APULIA LANGOBARDURUM di Gianluca Anglana – Numero 7 – Aprile 2017

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L’epoca delle grandi migrazioni in Europa colmò un ampio arco di tempo, divaricatosi tra il III e il IX secolo. Fu come una slavina, appena annunciata da pochi grani di neve: dapprima si trattò di semplici razzie e scorribande, successivamente di vere e proprie trasmigrazioni di popoli. Con il progressivo indebolimento dell’Impero Romano in Occidente, queste ondate di oceani umani divennero sempre più frequenti e massicce fino a cristallizzarsi in apparati amministrativi e addirittura in regni associati1.

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APULIA LANGOBARDURUM

 

Dal caos liquido del Medioevo emerse una civiltà tuttora avvolta in una foschia di mistero e per questo affascinante: la civiltà dei Longobardi.

Nella sua Historia Langobardorum Paolo Diacono, monaco longobardo cui fu affidato il compito di narrare l’epopea della propria gente, ne dipinge in maniera plastica e protoromantica il momento del primo ingresso in Italia: “Quando dunque re Alboino giunse ai confini dell’Italia con tutto il suo esercito e con una moltitudine di popolo promiscuo, ascese un monte che si innalza in quei luoghi e lì contemplò quella parte d’Italia fin dove poté spingere lo sguardo”2.

Di certo, essi avvertirono il magnetismo esercitato sulla periferia europea dai fasti e dalla grandezza dei gangli centrali dell’Impero. Nel contempo, essi erano però divorati dall’ansia di distinguersi rispetto alle massime autorità del tempo, cioè rispetto al Papa di Roma e all’Imperatore di Costantinopoli4: lo fecero rivendicando a lungo il loro credo ariano e issando i vessilli del proprio indomito orgoglio germanico. Tra le loro icone più rappresentative scelsero San Michele, il milite per eccellenza, il vendicatore incaricato di punire il Diavolo che osò paragonarsi a Dio. La smania di tutelare il Simbolo e di aggiudicarsi il prestigio di uno dei più noti luoghi micaelici del mondo cristiano spinse il Duca longobardo Romualdo, nella seconda metà del settimo secolo, a muovere da Benevento verso il Gargano, per mettere il Santuario dell’Arcangelo al riparo dai frequenti saccheggi di profanatori provenienti da Est: fu allora che quei luoghi sacri volsero le spalle a Levante ed entrarono nella sfera di influenza germanica.

creature entrambe di natura divina e dal caratteristico equipaggiamento militare (la prima munita di una spada, la seconda di una lancia denominata Gungnir).Galvanizzati dai loro stessi successi militari, i nuovi conquistatori si avventurarono più a Sud, quasi seguendo la Linea di San Michele, quella retta immaginaria che l’Europa tatua su di sé tra punti talvolta equidistanti e sempre corrispondenti a Santuari dedicati al Monarca degli Angeli.

A testimonianza della presenza longobardica a Trani si citano oggi alcuni ritrovamenti funerari in pieno centro storico e l’antichissima Chiesetta di San Martino. La rapacità dei Duchi di Benevento ispirò, negli anni settanta del settimo secolo, un’altra difficile spedizione, destinata a culminare nella conquista del Salento settentrionale. Di queste turbolenze si trova cenno, ancora una volta, nell’Historia Langobardorum: “Romualdo, duca di Benevento, messo insieme un grande esercito, espugnò Taranto, e nello stesso modo conquistò Brindisi, sottomettendo al suo potere tutta la vastissima regione circostante”9. Si direbbe quasi che, col tempo, i Salentini abbiano rimosso il ricordo di Signori germanici e delle loro insaziabili truppe (forse perché la fede di costoro era in definitiva un’eresia e quindi una devianza rispetto all’ortodossia romana).

Il loro territorio fatica invece a scrollarsi di dosso il proprio passato.

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Ai Longobardi, figli bellicosi delle gelide lande del Nord, la Penisola, fertile e ricca di auree città, dovette forse apparire una sorta di Terra Promessa3.

Monte Sant’Angelo è un sito di notevolissima rilevanza di ordine storico-artistico, tanto da essere annoverato nella lista dell’Unesco.

La sua struttura colpisce per una peculiarità: nelle viscere del Santuario vero e proprio si apre una cavità rupestre, dove la fede attesta un’Apparitio dell’Arcangelo. È questo il dettaglio che desta maggiore interesse e che potrebbe avere agganciato la memoria genetica dei guerrieri dalle lunghe barbe; il tema della “grotta”, come luogo sacro, infatti, rinvia al prodigio di cui parla ilDiacono: “Negli estremi territori della Germania, verso nord-est, sulle rive dell’Oceano, sotto un’alta rupe si scorge un antro nel quale sette uomini, non si sa da quanto tempo, riposano assopiti in un lungo sonno, così integri non solo nei corpi ma anche nelle vesti, che (…) sono oggetto di venerazione per quelle genti incolte e barbare (…)”5.

Insomma, Monte Sant’Angelo era, in Italia, ildove in cui replicare l’ancestrale immaginario norreno6, sia per la sua morfologia sia per le analogie iconografiche tra l’Arcangelo Michele e il Dio germanico Wotan7,

L’antica Tarenum, il municipio romano oggi noto come Trani, fu strappata a Bisanzio dai Longobardi, che ne rinforzarono le strutture difensive e ne ampliarono il perimetro8.

Muovendosi ancora più in giù, lungo la Linea di San Michele, si arriva a Crepacòre, nel brindisino. Una terra la cui avvenenza si apprezza anche quando il sole latita e grossi nembi fluttuano bassi,

quando le nubi sembrano un battaglione lanciato all’attacco contro un nemico invisibile e si muovono minacciose, di quella rapidità con cui si compone e si disfa il mutevole cielo invernale di Puglia. Rotolano, rimbalzano, si avvinghiano l’una all’altra e si accalcano vorticosamente, gettando di quando in quando occhiate violente sull’erba e sulla terra bagnata. In simili giornate, bave di luce trafiggono le masse d’aria come lunghe spade, al punto da quasi poter vedere il braccio dell’Arcangelo fendere le nuvole come un missile, allungarsi sul mondo degli umani e puntargli contro lame incandescenti. Crepacòre ha già solo nel nome l’evocazione di una bellezza tagliente. Quella che un tempo fu la Messapia ha, qui, conservato il suo aspetto più selvaggio e autentico. Qui, la monotonia della sonnolenta pianura salentina si perde, il terreno si arriccia in declivi e si solleva in alture inaspettate, le coltivazioni fanno posto a piccole selve.

Nel notoriamente assetato Salento fa un certo effetto scorgere un rio, il cui timido serpeggiare tra le campagne è tradito dal nastro verde della vegetazione e dall’ondeggiare dei canneti. É il canale di Galesano.

Volendo prestare fede ad alcune teorie, questo rigagnolo, assieme ai terrazzamenti circostanti, potrebbe essere una delle prove dell’esistenza del Limitone dei Greci, ovvero il mitico Limes tra i territori bizantini e i possedimenti longobardi. L’ipotesi ottocentesca di un confine fisico tra i due domini in perenne e cangiante frizione tra loro è in verità di recente avversata, soprattutto a causa di un’endemica mancanza di riscontri oggettivi. Da più parti si sostiene ormai che il Limitone dei Greci, come enorme muro di confine, non sia mai realmente esistito: in caso contrario, esso avrebbe avuto la stessa imponenza del Vallo di Adriano. Non pare plausibile che il cosiddetto Paretone fosse un mastodontico sistema di muraglie. Per spiegarne la natura è forse opportuno ricorrere al concetto che i Romani avevano di Limes: un complesso sistema di mura e palizzate con scopi dichiaratamente difensivi. Si pensi ad esempio al Limes Germanico-Retico che era nulla più che una palizzata alta circa tre metri e che, con fortificazioni e torri, correva lungo un fossato per oltre cinquecento chilometri. Di questa struttura, in Germania, non resta quasi più nulla, ma nessuno si arrischia per questo a giurare che essa non sia mai esistita. A sostegno di questa tesi, taluni segnalano in particolare che“a proposito dei fondi militari romano-bizantini, si è studiato di dimostrare che nelle provincie greche dell’Italia meridionale persistette il sistema adottato dai primi tempi dell’Impero romano a difesa dei paesi di confine, ponendo fra l’altro in risalto che dove mancavano ripari naturali (fiumi, monti, clusurae), se ne costruivano di artificiali, indicati a preferenza con la parola limes”10. Altri propugnano che“in conclusione, la frontiera bizantino-longobarda pugliese appare come una zona di fluttuazione, di integrazione o di contiguità di influenze, che non sembrano arginate da frontiere stabili e durature”11.

Questa reciproca compenetrazione culturale ha dato i suoi frutti, come la splendida Chiesetta di San Pietro in Crepacòre, rarissimo punto di sintesi tra le due culture antagoniste: quella greca e quella longobarda.

Circondato da una natura più sensuale che mai e da una minuscola necropoli, il tempietto di San Pietro colpisce in primo luogo per le sue cupole in asse, caratteristica tipica delle costruzioni sacre di matrice longobardo-beneventana L’interno, un tempo completamente affrescato, conserva oggi solo una parte delle sue pregevoli raffigurazioni agiografiche. Ciò che ne resta è comunque di straordinaria fattura. Tra gli affreschi si legge, in greco, un’iscrizione votiva: “Questo tempio è stato edificato per la remissione dei peccati del servo di Dio … e della sua consorte Veneria e dei loro figli. Amen”. L’identità dell’agiato committente è rimasta a lungo ignota: grazie a recenti studi, si è potuto ipotizzare che il misterioso VIP fosse un certo Gaiderisio, principe beneventano e quindi di alto lignaggio longobardico, chiamato ad amministrare la città di Oria, “nodo strategico nei collegamenti via terra fra Jonio e Tirreno e “porta” del Salento per chi provenisse da Settentrione”12. Accedere in questi luoghi, farsi largo nella boscaglia, risalire o discendere queste alture seducenti è un po’ come varcare unoStargate aperto su una dimensione temporale semignota, gettarsi a capofitto nella cisterna del passato e naufragare sui lidi di altre ere, quando sentinelle di popoli in stato di costante belligeranza si scrutavano l’un l’altra sui terrapieni di confine e sul ciglio dei tempi.

 

1 Cfr. Federico Zeri, Dietro l’immagine, TEA (1987), p. 36.

2 Paolo Diacono, Storia dei Longobardi, BUR, p. 243. Questa evocazione, quasi cinematografica, è carica di atmosfere oniriche, come alcune opere del pittore tedesco Caspar David Friedrich, e tradisce il pulsare di alcune peculiarità della Germanitas, che in fondo non sono mai del tutto scomparse.

3 Bruno Luiselli, La Società longobardica del secolo VIII e Paolo Diacono storiografo tra romanizzazione e nazionalismo longobardico, BUR, p. 18.

4 Si ricordi che lo Scisma d’Oriente avvenne nel 1054. 

5 Paolo Diacono, Storia dei Longobardi, BUR, p. 151. 

I Longobardi, che in origine si sarebbero chiamati Vinnili, originerebbero dalla Scandinavia (v. UTET, 1967, XI – p. 445.). 

7 Wotan, alias Odino, è la divinità principale della mitologia germanica. 

8 Si tramanda che furono proprio i Longobardi a inglobare nel tessuto urbano di Trani la zona ebraica, prima di essi fuori le mura. 9 Paolo Diacono, Storia dei Longobardi, BUR, p. 485.

10 G. Antonucci, Note critiche di Japigia, a. IV, pp. 78-80.

11 G. Stranieri, Un Limes bizantino nel Salento? La frontiera bizantino-lomgobarda nella Puglia meridionale. Realtà e mito del Dzlimitone dei grecidz, p. 7. In questo interessante studio si assume che Dzperfino qualora la consistenza storica del limitone dei greci dovesse essere provata, in definitiva, esso dovrebbe essere visto piuttosto come una linea di delimitazione o di dissuasione che non come una muraglia confinariadz.

12 Dizionario biografico Treccani.it. 

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