

Avevano pensato a lui, o a Leopoldo Franchetti, o a Sidney Sonnino come a padri nobili per il loro progetto di “risveglio”. Dopo una prima riunione a Oria di Valsolda, nella villa di Antonio Fogazzaro, e dopo un secondo incontro a Oreno, nella villa del conte Fulco Tommaso Gallarati Scotti, Malvezzi, Zanotti Bianco, il nobile lombardo e altri partecipanti individuarono in Franchetti la persona adatta per quello scopo. Andarono a trovarlo a Firenze, a Villa Wolkonsky. Dopo un’appassionata discussione, accettò di essere il primo presidente effettivo dell’Associazione.

 

Il 9 marzo 1910, in Senato, presidente onorario Pasquale Villari, Franchetti 

e vice Luigi Bodio (il padre della statistica italiana), si costituiva l’ANIMI. 

 

Nel quinquennio 1910-1915 tra i primi finanziatori si ricordano alcuni ministeri (Interno, Pubblica Istruzione, Grazia e Giustizia, Tesoro) e tre istituti bancari (Bankitalia, Banco di Napoli, Cassa di Risparmio di Torino). Dal 1918 Bonaldo Stringher con l’industriale milanese Ettore Rusconi formerà la coppia di vicepresidenti.   

 

Dopo il 1918 si amplia il fronte dei finanziatori. Accanto a Banca Commerciale 

e Banco Italiano di Sconto si collocano numerose industrie, 

 

fra cui Ansaldo, Breda, Ilva, Ferriere Piemontesi, Pirelli. Nel secondo dopoguerra la platea si allarga ancor più: Banco di Santo Spirito, MPS, Credit e poi tante imprese, fra cui: Chatillon, IBM, Istituto Romano di Beni Stabili, Montecatini.  Il governatore Donato Menichella era il vice di Ivanoe Bonomi. 

 

La costruzione della fitta rete di finanziamenti, di rapporti sociali e istituzionali va attribuita senz’altro a Zanotti Bianco, che la tenne in vita anche in momenti difficili.  

 

In giro con l’ANIMI per il Mezzogiorno 

 

A favorire la realizzazione dei progetti ANIMI, di cui qui se ne offre una sintesi, fu l’idea che solo la divulgazione dei saperi e delle conoscenze applicate alla vita e al lavoro quotidiani potesse sollevare le sorti del Sud.     

 

In mezzo secolo (1910-1960) furono creati asili infantili, scuole diurne, serali 

e festive, biblioteche, ricreatori, cicli di conferenze dalla storia del Risorgimento 

alla necessità dell’igiene individuale e collettiva negli asili e nelle scuole. 

Vennero organizzati a Gerace e a Taranto corsi di formazione per maestri sui temi dell’igiene scolastica e domestica, su tracoma, malaria, Tbc, alcolismo. Nel 1912-1913 a Taranto venne aperta una scuola di disegno per gli operai dell’Arsenale. Visto il successo, se ne aprì a Reggio una di arte applicata all’industria. 

 

Nell’asilo infantile di Melicuccà furono selezionate “le prime maestre laiche con patente per scuole materne” e conoscenza del metodo Montessori. Altri asili, nel 1920, vennero aperti in Calabria, Campania e Puglia. Nel primo anno di vita si aprirono biblioteche a Bernalda, Castrovillari, Lauria, Metaponto, Palmi, Reggio, Roccella, Taranto e Villa San Giovanni.    

 

Furono costituite cooperative di pescatori, istituite “cattedre ambulanti 

per la previdenza e la mutualità”, istituti diagnostici “per le malattie 

del sangue, del petto, dello stomaco, nervose”. 

 

Il terremoto del 1914 nella Sicilia occidentale e quello del 1915 nella Marsica videro l’ANIMI impegnata con tutti i suoi mezzi e risorse.Alla fine del conflitto si costruirono in Calabria laboratori di tessitura e scuole di taglio e cucito per ragazze. 

 

Durante il fascismo la realizzazione dei progetti si fece complicata a causa dell’autonomia che l’ANIMI volle sempre conservare. Tuttavia continuò, per esempio, l’apertura di biblioteche dell’Associazione che via via si fusero con le popolari, dando vita “a biblioteche di cultura con comuni sale di studio”.  

 

Con la Collezione di studi meridionali passata da Vallecchi a Lacaita, con la pubblicazione annuale dell’Archivio storico per la Calabria e Lucania, con la Società Magna Grecia e col suo periodico Atti e Memorie della Magna Grecia, con la Biblioteca Giustino Fortunato, la più specializzata sui temi del meridionalismo con i suoi quarantamila volumi,

 

l’ANIMI oggi può essere considerata un prestigioso centro 

di ricerche e studi sul Mezzogiorno. 

Nota finale 

 

Mette conto sottolineare che l’ANIMI nasce negli anni centrali dell’età liberale, del riformismo giolittiano e si avvale del clima di entusiasmo e ottimismo che pervadeva quel decennio.  

  

Chi furono i protagonisti di quell’avventura e quali 

le ragioni che la resero importante?

 

Agli incontri nelle ville parteciparono esponenti di quel cattolicesimo tormentato ma aperto al nuovo (Fogazzaro), desideroso di misurarsi dal di dentro con l’eresia del Novecento: il modernismo. Infatti Antonio Aiace Alfieri (primo direttore in Calabria seguito da Alessandro Marcucci), Alessandro Casati e Gallarati-Scotti nel 1907 fondarono la rivista Rinnovamento che di quella corrente cattolica per breve tempo fu autorevole espressione. 

 

Quel milieu culturale inoltre era segnato dalla presenza, in parte, di un capitalismo finanziario moderno e razionale; dal costume filantropico di settori della borghesia e della nobiltà lombarde attente nel suscitare e guidare processi di cambiamento; dalle coordinate teoriche del miglior liberalismo del primo Novecento.

 

Infine, la ragione principale per i risultati ottenuti in un ambiente difficile 

è da ricercarsi nella forte carica di eticità presente nell’azione 

di ogni singolo componente di quel gruppo. 

Senza enfasi, si può affermare che quel manipolo di uomini dette vita ad una stagione del meridionalismo mai più veduta in Italia.  

 

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Piccola bibliografia 

 

Alatri Giovanna, Una vita per educare tra arte e socialità: Alessandro Marcucci (1876-1968), Milano, Unicopli, 2006. 

 

L’ANIMI nei suoi primi cinquant’anni di vita, Collezione di studi meridionali, Roma, 1960. 

 

Calbi Mimmo, Un violento companatico. Umberto Zanotti Bianco e la Basilicata, Bari, Palomar, 1992. 

 

La divina droga. Chinino e lotta alla malaria in Italia all’alba del Novecento, Milano, La Vita Felice, 2015. 

 

Galante Garrone Alessandro, Zanotti-Bianco e Salvemini. Carteggio, Napoli, Guida, 1983. 

 

Per una storia dell’ANIMI (1910-2000). I Presidenti, Manduria, Pietro Lacaita, 2000. 

 

Russo Tommaso, Istruzione e sociabilità in Basilicata 1900-1921, Milano, Franco Angeli, 2004. 

 

Semeria Giovanni, Lettere pellegrine, Venosa, Osanna,1991. 

 

Zanotti-Bianco Umberto, La Basilicata. Storia di una regione del Mezzogiorno dal 1861 ai primi decenni del 1900, Venosa, Osanna,1989. 

 

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ERBE SELVATICHE TRADIZIONE ALIMENTARE IN PUGLIA di Nello Biscotti – Numero 19 – Dicembre 2020 gennaio 2021

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ERBE SELVATICHE TRADIZIONE ALIMENTARE          IN PUGLIA

 

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Esplorare il mondo dei saperi in cui occupano un ruolo alimentare foglie, steli, fiori di piante selvatiche è quasi un viaggio tra memorie e esperienze dirette.  

Un ruolo che ha origine nello stretto rapporto con la terra, gli ambienti, la Natura, per cui con questa tradizione che ha coinvolto le comunità umane a scala di Pianeta, si entra in una conoscenza che abbraccia più ambiti disciplinari (botanica, sociologia, ecologia, storia del territorio, antropologia culturale). 

 

In questi ultimi cinquant’anni, però, ovunque questa tradizione è stata abbandonata (benessere, cambiamenti stili di vita);

in gran parte dell’Europa settentrionale e orientale queste pratiche si limitano oggi 

a frutti e funghi; ancora forte è soltanto la tradizione di raccolta di piante medicinali. Essa sopravvive, invece, in molti paesi del Mediterraneo


e in alcuni paesi dell’est (Croazia, Estonia, Bielorussia); per ciò che riguarda in generale l’Europa si possono documentare oggi utilizzi alimentari di piante spontanee in Polonia, Francia, Austria, Spagna, Portogallo, Grecia, Bosnia-Erzegovina, Slovacchia, ed ovviamente in Italia e nell’intera area mediterranea. La raccolta di vegetali spontanei, pertanto, è stata praticata da sempre, ha costituito l’attività quotidiana delle comunità umane, anche se dalla repertazione preistorica (Paleolitica e Neolitica) sembra prevalere (raffigurazioni, materiali litici) l’immagine dell’uomo cacciatore. 

Il libro “Vie erbose. Le erbe selvatiche nelle bioculture alimentari mediterranee” affronta su basi scientifiche la tradizione, quella su cibi selvatici,

 

partendo da ricerche etnobotaniche condotte in Puglia, contestualizzate nel panorama della letteratura italiana ed europea. 

 

Ovunque con le erbe selvatiche la povera gente, e non solo, ha fronteggiato carestie, periodi di guerre sempre più devastanti. Le erbe selvatiche hanno rappresentato cibo prezioso durante le guerre mondiali, anche in quelle che abbiamo imparato a vedere in diretta in televisione (Bosnia-Erzegovina, 1992-1995). Erbe selvatiche hanno mangiato in Siria gli abitanti di Aleppo assediati per oltre un anno, come si è potuto ascoltare nei servizi televisivi di qualche anno fa.

Si tratta di una tradizione mai scritta perché da sempre trasmessa per via orale, 

di qui la crescente attività di ricerca che in Italia, ha portato a documentare 

fino ad oggi circa 800 specie;

 

ne risultano coinvolte tutte le regioni, ognuna con proprie caratterizzazioni in termini di specie e preparazioni culinarie. Ma è questa solo una rappresentazione parziale di questa tradizione, il dato, infatti, viene da indagini frammentate, condotte in tempi diversi oltre che con logiche diverse. Mancano dati soprattutto a scala di regioni

La ricerca in Puglia, oltre a darci un quadro più aggiornato 

(604 specie escludendo frutti e aromatiche) fornisce per la prima volta in Italia 

dati etnobotanici per una intera regione, ancora più preziosi per il contesto mediterraneo ove la raccolta delle erbe selvatiche 

conserva una evidente importanza.

 

Proprio nella mediterranea Puglia emerge con più forza che nell’uso popolare di cibi selvatici non vi è un confine netto tra cibo e medicina, la tossicità è un concetto del tutto relativo come quello della stessa edibilità. Evidentemente la tematica è realmente complessa e non è una questione solo biologica, o chimica. Vi è un’altra biodiversità che le stesse esprimono nel loro uso, da conoscere, salvare, ed è quella bioculturale (fattori biologici e culturali che influenzano il comportamento umano), altrettanto importante perché interconnessa con quella naturale. 

Le bioculture sono tante, diversissime, poiché si sono sviluppate in luoghi 

e in condizioni diverse, per cui salvando le bioculture salveremo forse 

anche la Natura e viceversa.


La diversità di conoscenze può essere una chiave per la sostenibilità e la resilienza dell’umanità. Le continue perdite di biodiversità con cui ci misuriamo sono anche il vero problema per la conservazione della natura, che è stata sempre perseguita separatamente dal patrimonio culturale che include anche le tradizioni orali ereditate dai nostri antenati. Nell’uso popolare di queste piante in Puglia sono emerse, inoltre, consapevolezze di alimenti che “fanno bene” al corpo, alla salute.

Cibo o medicina allora? Altra questione complessa che l’etnobotanica configura

 

in “cibi-medicina” e che trovano conferme scientifiche per la presenza di importanti di principi nutraceutici (polifenoli, antiossidanti e vitamine) alla ricerca dei quali siamo ormai tutti coinvolti. 

 

Ma questi cibi possono raccontarci altro: l’uso crudo di apici e germogli di piante diverse, che ancora oggi caratterizza la tradizione pugliese, può essere visto come un’importante traccia dell’antica e prolungata attività pastorale che ha contraddistinto questa regione o l’Italia meridionale in generale.

Con questa tradizione pertanto si possono ripercorrere le fasi ancestrali 

del rapporto dell’uomo con il cibo, a partire dalle difficoltà nello scegliere 

le piante, alle prime elaborazioni “culturali” su come e dove trovarle; 

e poi il modo di utilizzarle,

 

dalle forme crude (germogli, frutti, steli) agli arrosti (bulbi, steli) che in tutte le società sono state le prime forme di cottura, quelle più vicine all’ordine naturale ma che si sono mantenute nel tempo. 

 

La cultura sul cibo selvatico era molto diffusa nel basso Medioevo ed era frutto di esperienze legate alla conoscenza del territorio e agli insegnamenti che potevano venire solo da pastori, cacciatori e boscaioli, le uniche figure che vivevano intimamente il territorio. Parliamo di un tempo in cui il confine tra selvatico e domestico è molto labile. 

Le piante cibo erano tali, al di là se crescevano allo stato spontaneo o coltivato, una visione di cibo ancora diffusa tra i raccoglitori di erbe della Puglia oggi, quando attribuiscono ad un’erba selvatica il valore di verdura.

 

È solo nel XI secolo che in Italia le cose si fanno più chiare, perché è già avviata una massiccia colonizzazione fondiaria e agraria a spese di pascoli e boschi: in Puglia continua a dominare il pascolo e la maggior parte della gente non ha niente, perché privata di praticare l’attività fondamentale di coltivare la terra, che invece deve servire agli allevamenti bradi, per i quali servono superfici ampie, prive di alberi (gli stessi boschi si trasformano in pascoli) e incolte, per riuscire a foraggiare gli animali di erbaggi spontanei. 

In questo scenario nasce il Terrazzano (in altre terre di Puglia 

assumerà nomi diversi) capace di costruirsi la propria esistenza 

sulla raccolta dei prodotti spontanei,

 

ma obbligandolo a vagare quotidianamente “per le immense pianure pascolative – scrive Lo Re in “Capitanata triste (1902) – aiutato in ciò dalle donne…; vendendo il supero su la piazza o per le vie”. Ciò li pone in una condizione di assoluta autonomia di sostentamento, e non saranno mai loro a “domandar il pane” o “assaltare forni e panetterie” nelle ripetute carestie che attanagliano il Tavoliere delle Puglie. 

Cosa può trovare in una immensa pianura di terre incolte delle quali gli è impedito l’uso? Sterpi, spini, rami e frutti di perastri, ferule, asfodeli, funghi, cicoriette, 

cardi, nocchi, asparagi selvatici, lumache, rane.

 

Aspetto di grande interesse antropologico è che i Terrazzani in Puglia non si sono estinti, continuano a trovare occasioni di reddito dalla raccolta di erbe selvatiche (oltre a lumache, origano, funghi) e a suscitare interesse per le loro competenze di esperti conoscitori di questo mondo; in molti continuano a vendere le loro erbe spontanee nei mercati, ai margini di strada su bancarelle improvvisate in quasi tutti i comuni pugliesi; sono cercati dall’impiegato al notabile, nella consapevolezza di cibo “naturale”, garanzia di genuinità, sicurezza alimentare e soprattutto certezza di sapori. 

Ancora oggi almeno 34 specie sono stagionalmente vendute come comuni 

verdure e dunque una tradizione capace anche di produrre reddito,

 

non poca cosa nella prospettiva di salvaguardare culture e economie locali e non con le note rappresentazioni o spettacolarizzazioni delle tradizioni a fini turistici. 

 

Le piante selvatiche che si raccolgono ancora oggi sono strettamente imparentate (progenitrici) con le verdure coltivate, di qui probabilmente anche la ragione di fondo che fa della Puglia la prima regione italiana per la produzione di verdure e ortaggi. 

 

Le erbe selvatiche hanno in questa regione una stretta relazione con il cibo convenzionale (carne, pesce, pasta). In generale lo sostituiscono ma spesso sono complementari o costituiscono un elemento di diversificazione, sul piano gustativo (cibo sfizioso), del pasto quotidiano che si esalta nel piatto con la pasta, o con i legumi (fave). 

In queste logiche l’erba selvatica entra a pieno titolo nel costume 

alimentare della Puglia, arricchendolo e rafforzandolo 

nel suo impianto vegetariano di dieta mediterranea.

 

Nella piramide alimentare che può̀ rappresentarla trovano ancora posto i blocchi classici (cibo vegetale, ridotto consumi di carni e dolci), ma alla base sempre meno vi sono le attività̀ fisiche (quello che una volta era il lavoro nei campi), il riposo adeguato, la convivialità̀ e la stessa attività̀ culinaria, che impegnava non poco, dalla raccolta alla produzione e alla preparazione del cibo. 

 

Le indagini dimostrano il peso rilevante che ha ancora oggi il verdume selvatico nella dieta mediterranea pugliese, ovviamente nella sua formula di gastronomia tradizionale contribuendo, senza ombra di dubbio, ai benefici salutistici di questa dieta. 

Tra gli stili di vita della dieta mediterranea rimane oggi in Puglia la raccolta 

e la preparazione culinaria delle erbe selvatiche, pratica che ha “resistito” come condizione di vita del “fare” intorno al cibo (raccogliere, pulire, preparare) 

che è un fondamento di base di questa dieta.

 

E il fare è tanto, poiché bisogna uscire, andar per campi, e soprattutto scegliere quale pianta raccogliere e come prepararla. Nel libro, sono raccolte in un repertorio le specie documentate (206), un numero che pone la Puglia tra le regioni italiane a più alta diversità di specie utilizzate. Di ogni specie si forniscono i dati etnobotanici fondamentali che vanno dall’inquadramento botanico, ai nomi dialettali, alle parti utilizzate, e alle modalità di preparazione culinaria che si può spendere oggi anche sul piano dell’offerta gastronomica. Questo quadro descrittivo “olistico” conferisce all’opera una caratura particolare che arricchisce ulteriormente il valore didattico e divulgativo del saggio. 

 

È nella diversità culturale che si struttura questa tradizione in Puglia, nelle specie e nelle parti utilizzate, nelle preparazioni culinarie. 

A dare forza a queste identità culturali vi sono poi gli aspetti etnolinguistici; 

con i “Marasciuoli” siamo in Capitanata, con “Cristalli e “Sivoni” 

nella Terra di Bari, “Cecoria restu” e “Paparine” 

ci proiettano nel Salento.

 

Non si tratta solo di suoni o di cadenze dialettali, ma di strutture lessicali, etniche, tipiche di una lingua, che proprio i fitonimi popolari, forse più di altri, riescono a esprimere quanto resta di bioculture oggi. 

 

Salvare queste bioculture è strategico per difendere la sovranità alimentare delle comunità locali, innescare dinamiche di recupero delle economie locali, fondamenti teorici ma anche pratici, di sviluppi sostenibili di cui da anni si sente parlare. Nelle bioculture si gioca il futuro dell’Italia dei paesi e dei borghi. 

 

Ma le narrazioni sulle erbe selvatiche sono altre nelle tendenze “green”: mercati delle erbe, cucinare con i fiori, simboli di “mangiar selvatico”, “mangiare spontaneo”. Nuove bioculture? O semplicemente mode? Il libro nato nel solco della ricerca etnobotanica vuole essere un contributo divulgativo di approcci scientifici su quanto abbiamo banalizzato come tradizione.

 

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Campagna con anziana
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Il libro

 

 “Vie erbose. Le erbe selvatiche nelle bioculture alimentari mediterranee” di Nello Biscotti e Daniele Bonsanto Ed. Centro Grafico Foggia 560 pagine che strutturano: introduzione, 

13 capitoli, integrati di 58 foto (contesti, piante, personaggi), grafici, 25 figure.

 

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UNA INEDITA NARRAZIONE A SUD di Giuditta Casale – Numero 19 – Dicembre 2020 gennaio 2021

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una inedita narrazione a sud

 

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La voce della classe intellettuale che l’ha segnato e disegnato è stata quasi dimenticata e sommersa dalla dicotomia tra aristocratici e cafoni, o cancellata dal ritratto di un Sud ricco di tradizioni ancestrali e lontano dalla modernità.  

 

Ed ecco che mi imbatto felicemente in 

 

due romanzi che colmano quel vuoto narrativo: Breve storia del mio silenzio (Marsilio) di Giuseppe Lupo e Sud (Bompiani) di Mario Fortunato, due scrittori indiscutibili 

e autorevoli della narrativa contemporanea italiana.


Lo sguardo intimo e privato, anche se dispiegato con un diverso respiro e ritmo narrativo, più affine al 
mémoire per Giuseppe Lupo e più legato al romanzo storico per Mario Fortunato, è l’elemento che nel libro della mia memoria ha intrecciato e intessuto tra loro i recenti romanzi di entrambi. 

Breve storia del mio silenzio è un’autobiografia intellettuale che passa attraverso l’omaggio ai genitori dello scrittore, come evidenzia la dedica: “ai miei genitori, i primi maestri, e a tutti gli altri che lo sono stati”. È il racconto della propria formazione infantile e giovanile, mediata dal padre e dalla madre, entrambi maestri elementari, aperti alla modernità che si manifesta attraverso la cultura, i libri, i giornali, le case editrici, la scuola, in un piccolo paese della Basilicata.

   

Giuseppe Lupo attraverso la figura dei genitori rappresenta una Lucania colta, 

aperta, interessata e curiosa tra gli anni Sessanta/Settanta del secolo scorso,

 

che finora non ha trovato uno spazio letterario e una narrazione romanzesca per quanto riguarda la Lucania nello specifico dello scrittore, e la narrazione del Meridione a sud di Napoli nella dimensione più generale della letteratura italiana. Breve storia del mio silenzio riempie così un vuoto nella narrazione di sé che gli scrittori lucani hanno proposto della loro terra.  

 

“La Lucania” – afferma Giuseppe Lupo – “è stata raccontata spesso attraverso alcuni stereotipi, primi fra tutti la civiltà contadina e il suo contrario. Io non ho vissuto la Lucania dei contadini. La Lucania che io ho vissuto fino a 18 anni, cioè fino a quando non sono partito per Milano, è una terra ancora premoderna, ma che ha tutto il desiderio di varcare la soglia della modernità. In più aggiungo che la Lucania vissuta e filtrata attraverso la mia famiglia ha molto a che vedere con il movimento di uomini, di libri e di idee che negli anni Sessanta e Settanta è stato particolarmente attivo. Da qui discende questo mio romanzo.

 

È sbagliato pensare che in Lucania non sia esistito un dibattito intellettuale parallelo 

al tentativo di varcare la soglia del moderno compiuto dai nostri emigranti.

 

All’interno di questo panorama si colloca la storia della mia famiglia, in particolar modo di mio padre, che è stata una presenza lucida nel dibattito e forse anche originale, avendo scommesso gran parte delle sue energie sui temi della cultura come strumento di riscatto umano e sociale. Credo che questo libro possa aggiungere un tassello all’immagine di Lucania che tra gli anni Sessanta e Settanta tenta la strada del cambiamento. L’aver dedicato ai miei genitori il libro è anche un segno attraverso cui io cerco di dichiarare che esiste una chiave di lettura concreta a chi afferma solo la civiltà contadina o a chi la nega”.

Come il protagonista di Breve storia del mio silenzio abbandona la sua terra d’origine per Milano in cui proseguire gli studi e inseguire l’impellente vocazione letteraria, mutuata inconsapevolmente dal padre, così anche il romanzo 

di Mario Fortunato, Sud, comincia con una fuga: 

 

la scelta di Valentino, seguendo l’insistito consiglio materno, di allontanarsi dal paese in cui è nato e di andare a vivere lontano di lì. Il romanzo è una saga familiare, o meglio bifamiliare perché la famiglia del Notaio si intreccia con quella del Farmacista, ma entrambe conservano le proprie specificità senza confondersi, attraversando tutto il Novecento scandito dalla Storia.

 

Il Notaio, suo figlio l’Avvocato, il Farmacista e le donne, forti e determinate, 

che li accompagnano raccontano un Sud che dal mio punto di vista di lettrice 

è ancora inedito e non del tutto esplorato. 

 

Non c’è nulla di preciso, locale o caratterizzante a specificare la natura geografica del Meridione in cui il Notaio, il Farmacista e la loro ampia discendenza vivono. Che sia la Calabria lo si evince da piccole notazioni sempre marginali e mai essenziali, come a voler sottolineare 

 

una più ampia e non regionalistica dimensione geografica: non la Calabria, 

ma il Sud, inteso come tutto ciò che si estende sotto Napoli.

 

Dal mio punto di vista di lettrice ogni narrazione che abbia il Sud nel proprio immaginario non può che avere un pizzico di realismo magico, ma quello che rende affascinanti i personaggi di Mario Fortunato è il loro vivere drammaticamente e spavaldamente nella Storia. La Storia tormentata del Novecento, che senza nessun accademismo lo scrittore ha saputo incistare nel destino dei personaggi in modo intimo e introspettivo. Personaggi che si percepiscono come familiari e indimenticabili non solo perché vivono nella Storia, ma perché vivono la Storia. Anche in questo 

 

una narrazione inedita del “Sud” che da sempre si è percepito, e dunque raccontato, come vittima della Storia, in particolare dall’Unità d’Italia, 

più che agente nella Storia del paese.

 

Sia Giuseppe Lupo che Mario Fortunato hanno lasciato il Sud in cui sono nati, e vi ritornano entrambi con una storia sul Sud che non ricalca stereotipi e cliché. La distanza probabilmente ha giocato un ruolo importante nella trasparente lucidità dello sguardo, o forse più che la distanza poté la nostalgia.  

 

“Credo sia stato il distacco” – mi risponde Mario Fortunato – “la chiave che mi ha consentito l’accesso al racconto. Erano più o meno trent’anni che sapevo che prima o poi avrei scritto questo libro. Certo, non esattamente in questa forma, e tuttavia sapevo che un giorno o l’altro avrei scritto di quel mondo mediterraneo, pieno di fascino, di mistero, di contraddizioni e di straordinaria bellezza, di cui io stesso ero stato parte. Perché non ho affrontato prima quel nodo? Non lo so di preciso,

 

I romanzi – alcuni romanzi perlomeno – hanno bisogno di tantissimo tempo 

per mettersi a fuoco.

 

In un certo senso sapevo, anche se in maniera inconsapevole, che avevo bisogno di ripulire il mio sguardo proprio da quei cliché e luoghi comuni sul Sud a cui tu ti riferisci. Per me la scommessa era di scrivere di qualcosa che mi appartiene profondamente con la felice ironia di chi si sente veramente libero, di chi insomma è un po’ straniero.”

 

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ho sempre pensato

se non dal punto di vista saggistico, critico e di storia della letteratura, certamente da quello narrativo e romanzesco. 

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