IL SUD È UN DONO? – Intervista a Valeria Parrella di Giuditta Casale – Numero 8 – Luglio 2017

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IL SUD È UN DONO?

 

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Chiedo a Valeria Parrella, scrittrice napoletana tra le più interessanti del panorama letterario contemporaneo, e feconde nella capacità di creare immaginari esistenziali e di indagare l’animo umano.

Ma cazzo, è un dono. – mi risponde, con la straordinaria capacità di fondere lo sguardo tagliente e ruvido sulla realtà alla felicità piena della parola, mai abusata e sempre pluristratificata di suggestioni, che in parte provengono dalle letterature antiche su cui si è formata e che ancora plasmano l’universo da lei narrato. –  È il dono che l’ente supremo dei doni, cioè il principio evolutivo, ha voluto concedere al mondo per bilanciare il nord.   
 
Se dovessi offrire in dono alla divinità un elemento del sud, quale le porgeresti? E quale invece è talmente irrinunciabile che lo terresti stretto a te, senza cederlo a nessuno, uomo o dio che fosse? 
 

Nulla è irrinunciabile, ma mi fa fatica pensare a una divinità, non sono abituata.

 

Allora facciamo che posso portare in dono a un extraterrestre qualcosa del sud, mhh, vediamo gli porterei una pianta di limone, una di ulivo e una di vite. Così posso tenerne altre strette a me.


Valeria Parrella ha nelle corde sia il respiro profondo del racconto (“Mosca più balena”  con cui nel 2003 esordisce per Minimum fax, a cui segue per la stessa casa editrice “Per grazia ricevuta”, e ancora “Troppa importanza all’amore” per Einaudi) sia  l’ampiezza dello sguardo del romanzo: “Lo spazio bianco”, “Lettera di dimissioni” e “Tempo di imparare” pubblicati con Einaudi; “Ma quale amore” con Rizzoli, poi ripubblicato nei tascabili Einaudi; e da pochi giorni di nuovo in libreria con “Enciclopedia delle donne. Aggiornamento”, un romanzo “scostumato” come me l’ha definito lei stessa. La sua produzione attinge anche alla polifonia del teatro, la molteplicità e l’effetto scenico delle parole: “Il verdetto”, “Ciao maschio” e “Euridice e Orfeo” per Bompiani; “Tre terzi”, insieme a Diego De Silva e Antonio Pascale, e “Antigone” per Einaudi; nel 2011 il libretto “Terra” su musica di Luca Francesconi.

 

Valeria Parrella ha il dono di una scrittura che misura con grazia e attenzione maniacale il peso delle parole, che scava nei diversi registri linguistici, letterari e non solo, per portare alla luce prospettive e visioni inedite dell’interiorità

 

Capace di presentare personaggi che nella loro individualità assurgono a emblemi di una condizione esistenziale universale. 

 

Nei tuoi romanzi i luoghi non prendono mai il sopravvento, sono sempre filtrati dai personaggi e dalla loro percezione emotiva. Penso ai posti frequentati dalla madre in “Tempo di imparare” o a quelli vissuti dalla protagonista di “Lo spazio bianco”. Forse una loro più forte caratterizzazione c’è in “Lettera di dimissioni”, che tra i tuoi libri è quello in un certo senso più “civile” e meno introspettivo. Con “Ma quale amore” dalla Napoli dei romanzi precedenti la scrittrice protagonista passeggia per le strade di Buenos Aires, il sud letterario per eccellenza. Nei racconti invece il tuo orizzonte geografico appare più vario. Che valore hanno i luoghi, quelli meridionali in particolare, nella tua narrativa? È fuorviante osservare che nei romanzi rimani più ancorata a Napoli, e nella forma del racconto “emigri” in altri luoghi, senza mai lasciare veramente la città partenopea? Si potrebbe arrivare a ipotizzare, anche attraverso i luoghi narrati, che nei romanzi Valeria Parrella regala più della sua autobiografia, e nei racconti invece il distacco è più netto?  

 

L’unico problema è Napoli, intendo come luogo tutto, geografico e umano. Perché tra teatro letteratura cinema e televisione capisci che archetipo e stereotipo comune che ne abbiamo e a cui bisogna sempre cercare nuove smussature, facce nascoste, o rifiutarlo…insomma un casino. Il resto del sud, la provincia per esempio non mi spaventa quanto Napoli.

 

Il mio sistema è non verificare, lasciare che il ricordo abbia il sopravvento sulla realtà. Insomma spaesarmi.

 

Rispetto all’autobiografismo non sono d’accordo. No: credo che siano profondamente autobiografici i temi che tratto, nello spazio di una racconto o di un romanzo, o di una piece teatrale. Alla fine mi interessano cinque o sei cose e tutta la mia produzione è una declinazione di queste. Gli avvenimenti, cioè le storie che racconto invece non sono MAI autobiografici. Non c’è una, per dire, delle mie voci narranti, non c’è un IO che sia davvero mai stata io.

 

Le tue meravigliose donne: non ce n’è una che non sia stata un po’ ME. Non è forse questa la forza straordinaria della letteratura: non parlare di sé ma parlare al sé, che è in ciascuno? I tuoi libri sono molto amati, tradotti e i testi teatrali rappresentati in molti luoghi: veicolano un’idea di sud o l’appartenenza a una geografia narrativa e letteraria non ti interessa? Ti senti in un certo senso di rappresentare come scrittrice una nozione di sud, e quale?   

 

Allora: a me non interessa, cioè nel momento in cui scrivo non ho un obiettivo, non mi interessa di nulla e di nessuno. Se poi a posteriori arriva questa idea di sud e di donne mi va benissimo, visto che sono una donna del sud.

 

Mi chiedo ad esempio se la madre di “Tempo di imparare” non sarebbe una donna o una madre diversa lontana da Napoli,

 

e lo stesso per Clelia, di “Lettera di dimissioni”, se la sua vicenda professionale non sia straordinariamente legata a una certa “politica” caratteristica, anche se non unica, del meridione. No, non credo. “Tempo di imparare” è un romanzo così intimo che non ha collocazioni spazio temporali, e ho conosciuto tante donne nel mondo e fuori dal mondo (detenute per esempio) con bambini disabili e ti dico che la geografia non c’entra nulla. Anche per Clelia non credo: quella politica lì non appartiene al sud, appartiene alla ex sinistra e a Roma o a Milano è uguale. Certo, Clelia non potrebbe essere una scandinava, questo sì. Ma in Italia potrebbe stare dappertutto.   

 

Quale delle tue protagoniste, includendo anche le eroine mitiche come Antigone ed Euridice, è più necessaria oggi al sud, e con chi l’accompagneresti?   

 

Scelgo la protagonista di “Lettera di dimissioni”, Clelia: una donna dal passato comunista, che deve ricollocarsi nello spazio e nel tempo. Credo che quello sia il mio vero romanzo civile. E la farei andare a cena con Jane Eyre.

 

“Sono una donna del sud”: c’è stato un momento nel tuo percorso letterario, in cui questa affermazione è stata pronunciata con orgoglio? Oppure ti sei trovata ad affermare con più disinvoltura:
“sono Valeria Parrella”?

 

Sono Valeria Parrella e sono una donna del sud che più sud non si può. E certo che c’è orgoglio nel dirlo, cosa altro? Però ti dico pure che se mi sento più vicina ai sud che ai nord, alla Grecia che all’Olanda, è anche vero che penso sempre che dove nasciamo è un caso, altrimenti non potrei capire profondamente le migrazioni e pensarle come una possibilità di rinascita, per chi parte e per chi accoglie.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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UN GIGANTE DI PIETRA – IL CASTELLO DI CORIGLIANO D’OTRANTO di Gianluca Anglana – Numero 8 – Luglio 2017

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UN GIGANTE DI PIETRA

 

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«È il vento», disse Matilda, «che sibila tra i merli della torre lassù: l’hai udito migliaia di volte»

Quando, nel 1764, consegnò alle stampe Il Castello di Otranto, dando così avvio alla fortunata stagione letteraria del romanzo gotico, Horace Walpole immaginò anche sulle residenze fortificate del Meridione italiano la coltre di oscure atmosfere tipica dei manieri inglesi.

 

In realtà, i numerosi castelli piantati qua e là come enormi bulloni sulle pianure salentine hanno assai poco a che fare con l’estetica un po’ dark dei territori di Sua Maestà. Essi sono giganti di pietra, immersi nella luce del Mezzogiorno, piuttosto che trappole di sassi, ove vagano gli spettri di vegliardi o di monache sanguinolente[1]. Tra tutte queste fortezze, spicca, per fascino e grandiosità, una in particolare: quella di Corigliano d’Otranto. Le origini di questo borgo sono molto antiche e tuttora dibattute. Di certo Corigliano, forse messapica di nascita, fu risucchiata nell’orbita della Magna Grecia, per non uscirne di fatto mai più:

 

Corigliano è tuttora grika. È parte della cosiddetta Grecìa Salentina ovvero di un territorio il cui linguaggio tradisce una inequivocabile connotazione ellenofona.

 

Lo stesso toponimo sembra derivare dal vocabolo “χωρίον”, che significa podere. E in effetti, nel corso del Medioevo, Corigliano fu un casale. Nel suo passato remoto, il Salento era un coacervo di casali, cioè gruppi isolati di case rurali sparpagliati un po’ ovunque. Solo più tardi questi aggregati abitativi mutarono pelle, irrobustendosi in paesi e centri più o meno grandi e, in alcuni casi, incastellandosi[2]. Le cause, che innescarono il processo storico di mutazione del tessuto socio-urbanistico, furono molteplici e di variegata natura, in particolare strategico-militare, economica e soprattutto politica. Ad una prima epoca, basata sul sistema della proprietà fondiaria o della curtis (unità produttiva fondata su un intreccio di rapporti sociali e politico-giuridici, facenti capo alla nobiltà laica o alla gerarchia ecclesiastica), ne seguì una seconda, denominata signorile. La cerniera tra queste due fasi si situerebbe intorno all’Anno Mille[3].

 
 La signoria feudale «raggruppa in castelli e villaggi una popolazione il cui capo – il Signore – riunisce nella sua persona funzioni di direzione economica dei contadini (…) e poteri di comando»[4]

Con il concentramento delle popolazioni in villaggi e paesi, i Signori – che si erano gradatamente impossessati di territori più o meno vasti – avrebbero avuto maggiore facilità vuoi nel controllo dei laboratores vuoi nell’esercizio del loro potere sul contado. Dal X secolo in avanti, l’Occidente europeo conobbe una stagione d’impetuosa fioritura economica, soprattutto in ambito rurale[5]. Questa lunga fase di congiuntura favorevole vide in Corellianum un indubbio protagonista, in grado non solo di imporre la propria leadership su tutta l’area circostante, ma persino di rivaleggiare con la stessa Otranto nella competizione per il ruolo di traino economico locale. Nel 1465 l’intero feudo coriglianese venne ceduto alla Famiglia dei Monti. Proveniente da Capua, il clan dei Monti giunse in Italia al seguito degli Angiò: anch’esso seppe esprimere, com’era d’uso allora tra le dinastie più blasonate, i suoi capitani coraggiosi, illustri uomini d’arme messi a servizio di questa o quella signoria italiana e spediti a combattere sui campi di battaglia di mezza Europa. Francesco de’ Monti, come diremmo noi oggi, seppe farsi notare: divenne uno dei condottieri più fidati della corona aragonese «che lo utilizzò come ambasciatore in Ungheria (…), in Germania (…) e presso la corte pontificia»[6].   Francesco fu anche ospite nel celebre castello milanese di Ludovico Sforza, presso il quale era stato inviato nel 1498 nel quadro di una complessa missione diplomatica[7]. Si distinse per ardimento durante gli scontri con la potenza turca. Nel 1480, Otranto era stata espugnata dalle forze di Maometto II. La città era così divenuta un nido di vipere, un avamposto da cui scatenare razzie e terrore nell’entroterra: nel Febbraio del 1481, assieme a Galatina e a Soleto, anche Corigliano fu saccheggiata dagli invasori. Fu proprio durante una di queste aspre battaglie che Francesco venne fatto prigioniero e ridotto in schiavitù, per poi riscattarsi tempo dopo[8].

 

Si devono proprio a lui la risistemazione e l’ammodernamento del castello medievale, «il più bel monumento di architettura militare

e feudale in Terra d’Otranto ed (…) il modello più compiuto
del trapasso dalle torri quadre a quelle rotonde»[9].


Le torri, a base scarpata e a tre livelli di fuoco, sono dedicate a quattro Santi e ingentilite dalla raffigurazione allegorica delle virtù cardinali: Michele Arcangelo e la Fortezza; Antonio Abate e la Temperanza; Giorgio e la Prudenza; Giovanni Battista e la Giustizia. Il cortile interno è semplice e austero. Il fossato è ancora esistente. Il corpo centrale e più antico è riconoscibile per la presenza di beccatelli e merlature. Del parco marchesale, un tempo assai esteso, non restano che poche tracce: la sua vegetazione doveva però apparire lussureggiante se, nel 1525, stregò l’umanista bolognese Leandro Alberti. Nella sua Descrittione di tutta l’Italia[10], costui annota che, durante la sua visita a Corigliano, fu condotto da Giovanbattista de’ Monti, figlio di Francesco, nel «giardino, molto vago e bello, pieno di cedroni, aranci e d’altri alberi fruttevoli»[11]: ad accogliere lui e il suo compagno di viaggio, con il loro Signore, «molti nobili huomini a cavallo molto ben vestiti»[12] e i suoi due figliuoli «altrimenti addobbati, et parimente i cavalli, da quel che avanti erano».

 

Quando la famiglia de’ Monti si estinse, Corigliano divenne proprietà di un’altra casata, cioè i Trani, signori di Tutino (oggi un rione di Tricase). Costoro decisero di trasformare la rocca in dimora gentilizia e di intervenire soprattutto in facciata. Realizzata nel 1667 sotto
la direzione del mastro coriglianese Francesco Manuli[13],

 

essa riporta un balcone con decorazioni barocche: doveva essere una sorta di manifesto, una dichiarazione di fedeltà alla corona spagnola. Così venne abbellita da una rassegna di busti dedicati a personalità che contribuirono a fare grande la Spagna (tra loro si ammira anche un ritratto di Cristoforo Colombo).

 

Nei giorni nostri, Corigliano si è riappropriata del posto che le spetta e che dopo tutto ha sempre avuto: quello di riferimento cui guardare in un’ottica, a lunga gittata, di sviluppo del territorio.

 

Oggi il Castello, che è scrigno e tesoro al tempo stesso, è un luogo di aggregazione e sperimentazione. È un centro propulsore del sapere: oltre a custodire una biblioteca, ospita manifestazioni
culturali, mostre, concerti e spettacoli teatrali.


Ma è quando si abbassano le luci, quando le stelle tornano a spiare la terra dal davanzale dell’universo e la notte stende il suo manto di velluto sopra i sogni degli uomini, è solo allora che, nel buio, il gigante sospira e riaccende le sue pietre pallide al chiarore degli astri. E quando la luna soffia il suo lucore tra i rami degli alberi, tramutandoli in ricami neri; quando l’eco delle ultime voci si è ormai sbriciolata come uno sciame di scintille e si ode solo il ronzio degli insetti, è solo allora che, nel giardino muto vecchio di secoli, le sagome scure delle piante tornano a mormorare nel vento come fantasmi e a reclamare ancora il ruolo di testimoni di questa storia antica. 

 

E nell’aria lieve della sera, sotto la cupola delle costellazioni, si può indovinare appena, nel silenzio, il fulgore di quelle ricchezze
che tanto abbagliarono i visitatori venuti da lontano.


«In the hanging garden please don’t speak. In the hanging garden no one sleeps»[14]

 

 

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 [1] Gli spiriti di Alfonso ne Il Castello di Otranto di Horace Walpole e di Beatrice de las Cisternas, la Monaca Sanguinante, ne Il Monaco di Matthew G. Lewis.

[2] Cfr. Raffaele Licinio, Castelli medievali, Ed. Dedalo (1994), p. 30 e, sul web, http://www.perieghesis.it/casali.htm.

[3] Jacques Le Goff, Il Medioevo, Ed. Laterza (1996), p. 27.

[4] Jacques Le Goff, Il Medioevo, Ed. Laterza (1996), p. 28.

[5] Jacques Le Goff, Il Medioevo, Ed. Laterza (1996), p. 59.

[6] Mario Cazzato, Guida ai Castelli Pugliesi – 1. La provincia di Lecce, Congedo Editore (1997), p. 58.

[7] Dizionario biografico Treccani, www.treccani.it.

[8] Mario Cazzato, Guida ai Castelli Pugliesi – 1. La provincia di Lecce, Congedo Editore (1997), p. 58 (il Cazzato lascia intendere che, proprio a seguito di questi eventi, Francesco si accattivò i favori dei Sovrani aragonesi di Napoli).

[9] Mario Cazzato, Guida ai Castelli Pugliesi – 1. La provincia di Lecce, Congedo Editore, p. 60. Quelle qui riprese sono parole di G. Basile di Castiglione.

[10] Si tratta di un’opera che l’Alberti scrisse dopo aver percorso l’Italia intera e che egli dedicò ai sovrani francesi Enrico II e Caterina de’ Medici.

[11] Leandro Alberti, Descrittione di tutta l’Italia (1568), p. 406.

[12] Leandro Alberti, Descrittione di tutta l’Italia (1568), p. 405.[

13] Mario Cazzato, Guida ai Castelli Pugliesi – 1. La provincia di Lecce, Congedo Editore, p. 60.

[14] The Cure, The hanging garden, 1982, Fiction Records.

 

SAN LEUCIO. GENIUS LOCI by Helene Blignaut – Numero 7 – Aprile 2017

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SAN LEUCIO. GENIUs         LOCI

 

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Beauty conquers and makes people fall in love because in addition to the superficial fascination perceived by the human eye, it hides and shows a depth, a ‘substance’ that radiates value and asks not to be retained, but diffused to those who know how to enjoy it.

Beauty infects beauty and, in a place that can appear in the splendor that comes from its own history, everything and every event that enter it will be consequently beautiful and will shine in the same light, naturally following the prospective show created by the admirable container.

 

There is a place in the South of Italy that, just like in a fairy tail,  owes all its beauty to the secular events that occurred in its frame and the great works that were created there.   Works that still today come from the wise hands of artisans to  be  offered  to  the  appraiser’s  intelligence  in  all  their atemporal aesthetic depths that perpetuate the ambition of a  virtuous  synthesis  between  the  handsome  and  the  righteous,  just as the absolute initiator, King Ferdinand IV of Bourbon, intended it to be.  This is why San Leucio, a hamlet of the city of Caserta, by the will of this king, immediately became  an  unpredictable  unicum  of  monumental  nobility  overlooking  green  pensive  landscapes  and  a  human community that found itself privileged in learning the art of weaving silk and the production of extraordinary artifacts.

 

While the Real Colony of San Leucio saw the light and set off quietly and steadily to create, day after day, even in its narrow territorial boundary, the unlimited royal dream, Ferdinand IV’s brothers-in-law 

left their heads under the blade of a bloody revolution.

 

Our king had married Maria Carolina of Habsburg, and Lorena, the sister of the Autri-chienne (Chienne in French means bitch), as she was reffered to by the French people in revolt, Maria Antonietta of Austria, wife ofmarried King Louis XVI. Blood and terror whose echo, however, failed to stop the will of this visionary who, perhaps overwhelmed by the excessive pump of the palace of Caserta, had decided to transform the town into a beautiful niche whose existence and wonder were not to end in itself. A delightful ancient little church already existed, and the King had a hunting lodge built in the Belvedere area, subsequently sending some families to live there so that they would take care of it. The king was endowed with a modern mindset and thus thought of creating a social model of absolute novelty, imposing a harmonious urban layout with a circular square and radial system of roads; Promoting economic autonomy with the creation of a factory for the production of excellent silks, something that had never really been seen before.

   

Not just a visionary but a precursor of that type of equality 

that founded the dignity of living on work but also on social 

security and the consideration of the (yet unwritten) human rights, 

with daily working hours reduced to eleven instead of the fourteen 

in effect in the rest of Europe, with equal pay for men and women, compulsory and free schooling and jobstart schemes 

that took into account the attitudes of young.

 

Even the homes were free and built with all possible comforts of those times. Vaccination to prevent smallpox was mandatory. The management of this endeavor, that was also able to produce a considerable income, anticipated the claim of rights that would later mark the political and social history of the continent. A sort of ‘Fernandinople’ with a Code whose fundamental principles were education, good faith and merit, and where there was no room for distinctions of rank and condition. From the living heritage of the silkworms that were cultivated in the building called the cuculliera, to the preparation of the bundles, the spinning wheels, the looms, the creation of luxurious fabrics for clothing and prestigious furnishings evolved in an extraordinary range of silk brocades with gold and silver, with particular ‘gros de Naples’, and also in an original, innovative fabric called Leucide.

 

 

With the introduction in the first half of the nineteenth century of the Jacquard, the weaving technique of which France was proud, 

the outcomes improved resulting in the creation of objects 

closer to being works of art rather than every day items.

 

The colors were natural, and the cultural inspiration of the unusual nuances imposed definitions that evoked emotions and desires: green willow, Prussia green, Seville, Nile Water… Impressive names of fabrics for upholstery, tapestries, curtains, sofa and pillow covers, but also shawls, corsets, handkerchiefs and other delicious clothing items. The furnishing fabrics fascinated kings and queens and popes, and today they still enrich rooms in the Quirinale, the Vatican, Buckingham Palace, the White House and other prestigious sites. Moreover, famous international fashion designers let themselves be tempted by these for their top range creations. History goes on, the becoming of progress produces decadence and new beginnings; thus, with the advent of the Unification of Italy, the dream of Fernandinople was embedded in the state properties. However, the mythology of a matter born from the imperious will of a king could not succumb.

 

Today, San Leucio’s fabrics remain an exceptional heritage
and, 
in those textures, an unchanged vitality of doing that has 

never ceased to nourish itself remains. With the aid of the
new technologies, without distorting craftsmanship, 

it is possible to create works that still show us the multiple 

depths of their beauty, their history, their utopian legacy,

 

but also the tactile delicacy or the creamy thickness of certain details, the texture – which seems fragrant – of the great floral designs, the tones of crunchy silks. Sensations that stimulate a passionate heuristic attention to discover further meanings. The regal apartments and the weaver’s house are visible today in their museum formula; however, the consortium of companies that descend from those older families is more than ever active and available. Cultural initiatives invoke visitors from around the world: in July, the Leuciana Festival is a historical costume evocation. In October, the Feast of Wine, of Vineyards and of Silk reenacts the same fantasy that animated an ancient king. In the factories and shops is a wealth of treasures to discover.

 

 

 

 

 

Le foto sono state gentilmente concesse dal Complesso Monumentale di San Leucio

 

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SALENTO ARCHITECTURES – THE DEFENSE TOWERS by Giusto Puri Purini – Numero 7 – Aprile 2017

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SALENTO ARCHITECTURES: THE DEFENSE TOWERS

 

Santa Sophia became the “Great Mosque” and a new, great, cultured and aggressive superpower emerged from the Eastern Mediterranean, and quickly came into conflict with the Republic of Venice that, until then, had freely sailed from the Adriatic Sea to the Aegean Sea, with its merchant flows and countless placements and dominions, from Dalmatia to Asia Minor and beyond.Puglia became a strategic knot for Ottoman raids and, despite the occupation of the peninsula in 1484 by the Venetians (that arrived in Taviano), the latter could no longer bend their impetus.Algerian Khaided-Din (called Barbarossa), in 1537, destroyed Castro and Marittima and, on the ionic side, the ancient Ugento.The defense system of Puglia, and in particular of Salento, was unprepared and precarious; between works dating back to the ancient Romans, then to the Byzantines (to defend themselves from the Longobards and Aragoneses), built in the previous centuries in the form of fortified towers and fortified farms, it was no longer up to the task.At this point, in the European context, the fierce conflict between Francis I King of France and Charles V of Spain came to favor the latter and led him to govern a large part of Europe.

The history of Salento is dotted with a myriad of invasions: at first, by populations who became stationary, such as the Messapi and the Japigi; then by the Greeks; Incursions of Saracen pirates, attacks and looting, up to the great danger of the Ottomans which, among other things, cherished in the idea of reuniting the Roman Empire of the East with Rome. It was therefore under the Empire of Charles V that in 1532 the Viceroy of the Kingdom of Naples, Pietro de Toledo, promoted an impressive and strategic first line of defense along the Adriatic and Ionian coasts of Puglia, with the vast promontory extended in the heart of the Mediterranean. As a defense system urbanist he made a project where every tower could see and report dangers to the next one. Horns and bells, or visual alarms such as smoke (in daylight) and fire (at night) were used as an alarm. A second line of defense were the fortified farmhouses and, more inward, imponent castles, among which the Acaya one still stands out today. The ordinance of the Viceroy was strengthened in 1563 by the decree of Don Pedro Afan de Ribera.

This Italy, stretched and bathed by the waters almost everywhere in its circumnavigation, “offered” and acted as attraction and magnet for other populations.

The biblical exodus that millions of people carry out daily in recent years, puts in motion old grudges, fears and imbalances, and there is the need for a new conscience that will bring the great States (colonisers) to develop jobs and margins for a potential growth in the original places, in order to bring our Mediterranean back to being, as it was, a place for merchants, economic-financial exchanges, culture, religion, thought and work.

In 1529, after other conflicts and finally an agreement with Pope Clement VII, Charles V received the recognition of his “sought-after” possessions in Italy, among which the Kingdom of Naples, that included the beloved Puglia (where, morover, he never arrived).

The cost of this endeavour had become so high that, through competition announcements, titles were awarded to those who were willing to build towers, assigning it the title of “Captain of Tower”, who, besides reporting raids and defending with cannons and archibugs, could also collect duties. Whoever did not pay was denied the “right” of defense.

The Towers were then also used to contrast smuggling, that was partially tollerated, to prevent abusive salt trade that was big in those times, given the poverty of peasant populations, and to intercept slave traffic. Those constructed by Charles V, made of regular tuff quarried stones, generally had square or circular planes, with a sloping base; inside there usuallt were 2 levels, and a covered terrace; slits and gratings completed the facade. The Towers were provided with an underground cistern to collect rainwater. In some cases, today, they belong to port authorities and are still efficient whilst many are just ruins (unfortunately) and others have been restored. As Mario Muscari Tomajoli says, “The building of Fortified Observation points has been reported since Plutarch (125-50 BC) and was also made by the Romans, whose trade was put into crisis by pirates until 67 BC, when the Gabinia law allowed Pompey to arm a fleet against ravagers and made the Mare Nostrum calm.”

But this defense system does not exist only in Puglia and in the lower Salento, but in all of Italy’s and many other coasts of the Mediterranean, and marks, as a punctuation in the maps, 

the relationship of love and fear that the great sea carried brought.

Italy’s primacy of civilization, history, fertility of nature and costume imposed the need for self-defense systems, and today 

these wonderful constructions, in the rhythmic flow 

of landscapes, become indelible signs of history.

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I BRONZI RICOLLOCATI di Daniele M. Cananzi – Numero 7 – Aprile 2017

Bronzi di Riace
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I BRONZI RICOLLOCATI

 

Atteso da alcuni anni, il nuovo museo – evento nell’evento – ha portato alla ricollocazione dei Bronzi di Riace nella sede naturale che li ha accolti da quando vennero ritrovati nel 1972 a largo della costa ionica e dopo le operazioni di ripulitura e restauro attente e delicate, che hanno restituito la bellezza e l’incanto dei due nudi del V sec. a.C. che il mare nostrum si è preso la briga di conservare e preservare tanto a lungo.

 

 

E evidentemente, se si ammette l’assunto, è perché l’evento non è poi così tanto piccolo, e perché magari trova compimento in un momento di favorevole concatenazione di fatti che agevolano il verificarsi della novità. Fatto è che nel profondo Sud un evento, piccolo ma non tanto piccolo, si è verificato: la riapertura del Museo Archeologico Nazionale della Magna Grecia di Reggio Calabria. Uno dei più importanti siti magno greci, punto di riferimento internazionale, uno dei pochi edifici progettati sin dall’origine come museo e che esce dalla matita di Marcello Piacentini nel 1932.

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Cosa significa che due capolavori indiscussi dell’arte di ogni tempo sono stati ricollocati nel Museo? Si potrebbe pensare che nulla è più ovvio
di un’opera d’arte in un museo. 
Eppure parlare di evento
non è esagerato in questo caso.

 

Il Sud, specie quando è profondo, si ammansisce dietro un trascorrere del tempo che si dilata e sembra, in taluni casi, quasi arrestarsi. È quanto è accaduto per il Museo di Palazzo Piacentiniquando, sette anni addietro, è stato chiuso per una restaurazione che è diventata una ricostruzione, tanto da mantenere le mura esterne del progetto originario e da ristrutturare lo spazio interno quasi totalmente. Tanti anni, troppi, trascorsi nell’assenza di uno spazio essenziale, vitale, per una città. 
Finanziato nei progetti di elevato interesse tra quelli che dovevano essere rimessi a nuovo per i centocinquant’anni anni dell’Unità d’Italia, i lavori hanno trovato una serie di difficoltà che hanno ritardato il loro completamento, avvenuto solo con l’inaugurazione del 2016. Cose che capitano, purtroppo, togliendo così però spazi essenziali perché “spazi pubblici di apparizione” – per dirla con Hanna Arendt – nei quali e grazie ai quali si mantiene e raccoglie la cittadinanza, si mantiene e raccoglie la vita, quella migliore, di un territorio e di una città.

 

Ricollocare i due Bronzi, allora, ha un forte valore simbolico oltre che culturale. Durante la chiusura del Museo per restauro,essi sono stati trasferiti
a Palazzo Campanella dove a loro volta sono stati sottoposti

a un delicato intervento di ripulitura interna.

 

Si  era  infatti  osservato  che  le  crete di fusione,  rimaste al loro interno,  stavano lentamente corrodendo il bronzo. Con strumenti  chirurgici  e  sonde,  una équipe  specializzata  ha  provveduto  a  rimuovere il materiale in modo da impedire il processo corrosivo. Per tutto il periodo di questo nuovo restauro, i due Bronzi sono rimasti in una apposita sala costruita per permettere al pubblico di seguire le operazioni.

 

Un vetro, come nelle nursery, ha permesso di andare a trovare
i due augusti ‘malati’ nel letto di ricovero, 
rivelando l’amore
e l’affezione non solo di turisti e appassionati,
ma dell’intero popolo reggino.

 

Il quale non ha mancato di farvi visita e così di mostrare la partecipazione –come avviene per ogni degente – alle cure prima e alla guarigione dopo, dimostrando il perdurare di un legame profondo del popolo rispetto ai suoi illustri e antichi campioni che, ora perfettamente ristabiliti, si ergono nuovamente nella sala museale, fieri eredi di un nobile passato, audaci narratori di una storia che sfida, proprio attraverso loro, il tempo. Avere ricollocato i due Bronzi, dicevo, acquista così un valore simbolico altissimo.

 

Si tratta di un intero territorio che tenta di risollevarsi, che ora deve nuovamente ergersi, superando le difficoltà della sua storia recente e meno recente,
per ritrovare la fierezza e l’audacia che non può rimanere solo
entro le mura del Museo a testimonianza del passato,

 

ma da lì ed esemplarmente deve uscire per tornare a vivere tra le vie di una Città, Reggio Calabria, che tenta di risorgere, tra tante difficoltà, per riacquisire lo splendore del suo antico passato. Perché il Museo e proprio dal Museo ci si può aspettare tanto? Perché lì è conservata la memoria, perché nel percorso appassionante che conduce il visitatore dalla Preistoria e dalla Protostoria all’età Magnogreca, passando dalla terra al mare, dal mare alla terra, c’è la possibilità di verificare la grande bellezza e l’ineguagliabile capacità svelata nelle crete, negli oggetti di uso comune, nei pinakes, nelle opere decorative degli edifici pubblici e privati che ci narrano di un gusto, di una spiritualità, di un modo, che in realtà è un modo di vedere lo spazio, un modo di pensare, riempire, abitare lo spazio; di pensare e abitare la città.

 

I due Bronzi ricollocati anche questo rappresentano, e di questo rimangono in un tempo senza tempo – com’è quello che si avverte nella sala quando si è a loro cospetto – esemplari e testimoni.

 

Una terra martoriata, com’è quella della neo Città metropolitana di Reggio Calabria, da qui può e deve ripartire; lavorando sui problemi e superando le difficoltà, ricollocandosi – proprio come i Bronzi – in uno spazio diversamente pensato rispetto a quello asfittico che ne ha segnato drammaticamente, soprattutto dagli anni ottanta dello scorso secolo, una sub-condizione urbana. Anche per la Città c’è da rimuovere incrostazioni che ne deturpano e corrodono l’anima, quella nobile, quella bella; anche per la Città c’è bisogno di una opera di riqualificazione.

 

Ecco perché un evento piccolo, ma neanche troppo piccolo, potrebbe portare una grande novità che deve venire dal popolo innanzitutto.
Quello stesso che ha dimostrato la sua partecipazione
alla salute dei Bronzi 
e che deve volere rivendicare
l’orgoglio del Sud, della sua bellezza 

tutt’altro che sfiorita.

 

E forse proprio il combinato disposto di nuovo Museo, dunque luogo della memoria e del passato, con l’istituzione (nel 2014) della Città Metropolitana, dunque di una nuova struttura amministrativa territoriale operativa e luogo del futuro, potrebbe essere quella concatenazione favorevole per una svolta, finalmente, attesa e desiderata da tempo che i cittadini meritano ma di cui si devono essi stessi fare primi promotori; loro per primi devono riqualificare responsabilmente il loro spazio e le architetture sociali che lo determinano; magari proprio riprendendo quel gusto antico e magno greco per lo spazio pubblico che è bene comune. Una città, in fondo, è fatta dai cittadini, a loro si conforma e con loro cresce o si involve. Nei momenti difficili sono proprio i cittadini, è il popolo che deve riconquistare il diritto ad avere un futuro, esercitando quella tenacia iscritta nel DNA italico e meridionale in particolare.

 

 

I Bronzi ricollocati rappresentano la possibilità, rappresentano la speranza, indicano la via che è quella della bellezza mediterranea, nel tempo e fuori dal tempo, di un modo di pensare il proprio spazio, il proprio futuro.  

 

 

 

 

Cananzi
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 Immagini concesse dal Museo Archeologico Nazionale di Reggio Calabria

 

PALERMO CAPITALE DELLA CULTURA di Ilaria Borletti Buitoni – Numero 7 – Aprile 2017

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PALERMO CAPITALE DELLA CULTURA

 

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Nessuna strada o tratto del cammino umano è mai obbligato. Esistono sempre delle alternative. E se la politica riesce a fare il suo mestiere queste alternative le disegna per poi suggerirle per la scelta libera del popolo. Ciò vale anche in campo culturale. Per questo la vittoria di Palermo come Capitale Italiana della Cultura per il 2018 mi sembra molto significativa.

 

Palermo è stata certo premiata per la qualità informativa del dossier presentato al Ministero, per la significatività del progetto e per la sostenibilità del progetto stesso. Ed il riconoscimento di Capitale Italiana della Cultura è un riconoscimento alla capacità di progetto, 

e non solo alla città più bella o ricca di storia.

 

 

Un progetto che ha un fiore all’occhiello: Palermo ospiterà infatti nel 2018 MANIFESTA12, una fra le principale biennali di arte contemporanea su scala mondiale. “Nel 2018” ha dichiarato il sindaco di Palermo, Leoluca Orlando, “la nostra città sarà di fatto una capitale dell’arte contemporanea e la possibilità di abbinare le attività con quelle di Capitale Italiana della Cultura rappresenta una grande opportunità non solo per Palermo, ma per tutto il nostro Paese. La Capitale italiana potrà diventare un palcoscenico, facendo di quello che sarebbe un evento nazionale, un grande evento internazionale. La visibilità internazionale data da Manifesta sarà uno straordinario strumento per venire incontro alla volontà del Governo di diffondere il valore della cultura come volano per la coesione sociale, l’integrazione e lo sviluppo”.

 

Dunque non di sola bellezza parliamo. Palermo infatti non primeggia così tanto rispetto agli altri finalisti ­Alghero, Aquileia, Comacchio, Ercolano, Montebelluna, Recanati, Settimo Torinese, Trento e l’Unione comuni
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Lo ha spiegato del resto assai bene il Sindaco del capoluogo siciliano Leoluca Orlando quando, andando al microfono per ringraziare e dichiarare la propria gioia per la vittoria, ha subito “costretto” tutti gli altri sindaci a salire sul palco con lui, perché “questa è una vittoria di tutti”, e “nessuno può vincere da solo”.

 

 

Ma piuttosto Palermo ha vinto perché con Palermo vince e afferma la sua forza un modello di cultura che si è fondato nei secoli sulla capacità
di essere crocevia tra diverse civiltà, ­con un’impronta indelebile
lasciata da quella araba­ e diversi popoli, 

 

 

piuttosto che sulla capacità di erigere muri sempre più alti, come sembra purtroppo essere la moda odierna. Muri la cui altezza è direttamente proporzionale all’incapacità di stare nel mondo del territorio recintato. 

 

 

Palermo ci parla invece della forza e della vitalità che viene dal sapersi mescolare in spezie e pensieri, in tratti artistici e tratti somatici, 

in caratteri linguistici e musicali.

 

 

Questa capacità di attrazione ­- questa e non altro – è il vero segreto per una forte capacità di innovazione anche economica, come dimostra la resistenza che sta opponendo la Silicon Valley ai propositi isolazionisti del neo Presidente Trump. Su questo si è basato il segreto della prosperità di Palermo, da cui si è irraggiata la sua grande cultura e da cui, ­non a caso, è nata anche la nostra lingua italiana. Non appena anche a Palermo si sono cominciati ad erigere muri, essa ha cominciato a spengersi. Teniamolo a mente.

 

 

PalSolo cercando di governare i processi storici e vincendo paure
e superstizioni, una nazione può prosperare. E il mondo
diventare un po’ più sicuro. 

 

 Grazie Palermo.

 

 

 

 

 

 

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QUANDO LA SICILIA INCONTRÒ D’ANNUNZIO di Franca Minnucci – Numero 7 – Aprile 2017

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QUANDO LA SICILIA INCONTRÒ   D’ANNUNZIO

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A questa pubblicazione non era estraneo l’interessamento del poeta che aveva conosciuto il giovanissimo studente, all’epoca poco più che ventenne, e ne aveva avuto grande stima e ammirazione. Il poeta aveva trovato l’analisi dei suoi lavori geniale e particolarmente interessante; e forse è per questo che, terminato il suo furore creativo, finita la tragedia – La figlia di Iorio – nel bucolico soggiorno a Nettuno, il primo pensiero del poeta, in quei giorni di fine agosto, fu di invitare lo studente e proporgli la traduzione del dramma in siciliano. Ce lo racconta in un articolo sul Corriere della Sera lo stesso Borgese: “D’Annunzio, compiuta la tragedia pastorale, mi telegrafò ch’io andassi a visitarlo a Nettuno; e lì volai; lì, dov’era già de Karolis, fui suo ospite fra i lecci di Villa Borghese che Fausto Maria Martini chiama ampollosi; lo vidi la mattina cavalcare un cavallo scuro di nome Pertinace; e nel pomeriggio udii dalla sua voce d’araldo La Figlia di Jorio.

 

Era cosa fresca e bellissima, un Aminta davvero agreste, un melodramma tutto pieno di musica senza bisogno di strumenti musicali; a me parve  miracolosa; e meraviglioso dono mi parve l’invito del poeta a tradurre il poema per la compagnia siciliana di Grasso nel mio dialetto nativo,

 

 

e a dargli “la seconda vita”, come egli poi troppo benevolmente mi lodò di aver fatto dedicandomi il libro”. Il giovane siciliano si impegnò moltissimo nella traduzione e come dichiarò egli stesso: «stesi giù una Figghia di Joriu in un siciliano illustre e colto che ricalcava anche nei versi e nelle assonanze il testo originale». Le prove con la compagnia Grasso iniziarono a Roma nel maggio del 1904, sull’onda del successo che La figlia di Jorio stava avendo con la compagnia Talli, in tutti i teatri d’Italia, da quella prima memorabile al Lirico di Milano del 1° marzo, così raccontata da d’Annunzio: «Quando La figlia di Iorio andò in scena a Milano, io, ad inizio di spettacolo, mi allontanai dal teatro. Ero, al solito, sereno; e solo ero veramente curioso di vedere che avrebbe pensato del mio pastore mistico e allucinato e della mia fola abruzzese, tanto diversa, e dei suoi riti, il pubblico milanese, il pubblico della ricchezza e del lusso, dei salotti e dei teatri. Mi aspettavo burrasca. Come mi parve che il primo atto fosse per finire, consultai l’orologio e tornai in teatro. Entro in palcoscenico e vedo un attore con la testa insanguinata: era caduto, credo per epilessia e si era ferito alla fronte: era Talli. L’atto era, però, finito proprio all’ora. Oltre il sipario, nel pubblico un silenzio: un silenzio sepolcrale come una pausa. Pensai, mi chiesi rapidamente: non è piaciuto? E allora scoppiò un tuono, un applauso solo, impressionante».

 

 

   L’edizione siciliana della Figlia di Jorio andò in scena invece solo qualche          mese  dopo, al Costanzi di Roma. Era il 17 settembre. La prima lettura      sembra che si sia svolta sul palcoscenico dell’Adriano e le prove
furono molto laboriose; Giovanni Grasso e gli attori emozionati
fino alle lacrime, tanto che d’Annunzio dichiarò che non aveva mai visto interpreti intenerirsi tanto della loro parte ad una semplice lettura.

 

 

Erano infatti schierati i più grandi attori siciliani come Mimì Aguillia, Maiorana, Angelo Musco e tanti altri. D’Annunzio aveva una grande ammirazione per Grasso e non nascose mai un giudizio esaltante sulle sue capacità attoriali. Lo spettacolo, nonostante le tante difficoltà, parve a tutti bellissimo; il pittore Pietro Sassi aveva allestito straordinarie scene e l’introduzione del poeta Martoglio, sostenuto da una base musicale, aveva dato il via ad uno spettacolo – melos – intensamente vicino all’anima dell’Isola che fonde in un’armonia di suoni, di colori, di sapori, la dolcezza e la forza, la violenza e la delicatezza.

 

   Una traduzione dove i motivi popolari venivano cantati con dolcezza e     armonia e dove le nostre incanate erano diventate delle nenie ossessionanti
e violente e dove, ancora con un grande colpo di genio teatrale, si erano riportate integralmente le lamentazioni delle prefiche ancora in uso
nelle provincie di Catania e di Trapani.

 

 

D’Annunzio fu chiamato in proscenio tantissime volte e si trascinò sul palco un riluttante giovanissimo Borgese a ricevere i meritati applausi di un pubblico tra l’altro competente ed esigente: basti pensare che in platea erano seduti personaggi come Mascagni, Franchetti e lo stesso Edoardo Scarpetta, arrivato per l’occasione da Napoli. Grande merito, quello di Borgese, di aver risvegliato, attraverso le parole di d’Annunzio, quelle muse sicule che lo stesso Virgilio invocava e di aver ricondotto la lingua siciliana ai suoi fasti letterari più alti e nobili Questo “file rouge” che ci unisce alla Sicilia credo che dovrebbe essere più conosciuto e più amato sia dai concittadini abruzzesi che da quelli siciliani, perché solo attraverso queste comuni radici ed esperienze si può ritrovare il senso e il valore della nostra civiltà. E, come scriveva Eleonora Duse proprio da Palermo, ritrovare proprio nell’azzurro di quel mare, che è anche il nostro, la vita e l’amore.

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Infatti il 1° e il 16 settembre 1903 sulla Nuova Antologia erano apparsi due articoli di un giovanissimo Giuseppe Antonio Borgese, dal titolo L’opera poetica di Gabriele d’Annunzio il primo, e Dal Canto Novo alla Laus vitae l’altro.

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«Chi legge le “Laudi” vive nel centro di un cerchio al di là del quale non v’è che il dubbio e il nulla. Vive dunque in un capolavoro»

 Gabriele D’Annunzio – Foto dai libri Meyers Lexicon scritto in lingua tedesca. Collezione di 21 volumi pubblicati tra il 1905 e il 1909.Diritto d’autore a href=’httpsit.123rf.comprofile_nicku’nicku 123RF Archivio Fotografico

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LA VUCCIRIA DEV’ESSERE SALVATA di Salvatore Maraventano – Numero 7 – Aprile 2017

LA VUCCIRIA DEV’ESSERE SALVATA  

 

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 Fino a qualche tempo fa, quando voleva farsi riferimento ad un evento che non sarebbe mai accaduto, in dialetto palermitano si diceva che sarebbe successo quando le balate della Vucciria si sarebbero asciugate.
 

In effetti, per centinaia di anni, il pavimento di Piazza Caracciolo, cuore pulsante di quello che, un tempo, era il mercato della Vucciria, è rimasto costantemente bagnato per effetto della massiccia attività di vendita del pesce e conseguente scarico del ghiaccio. Anche lo stesso nome del mercato racconta, poi, qualcosa della sua gloriosa storia: vucciria, in siciliano, significa “casino”, rumore, e testimonia la presenza dei cosiddetti abbanniatori (dal siciliano abbanniare: gridare), mercanti che propongono la loro merce con un urlo intonato che arriva a sembrare quasi un canto.

 

Ebbene, ciò che un tempo era metro di paragone dell’ impossibile è infine successo; le balate della Vucciria si sono asciugate.

 

Passeggiando per la piazza del mercato si percepisce un silenzio che, per chi ha memoria, è quasi assordante: gli abbanniatori non ci sono più. I commercianti rimasti nel mercato, ormai, sono veramente pochissimi. Ancora più inquietante, poi, è la desolazione di tutto il quartiere circostante – chiamato Della Loggia –in cui la fanno da protagonisti antichissimi e un tempo stupendi palazzi nobiliari abbandonati, diroccati, caduti in rovina, dove ormai a vivere è rimasta solo la nostalgia di tempi migliori.

 

 Le cause dello stato in cui versa oggi tutto il quartiere della Loggia – che per mille anni, grazie alla sua vicinanza col porto, è stato casa di ricchi armatori e mercanti provenienti da tutto il Mediterraneo e oggi, invece, è un deserto di tufo – sono molteplici e tutte, più o meno, legate alla complicata storia del capoluogo siciliano e alle sue contraddizioni.

Durante la seconda guerra mondiale, la città di Palermo subì numerosissimi bombardamenti che ne sfigurarono i bellissimi palazzi nobiliari del centro storico. In quel periodo, le classi più abbienti si spostarono verso le periferie o verso i paesi delle montagne per sfuggire ai pericoli della guerra. Le classi più povere, invece, non ebbero la stessa possibilità e furono costrette a subire la pioggia di bombe. I danni agli edifici, oltre che quelli alle persone, furono enormi, al punto che la maggior parte dei palazzi risultava completamente inagibile. Nell’ immediato dopoguerra la borghesia palermitana si tenne lontana dal centro storico e, in mezzo alle macerie della città dal cuore arabo, rimasero a vivere solo pochi disperati. La connivenza tra mafia e politica, infatti, permise a imprenditori edili senza scrupoli di inaugurare una fase di speculazione edilizia che consumò letteralmente tutte le campagne della periferia della città e portò alla demolizione di numerose antiche ville ed esempi unici di architettura liberty. Il cosiddetto “Sacco di Palermo” fornì alle classi medie della città nuovi e splendenti palazzi a basso costo dove andare a vivere. Al contempo, tra le macerie del centro storico crescevano povertà, miseria e quindi criminalità. Il processo di ricostruzione sarebbe ripartito solo negli anni ‘ 90 ed è, attualmente, ancora lungi dall’ essere completato.

 

I mercati del Capo e di Ballarò, che in precedenza si raccontavano essere vivi
e vitali come non mai, risentirono meno di questo processo di desertificazione. La ragione sta nel fatto che questi due mercati sono sempre stati, nella storia,
i mercati più popolari. La Vucciria era, invece, il mercato più ricco
e rivolto alle classi abbienti.

 

Alla fine degli anni ’ 90, il mercato della Vucciria, per quanto claudicante e in difficoltà, ancora resisteva. Ad assestargli il colpo di grazia fu l’ interesse che il luogo cominciò, agli inizi degli anni 2000, a suscitare per la movida della città. Piazza Caracciolo, la piazza principale del mercato cominciò a diventare luogo di ritrovo serale per i giovani palermitani. Qualche anno dopo, la vicina Piazza Garraffello diventava una delle più grandi discoteche a cielo aperto d’ Europa. Non si può negare che in quegli anni la movida della Vucciria esercitasse un fascino unico e inconfondibile: il sabato sera, centinaia di persone si ritrovavano a ballare all’ aperto, tra le rovine e le macerie di un quartiere bombardato in cui un tempo vivevano ricchi mercanti amalfitani e pisani, tra i fumi densi e fitti degli stigghiolari (venditori di stigghiole, un tipico cibo da strada palermitano), comprando birra a due lire da commercianti improvvisati e con la possibilità di trovare erba e anfetamine nel vicolo dietro l’ angolo. A quei tempi la Vucciria non era bella, ma sicuramente affascinante.

 

C’era la decadenza, c’era l’ anarchia e c’era l’unicità di un luogo che probabilmente non aveva simili in tutto il mondo.

La movida sregolata e gli enormi interessi degli abusivi, che cominciavano a sviluppare importanti volumi d’ affari, resero la Vucciria una zona franca e senza regole nel pieno centro di Palermo. Fu così che la Vucciria divenne pericolosa e violenta. Fu così che cominciarono a susseguirsi senza sosta notizie di scippi, aggressioni gratuite e crimini di vario genere. Eppure, ancora oggi, le stesse forze dell’ ordine si mostrano restie ad entrare nel quartiere.
Il declino della Vucciria non si è arrestato. Dopo il boom della movida anche quella oggi sembra starla abbandonando, a causa dei troppi pericoli e dei numerosi episodi di violenze. Da quanto raccontato, risulta chiaro che oggi il quartiere della Loggia e il suo storico mercato della Vucciria abbiano bisogno di essere salvati dal declino. Che nel 2017 si permetta che un tale contenitore di storia e di bellezza rimanga ignorato, calpestato e insultato – e per di più in una città che riesce a dimostrare fermento e vitalità – è intollerabile.

 

Da queste considerazioni, nasce l’ idea della Professoressa Giovanna Acampa, docente di Estimo all’ Università Kore di Enna, di stimolare la rigenerazione
del quartiere attraverso micro-interventi di agopuntura urbana.

 

L’ idea alla base di questa metodologia di intervento è che progetti di rigenerazione su larga scala ed eterodiretti abbiano spesso scarsa capacità di incidere sul tessuto urbano del quartiere e, al contempo, generino frequentemente fenomeni di gentrification. Al contrario, micro-interventi accurati e chirurgici, a basso costo e a basso impatto sociale – quando messi a sistema in un quadro progettuale dagli obiettivi omogenei – hanno maggiore capacità di catalizzare la rigenerazione urbana e renderla più inclusiva e rispettosa del tessuto sociale preesistente.

 

Dalla creazione di orti urbani per i residenti, alla pulizia di piazze e spazi dove prima insistevano discariche abusive, etc., è questo il tipo di intervento su cui, in periodo di crisi, vale la pena scommettere.

 

Su questi presupposti metodologici la Professoressa Giovanna Acampa ha cominciato a coinvolgere numerose realtà all’ interno di questa cornice progettuale; da liberi cittadini a residenti, associazioni giovanili come il PYC, un gruppo di editori, il CODIFAS per lo sviluppo di Orti Urbani, il FAI, alcuni esperti di virtual reality per sviluppare forme di fruizione innovative del patrimonio storico, etc. Il lavoro di questo comitato spontaneo, che è chiaramente aperto a chiunque volesse contribuire, è appena iniziato, ma già sono numerosissime le iniziative in cantiere. Speriamo divengano presto realtà.

 

Se però, oggi, altri mercati come quello di Ballarò o del Capo sono ancora in grado di esprimere la stessa vitalità umana e commerciale e la stessa atmosfera da suq arabo che li hanno consacrati nella storia millenaria della città, negli ultimi decenni la Vucciria è andata, al contrario, incontro ad un graduale e lento processo di decadenza e desertificazione.

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“I SUD CHE AMO”. PATRIZIA RINALDI di Giuditta Casale – Numero 7 – Aprile 2017

Premio Andersen 2016 come migliore scrittrice per ragazzi: Patrizia Rinaldi è scrittrice senza specificazioni o determinazioni. Scrive di passioni, con raffinatezza ma senza affettazione, con l’eleganza e la grazia innata di cui godono certe anime.

 

Nel tuo ultimo romanzo, “Ma già prima di giugno” (E/O) c’è la volontà di rappresentare e descrivere un sentimento del sud incarnato da una città multiforme e contraddittoria come Napoli, attraverso una donna, Maria Antonia, forte propositiva volitiva e tenace, carnale e sensuale, che non cede al destino né alla Storia (è una delle sfollate da Spalato: scena che tu racconti con straordinario impatto).

 

Il Sud è maschile o femminile? Oppure la scommessa per il futuro
è di non essere né lui né l’altra?

 

Forse ogni femmina bella e sapiente contiene il suo contrario. Forse ogni maschio virile e fiero sa concedersi la fragilità che per sbaglio
è ritenuta donna. 
 

Ho cercato di rendere Maria Antonia un personaggio che si dimena nelle sue differenti nature.
Mi auguro un Sud ermafrodita, che indichi il rispetto per quello che siamo e pure per quello che non desideriamo essere. 

 

Nei libri per ragazzi, i luoghi sono più ombreggiati, meno determinati e dettagliati. Penso alla scuola crollata di “Piano Forte” (Sinnos),  in cui i protagonisti rimangono prigionieri a sperimentare le loro fragilità e più ancora le loro potenzialità; ai (non) luoghi, che sono ambientazione universale della gioventù, di “Adesso scappa” (Sinnos): casa strade palestra; ai cunicoli di “La compagnia dei soli” (Sinnos), in cui però si possono scorgere i sotterranei di Napoli, come in “Federico il pazzo”, (Sinnos) in cui appare una Napoli presente, ma sfumata nei contorni, definita ma anche universalizzata nella sua carica di “periferia”, che non vuol dire solo degrado e abbandono, ma anche solidarietà, amicizia, cultura e convivenza. Perché da Francesco, adolescente che si finge Federico II di Svevia, e che viene etichettato dai compagni come “pazzo”, impariamo concretamente che la cultura ci salva, dal bullismo, dalla storia e da un destino segnato.

 

 

C’è nel Sud, quello più direttamente pensato e abitato dagli adolescenti,
una carica di riscatto e di universalità, 
che lo fa assurgere
a ombelico del mondo? 
Possiamo sperare che del Sud
i nostri figli comprenderanno 
e valorizzeranno

gli aspetti positivi e i valori portanti? 

 

Non so se noi possiamo sperare, ma dobbiamo consentire la speranza
ai nostri ragazzi.

 

La denuncia dei danni e delle omissioni sociali non basta, i ragazzi che vivono nelle periferie dei poteri sono la maggior parte. Hanno diritto al futuro, allo spiraglio possibile.
In questo non faccio alcuna differenza tra nord e sud.

 

Patrizia Rinaldi è una scrittrice del Sud? E se sì, quali sono gli elementi che rendono la tua scrittura “meridionale” o “mediterranea”?

 

Sono una scrittrice nata a Napoli da genitori campani e sono profondamente legata alla mia terra.
La sfida che propongo alla mia scrittura, a ogni nuovo romanzo, è cambiare per accordarsi al contesto narrativo e continuare a somigliarsi.
 

 

Un’ultima domanda in omaggio alla rivista che ci ospita: Myrrha il dono del sud.
Qual è la myrrha del sud, quel potenziale culturale e letterario degno di essere portato in dono a una divinità? E se dovessi scegliere tra i tuoi titoli, o i progetti letterari a cui hai aderito, quale di questi definiresti un dono del Sud?

 

Un particolare anche minimo che cambi in meglio il giorno, soprattutto
dei ragazzi, che contenga la variabile dell’amore, in ogni forma.
L’omaggio che porterei è una piccola utopia di bellezza,
anche solo da immaginare. 
Sceglierei i progetti letterari
del carcere minorile di Nisida, mi hanno insegnato
la resistenza ostinata contro il danno.
 

.

 

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 I Sud che amo non sono omologati in definizioni fisse.
Sfumano, si contraddicono, gridano e sussurrano.

 

Hanno la rabbia della Ortese, la lucidità perfetta di Sciascia, strascichi barocchi di Consolo, la perfezione della lingua di Bufalino, gli squarci vivi e popolari di Viviani e De Simone, la cultura mai didattica di Montesano, i ricordi nostri tradotti in arte da Starnone, le fondamenta da tradire di Basile, la grazia sublime, drammatica e amorosa, di Ruccello.
La lista sarebbe troppo lunga e rischierei di diventare pedante, cosa che il Sud non deve diventare. Noi siamo in movimento e non possiamo contrapporci ad altri afflati culturali, ad altri paesaggi. Piuttosto li dobbiamo amare e comprenderli. Farne pane nostro, come si addice ai porti e ai monti scalati e senza muri.

 

La voce calda e suadente di Patrizia Rinaldi, scrittrice a tutto tondo,
come poche in Italia, si presenta da sola con la lista che traccia
un itinerario di poetica: la sua.

 

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“I SUD  CHE AMO”

 

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SAN LEUCIO. GENIUS LOCI di Helene Blignaut – Numero 7 – Aprile 2017

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SAN LEUCIO. GENIUs         LOCI

 

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La bellezza conquista e innamora perché, oltre al fascino della superficie percepita dallo sguardo umano, nasconde e palesa una profondità, una sub-stantia che irradia valore e che chiede di non essere trattenuta, bensì diffusa a chi ne sappia godere.

Bellezza contagia bellezza e, in un luogo che riesca ad apparire nello splendore che gli viene dalla sua propria storia, ogni cosa e ogni avvenimento che vi s’inseriscano saranno belli per conseguenza e brilleranno della stessa luce, seguendo naturalmente il palinsesto prospettico generato dal mirabile contenitore.

 

Esiste  un l uogo,  nel Sud d’Italia, la cui bellezza, come in una fiaba, deve tutto alle sue stesse vicende secolari e alle opere  che  proprio  lì furono create.  Opere  che,  ancora  oggi, escono da sapienti mani artigiane per essere offerte all’intelligenza  dell’estimatore  in  tutta  la  loro  profondità  estetica  atemporale  e  che  perpetuano l’ambizione di una virtuosa  sintesi  tra  il  bello  e  il  giusto  così  come la pretese l’assoluto iniziatore, il re Ferdinando IV di Borbone. Si parla   dunque   di  San  Leucio,  frazione  della  città  di  Caserta, che,  per  volere  di  questo  re,  divenne  subito   un imprevedibile  unicum  tra  nobiltà  monumentale  affacciata  su verdi paesaggi pensosi e una comunità umana che si ritrovò privilegiata nell’apprendere l’arte della tessitura della seta e della produzione di straordinari manufatti.

 

Mentre la Real Colonia di San Leucio vedeva la luce e si avviava quieta e operosa a realizzare, giorno dopo giorno, pur nel suo esiguo limite territoriale, il regale sogno sconfinato, i cognati di Ferdinando IV lasciavano la testa sotto la lama di una cruenta rivoluzione.

 

Il nostro re aveva preso in moglie Maria Carolina d’Asburgo e Lorena, sorella dell’Autri-chienne (ndr. Chienne in francese significa cagna), così come era chiamata, dal popolo francese in rivolta, Maria Antonietta d’Austria, sposa del re Luigi XVI. Sangue e terrore la cui eco, tuttavia, non riuscì a fermare la volontà di questo visionario che, forse sopraffatto dall’eccessiva pompa della reggia di Caserta, aveva deciso di trasformare il borgo in una splendida nicchia la cui esistenza e meraviglia non restassero, però, fini a sé stesse. Nel luogo già esisteva una deliziosa antica chiesetta e lui fece costruire, nell’area del Belvedere, un casino di caccia e vi mandò a vivere alcune famiglie perché vi si dedicassero. Il re era dotato di una mentalità moderna e così pensò di dare vita a un modello sociale di assoluta novità, imponendo un armonico assetto urbano con una piazza circolare e strade a sistema radiale; promuovendo un’autonomia economica con la creazione di un opificio per la produzione di sete di eccellenza, di qualcosa che davvero mai si fosse visto prima.

   

Non solo visionario, ma anticipatore di quella uguaglianza 

che fondava la dignità del vivere sul lavoro ma anche
sulla previdenza sociale e la considerazione (ante-litteram) 

dei diritti umani con l’orario giornaliero di lavoro ridotto a undici ore anziché le quattordici in vigore nel resto d’Europa, con la parità di paga per uomini e donne, la formazione scolastica obbligatoria e gratuita

e con l’avviamento al lavoro che teneva conto delle attitudini 

dei ragazzi. 

 

Anche la casa di abitazione era gratuita e costruita con tutti i comfort possibili all’epoca. La vaccinazione per prevenire il vaiolo era obbligatoria. La gestione di questa impresa, che inoltre sapeva produrre un notevole indotto, anticipava infatti l’affermazione di diritti la cui rivendicazione avrebbe segnato in seguito la storia politica e sociale del continente. Una sorta di Fernandopoli con un Codice, i cui principi fondamentali erano: l’educazione, la buona fede e il merito e in cui non vi era spazio per distinzioni di grado e condizione. Dal patrimonio vivente dei bachi da seta che venivano coltivati nell’edificio della cuculliera, fino alla preparazione delle matasse, ai filatoi, ai telai, alla seteria meccanica, la creazione di tessuti lussuosi per l’abbigliamento e per prestigiosi arredi seppe evolvere in una straordinaria gamma di broccati di seta con oro e argento, di particolari gros de Naples e anche in un originale tessuto innovativo che venne chiamato Leucide.

   

Con l’introduzione nella prima metà dell’Ottocento del jacquard,

la tecnica di tessitura, di cui si vantava la Francia,

vennero create opere che ne nobilitavano i risultati 

e si avvicinavano più all’arte che a oggetti 

di uso comune.
 

I colori erano naturali e l’ispirazione culturale delle sfumature inusitate imponeva definizioni che già da sé evocavano emozioni e desideri: verde salice, verde di Prussia, Siviglia, Acqua del Nilo… Nomi suggestivi di stoffe per tappezzerie, arazzi, tendaggi, coperture di divani e cuscini, ma anche scialli, corsetti, fazzoletti e altri deliziosi capi d’abbigliamento. I tessuti per l’arredo affascinavano re e regine e Papi e ancora oggi impreziosiscono gli ambienti del Quirinale, del Vaticano, di Buckingham Palace, della Casa Bianca e di altri prestigiosi siti. Ancora, famosi stilisti della moda internazionale si lasciano tentare per le loro creazioni di altissima gamma. La storia scorre, il divenire del progresso produce decadenze e nuovi inizi; così, con l’avvento dell’Unità d’Italia, il sogno di Fernandopoli venne inglobato dal demanio statale. Tuttavia, la mitologia di una materia nata dalla volontà imperterrita di un re non poteva soccombere.

 

Oggi, i tessuti di San Leucio restano un patrimonio d’eccezione e,

in quelle trame, resta immutata una vitalità del fare che non ha mai smesso di nutrire sé stessa. Con l’opportuno ausilio delle nuove tecnologie,senza snaturare il lavoro artigianale, si realizzano opere

che ancora ci riportano la profondità multipla della loro bellezza,

la loro storia, la loro eredità utopica,
 

ma anche la delicatezza tattile o lo spessore cremoso di certe lavorazioni, la consistenza – che pare profumata – dei grandi disegni floreali, le tonalità sonore delle sete croccanti. Sensazioni che stimolano un’appassionata attenzione euristica per scoprirne ulteriori significati. Gli appartamenti reali e la casa del tessitore sono visibili oggi nella loro formula museale; tuttavia, il consorzio delle aziende che discendono da quelle antiche famiglie è più che mai attivo e disponibile. Le iniziative culturali richiamano visitatori da tutto il mondo: in luglio, il Leuciana Festival è un’evocazione storica in costume. In ottobre, la Festa del Vino, delle Vigne e della Seta perpetua, in maniera felicemente materiale, quella fantasticheria che animò un antico re. Nelle fabbriche e nelle botteghe tutta una ricchezza di tesori da scoprire.

 

 

 

 

 

Le foto sono state gentilmente concesse dal Complesso Monumentale di San Leucio

 

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Helene Blignaut

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