LE MADONNE LIGNEE DEL MUSEO NAZIONALE D’ABRUZZO gemme del sud numero 33 luglio agosto 2025

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LE MADONNE LIGNEE  DEL MUSEO NAZIONALE D’ABRUZZO

 

Gemme del Sud

L’Aquila

 

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Il MUnDA de L’Aquila conserva una ricca e preziosa collezione di sculture lignee e tavole dipinte di soggetto mariano che testimoniano la presenza in terra abruzzese, durante il Medioevo, di una vivace produzione iconografica della Vergine rappresentata in trono con Gesù Bambino benedicente, sedes sapientiae, come regina coronata e lactans.

Queste opere furono eseguite da abili intagliatori e pittori che diedero vita 

ad una peculiare creazione artistica, che mescolava tradizioni locali 

ad influenze provenienti dall’esterno.


Solenni e sacrali le sculture dalle influenze romanico-bizantine, come la Madonna di Lettopalena e la Madonna delle Concanelle, slanciate ed aggraziate quelle trecentesche espressione della nuova arte gotica, come la Madonna di Fossa e la Madonna di San Silvestro. Tra le icone si possono ammirare la Madonna “de Ambro”, la Madonna di Sivignano e la Madonna del latte di Montereale. 

 

Vestite con abiti e mantelli dipinti dai colori vivaci, riproducenti minute decorazioni e raffinati broccati, con il capo ornato da corone di gemme, con o senza attributi iconografici, nei casi più fortunati recano iscrizioni con la data di produzione e la firma dei loro esecutori.    

 

Rappresentate in posizioni ieratiche e stereotipate, con volti dai tratti gentili, enigmatici ed assorti, queste Madonne restano la testimonianza di un’arte abruzzese autonoma e di un radicato culto popolare verso la Madre di Dio.

 

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 Foto di Paola Ceretta

 

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CASERTAVECCHIA Gemme del Sud numero 33 luglio agosto 2025 Editore Maurizio Conte

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CASERTAVECCHIA

 

Gemme del Sud

Caserta

 

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Il borgo medievale di Casertavecchia, il cui toponimo deriva dal latino Casa Hirta, sorge sulla sommità del monte Virgo – nella catena dei monti Tifatini – a circa 400 metri di altezza, ha probabili origini longobarde ed una storia secolare. Considerato come il vero centro storico di Caserta da cui dista circa 10 chilometri, conserva importanti monumenti civili e religiosi, a partire dal castello costruito nella seconda metà del IX secolo come residenza privata fortificata che divenne, sotto i Normanni e gli Svevi, una vera e propria struttura difensiva circondata da un fossato. La fortezza continuò ad essere abitata in età angioina, fu dominio aragonese e successivamente borbonico. Oltre alla seicentesca Cappella di San Rocco e alla piccola chiesa gotica dell’Annunziata, datata alla fine del XIII secolo, 

vi è il Duomo dedicato a San Michele Arcangelo risalente al XII secolo, 

significativo esempio, nel meridione d’Italia, di un’arte romanica 

caratterizzata da soluzioni architettoniche e stilistiche 

arabo-normanne.


eSede vescovile fino alla prima metà dell’800, al suo interno, tra tombe monumentali ed il bel pulpito degli inizi del Seicento, restano tracce degli affreschi che originariamente decorava­­no le pareti, come quello di scuola senese del 1300 raffigurante la Vergine col Bambino. La lenta decadenza di questo centro, con il progressivo spostamento della popolazione in pianura a partire dal XVI secolo, a vantaggio della città nuova,­­ non ha impedito a Casertavecchia di mantenersi viva grazie alla presenza di un costante turismo culturale. Qui Pasolini ambientò alcune scene del suo film Decameron del 1971, tratto dalla omonima opera di Giovanni Boccaccio.

 

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 Foto da DEPOSITPHOTOS

 

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IL CERVO SARDO. UN’ECCELLENZA ITALIANA di Giuliano Milana numero 33 luglio agosto 2025 editore maurizio conte

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IL CERVO SARDO. UN’ECCELLENZA ITALIANA

 

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Questo animale, con la sua eleganza e maestosità, rappresenta un’eccellenza italiana, testimonianza di una natura selvaggia e incontaminata che merita di essere conservata e valorizzata.

Nel suo libro L’ultimo cervo, Augusto Murgia scriveva:

 

«[…] l’ultimo l’abbiamo ucciso nel ‘38, Congera Piga ed io; esattamente quel giovedì…».[…] «Turchineddu» nel suo inconfondibile latrato, annuncia che la bestia c’è. Non si tratta di cinghiale, che il suo abbaiare sarebbe ben più rabbioso; e neppure di muflone, perché i suoi guaiti sarebbero molto più staccati, in quanto la velocità delle bestie lo impegnerebbe troppo. Evidentemente il cagnetto abbaia ad un animale fermo e col quale deve avere poca familiarità, a giudicare dai suoi ululati sordi e nervosi. 

[…] Ed ecco che un secco «colpo» di polvere «bianca» rintrona nell’aria, diffondendo nel bosco una sinistra eco di morte e nel cuore dei battitori la speranza di un buon bottino. 

Ma Turchineddu, dopo aver taciuto per un po’, si riode dalla svolta di una collina e pare che la sua voce venga da una zona fuori battuta. […] Ma un boato cupo e prolungato di polvere «nera» si ode in quel mentre a ridare a tutti la fiducia perduta. Non v’era dubbio: zio Loriga aveva chiuso la partita!

 

Così il Cervo sardo scompariva dai monti della Barbagia e, probabilmente, da molte altre aree della Sardegna. Negli anni ’50 e ’60 del ‘900 infatti, sull’isola, la popolazione di questo ungulato toccò i minimi storici, ne sopravvivevano circa 200, mentre in Corsica, nel 1969, la specie veniva dichiarata definitivamente estinta.   

 

Ma qual è la storia di questa specie (o sottospecie) e quali sono le sue vere origini? Descritto originariamente come un endemita sardo/corso (Cervus corsicanus) successivamente viene “declassato” a sottospecie del cervo europeo (C. e. corsicanus). 

Da allora il Cervo sardo è stato quindi considerato come un taxon introdotto in “tempi storici” (parautoctono), sia in Sardegna che in Corsica, presumibilmente già dall’inizio del Neolitico circa 8000 anni fa.

 

Il suo arrivo sulle due isole verrebbe giustificato dall’interesse che, da sempre, 

questa specie carismatica ed iconica ha suscitato nell’uomo, 

sia dal punto di vista strettamente utilitaristico, 

sia dal punto di vista sacro-rituale.


Va anche sottolineato come non sia l’unica specie ad aver vissuto queste vicissitudini. Di fatto tutta la mammalofauna terrestre attualmente presente in Sardegna è frutto di introduzioni in tempi storici. In merito all’origine dei cervi le teorie, nel corso del tempo, sono state diverse ma, recentemente, grazie a studi di genetica (mtDNA) condotti su campioni di tessuti subfossili comparati con campioni attuali, si è giunti a nuove ed importati conclusioni. I risultati delle indagini molecolari stabiliscono che C. e. corsicanus era, con molta probabilità, originariamente presente nella penisola italiana. Questo dimostra quindi che esistevano due popolazioni di cervi autoctone e geneticamente distinte nell’Italia continentale: una che abitava la regione settentrionale, il cervo della Mesola (C. e. italicus), l’altra la regione centro-meridionale, per l’appunto C. e.
corsicanus

Cervo di taglia più piccola rispetto ai “continentali”, con un’altezza alla spalla di 75–90 cm per le femmine e 80-110 cm per maschi; di aspetto robusto e con gambe più corte; mediamente la lunghezza è di 175-185 cm per i maschi e 160 cm per le femmine, mentre il peso degli adulti va dai 70/80 kg nelle femmine ai 105-120 kg nei maschi.

Sebbene i cervidi possano cambiare le loro dimensioni corporee rapidamente 

come risposta all’insularità, confrontando le antiche rappresentazioni 

dell’arte sarda si intuisce che tali caratteristiche morfologiche 

erano già presenti durante l’età del bronzo.

 

I palchi sono più piccoli rispetto a Cervus elaphus, sono lunghi mediamente 65 cm e pesano circa 550 g nei maschi adulti. Le stanghe hanno in genere solo 3 punte, sebbene siano noti palchi con 12 punte, lunghi fino a 77 cm e con un peso di 1,1 Kg; le ramificazioni risultano più semplici, si hanno generalmente 4 o 6 punte contro le 16 – 24 del cervo europeo. L’ago e la corona sono generalmente assenti, mentre la parte terminale della stanga presenta una formazione allargata e tendente ad appiattirsi, fino a conferire una forma finale a forcella. Altra peculiarità che caratterizza la specie è il manto scuro, soprattutto durante l’inverno. Il Cervo sardo è dai più considerato una sottospecie del cervo nobile, ma diversi tassonomi seguono la revisione di Groves e Grubb del 2011 che ritiene più idoneo considerarlo una specie a se stante.   

 

Quali sono state le cause che hanno portato alla rarefazione della specie sulle due isole? 

I motivi del declino sono da ricondursi principalmente alla drastica diminuzione delle aree forestali, alla frammentazione del territorio, all’aumento del numero degli incendi, ad una caccia non pianificata ed alla competizione nell’utilizzo delle risorse naturali con l’agricoltura e l’allevamento. Alla fine degli anni Sessanta fu quindi inserito nella Lista rossa IUCN

 

L’estinzione della specie dalla Corsica risvegliò le coscienze e, per merito 

di campagne di conservazione portate avanti dall’Ente Foreste Sardegna 

(oggi Forestas) e dal WWF, la popolazione isolana 

tornò a crescere costantemente


Nel 2015 venivano stimati oltre 8000 individui, saliti nel 2018 (ultimo dato attualmente disponibile) ad un numero compreso tra i 10.000 e gli 11.000 individui. Successivamente, grazie ad individui provenienti dalla Sardegna, i cervi sono tornati anche in Corsica. Attualmente, proprio in virtù degli sforzi fatti e del nuovo contesto ambientale, favorevole agli ungulati, venutosi a creare, le popolazioni presenti sulle due isole sono in costante crescita ma, nei fatti, non è stato stabilito o teorizzato alcun limite massimo a tale crescita. 

 

(Continua)

 

 

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La fauna italiana vanta una biodiversità straordinaria, con specie uniche come il cervo sardo, simbolo di un patrimonio naturale di inestimabile valore. .

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Orso bruno marsicano e Parco Nazionale d’Abruzzo di Spartaco Gippoliti numero 33 luglio agosto 2025 editore maurizio conte

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ORSO BRUNO MARSICANO E PARCO NAZIONALE D’ABRUZZO

 

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Pochi sanno che la prima area protetta inaugurata in Italia, precisamente il 9 settembre 1922, fu un parco appenninico che nacque per iniziativa privata (Parco Nazionale d’Abruzzo) e fu riconosciuto dal Governo con Decreto dell’11 gennaio 1923. 

Pochi sanno che la prima area protetta inaugurata in Italia, precisamente il 9 settembre 1922, fu un parco appenninico che nacque per iniziativa privata (Parco Nazionale d’Abruzzo) e fu riconosciuto dal Governo con Decreto dell’11 gennaio 1923. Dietro questa pionieristica iniziativa troviamo l’ingegnere Erminio Sipari (1879-1968), nipote e cugino di due illustri senatori, il marchese Raffaele Cappelli ed il filosofo Benedetto Croce, ed egli stesso eletto alla Camera tra il 1913 e il 1929. Il provvedimento di tutela si rendeva estremamente urgente soprattutto per la salvezza dell’orso bruno appenninico.   
 
Tra il 1899 ed il 1912 l’area dell’Alta Val di Sangro aveva ricevuto una concreta protezione come riserva di caccia reale, ma decaduta tale tutela per gli alti costi che i Savoia avevano dovuto sostenere, e terminato il Primo Conflitto Mondiale, l’area era divenuta facilmente accessibile a cacciatori di Roma e Napoli. Mentre per l’altra perla zoologica dell’area, il camoscio d’Abruzzo Rupicapra ornata, anche sulla spinta del Senatore e Professore Lorenzo Camerano, il provvedimento di tutela legislativo era arrivato già nel gennaio 1913, per l’orso, potenziale predatore, ciò non era stato possibile.    
 
Lasciatemi introdurre a questo 

punto il ‘papà’ dell’orso marsicano; il medico e naturalista molisano 

Giuseppe Altobello (1869-1931), grande intellettuale 

studioso della natura e della cultura regionale

 
A Campobasso Altobello dà alle stampe il suo Fauna dell’Abruzzo e del Molise dove, nel 1921, descrive l’orso appenninico come una nuova sottospecie: Ursus arctos marsicanus. A questo punto la necessità di misure efficaci di protezione si fanno ancora più pressanti!    
Sipari ha le idee molto chiare. Occorre realizzare un parco nazionale che salvi i due gioielli naturalistici (camoscio e orso), permetta un razionale utilizzo delle risorse naturali (i pascoli ed i boschi) e avvii lo sviluppo turistico della regione

Sipari sta di fatto proponendo un nuovo modello di area protetta 

che gli costerà non poche critiche (per esempio dal Touring Club Italiano), 

ma che lo renderà di fatto un precursore dell’attuale visione 

del tema in Italia e non solo.

 

Non è qui il caso di ripercorrere la secolare e complessa storia del Parco ed il suo ruolo di traino del movimento conservazionistico italiano sotto la direzione di Franco Tassi.   

 

Ma cosa ne è dell’orso marsicano oggi? 

Mentre negli orsi riportati sulle Alpi trentine si assiste ad una spettacolare crescita demografica, fonte anche di non poche problematiche sociali, sugli Appennini il contingente sembra rimanere stabile. Il nuovo secolo ha prodotto nuove evidenze scientifiche a supporto dell’unicità del nostro orso marsicano che si caratterizza, tra l’altro, per l’estrema inoffensività nei confronti dell’uomo. 

È questo un fattore non secondario nella speciale relazione che lega gli abitanti del Parco con l’orso. Già nel 1962 l’allora direttore Francesco Saltarelli scriveva: “Quali dunque, i rapporti fra l’uomo e l’orso nel Parco d’Abruzzo? Non crediamo di essere evasivi se affermiamo che si può parlare di ottimi rapporti di coesistenza (mai l’orso ha assalito l’uomo), se non proprio di convivenza…”. Per questo, 

 

da oltre un decennio, la Società Italiana per la Storia della Fauna 

ha lanciato un appello per moltiplicare gli sforzi di tutela

di questo orso così particolare.

 
Ma cosa ne è dell’orso marsicano oggi?
Oltre che richiamando l’attenzione sulla carenza di risorse alimentari che affligge l’orso dopo l’abbandono di agricoltura e pastorizia, la Società ha proposto la costituzione di una ‘banca del germoplasma’ per la rara sottospecie di cui oggi si pensa non esistano più di 10 femmine adulte e la popolazione totale si aggiri sui 55 individui. Con tali bassi numeri, la perdita di variabilità genetica è altamente probabile e per la futura conservazione dell’orso sarebbe importante potere contare sul materiale genetico di orsi morti magari un decennio fa. Finora troppo poco si è fatto in questa direzione ma, come abbiamo detto, ragioni scientifiche ed economiche coincidono nel richiedere la conservazione di un esperimento evolutivo unico che ha avuto come teatro i nostri Appennini meridionali. 

 

 

 

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Bibliografia

SPARTACO GIPPOLITI

Arnone Sipari L., Guacci C. (a cura) 2019. Origini e primi anni di vita del Parco Nazionale d’Abruzzo nella “Relazione Sipari” del 1926. Palladino Editore, Campobasso.

Gippoliti S., Guacci C. 2017. Il Mammifero italiano più minacciato: l’orso marsicano. Un approccio interdisciplinare per la sua conservazione. Natura e Montagna, 64: 29-35.

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Tex Willer abitava in Sardegna di Gloria Salazar numero 33 luglio agosto 2025 editore maurizio conte

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TEX WILLER ABITAVA IN SARDEGNA

 

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Questo “lontano ovest” è il Sulcis Iglesiente, subregione sarda che è la propaggine occidentale della Nazione più distante dallo Stivale..

È una parte dell’isola non di passaggio, dove non si capita per caso.


Una Sardegna “segreta” che, sebbene sia dotata di immense e magnifiche spiagge sabbiose, è rimasta fuori dalle rotte balneari sarde e quindi al riparo dal turismo di massa. 

 

Fulco Pratesi molti anni fa nella sua Guida alla natura della Sardegna definì la costa iglesiente “forse la più bella delle seppur bellissime coste italiane”. 

 

Fortunatamente questa considerazione, malgrado sia passato mezzo secolo, può essere valida, ed a maggior ragione, ancora ai giorni nostri. 

 

L’isolamento ha fatto sì, infatti, che al contrario di molte altre splendide aree costiere, sia sarde che peninsulari, questo tratto di territorio sia stato totalmente preservato dalla speculazione edilizia e sia tuttora 

 

uno dei luoghi naturalisticamente intatti, più estesi e spettacolari del nostro Paese. 

Un “paradiso terrestre”, come lo videro e descrissero alla fine del XIX secolo 

D’Annunzio e Scarfoglio

 

in un articolo a doppia firma apparso sulla rivista Cronaca bizantina.  

 

È stato l’illustratore Aurelio Galleppini (in arte Galep) a creare un legame ideale tra il Sud Ovest degli Stati Uniti ed il Sud Ovest della Sardegna.  

 

Galleppini, che apparteneva ad una famiglia originaria della zona e quindi la conosceva bene, se ne avvalse, e non a caso, come fonte di ispirazione per creare l’ambientazione texana di uno dei fumetti italiani più famosi e longevi: Tex Willer. 

 

L’inviolato paesaggio iglesiente con la varietà dei suoi panorami infatti ben si presta: addentrandosi nell’interno lo sguardo vaga a perdita d’occhio su distese disabitate ed incontaminate.

 

Praterie e montagne, guglie rocciose, profondi canyon, brulli altipiani colonizzati dalla macchia mediterranea, strade sterrate, piccoli deserti e altissime dune sabbiose 

che appaiono all’improvviso in mezzo a foreste di sughere e pinete. 


Un continuo e mutevole susseguirsi di vedute da Old Wild West, e non mancano i fichi d’india. 

 

D’altronde anche il paese di San Salvatore di Sinis, più a nord, nell’oristanese, fu scelto negli anni ‘60 come set di uno “spaghetti western” – Giarrettiera Colt – amato perfino da Quentin Tarantino. 

 

Oggi questi contesti ricordano ancor più ciò che nell’immaginario collettivo è il “West” cinematografico, per i resti dei siti minerari di quello che fino a pochi anni fa fu uno dei poli estrattivi più vasti ed importanti d’Italia. Un’altra analogia con l’America Nord-occidentale, che negli stessi anni del XIX secolo visse l’epopea della “corsa all’oro”. 

 

Le miniere del Sulcis Iglesiente attualmente fruibili, e spesso trasformate in complessi museali, sono innumerevoli ed assicurano scorci sempre diversi e sorprendenti; come lo scenografico Porto Flavia, un approdo minerario “sospeso nel vuoto”, a metà di un costone strapiombante sul mare. Località che fanno parte del Parco Geominerario Storico e Ambientale della Sardegna, di grande interesse per gli appassionati di archeologia industriale, speleologia (nell’area mineraria di San Giovanni si trova la grotta di Santa Barbara, la più antica d’Italia) e non solo; con scenari che evocano, appunto, atmosfere pionieristiche.  

 

Lungo la statale 130 che da Iglesias porta al mare, una montagna di terra rossa, residuo di una delle tante miniere dismesse del circondario, la miniera di Monteponi, fa pensare all’Arizona. Suggestioni da Mezzogiorno di fuoco sono anche quelle offerte dal villaggio minerario Asproni, un piccolo e sperduto borgo “fantasma”, come se ne incontrano vari nei dintorni. 

 

Sembra un 

 

deserto da film western, poco più a settentrione nel Medio Campidano, 

quello in cui si trovano i ruderi delle suggestive architetture minerarie 

di Ingurtosu e Piscinas, immerse in un silenzio irreale, 


dove ci si imbatte in antichi carrelli ferroviari di carico abbandonati nella sabbia sollevata dal vento. 

 

Visioni, queste, che trasportano il visitatore in una dimensione onirica, ma che invece è reale, e senza bisogno di andare oltreoceano. È il nostro Far West. Ed in più sullo sfondo c’è il mare.

 

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e precisamente in Sardegna, che è geograficamente, ma non solo, il nostro “Far West”. 

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 Foto di Gloria Salazar

 

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GOFFREDO LOMBARDO NAPOLETANO CHE CONQUISTÒ IL CINEMA di FERNANDO POPOLI numero 33 luglio agosto 2025 ed. maurizio conte

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GOFFREDO LOMBARDO NAPOLETANO CHE CONQUISTÒ IL CINEMA

 

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sono alcuni dei film più famosi prodotti da Goffredo Lombardo, il produttore che dalla natia Napoli, insieme al padre Gustavo, venne a Roma e dominò con il suo acume e il suo intuito l’industria cinematografica italiana, al pari di giganti quali Dino de Laurentiis, Carlo Ponti e Franco Cristaldi.

Nella sua lunga carriera produsse e distribuì duemila film,


affrontando tutti i generi, finanziando e valorizzando registi come Luchino Visconti, Valerio Zurlini, Giuseppe Tornatore, Francesco Rosi, Renzo Arbore, Dino Risi e tanti altri. Il padre Gustavo aveva fondato la casa cinematografica Titanus che ancora oggi è attiva sul mercato e produce, attraverso il nipote Guido, serie televisive.   La straordinaria avventura di vita e di lavoro di Lombardo inizia a diciotto anni con una tesi di laurea sul diritto d’autore cinematografico

 

assume la guida della Titanus nel 1961 e si muove subito su due binari, 

le commedie rosa come Pane, amore e fantasia e Pane, amore e gelosia, 

di Comencini, e Pane, amore e… di Dino Risi, con una verace 

Gina Lollobrigida e una provocante Sophia Loren;

 

Poveri ma belli e Belli ma poveri con Maurizio Arena, Alessandra Panaro, Lorella de Luca e il cinema di autore con Luchino Visconti: Il gattopardo e Rocco e i suoi fratelli, Michelangelo Antonioni: Le amiche, Elio Petri: L’assassino, Francesco Rosi: Le quattro giornate di Napoli. Questi sono alcuni titoli della enorme produzione che Lombardo sostenne e finanziò. 

Per svolgere il suo lavoro si avvalse di una efficientissima segretaria che manteneva tutti i rapporti con registi, produttori, attori i quali, dopo aver stabilito il loro ruolo, non parlavano più con lui ma con la fedele collaboratrice.

 

Tenne a battesimo anche Pasquale Squitieri che in un primo momento

doveva girare un piccolo western: “La vendetta è un piatto che si serve freddo”.


Lombardo si tirò indietro e Pasquale riuscì comunque a girare il film che ebbe un buon successo. Sulla scia di questo risultato Goffredo gli finanziò: “Camorra” e “I guappi” che ottennero ottimi risultati.   Ricordo la prima di Camorra che si tenne al cinema Metropolitan in Via del Corso, oggi scomparso. C’era nel foyer Pasquale che assisteva al flusso degli spettatori che entravano. Mi salutò e mi ringraziò di essere venuto, la mia visita gli aveva fatto molto piacere.

 

La maggiore avventura cinematografica di Lombardo, 

che purtroppo lo portò al disastro finanziario, fu la produzione 

di due film: “Il gattopardo”, di Visconti e “Sodoma e Gomorra”, di Robert Aldrich.


Queste due produzioni costarono moltissimo e la riposta del pubblico, quantunque buona, non fu sufficiente al botteghino per coprire gli ingenti costi. Lombardo si trovò in grande difficoltà economica ma, da gran signore napoletano, vendette i suoi beni e cominciò a ripagare i creditori, soprattutto le banche. Egli era proprietario di importanti cinema a Napoli, quali il Santa Lucia e l’Augusteo, ubicati in centro e molto frequentati. Con il ricavato di queste vendite riuscì a tamponare i debiti

Ebbe anche l’aiuto di molti attori italiani che si prestarono gratuitamente 

per interpretare: “Il giorno più corto”, una sua ultima produzione, 

ma fu necessario anche l’intervento di una finanziaria, 

L’Acqua Marcia, per rifinanziare la Titanus.


Seguì un periodo di austerità nel quale gli si permise solo di distribuire film e non di produrli. Ma egli agì attraverso una società creata ad hoc, la Mondial Tefi, con la quale produsse alcuni film molto popolari, sebbene a nome di Carbone, l’amministratore della Società, e uscirono fuori i musicarelli con Gianni Morandi, Rita la zanzara con Rita Pavone e subito dopo la serie di Piedone lo sbirro con Bud Spencer, altro napoletano votato al cinema.   

 

Al museo nazionale del cinema di Torino La Titanus ha un’area espositiva dedicata alla produzione dove è stata allestita una grande mostra che ospita preziosi reperti dall’archivio Titanus, donati da Guido Lombardo. Fotografie inedite, materiali promozionali, oggetti appartenuti a Goffredo e alcune sceneggiature provenienti dall’archivio della grande sceneggiatrice Suso Cecchi d’Amico, questi interessanti oggetti e cimeli ripercorrono la storia della più celebre fabbrica dei sogni italiana: la Titanus.

 

Anni dopo Goffredo Lombardo riuscì a ritornare al comando

della società di produzione


ma il mutato gusto del pubblico e il nuovo sistema industriale lo convinsero a cedere il ramo cinematografico per concentrarsi sulle produzioni televisive, l’ultima delle quali è stata la serie televisiva: ”Orgoglio”, trasmessa su Rai 1 con enorme successo.   

 

Vinse nella sua eccezionale attività vari premi cinematografici, tra questi nel 1955 il Leone d’oro alla carriera alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia. 

Nel 2010, Giuseppe Tornatore che aveva debuttato con lui con il film: ”Il camorrista”, ha realizzato un documentario dal titolo “Goffredo Lombardo, l’ultimo gattopardo”. Una bella testimonianza della genialità del grande produttore napoletano che conquistò il cinema.

 

 

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Gli abeti bianchi del Pollino tra i riti arborei e il cinema di Saverio De Marco Numero 33 luglio agosto 2025 editore Maurizio Conte

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In località Piano di San Francesco, un tratto di sentiero porta ad un affaccio 

su alcuni abeti monumentali, alti e colossali, tra cui un esemplare 

con una circonferenza di 7 metri a terra e stimato 500 anni di età.

 

Più sotto, davanti ad una fontana è presente una piccola statuina di San Francesco di Paola, santo legato indirettamente a questa specie arborea.

 

Cosa c’entra San Francesco? L’abete bianco è legato anche ad una dimensione sacraleed etno-antropologica. L’abete entra a far parte infatti dei riti arborei del Pollino, tipiche feste pagane di primavera, originariamente volte alla celebrazione della fecondità e della fertilità della terra e legate perciò ad una sorta di simbologia del matrimonio degli alberi, dove l’abete bianco rappresenta l’elemento femminile sempreverde e il faggio l’elemento maschile. Tali rituali pagani sono associati alle feste dei santi.

La Chiesa cattolica, non riuscendo a sradicarli, per controllarli vi sovrapponeva 

la festività cattolica: ne deriva pertanto una festività sincretica, dove tuttavia

 l’elemento pagano precristiano e quello cristiano 

si giustappongono senza fondersi.


Tali rituali comportano un “dramma cerimoniale” in cuitrovano spazio canti, musiche, esultanza, soste dei cortei, accompagnati da “allegri conviti” con abbondanza di cibo e grandi bevute di vino. Con “l’albero della cuccagna” eretto nella piazza e abbellito di doni, subentra una grande festa di popolo, caratterizzata anche da prove di destrezza acrobatica. Lo stesso “viaggio” dei tronchi dalla montagna al paese diventa una sorta di dramma per la difficoltà del trasporto e il rischio di incidenti, a volte accorsi (V. Lanternari 1977).

I riti arborei del Pollino sono momenti fondamentali per l’identità delle comunità locali 

e vi partecipano tutt’oggi anche numerosi giovani.

 

Molti sono gli emigrati che tornano in paeseper partecipare alla festa. Possiamo prendere come esempio la festa di Sant’Antonio diPadova a Rotonda, una delle più rappresentative del territorio del Pollino. In questo ritualelapitaè il faggio e l’abete larocca.Una volta anche il maschio era un abete, di cui vieneconservato il nome (la pita appunto). Il compito di tagliare e trasportare a valle i due alberiè affidato a due squadre diverse. Nella notte dell’8e del 9 giugno, i roccaioli raggiungono i boschi di Terranova di Pollino, tagliando una pianta di modeste dimensioni di abete, che rappresenterà appunto la cima. Nella stessa notte i pitaioli raggiungono la zona di Piano Pedarreto, nel comune di Rotonda, per abbattere un faggio prescelto di grandi dimensioni,che viene poi squadrato e lavorato con l’ascia. L’11giugno la pita viene trainata da una decina di coppie di buoi (paricchi). A Pedarreto, dalla foresta di faggio e abete bianco giunge anche la rocca e insieme, sebbene trasportati da gruppi separati iniziano il breve viaggio che li porterà nella piazza del paese, dove verrà innalzato il grande “albero della cuccagna”, frutto dell’unione “artificiale” tra il faggio e l’abete.

 

A Viggianello la sagra dell’abete è legata a San Francesco di Paola, a Terranova di Pollino a Sant’Antonio. Nel Pollino calabrese va menzionato poi il rito arboreo di Alessandria del Carretto, che il grande regista Vittorio De Seta filmò nel 1959. De Seta ne parla come una”sagra antica e meravigliosa”, con cui il paese celebra l’inizio della bella stagione

 

Nel documentario, all’alba un gruppo di uomini si dirige verso la montagna 

e i “maestri d’ascia” abbattono un alto esemplare di abete, 

che successivamente verrà trascinato a valle 

da alessandrini giovani e meno giovani,


accompagnati dalla musica di zampogne e totarelle.Verso l’entrata del paese le donne portano cesti pieni di prodotti tipici per il pranzo. Sempre nel film, giorni dopo viene così celebrata la festa di Sant’Alessandro, patrono del paese e allestito l'”incanto”, dove prodotti tipici e oggetti vari vengono messi all’asta: il ricavato sarà usato per pagare le spese della festa. L’abete viene poi innalzato nel pomeriggio nella piazza del paese, con la cima addobbata di doni come dolci, collane di fichi secchi ecc. Un atletico giovane riesce ad arrampicarsi fino in alto e si appende con le gambe ai rami della cima, a testa in giù, con le braccia aperte, ondeggiando e senza nessuna paura di cadere.

Dopo la conclusione della festa la gente si appresta a tornare verso casa, 

lasciandosi alle spalle i momenti di spensieratezza e allegria.

 

Lo stesso rito di Alessandria del Carretto, che è rimasto quasi intatto nei secoli, è stato filmato da un altro grande regista, Michelangelo Frammartino nel suo capolavoro “Le quattro volte”, premiato a Cannes nel 2010. Iprotagonisti di questo film non sono solo contadini e pastori, ma anche animali, alberi, natura inanimata, ovvero la terra stessa. Come suggerisce la testimonianza di Pitagora nel film, l’uomo è egli stesso tutte queste cose. La “terza volta” del film è rappresentata proprio dalle vicissitudini di un abete bianco, colto nel mutare delle stagioni, il cui destino è legato alla cultura della civiltà agropastorale. Il “senso del sacro” è espresso in questo film soprattutto nella venerazione della natura che caratterizza gli antichi riti arborei.

Ogni essere è legato all’altro, anzi, ogni essere entra a far parte di un altro 

e della sua rispettiva sfera di vita, per poi ritornare alla sua origine: 

efficace ad esempio la scena dell’albero che entra nel camino 

delle abitazioni e ne esce come fumo, espandendosi nell’aria


Quando, dopo che la festa èfinita, l’abete verrà venduto ai carbonai, essi erigeranno una catasta verticale con i suo iceppi, posta al centro della loro arena circolare di legna accatastata. Al centro del cerchio, nell’interstizio della catasta, verrà appiccato il fuoco, con un gesto augurale che vuole in qualche modo “benedire” il risultato del duro e delicato lavoro dei carbonai e “ringraziare” allo stesso tempo il “tutto cosmico”. E alla fine il fumo della legna ritornerà tra gli alberi,confondendosi con la nebbia che aleggia sulla foresta..

 

 

 

 

 

 

 

 

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L’abete bianco, Abies alba, è un’eccellenza botanica caratteristica delle foreste del versante nordorientale del Massiccio del Pollino, dove vive associato al faggio. L’areale di questa specie va dai 1400–ai 1850 metri circa di quota, altitudine oltre la quale dominano il faggio e poi il pino loricato (Pinus leucodermis)

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TRAVOLTI DALL’IMMENSITA’ DEL BLU di Giorgia Ippoliti numero32 febbraio marzo 2025 editore maurizio conte

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Travolti dall’immensità del blu

 

 

«è tutto sulle mie spalle». E chissà se, qualche volta, ci siamo chiesti a cosa fosse dovuta tale espressione, e se fosse vero che “tale peso” fosse espressivo solo di un grande sacrificio piuttosto che di una prestigiosa responsabilità. 

 È ancora una volta il Sud a disvelarci uno straordinario scenario,

 

fatto di miti, leggende e allegorie di vita che ci tramandano importanti e intramontabili insegnamenti. Lasciamoci, ancora una volta, guidare da questi insegnamenti. Affidiamoci alla mano sapiente della cultura tradizional-popolare che quest’oggi ci accompagna nella terra ove giunge chi sogna. 

«Salve, o Sicilia! Ogni aura che quo muove, pulsa una cetra od empie una zampogna, e canta e passa … io ero giunto dove giunge chi sogna»[2] 

 

Proviamo a chiudere gli occhi e ad immergerci 

in un mondo fantastico, nell’isola del sole.

 

Immaginiamo di tuffarci da uno scoglio, nell’azzurro mar di Sicilia, e qui incontrare un personaggio dal singolare aspetto. Metà uomo e metà pesce. D’altronde, «le ninfe inseguite qui non si nascosero agli dèi, gli alberi non nutrirono frutti agli eroi. Qui la Sicilia ascolta la sua vita»[3]. Ecco Cola (Nicola) che, quale punto di riferimento di naviganti e pescatori di sogni, ci si palesa innanzi, raccontandoci qualcosa di incredibile. Egli vive in mare, habitat che lo ha sempre affascinato, da quando la mamma, stanca delle sue incessanti giornate in mare, gli ha rivolto quella che, a prima apparenza, poteva sembrar una maledizione, ma che poi si è rivelata essere la “salvezza” della terra siciliana.

 

«Cola, che Tu possa diventar un pesce!». Ed ecco che improvvisamente i polmoni 
di Cola diventano branchie, i suoi arti inferiori amabili pinne.

 

Cola diviene veramente un pesce, pur rimanendo attaccato alle sue origini terrestri. 

Da quel giorno, egli sarà sì uomo, per metà, ma anche pesce, per l’altra metà, divenendo, grazie alla sua esperienza, un punto di riferimento per pescatori, naviganti e qualsiasi altro si affacci in mare. 

E se è vero che, «una notizia un po’ originale non ha bisogno di alcun giornale, ma come una freccia dall’arco scocca, vola veloce di bocca in bocca»[4], la notizia della straordinaria esistenza di Cola arriva sino alle sale del regno. Qui, tra busti di marmo e pareti rivestite d’oro, sullo scranno regale, Re Federico II, preoccupato delle sorti della sua terra e della sua amabile figlia, apprende dell’esistenza di Cola e della sua particolare condizione. Come sia possibile non sa, ma decide di indagare.

 

Cola viene convocato a corte, ove il Re decide di sottoporlo a una serie di prove,

 

per verificare che quanto «piano piano, terra terra, sibilando, va ronzando, nelle orecchie della gente»[5] fosse reale. 

Il Re, davanti a Colapesce, getta in mare una coppa d’oro rivestita di brillanti e fa una promessa solenne: se Cola riuscirà a recuperarla, sarà degno di congiungersi in matrimonio con sua figlia. 

Cola accetta la sfida e, senza pensarci su, si getta in mare, sino ai più profondi abissi, ove fa una scoperta singolare.

 

Esiste un regno parallelo, fatto di caverne, montagne e valli, ove si ergono tre colonne, chiamate a “reggere” la terra di Sicilia: una integra, una scheggiata e una rotta.

 

Cola, dunque, preoccupato delle sorti della sua città, riemerge in superficie e racconta al Re la sua sorprendente, e sconvolgente, scoperta. «Maestà li terri vostri, stannu supra a tri pilastri, e lu fattu assai trimennu, unu già si stà rumpennu»[6]. Il Re, preoccupato di quanto raccontato da Colapesce ma, al contempo, dubbioso della sua fondatezza, lo invita a ritornare negli abissi, per recuperare il sacchetto pieno di monete d’oro, che aveva gettato nel profondo mare, reiterando la sua promessa. «O destinu miu infelici, chi sventura mi predici. Chianci u re, com’haiu a fari, sulu tu mi poi sarvari»[7].

 

Cola, dunque, con estremo coraggio, si rigetta in mare. Ma, al momento di risalire, 

dopo aver recuperato il prezioso tesoro, si trova posto di fronte a un dubbio:

 

riemergere, lasciando la terra di Sicilia in balia del suo destino, e sposare la figlia del Re, o rimanere negli abissi, sacrificandosi pur di consentire alla sua amata terra di sopravvivere. Egli avrebbe, infatti, la potenza di sostituirsi al busto del pilastro e sorreggerne la parte su cui si poggia la terra di Sicilia. Ma, se è vero che da grandi poteri derivano grandi responsabilità, per Cola non vi sono dubbi: egli sorreggerà il peso della sua amata terra pur di consentirne la sopravvivenza.  

 

Decide, dunque, di rimanere negli abissi, rinunciando alla sua vita: pur di salvare 

la sua amata Sicilia, decide di farsi carico del peso della sua terra. 

Prende, sulle sue spalle, la parte alta della colonna rotta, 

pur di garantire la stabilità della città.

 

«Maestà! ccà sugnu, ccà Maestà ccà sugnu ccà. ’nta lu funnu di lu mari ca non pozzu cchiù turnari vui priati la Madonna ca riggissi stà culonna ca sinnò si spezzerà e la Sicilia sparirà»[8].

 

In un moto di estrema responsabilità, rinuncia all’amor della sua vita e alla sua “tranquilla” esistenza, pur di adempiere a qualcosa di più alto: ancora oggi, si narra si trovi lì, a sorreggere la sua amata terra, tanto che ogni smottamento del terreno vien inteso come “cambio” di spalla da parte di Colapesce. «Su passati tanti anni, Colapisci è sempri ddà. Maestà! Maestà! Colapisci è sempri ddà»[9].

Egli è sempre lì, travolto dall’immensità del blu, a testimonianza ed emblema d

el grande impegno che ognuno di noi porta sulle proprie spalle,


affinché  i  tre pilastri  della  nostra  esistenza,  secondo  le  più  variegate  accezioni,  rimangano  in equilibrio  per  sorreggere  la  nostra  vita,  in  un’ottica  di  continuo interscambio tra il nostro mondo sotterraneo e quello di superficie. 

 

 

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 [1] “Splash”, di Colapesce, Di Martino, 2023. 

 [2] Giovanni Pascoli, “Odi e inni”, Odi – L’isola dei poeti. 

 [3] Leonardo Sciascia, “L’aspra bellezza della Sicilia” in “ La Sicilia e il suo cuore”, 

 [4] Fabrizio De Andrè – Gian Piero Reverberi, “Bocca di Rosa”. 

 [5] Gioacchino Rossini, “La calunnia è un venticello” , cavantina di Don Basilio, in “Il Barbiere di Siviglia”. 

 [6] https://www.sicilias.it/la-leggenda-colapesce-colui-porta-sulle-spalle-la-sicilia/ 

 [7] https://www.sicilias.it/la-leggenda-colapesce-colui-porta-sulle-spalle-la-sicilia/ 

 [8] https://www.sicilias.it/la-leggenda-colapesce-colui-porta-sulle-spalle-la-sicilia/

 [8] https://www.sicilias.it/la-leggenda-colapesce-colui-porta-sulle-spalle-la-sicilia/

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Il Pianto Romano di Gaia Bay Rossi numero 32 febbraio marzo 2025 editore maurizio conte

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il pianto romano

 

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Salgo su per la collina senza sapere esattamente cosa mi si presenterà davanti.    I cartelli con scritto “Pianto Romano” mi dicono poco e non so neanche il punto esatto in cui mi trovo, se non che sono nella statale 113 della bella ed assolata campagna della provincia di Trapani.

 

Arrivata in cima alla strada di congiunzione con la statale, vedo un imponente obelisco che scopro essere un monumento garibaldino. Fu costruito nel 1885 da Ernesto Basile sulla sommità della collina che fu teatro della battaglia di Calatafimi 

(a poca distanza dal paese stesso), battaglia decisiva 

per le sorti dell’Unità d’Italia.


Questo combattimento fu il primo, avvenuto nel corso della spedizione dei Mille il 15 maggio 1860, nel luogo individuato nelle carte storiche come Pianto Romano, “Chianti di Rumano” (le piante dei Romano) in siciliano. Il nome si trova in antichi documenti del XVII secolo ed indicava i terreni lavorati a vigneti della famiglia dei Romano, di origine ebraica, proveniente da Salemi.   

 

Dalla cima del colle si può osservare molto bene tutto il campo di battaglia. Le parti erano rappresentate da un lato dai garibaldini, con i volontari arrivati da sud dopo aver lasciato Salemi, dove Garibaldi si era proclamato dittatore della Sicilia, dall’altro dai militari dell’esercito delle Due Sicilie, comandati dal generale Francesco Landi, che arrivavano da Alcamo. Garibaldi aveva bisogno di una vittoria per convincere la popolazione locale ad unirsi alla sua truppa, composta principalmente da bergamaschi e genovesi, ma anche da tanti giovani siciliani, denominati “picciotti”. In quel momento in Sicilia c’era un forte malcontento nei confronti dei Borbone, che infatti presidiavano l’isola con 30000 soldati. Il generale decise di inviare i suoi reparti in perlustrazione del territorio. Un distaccamento si era accampato a Calatafimi, per bloccare la strada a Garibaldi
   

La mattina del 15 maggio l’Ottavo Battaglione Cacciatori del maggiore Michele Sforza, una delle migliori unità dell’esercito borbonico, avanzò verso sud in missione esplorativa. I garibaldini erano circa 1500 comandati dal generale Giuseppe Garibaldi, 

mentre i borbonici circa 2000 con al comando il maggiore Sforza.

 

Alle dodici i borbonici si erano sistemati sulla collina del Pianto Romano. I garibaldini sull’altura di fronte. Li separava una profonda vallata. Il maggiore Sforza osservava i garibaldini e decise di fare la prima mossa. L’Ottavo Cacciatori avanzò nella valle, ma qui intervenne il fuoco inaspettato dei carabinieri genovesi. I Cacciatori vacillarono e poi batterono in ritirata, inseguiti dai garibaldini. A quel punto però erano proprio questi a dover scavallare la collina costantemente bersagliati dai nemici. All’una e trenta i garibaldini erano a metà del colle, il momento era particolarmente difficile, al centro un gruppo di soldati borbonici strappò il tricolore ai soldati garibaldini. Si trattava di una bandiera donata a Garibaldi dalle donne uruguaiane durante la sua campagna in quel Paese e che, nello scontro, fu portata via dai nemici. Garibaldi si mise a discutere con i suoi, il luogotenente Nino Bixio suggerì la ritirata. Ma Garibaldi rispose senza incertezze: “Qui si fa l’Italia o si muore”. La battaglia avrebbe deciso il successo o il fallimento della spedizione. A metà pomeriggio i garibaldini arrivarono in cima alla collina e Garibaldi, per incitare i suoi, si schierò con gli altri in prima linea: i suoi uomini avevano bisogno della sua imponente personalità.

 

I borbonici, dopo ore di battaglia, si diedero alla fuga, dirigendosi 
verso Alcamo, e i Mille entrarono a Calatafimi.

 

I corpi dei caduti, inizialmente lasciati sul campo di battaglia, furono poi seppelliti in una fossa comune. Il 27 maggio successivo Garibaldi si sarebbe recato a Palermo dove, dopo tre giorni, il 30 maggio, avrebbe firmato l’armistizio e allontanato i borbonici dalle fortezze.

 

Allora la Sicilia fu finalmente libera, anche se forse 

non lo sarebbe mai stata veramente.  

 

Ma torniamo al Museo di Pianto Romano. Un comitato di abitanti di Calatafimi il 9 settembre dello stesso anno richiese a gran voce la costruzione di un monumento che contenesse i resti dei caduti e fosse anche in memoria della battaglia. Il Basile lo progettò nel 1885, facendo in modo che la facciata dell’ingresso principale assomigliasse al frontone del tempio di Segesta, che si trova a pochi chilometri di distanza. All’interno appare 

 

appare il primo modello plastico storico in Sicilia che rappresenta la battaglia 

di Calatafimi, realizzato dall’artista Gianvito Gassirà. Costruito seguendo 

la tecnica del modellismo di scenari realistici riprodotti in scala, 

lascia stupefatti ed è straordinario vedere la collina

 e la vallata con il percorso dei soldati in miniatura, 

con le loro divise, gli abiti, le loro bandiere 

e con l’aggiunta di tanti particolari 

come vigneti e campi di grano, 

il tutto in circa 4 metri quadri

 

I materiali utilizzati sono gesso, polistirolo, segatura e materiali comuni, come le setole degli spazzoloni per riprodurre i canneti. Per finire, a dare vita all’intera ambientazione, circa 2800 soldatini dipinti a mano. Oltre all’assemblaggio e alla pittura, è stato molto importante il lavoro di ricerca per rendere storicamente accurata la ricostruzione della battaglia. All’interno del monumento di progettazione neoclassica inaugurato nel 1892 sono anche conservati i corpi di parte dei caduti di entrambi gli schieramenti, gli abiti e numerosi quadri e fotografie attinenti a Garibaldi e al suo periodo.   

 

A lato del mausoleo si trova il Viale delle Rimembranze, fiancheggiato da cipressi. Percorriamo tutto il viale e ci troviamo di fronte al campo di battaglia, dove è stata posta una stele nel 1960, in occasione del centenario della battaglia, sulla quale sono scritte le famose parole dette, secondo quanto riporta Cesare Abba, da Garibaldi a Nino Bixio a Calatafimi: “Qui si fa l’Italia o si muore”. 

 

Ferma accanto alla stele, sento arrivare delle biciclette. Sono tre, si fermano 

e uno di loro legge “Qui si fa l’Italia o si muore” e prosegue sarcastico: 

“Era meglio chi muria” (era meglio se moriva).

 

 

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LA VOCE DI NAPOLI di fernando popoli numero 32 febbraio marzo 2025 editore maurizio conte

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 LA VOCE DI NAPOLI

 

Il cantante nacque a Villaricca, piccolo paese della provincia di Napoli, da genitori poverissimi e, come egli stesso racconta nel suo libro Scontri e incontri, è costretto a lasciare la scuola a metà della terza elementare perché non ha i libri, ha smarrito una scarpa dell’unico scalcagnato paio di scarpe che possiede e si vergogna di andare in classe come un pezzente. 

A nove anni,

 

poco più che bambino, si iscrive ad una scuola serale di musica organizzata per formare la banda musicale del paese. A undici anni diventa ufficialmente 

suonatore di clarinetto ed inizia così la sua carriera musicale.


A diciassette anni si trasferisce a Napoli con la famiglia. Comincia a lavorare come operaio per guadagnarsi da vivere ed entra nel giro di alcuni studenti ai quali palesa le sue prime qualità canore, che vengono subito apprezzate.   

Nel 1943 entra a far parte del novantunesimo reggimento di cavalleria di Torino. Si trova a casa in convalescenza quando riceve la notizia che a Napoli stanno insorgendo contro le truppe tedesche, dunque forma velocemente un gruppo di giovani volontari suoi coetanei, insieme si armano con l’aiuto di un capitano di artiglieria e riescono audacemente a sminare un ponte a Chiaiano. Sulla via del ritorno incontrano un drappello di tedeschi con cui si apre un violento conflitto a fuoco, dove viene ferito gravemente. Trasportato in ospedale dai compagni sopravvissuti su di una ”carrettella”, si salva la vita quasi per miracolo, ma rimane per sempre con una gamba claudicante.   

 

Spinto dagli amici di Chiaiano, inizia a frequentare la scuola di canto del maestro Gaetano Lama e del cantante Vittorio Parisi che lo prendono subito a ben volere e ne intuiscono le sue eccellenti doti canore. Dopo pochi mesi, presentato dallo stesso Parisi, debutta al Teatro Reale di Napoli ottenendo un lusinghiero successo, ma la sua carriera viene subito osteggiata dall’impresario del teatro che vuole favorire i suoi cantanti e lo esclude dagli spettacoli. Affronta così un momento estremamente duro e difficile. Frequenta la Galleria Umberto I, di fronte al Teatro San Carlo, dove si riuniscono spesso cantanti e attori disoccupati in cerca di scritture che non arrivano, ma l’anno successivo

partecipa ad un concorso bandito dalla Rai per voci nuove e riscuote un clamoroso successo. Giunto alla fase finale della competizione, che si svolge 

al Teatro Delle Palme, nel quartiere Chiaia, 

a ridosso della celebre Via dei Mille, 

si classifica primo assoluto


con 298 voti a suo favore, mentre il secondo classificato ne ottiene solo 43. La vittoria giunge come una salvezza: ottiene il premio in denaro di tremila lire ed un contratto con Radio Napoli, e la miseria è abbandonata per sempre. Comincia a cantare in seguitissime trasmissioni radiofoniche con la guida del Maestro Gino Campese che dirigeva in quegli anni Radio Napoli. Su suggerimento di Campese

cambia il suo nome d’arte in Sergio Bruni per non confondersi con un omonimo cantante ed inizia per lui un periodo di grandi successi, 


in un ambiente altamente professionale qual è la Rai di Napoli. Contemporaneamente riprende a studiare per affinare le sue qualità canore. Inoltre, si sposa felicemente con Maria Cerulli e ha con lei quattro figli.   

 

Nel 1949 partecipa alla prima Piedigrotta, trampolino di lancio per le voci nuove, e ha un grande successo con la canzone Vocca ‘e rose di Mallozzi e Rendine, due autori di chiara fama. Negli anni di partecipazione alle successive edizioni di Piedigrotta lancia le canzoni ‘O ritratto ‘e Nanninella, Suonno a Marechiaro, Vieneme ‘nzuonno e nel 1962 si classifica primo con Marechiaro Marechiaro, di Murolo-Forlani. Nel 1960

al culmine della sua carriera ormai consacrata, partecipa per la prima volta 

al Festival di Sanremo e canta Il mare, di Pugliese, e È mezzanotte, di Testa e Rossi, ottenendo uno strepitoso successo di pubblico ed entusiasmando tutta l’Italia.


Ora tutti gli impresari lo richiedono per i loro spettacoli, il Festival l’ha consacrato come grande interprete della canzone napoletana, ma lui si rifugia nella sua bella villa per una pausa di riflessione. Riduce drasticamente le sue esibizioni con la delusione dei suoi fans e il suo repertorio attinge sempre più alle canzoni classiche.   

 

Negli anni Sessanta tiene concerti acclamatissimi in America e in Russia, rifiutando molti altri inviti e rinunciando a fiumi di soldi. Comincia a porsi il problema della continuazione della canzone napoletana in un mondo ormai dominato dall’avvento del Rock e da altre forme musicali. Con il poeta Salvatore Palomba musica Parole povere e Carmela, che diventa subito un classico della canzone napoletana.  

Viene invitato alla trasmissione televisiva Levate ‘a maschera Pulicenella e il sindaco di Napoli Maurizio Valenzi si congratula con lui per la vitalità e la freschezza con cui rinnova la grande tradizione della canzone. 

Tra gli anni Ottanta e Novanta realizza un’antologia della canzone napoletana orchestrata da Roberto De Simone e da lui stesso. Si ricordano anche la sua interpretazione nel film Serenata a Maria, per la regia di Luigi Capuano, e le sue partecipazioni ai film Il viaggio di Vittorio De Sica e Che cosa è successo tra mio padre e tua madre? di Billy Wilder.   

 

Per un certo periodo si dedica anche alla pittura, realizzando delle mostre. 

Fonda inoltre un’associazione dal nome “Centro di cultura per la canzone napoletana”, dove insegna a titolo gratuito canto e chitarra a tutti quelli che ne fanno richiesta. 


In un piccolo teatro di venticinque posti nella sua dimora si esibisce, sempre gratuitamente, con i suoi allievi. Nel 1994 la casa discografica Emi, la più importante in assoluto, pubblica l’album Sergio Bruni, la voce di Napoli.   

 

Nel 1995 tiene
.

due memorabili concerti: il primo ha luogo a Napoli, a Piazza San Domenico Maggiore, alla presenza del sindaco Antonio Bassolino, con diecimila spettatori in delirio, 

il secondo a Roma, al Teatro dell’Opera, per volontà dell’assessore Gianni Borgna, 

che in quell’occasione scrive «Sergio Bruni è la voce di Napoli».


Anche Eduardo De Filippo, nel riprendere questa citazione, gli dedica una poesia.   

 

Nel 2000 lascia Napoli e la sua bella villa per ritirarsi a Roma, dove vivono le sue due figlie, e da allora si interrompono per sempre le sue performance.   

 

Cosa ha rappresentato Sergio Bruni per Napoli è presto detto: con la sua voce soave ha interpretato la più autentica canzone napoletana, quella che tocca il cuore per la sua poeticità e per la sua semplicità narrativa, allietando persone di tutti i ceti sociali, da quelli più popolari a quelli alto borghesi. Sergio Bruni, «la voce di Napoli», ha cantato per tutti coloro che chiedevano di sognare trasportati dai versi immortali e da quella melodia le cui radici si innestano nella grande tradizione musicale e canora napoletana. Quest’uomo semplice e schietto, modesto ed eccelso, generoso ed altruista rispose con il suo canto al loro bisogno di poesia. Su YouTube oggi vi sono migliaia di visualizzazioni dei suoi video e commenti entusiastici, a testimonianza di quanto sia ancora apprezzato.

 

 

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