I GIARDINI DI KOLYMBETHRA di Cinzia Terlizzi – Numero 8 – Luglio 2017

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 Così l’Abate di Saint Non nel 1778, di fronte alle meraviglie racchiuse nella Kolymbethra, giardino nell’incanto della Valle dei Templi 

ad Agrigento, fra il Tempio di Castore e Polluce 

e quello di Vulcano…


I suggestivi monumenti dell’era classica impreziosiscono questo angolo di terra che fra piante della macchia mediterranea, mandorli e gelsi presenta un prezioso agrumeto ricco di specie ormai rare che ancora oggi viene irrigato secondo le antiche tecniche arabe con acquedotti sotterranei da dove arrivava anche l’acqua che confluiva in un grande bacino: la Kolymbetra appunto, che serviva per approvvigionare l’antica città di Akragas….

 

Di Kolimbethra parla per primo Diodoro Siculo. Nella sua Bibliotheca Historica descrive la città giardino abbellita da una immensa vasca 

dove sboccavano gli acquedotti feaci e dove venivano 

allevati pesci in abbondanza e una grande varietà 

di specie botaniche.

 

La piscina veniva alimentata da un sistema complesso e sofisticato di gallerie e di cunicoli sotterranei, gli ipogei, che raccoglievano la preziosissima acqua permettendo alla vasca di conservare sempre lo stesso livello e al giardino di prosperare senza interruzioni o problemi dovuti alle crisi stagionali di siccità. Acque limpide e fresche dove i cittadini akragantini solevano immergersi e le donne lavare gli indumenti mentre l’ombra e i profumi dei giardini deliziavano i visitatori. C’è da restare sorpresi se si pensa che tutto questo avveniva, stando sempre a Diodoro Siculo, intorno al 480 a.C..    

 

Kolimbethra subì varie trasformazioni nel corso dei secoli.

 

La piscina venne interrata un secolo dopo la sua realizzazione,
ma l’ingegnoso sistema di cunicoli e di acquedotti non smise
di funzionare, consentendo a tutta l’area di diventare
un immenso orto-giardino dalle infinite potenzialità
agrarie e fruttifere:

 

limoni, aranci, carrubi, melograni, gelsi, pistacchi e perfino banani crescevano rigogliosi nel giardino delle meraviglie immersi in una cornice di essenze mediterranee dove erano prevalenti i lentischi, gli allori e i mirti. Nei secoli diciottesimo e diciannovesimo, Kolimbethra acquista l’aspetto di un gigantesco e straordinario agrumeto assecondando la tendenza dell’intera isola a favorire la coltivazione e il commercio delle arance e dei limoni, fino ad arrivare ai nostri giorni, quando, contrastando la rovina e l’oblio, la Regione, nel 1999, decide di affidare al Fondo Ambiente Italiano le sorti del sito.

 

Un gioiello archeologico e paesaggistico, un luogo tenuto per decenni 

in abbandono tornato all’originario splendore grazie al FAI, 

a cui è stato affidato nel 1999 dalla Regione Sicilia 

in concessione gratuita. 

 

Il Fondo Ambiente Italiano ha ora inaugurato un nuovo suggestivo percorso negli ipogei o “Acquedotti Feaci”, gli unici visitabili nella Valle dei Templi… 185 metri nel sottosuolo attraverso cunicoli che risalgono al 480 a.c.: scavati dagli schiavi fenici nella roccia tipica della zona, la calcarenite gialla, e utilizzati anche per conservare acqua e cibo e, durante la seconda guerra mondiale, come rifugio antiaereo. Si cammina così in un luogo dall’indiscutibile fascino e dal grande valore storico-archeologico e botanico-agrario…tra memorie del passato e profumi del presente.

 

Un’altra perla del Sud salvata dal degrado e dall’oblio e che torna a brillare per la gioia di tutti coloro che amano e difendono
l’eredità culturale del Bel Paese.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Giardino della Kolymbetra © Vincenzo Cammarata_ok
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I GIARDINI      DI KOLYMBETHRA

 

 

 

 

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IL DIOMEDE RIAFFIORATO di Giorgio Salvatori – Numero 8 – Luglio 2017

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Diomede, eroe leggendario o veramente esistito? Tanta è la pletorica presenza di Ulisse nell’Iliade e, naturalmente, nell’Odissea, che i più stentano a ricordare la figura del suo valoroso sodale durante gli eventi di Troia. 

 

Eppure, Omero, nell’Iliade, gli dedica il quinto libro, dal titolo “Le gesta di Diomede”, descrivendo l’”aristia” – l’eccellenza dell’eroe – declinata in ripetuti episodi di valore. Valore che non incanta Dante che colloca, invece, Diomede, insieme con Ulisse, nella bolgia dei “male consiglieri” affermando: “E così insieme a la vendetta vanno come a l’ira’’ (Inf.XXVI,56,57). Dante non perdona infatti ai due eroi greci la predisposizione a coltivare sempre una smodata astuzia nel costruire inganni. Destini analoghi, insomma, perfino nelle perigliose avventure che entrambi affrontarono nei viaggi che li ricondussero a casa. Ed è questa la narrazione più tenace legata alla figura di Diomede, che ancora sopravvive nella memoria di quasi tutti gli odierni abitanti delle isole Tremiti. Il perché è strettamente collegato al mito della fondazione di queste isole dell’Adriatico. La storia narrata dagli isolani, estrapolata dai testi classici, rielaborata e riportata su varie pubblicazioni turistiche, ammette alcune varianti.  

 

La più suggestiva attribuisce al nostro eroe la creazione ex nihilo
delle Tremiti, o Diomedee, scaturite dagli abissi dopo il lancio in mare delle pietre che Egli aveva portato con sé da Troia.

 

La leggenda, comunque in tutte le sue versioni, narra sempre che Diomede, dopo essere tornato ad Argo, sentitosi tradito da una moglie infedele e da sudditi ostili, fu costretto a rimettersi in viaggio; ma, a causa di una terribile tempesta, fu spinto sulle acque del mare Adriatico approdando, infine, sulle coste settentrionali della odierna Puglia. Qui decise di fermarsi e fondò diverse città. Il destino riservò, a questo punto, anni di gloria a Diomede, acclamato nella nuova patria, prima, come eroe, poi, come re, dopo atti di ardimento e straordinarie imprese belliche. 

 

Dopo i fasti vissuti in terra dauna, giunse, infine, la morte.
Le spoglie dell’eroe furono sepolte sull’isola di San Nicola,
la più abitata tra le Tremiti, in un luogo mai realmente individuato nonostante una piccola grotta dell’isola venga citata
sulle guide turistiche come ‘’Tomba di Diomede’’.

 

Seguendo un collaudato modello mitopoietico, la leggenda racconta anche che i fedeli compagni dell’eroe greco furono trasformati in uccelli marini dalla dea Afrodite, forse per compassione o forse per vendetta – visto che la dea, durante la guerra di Troia, era stata ferita ad una mano da Diomede mentre tentava di soccorrere suo figlio Enea. Non è un caso che questi uccelli, le berte, vengano chiamati anche “diomedee’’. Il loro verso lamentoso, di notte, sembra a molti un pianto inconsolabile per la perdita della guida ardimentosa dell’amato capo.  

 

Fin qui, la leggenda. Affascinante, romantica, remota. Riscontri pochi
o nulli. Ecco però che, a distanza di oltre tre millenni dal periodo in cui si suppone si siano svolti gli eventi successivi alla guerra di Troia,
riaffiora dalla terra del Gargano un piccolo monile che fornisce
il primo, intrigante indizio della presenza dell’eroe omerico
nella terra dei Dauni.

 

Si tratta di un piccolo anello d’oro di epoca romana, probabilmente risalente al primo secolo dopo Cristo: molti secoli dopo, quindi, gli eventi mitopoietici narrati dalla leggenda omerica. L’anello risulta impreziosito da una gemma che reca la fine incisione di una figura maschile con le sembianze del nostro eroe. La scoperta, inaspettata, durante gli scavi intrapresi in una grande e dimenticata necropoli paleocristiana, individuata già sul finire del diciannovesimo secolo (Del Viscio,1887); poi abbandonata; quindi, riaperta parzialmente negli anni sessanta del secolo scorso e, poi, nuovamente abbandonata fino ad anni recenti, quando, con finanziamenti regionali, nell’antico luogo di sepoltura e alle pendici di un monte boscoso, si è tornato a scavare con nuova lena e mezzi adeguati. 

 

Nel libro che divulga questa scoperta (Biscotti, Giglio, La Rocca, 2016), Luigi La Rocca, Direttore presso la Soprintendenza per i Beni Archeologici della Puglia, afferma che l’anello, con castone in agata, costituisce la prima attestazione iconografica dell’eroe, la cui figura mitica è notoriamente connessa all’area garganica” e descrive l’incisione come inequivocabilmente raffigurante l’eroe greco Diomede che stringe in una mano il Palladio, cioè l’immagine sacra di Pallade Atena, venerata in Ilio e considerata dai Troiani e dai Greci come il più sicuro presidio per la difesa della città. 

 

E, infatti, la leggenda vuole che proprio Diomede, insieme con Ulisse (entrambi travestiti da mendicanti), riuscì a trafugare il prezioso simulacro da Troia e a portarlo via con sé nelle successive peregrinazioni. Un indizio, non una prova, ma, stando alle autorevoli affermazioni di La Rocca, la gemma dell’anello recuperato negli ipogei di Monte Pucci può essere considerata una traccia concreta 

della presenza di Diomede in Puglia. 

 

Qui ritorna la domanda: Diomede invenzione omerica o eroe approdato e vissuto sul Gargano? Rappresentazioni di Diomede, con o senza il Palladio, non sono rare: immagini emerse da tombe etrusche, raffigurate su reperti di epoca romana. Ma, quella riaffiorata dalle viscere del promontorio garganico, è l’unica, fino ad oggi, che fornisca un riscontro tangibile del possibile approdo del leggendario guerriero greco sulle spiagge della Puglia garganica. Pochi hanno dato rilievo alla notizia della scoperta: qualche riga vergata sul lancio di un’agenzia di stampa, brevi articoli di alcuni quotidiani regionali. Eppure, il rinvenimento meriterebbe maggiori approfondimenti, così come più spazio potrebbe essere dedicato alla eccezionale campagna di scavi che si sta conducendo nella necropoli di Monte Pucci, dove l’anello di Diomede è stato trovato. Si tratta infatti di un luogo la cui unicità è attestata da tutti i ricercatori, archeologi, antropologi, botanici, tecnici che stanno partecipando alla campagna di scavi con l’obiettivo di realizzare, sul posto, un museo archeologico e naturalistico ai piedi di una montagna che si affaccia su un mare dalle trasparenti sfumature di azzurro e di verde. 

 

Gli scavi hanno finora restituito ai ricercatori oltre 800 sepolture, 

tutte risalenti al periodo compreso tra il IV e il VII secolo d.C., 

rinvenute in 26 ipogei la cui insolita architettura ha sorpreso 

tutti quelli che hanno preso parte ai lavori.

 

Centinaia i reperti finora classificati tra lucerne, anfore, oggetti di ornamento, oltre ai tanti resti di individui inumati: adulti, bambini, intere famiglie. Una varietà di tombe a loculo, a baldacchino, a fossa semplice, ad “arcosolio” che, difficilmente, trova riscontro in altri siti di inumazione della penisola. Intorno alla necropoli, e sopra gli ipogei, il fortunato visitatore proverà stupore nell’immergersi in una natura rigogliosa dagli intensi colori e dai soavi profumi di flora mediterranea. Protagonisti dello spettacolo sono gli ulivi maestosi, i grandi caprifichi, le rare campanule garganiche. Una cornucopia di piante, di arbusti, di fiori odorosi. Un unicum da tutelare e offrire al pubblico quando saranno terminati i lavori di scavo e completate le opere di recinzione e di sentieristica guidata. Quali scoperte possa riservare ancora la necropoli ai ricercatori è difficile dirlo. Ciò che finora si è trovato, in ogni caso, dovrebbe indurre responsabili politici regionali e amministratori locali a impegnare il massimo delle risorse disponibili per rendere queste scoperte patrimonio diffuso e condiviso. Non sfugge a nessuno, infatti, che i benefici che ne potrebbero derivare per la cultura, l’economia, il turismo di qualità, sarebbero molteplici, vantaggiosi per tutti e, soprattutto, duraturi.

 

 

 

 

 

 

 

 

IL DIOMEDE RIAFFIORATO

 

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 Le foto sono di Valentino Piccolo, Direttore Gruppo Archeologico Garganico “S. Ferri”

 

“LA NOSTALGIA DEL BELLO” di Marta Rizzo – Numero 8 – Luglio 2017

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“LA NOSTALGIA DEL BELLO”

 

La Calabria è stata la patria di Pitagora e tutto, qui, ricorda che la Magna Grecia c’è: “La gente di questi paesi è di un tatto e di una cortesia che hanno una sola spiegazione: qui, una volta, la civiltà era greca” – scrive Cesare Pavese

 
in una lettera alla sorella Maria, durante il confino impostogli dal regime fascista, tra il 1935 e il ’36, a Brancaleone (RC). Ed è stata raggiunta anche da latini, normanni, popolazioni baltiche (sempre meno, ma esistono ancora piccole comunità che parlano il greco-albanese). I coloni achei che giunsero qui dalla Grecia chiamavano Vituli gli abitanti del luogo, il cui etimo è da riferirsi a quello di toro (molti nomi di paesi, parlano di tori: Bova, Bovalino, Taurianova, Gioia Tauro). Il nome ha origine dal greco Kalon-brion: “faccio sorgere il bene”, ma potrebbe anche derivare da Calabri: “abitanti delle zone rocciose”. Tori rocciosi, i calabresi: oltre ogni semplificazione, sono davvero così.
 
Ci sono stati passaggi importanti, in Calabria, da parte
del grande cinema italiano e non solo.

 
È l’inaspettata meraviglia di questo posto ad aver incantato grandi registi. Il cinema, in Calabria, ha raccontato cose preziose, in uno spazio prezioso: Mario Camerini (Il brigante Musolino, 1950), Pier Paolo Pasolini (Il Vangelo secondo Matteo, 1964 e Comizi d’amore, 1965), Mario Monicelli (L’armata Brancaleone, 1966), Luigi Comencini (Un ragazzo di Calabria, 1987). Tutti sono rimasti folgorati dalla violenta bellezza antica di questi spazi. Eppure, a parte questi grandi, i film girati in Calabria hanno uno sfondo piuttosto stereotipato: dai briganti di Camerini ai mafiosi, o comunque svogliati e tendenzialmente delinquenziali personaggi del Meridione di Ficarra e Picone (Il 7 e l’8, 2007), Antonio Albanese (Qualunquemente, di Giulio Manfredonia, 2011), Checco Zalone (Quo Vado?, 2016).  Da qualche tempo, però, nella regione si percepisce una cauta ma positiva rinascita, dovuta anche al nuovo assetto della Fondazione Calabria Film Commission, oggi gemellata con quella della Lucania. La Film Commission calabrese nasce nel 2006, ma, in seguito ai debiti accumulati, processi e il commissariamento, non realizza nulla di buono nei suoi primi anni di vita. 
 
La nuova generazione del cinema calabrese e la nuova, attiva,
Calabria Film Commission

 
Intanto, qui, si formano registi di grande interesse, come Fabio Mollo, di Reggio Calabria. Pur dichiarando di sentirsi profondamente calabrese, ora è cittadino del mondo e regista affermato; ma, i sui primi documentari e il suo esordio, Il sud è niente (2013), hanno espliciti riferimenti al reggino; così come Il padre d’Italia (2017), candidato ai Globi d’Oro per gli attori Isabella Ragonese e Luca Mainetti, è girato tra Rosarno, Gioia Tauro e Reggio Calabria. È un altro film, realizzato nel 2014, a segnare una nuova fase del cinema di questa regione: Anime Nere è girato in Aspromonte, con lo stile del western (che in Italia ha avuto grandi maestri e successi internazionali). Si parla di ’ndrangheta, sì, ma lo si fa fuori dagli schemi, con coraggio e forza. Il film di Francesco Munzi vince 9 David di Donatello, 2 Ciak d’Oro e altri prestigiosi premi cinematografici. Nell’agosto del 2016 si procede ancora nella messa a punto delle attività audiovisive regionali, con la nomina del nuovo presidente della Calabria Film Commission, Giuseppe Ciprigno, esercente e membro della commissione ministeriale MIBACT, e del direttore pro tempore, Paride Leporace, già direttore della Lucania Film Commission: le 2 regioni danno vita a un nuovo e positivo progetto di collaborazione, piuttosto innovativo e fecondo, il progetto Lu.Ca.    
 
Oggi, la Fondazione Calabria Film Commission dispone di 500.000 euro l’anno e adotta una linea di intervento per il sostegno di produzioni cinematografiche nazionali e internazionali che scelgono di ambientare le nuove produzioni cinematografiche sul territorio. La Film Commission calabrese partecipa ai festival di Venezia, Cannes e a tutti i principali festival nazionali ed europei, promuovendo la regione e le sue attività. Parallelamente, offre formazione professionale e sostegno per nuove produzioni, promozioni e diffusioni di film realizzati da calabresi. Come recentissimo successo territoriale e divulgativo, la Regione e la Calabria Film Commission hanno finanziato uno sceneggiato televisivo, le cui riprese sono iniziate in giugno, sulla figura di Mimmo Lucano, sindaco di Riace (RC), e sulle sue innovative politiche di accoglienza dei migranti che, con un lavoro quotidiano e per lo più sconosciuto,  testimoniano lo spirito d’ospitalità dei calabresi (il calabrese è così: lavoratore, accogliente, talmente orgoglioso da non chiedere il riconoscimento della propria fatica). Lo sceneggiato andrà in onda nel febbraio 2018, su RaiUno. È con questa mentalità positiva, che si è arrivati a vedere il bel A Ciambra: una storia struggente di incontri tra ultimi sullo sfondo della frazione di Palmi, che si chiama Ciambra appunto, nel Golfo di Gioia Tauro. Il film di Jonas Carpignano, newyorkese-romano che da 7 anni vive a Gioia Tauro, ha entusiasmato critica e pubblico alla Quinzaine di Cannes nel maggio scorso, infondendo maggiore fiducia a una terra sulla quale trionfano i luoghi comuni, ma che si rivela vitale e priva di pregiudizi.
 
I registi nati qui, come molti calabresi, sono anche cittadini del mondo
 
Poi, ci sono i registi calabresi, che sono legatissimi, come rocce, alla Calabria e contemporaneamente riescono a integrarsi ovunque. La comunità dei calabresi nel mondo (www.calabresi.net) è una tra le più grandi. Emigranti, per necessità, ma forse anche curiosi, i calabresi. I registi nati qui, sono davvero cittadini del mondo: Carlo Carlei, per esempio, ha lasciato la sua Nicastro (CZ), prima per Roma, poi per gli Usa, dove ha avuto una nomination ai Golden Globe con La corsa dell’innocente (1994), fino al più grande successo internazionale di Romeo and Juliette (2013). E poi, Massimo Scaglione, formatosi a Los Angeles, e Andrea Frezza, regista e documentarista di Laureana di Borrello (RC), che ha vissuto in California. Ultimo nome, esemplare, è quello di Gianni Amelio: raffinato, colto, penetrante. Osservatore silenzioso, attentissimo alle pieghe intime dell’individuo, alle crisi del mondo, ai dolori della società. Riservato e gentile, Gianni Amelio, calabrese di Magisano (CZ), ha sconvolto, incantato, commosso il mondo con film come Porte Aperte (1990) tratto da Leonardo Sciascia, Il ladro di bambini (1992), Lamerica (1994), La stella che non c’è (2006), Felice chi è diverso (2014), fino all’incantevole, ultimo, La tenerezza (2017).
 
Intervista a Mimmo Calopresti: Come si può essere calabresi?
 
A un regista, sceneggiatore, attore, produttore calabrese nel mondo, si è scelto di fare alcune domande riguardo il suo rapporto con la Calabria. Parafrasando Leonardo Sciascia, che iniziava la raccolta di saggi Fatti diversi di storia letteraria e civile (1989) con il capitolo intitolato: “Come si può essere siciliani?”, e anche Gian Maria Volonté, interprete del grande film del calabrese Gianni Amelio, Porte aperte (tratto anch’esso da Sciascia), che nell’evocativa scena di viaggio sul traghetto sullo Stretto di Messina, concludeva il suo intenso monologo, allo stesso modo, con la domanda: “Come si può essere siciliani?”, a Mimmo Calopresti abbiamo chiesto: “Come si può essere calabresi”?
 
Cosa ricordi della Calabria, da bambino?
 
Ho lasciato Polistena (RC), dove sono nato, a soli 2 anni: ci siamo trasferiti a Torino, come tanti migranti, mio padre faceva l’operaio. La famiglia Calopresti appartiene a quella grande parte d’Italia che è partita, amando il proprio Paese, per sopravvivere in giro nel mondo; c’è un Domenico Calopresti, mio antenato e omonimo, che è arrivato a New York come migrante, nei primi del ’900. Ma per me, la vita calabrese è stata, ed è, decisiva. L’infanzia calabrese era estiva, soprattutto, e di sole donne: donne e bambini, perché gli uomini lavoravano al nord. Come in guerra… Estati intere senza maschi adulti. Vivevamo quelle giornate bollenti tra anziani, donne e bambini. Curioso e indimenticabile, formativo e utilissimo, quel tempo. Io stavo bene.
 
Che immagine associ alla Calabria?
 
L’immagine della mia Calabria è quella di un Eden. L’ho anche criticata molto, nel tempo, ma l’idea che ne ho è quella di un Paradiso. Sono nato nella Calabria dello Stretto, tra la parte più estrema del continente e la Sicilia. La Calabria dello Stretto di Messina è profondamente greca: sente tutta la nostalgia della fine del continente Europa, si apre al Mediterraneo e ricorda la propria storia: la civiltà greca, dalla quale è nata. Parlo di Calabria dello Stretto perché esistono varie “Calabrie”, per gli stessi calabresi: i cosentini, per esempio, sono e si sentono molto diversi dai crotonesi e viceversa; come chi è nato in Sila, si sente, ed è, più parte delle montagne che del mare – Anche se la giornata, estiva intendo, del calabrese si svolge svegliandosi tra i boschi di castagni, e poi giù, soltanto un’ora di macchina per fare un tuffo al mare, mangiare cibo squisito e andare alle feste, nelle piazze – Viaggio parecchio per la Calabria, la conosco (anche se nasconde dei posti che mi stupiscono e scopro sempre qualcosa di nuovo). Soprattutto da qualche anno, ci sono molte iniziative culturali, musicali, cinematografiche, retrospettive e rassegne, festival. Un altro tratto della Calabria è la vitalità, cosa che appare inaspettata a chi non è calabrese.
 
Come sono i calabresi?
 
Non lo so, se ne sono andati tutti… Ho parlato delle estati femminili della mia infanzia perché davvero penso che sia una regione disgregata, scissa: intendo dire che la miseria e l’inquietudine qui sono così presenti e tangibili, che il calabrese è destinato ad andare via, quasi per principio, oltre che per necessità. Penso che i calabresi siano particolarmente adattabili e più accomodanti di quanto non si dica: l’orgoglio e la nostalgia  della terra, al di là di ogni retorica, spesso ci hanno difeso (e parlo anche per me) dalla diffidenza, dalle umiliazioni, dalle discriminazioni. I calabresi, in Germania, Svizzera o a Milano, sono stati fortemente discriminati, sin dall’immediato dopoguerra. E dico Milano perché lì è stata davvero dura la vita dei migranti del sud, mentre a Torino ho sentito sulla mia pelle una maggiore fiducia verso di noi, forse perché c’era un’identità collettiva più forte. Fondamentalmente, non penso che i calabresi fuori dalla Calabria abbiano meritato e meritino ancora la circospezione, a volte il sarcasmo, che invece vivono.
 
Quanto il tuo essere calabrese ha influenzato il tuo cinema?
 
C’è sempre, nei miei film, l’idea del Sud: un grande Sud, con grandi potenzialità. Non racconto solo la Calabria, ma l’intero Sud, che è il luogo dell’uomo per eccellenza. A Torino, c’era una comunità calabrese forte, ben integrata. E io stesso mi sento torinese. Ma il mio essere un uomo del Sud è più forte: è il richiamo dell’antropos, della polis, della civiltà greca. Nel mio cinema ritrovo sempre la nostalgia del bello, dell’essere del Sud, non soltanto calabrese.
 
Come racconti la Calabria nei tuoi film?
 
La racconto con parsimonia, nel senso che c’è, ma cerco di non abusare di quel richiamo, di quella nostalgia, che rischia di diventare retorica. Cerco di inserirla in un contesto generale, in racconti altri, che non riguardino esclusivamente quei posti. Perché, se i calabresi sono davvero cittadini del mondo, è la Calabria, come luogo e come idea del luogo, che stenta a diventare parte del mondo. Resta chiusa nei luoghi comuni, nella diffidenza da parte di chi non è calabrese, e questo è confermato dal fatto che chi va in Calabria per la prima volta, regolarmente, si stupisce della sua unicità, bellezza, accoglienza, allegria. Quando ho raccontato la Calabria, in Preferisco il rumore del mare o L’Abbuffata, ho cercato di aprirla ai fatti, alle storie di altri posti, di altre persone, non solo della Calabria...
 
Come vedi la Calabria, oggi?
 
Sono stato ovunque nel mondo e ho trovato calabresi ovunque nel mondo: dal Brasile, alla Russia, all’Europa tutta, all’America. E così, ho capito che dappertutto c’è la presenza dell’uomo, del luogo dell’uomo, del Sud. Nel mondo, cioè, circola ancora l’idea della Magna Grecia, della civiltà, di qualcosa di profondamente strutturato e forte, che arriva da lontano. E quest’idea è portata anche dai calabresi. Il punto è che la Calabria si deve aprire. Come ho detto, tutti quelli che scoprono la Calabria la amano e ci ritornano, perché è selvaggia, richiama l’ancestrale, i luoghi della memoria nascosta. Attualmente, poi, succedono cose nuove, positive, culturalmente parlando. Recentemente, ho letto sul New York Times che tra i primi 7 posti dove si mangia meglio al mondo, c’è la Calabria. E non è scritto su un giornale locale, ma su uno dei più importanti quotidiani del pianeta e si parla dei primi 7 posti al mondo dove gustare cibo: bello, no? I sapori calabresi, forti, delicati e potenti, sorprendono molto e sono radicati nella cultura calabrese. Ma c’è dell’altro, in Calabria. Forse, anche grazie a chi arriva qui scappando da guerre, fame, morte, la Calabria sta trovando, paradossalmente, nuova vita. Questi nuovi cittadini vengono accolti e spesso ripopolano interi paesi che erano quasi abbandonati; credo che questa nuova vita porti con sé un nuovo fermento. La parte sana e attiva della Calabria sta raccontando le storie di nuove persone e tutto questo fa nascere un nuovo punto d’osservazione, una riflessione superiore anche sulla propria cultura, che non può che arricchirsi e maturare insieme a quella altrui. Ecco, ora credo che la Calabria stia trovando la strada per essere davvero parte del mondo, in modo positivo e tangibile. 
 
Recentemente, per la Calabria, hai realizzato un progetto: Bella come un film. Di cosa si tratta?
 
È una specie di documentario, lo abbiamo fatto pochi mesi fa. Sono convinto che i calabresi, per far conoscere la Calabria migliore, debbano auto-raccontarsi. Così, da un’idea nata nell’Associazione Calabresi Creativi, con la Regione e la Calabria Film Commission, abbiamo lanciato un’iniziativa sui social networks – uso i social e ci lavoro: sono i nuovi luoghi dell’immagine in movimento, ma non ne abuso – Abbiamo chiesto ai calabresi di inviare su Instagram filmati girati da loro stessi, su quello che succede in Calabria: il mare, la montagna, i riti religiosi, le feste paesane, il cibo, la musica… Ne abbiamo ricevuti moltissimi, tutti interessanti e ne abbiamo premiati 5-6. Poi, ci è venuto in mente di montarli e farne un unico lavoro, sulla Calabria, fatto da calabresi. Mi è stato chiesto che lo montassi io ed è nato Bella come un film. Il presidente della Regione era entusiasta: è successo qualcosa di comunicativamente importante con quella cosa, in modo naturale. Lì ho davvero capito che, per aprirsi al mondo, la Calabria deve auto-raccontarsi, lo ripeto: è la migliore promozione che possa fare per se stessa. 
 
Per concludere, come vive tua figlia la Calabria?
 
Mia figlia ha 8 anni ed è curiosissima della Calabria. Io ci tengo molto che la conosca. Le racconto fatti, luoghi, storie di persone e lei vuole sapere tutto, mi fa un sacco di domande. Ma soprattutto, Clio nuota moltissimo, in Calabria.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

 

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Fabbricare, fabbricare, fabbricare
preferisco il rumore del mare
che dice fabbricare fare e disfare.
Fare e disfare è tutto un lavorare.
Ecco quello che so fare.
(Dino Campana)

 

la sua spettacolare natura sta lì per l’uomo. C’è tutto in Calabria: il mare, i laghi, la Sila e l’Aspromonte; cibo sorprendente nella sua complessa povertà gustativa; c’è odore di mare, di sole, argilla e finocchio selvatico; di castagni, querce, ulivi, funghi; ci sono feste paesane e riti pagani, religiosi, di grande valore antropologico, come ha insegnato Luigi Lombardi Satriani.

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IL SAN CARLO. NAPOLI CAPITALE DELLA MUSICA di Antonio Lopes – Numero 8 – Luglio 2017

Teatro di San Carlo, lavori di ristrutturazione ago.2008 - gen.2
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IL SAN CARLO. NAPOLI CAPITALE DELLA MUSICA

 

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Se Venezia aveva visto l’opera uscire dalle corti e diventare 

un fenomeno commerciale, il più importante centro musicale in Italia 

per tutto il XVIII secolo fu Napoli e, almeno fino a metà del XIX secolo, insieme a Vienna e Parigi, una delle grandi capitali 

della musica in Europa.

 
Napoli per tutto questo periodo è stata certamente la più grande città italiana, più grande di qualsiasi altra città europea eccetto Londra e Parigi, una città ampiamente cosmopolita. Nel 1734, un principe dei Borboni spodestò gli Austriaci e ristabilì l’egemonia della sua casata su tutta l’Italia meridionale, dove regnò con il nome di Carlo III. Uno dei primi provvedimenti del nuovo sovrano fu l’edificazione, nel 1737, del Teatro San Carlo su progetto di Giovanni Antonio Medrano. Il teatro, che può attualmente ospitare più di 2500 spettatori tra la platea, i cinque ordini di palchi e una galleria sovrastante, è il più antico teatro lirico attivo in Europa. La splendida sala, originariamente rivestita in azzurro con decorazioni in oro (i colori dei Borboni), suscitò subito molta ammirazione e meraviglia tra i tanti visitatori stranieri che ebbero modo di assistere agli spettacoli organizzati sempre con grande sfarzo.
 

Il compositore inglese Charles Burney, amico dell’Ambasciatore inglese Lord Hamilton (la cui moglie era stata l’amante dell’ammiraglio Nelson), scrive, nel suo “Viaggio musicale in Italia” del 1770, che “il teatro era sfarzosamente illuminato e incredibilmente affollato di un elegante pubblico […], le candele dei palchi riflesse dagli specchi 

e moltiplicate dalle luci del palcoscenico producevano 

un splendore abbagliante per gli occhi”.


Da quando il San Carlo aprì i suoi battenti, si affermò come il più importante teatro d’opera europeo, tenuto conto che la città che lo ospitava era, a sua volta, con i suoi quattro importanti conservatori risalenti al XVI secolo, una capitale della musica in Europa.   
 
Per tutto il XVIII secolo e per la prima metà del successivo, Napoli rappresentò un’irresistibile calamita per qualsiasi musicista avesse avuto l’ambizione di farsi notare. Si pensi a Georg Frederich Handel, nato in Sassonia, che operò a Napoli nel 1708; soggiornò a Napoli anche il compositore tedesco Johann Adolf Hasse, allievo del grande Alessandro Scarlatti, maestro della reale cappella musicale. Fu sempre a Napoli che Pietro Metastasio, il più influente librettista di opere serie del XVIII secolo, iniziò a lavorare prima di trasferirsi a Vienna. Nel 1770, Mozart, all’epoca quattordicenne, fu portato a Napoli, dove si trattenne per oltre un mese; nel frattempo, scriveva a Salisburgo che “il teatro era bellissimo” ma aveva notato che il re, durante la rappresentazione, “se ne stava seduto su uno sgabello per sembrare più alto della regina”.
 

Le vicende del San Carlo s’intrecciano con quelle del Regno di Napoli. Uno snodo fondamentale nella storia del teatro è rappresentato dall’entrata in città di Giuseppe Bonaparte, fratello maggiore 

di Napoleone, nel febbraio del 1806, alla testa di un corpo 

di spedizione franco-italiano.

 
Da questo momento si apre per il San Carlo un periodo di grande sviluppo grazie a due eventi fondamentali: la regolarizzazione del gioco d’azzardo da parte del governo napoleonico e l’assegnazione della gestione del teatro, nel 1809, a un ricco e intraprendente impresario milanese, Domenico Barbaja, che aveva già assunto l’appalto delle case da gioco a Napoli.La grande intuizione di Barbaja fu appunto quella di coniugare le due grandi passioni dei napoletani per il gioco e per l’opera. Nel 1808, con l’ascesa al trono di Gioacchino Murat, dopo la nomina di Giuseppe Bonaparte a Re di Spagna, Barbaja riuscì ad ottenere l’autorizzazione ad aprire un vero e proprio casinò dentro il San Carlo, a patto che ampliasse il teatro stesso con un ridotto adatto a ospitare i tavoli da gioco; per quanto riguarda la direzione del teatro, l’appalto comportava un lungo elenco di responsabilità, definendo le nuove opere, i cantanti  e il numero di orchestrali (con settantotto membri permanenti, divenne, infatti, una delle prime orchestre in Italia). Il governo finanziò anche nuove scenografie e macchine sceniche oltre a quelle pagate di tasca propria da Barbaja che si vide riconosciuta la proprietà di altri accessori, strumenti e costumi: una vera fortuna. 
 

In questo modo il finanziamento della produzione operistica poteva essere assicurato non soltanto con la vendita dei biglietti per i singoli spettacoli o in abbonamento (una novità per il costume italiano), ma anche dagli introiti derivanti dai giochi.

 
Contemporaneamente egli si adoperò per un miglioramento qualitativo delle opere rappresentate, scritturando i più grandi cantanti e i musicisti più promettenti con contratti remunerativi, ma anche di lunga durata. Ciò permise a Barbaja di costituire una vera e propria compagnia con compositori e cantanti di elevato valore artistico, in grado di offrire spettacoli di eccezionale livello. Tra questi, la grande intuizione fu di chiamare, nel 1815, un giovane musicista che già aveva fatto parlare di sé in Italia: Gioacchino Rossini. Il contratto prevedeva la composizione di due nuove opere all’anno e le funzioni di direttore musicale. Al San Carlo, durante il periodo rossiniano, furono rappresentate fra il 1815 e il 1822 diverse opere serie del musicista pesarese: Elisabetta Regina d’Inghilterra, Armida, Mosè in Egitto, Ricciardo e Zoraide, Ermione, La donna del lago, Maometto II, Zelmira; al Teatro del Fondo fu presentato, nel 1816, l’Otello, essendo il San Carlo andato distrutto da un incendio (sarà ricostruito in appena otto mesi più spendente di prima).

La stessa formula organizzativa consentì poi a Barbaja di esportare cantanti e musicisti in altri teatri; nel 1822, egli assunse la direzione dei teatri viennesi e vi fece debuttare con straordinario successo la compagnia napoletana con la Cobran (moglie di Rossini), Nozzari, Rubini, Nourrit e Lablache. La diffusione delle opere di Rossini e dei suoi cantanti del San Carlo raggiunse e conquistò anche Parigi quando, nel 1825, il compositore fu nominato direttore artistico del Theatre des Italiens. In quella veste organizzò una vasta serie di scambi di cantanti tra Parigi e il San Carlo. L’intuito che Barbaja aveva avuto con Rossini lo assistette poi anche con altri musicisti: chiamò a Napoli il debuttante Bellini e mise in scena gran parte della produzione di Donizetti. Egli continuò a occuparsi sempre di teatro fino alla morte, avvenuta per apoplessia, nella sua villa di Posillipo il 19 ottobre 1841.

Il San Carlo è sopravvissuto a queste vicende e, pur cedendo lo scettro dell’egemonia dei teatri lirici italiani alla Scala di Milano nella seconda metà del XIX secolo, ha continuato a rappresentare un fondamentale punto di riferimento per gli spettacoli operistici in Italia e in Europa, tenuto conto che ai suoi spettacoli hanno preso parte 

i più grandi cantanti, i direttori d’orchestra 

e i registi più famosi fino ai nostri giorni.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Si può ritenere che l’Opera sia una delle forme più complesse e affascinanti – ma anche più costose – di espressione artistica esistenti: la musica, il canto, la recitazione e la scena si fondono in un unicum che, da quando è nata in Italia all’inizio del XVII secolo, come raffinato svago di colti aristocratici (si pensi all’Orfeo di Claudio Monteverdi, rappresentato il 24 febbraio 1607 nel Palazzo Ducale di Mantova), si è poi rapidamente diffusa, appassionando tutti i pubblici, prima in Europa e poi nel resto del mondo. 

Le foto sono state gentilmente concesse dal Teatro San Carlo di Napoil

 

MORREMO TUTTI QUI di Alessandro Gaudio – Numero 8 – Luglio 2017

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MORREMO TUTTI QUI

 

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erano piaciute le deformazioni espressioniste e grottesche della narrazione, ma ciò non era bastato per accordarle, infine, dignità di stampa, in quanto «la cornice di storia paesana [soffocava] − a detta di Calvino − l’interesse delle pagine più vive».[1] Questo difetto e altri convinsero Lazzaro, traduttore e poco conosciuto scrittore, nato nel 1912 in un più che sperduto paesino calabrese, a lasciare il manoscritto in un cassetto, fino a quando non venne pubblicato postumo, nel 1987, a diciotto anni dalla morte del suo autore. Pur tuttavia, a distanza di altri tre decenni, appaiono ancora evidenti quelle virtù intraviste dai lettori di allora.[2]

 

Al centro della vicenda c’è la vita − tanto miserabile quanto grottesca, nella descrizione che ne fa lo stesso Lazzaro − di un indefinito villaggio del meridione d’Italia, avvinto in un mortale silenzio, i cui mille abitanti 

vengono sterminati da una misteriosa e fulminea epidemia.

 

È servendosi delle armi dell’ironia e dell’allucinazione che lo scrittore di Motta Filocastro[3] quasi arriva a suggerire come le cause del tragico evento vadano fatte risalire all’attitudine di quegli uomini per superstizione e fatalità o, più sinteticamente, a una bestemmia o, meglio ancora, a una specie di eccesso di immaginazione. Non può essere considerata trascurabile la portata di un espediente di ordine creativo in grado di legare così finemente l’oscurità della miseria alla luminosità della fantasia.

 

E, d’altronde, neanche un’evasione di massa salverebbe il villaggio di 

Mille anime dalle persecuzioni dei santi o dall’attesa senza fine dei loro miracoli. Né, tutto sommato, risolverà alcunché 

la scomparsa dei suoi abitanti:

 

bisognerebbe, piuttosto, ristabilire il corso del tempo, ricollocarsi nel ritmo della vita, oppure − secondo Michele, amico e maestro del protagonista − «mutare il corso del sole e delle stelle, la direzione dei venti, l’animo degli uomini»;[4] purtroppo, non si può. Tale consapevolezza provoca uno sgomento diffuso che, progressivamente, finisce in una inesorabile brama di morte, di autodistruzione, quasi di ritorno a uno stato inorganico.

 

Lazzaro racconta di una esistenza inerte, resa ancor più opprimente dall’immobilismo fascista (cui più volte si riferisce, neanche troppo sommessamente, lo scrittore)[5] e popolata da corpi senza vita, 

oltre che da fantasmi.

 

Sogni, ombre e magàrie incombono sul villaggio, di volta in volta percepito come «un terribile e gigantesco ragno con volto umano che urla spesso di dolore»,[6] come un «carcere della miseria»,[7] «un morto lago da cui emergono grigi fantasmi senza epoca»,[8] spesso colto in «un’immobile e vitrea luce lunare, e, lontano, il mare come un gran lago di mercurio chiuso dalle ombre azzurre delle isole e dominato da Mahammetta»,[9] che non è che uno di quei fantasmi.    

 

Eppure, si tratta di fantasmi − la Vergine di Romania, San Nicola di Bari, San Rocco di Mileto, San Giuseppe il Corto, San Giuseppe il Lungo e molti altri − le cui proprietà e azioni sembrano essere sottomesse alle medesime leggi del mondo visibile e che non posseggono, dunque, uno statuto soprannaturale. Sarà per questo che da essi non si genera alcuna azione, né essi costituiscono un motivo di evasione in un mondo misterioso all’interno del quale la ragione non possa penetrare. Un quadro così interamente improntato sulla reificazione collettiva dell’immaginario presuppone, sul versante opposto, un’idea di letteratura che, ironicamente, si ponga come osservazione razionale difficile da mettere nel sacco, ma che, tuttavia, allo stesso modo del quadro che delinea, è incline a quell’amarezza che erompe tanto dalla scrittura quanto dalla miseria.

Certo è che laddove, da un lato, troviamo la disperazione del villaggio, quell’«irreparabile merdaio»,[10] con le ottusità e l’apatia che pervadono chi vi abita, dall’altro, c’è l’enorme spettro dell’immaginazione,

 

dal quale l’autore di Mille anime recupera la materia − fatta di memorie, miti e superstizioni − diffusa tra il popolo, con l’intento di normalizzarla, il più delle volte mediante l’ironia. Esemplare, nel realismo fantastico che riesce a prefigurare, quella di un contadino che, entrato in chiesa a ora insolita, parla in questi termini ai suoi fantasmi:

 

O Vergine di Romania, se non sei una svergognata, mandaci la pioggia. O San Nicola di Bari, se non sei più cornuto delle tue vacche, 

 mandaci una goccia d’acqua.[11]


In nessuna occasione, tale processo di normalizzazione, è bene precisarlo, sfocia in una considerazione votata all’indulgenza; anela, invece, alla rottura del cerchio, a mostrare che quanto meno sia possibile porsi contemporaneamente nel tempo e fuori di esso. Possibilità che sembrerebbe essere negata dal finale del romanzo (e anche dall’inesorabile frase di Michele che ho scelto come titolo per questa nota), ma che forse risulta, anche solo per un istante, avvalorata dall’idea dalla quale la narrazione è generata e dalla struttura d’insieme acutamente canzonatoria per la quale Lazzaro propende e che neanche Calvino aveva compreso sino in fondo.

 

 

   

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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 [1] Lo rivela lo stesso Lazzaro in una nota del 1968, pubblicata poi in appendice a P. Lazzaro, La stagione del basilisco [1968], Milano, Jaca Book, 2003, pp. 139-142; nella nota è inclusa una lettera di Calvino, datata 17 maggio 1957, dalla quale è desumibile il parere di lettura cui si fa rifermento (p. 142). [2] Delle mille anime di Motta Filocastro, da una prospettiva antropologica, si parla anche in V. Teti, Il senso dei luoghi. Memoria e storia dei paesi abbandonati, Roma, Donzelli, 2004, pp. 361-370. [3] Si tratta di una frazione di Limbadi, paese di poco più di tremila abitanti, oggi in provincia di Vibo Valentia, situato tra Tropea e Rosarno. Dall’alto del centro abitato, sede di confino politico negli anni del fascismo, si vede tutta la piana di Gioia Tauro e il porto. Sul muro di una casa abbandonata di Mandaradoni, altra frazione di Limbadi, sta lentamente sbiadendo un dipinto che ritrae la faccia del duce (e che era accompagnata dalla seguente didascalia: « Solo Iddio può piegare la volontà fascista, gli uomini e le cose mai»). Sono state scattate nel 2017 da Annalisa Lentini le foto che ritraggono il Mussolini di Mandaradoni e uno scorcio di Limbadi.[4] P. Lazzaro, Mille anime, Milano, Jaca Book, 1987, p. 45. Anche il titolo di questo intervento è parte del concetto espresso qui da Michele. [5] Il riferimento, si intende, è sempre condotto in chiave ironica, come, ad esempio, nella frase che si trascrive: «Gridarono alalà quasi tutti, sconcertati dal tono di lui e dal mistero che quella incognita parola introduceva nel nostro Villaggio. […] E qualche caposcarico andava recitando la seguente banale filastrocca: Alalà, Alalà / tua sorella l’ha fatta o la farà?» (ivi, p. 87). [6] Ivi, pp. 24-25. [7] Ivi, p. 45. [8] Ivi, p. 46. [9] Ivi, p. 72. [10] Ivi, p. 9. [11] Ivi, p. 15.

 

 

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LA FONDAZIONE LEONARDO SINISGALLI di Biagio Russo – Numero 8 – Luglio 2017

La Fondazione, nata nel 2008 per promuoverne vita e opera, e operativa dal 2010, ha un’attività geograficamente molto ampia e va al di là dei confini regionali. Anche in virtù di uno spirito cosmopolita coerente con lo straordinario personaggio che intende restituire ai fasti di una cultura, quella del Novecento, che lo ha visto testimone e protagonista. Tantissimi e differenti gli eventi realizzati finora in tutta Italia, a testimonianza della credibilità che l’Istituzione culturale montemurrese si è conquistata, con mostre e convegni: a Macerata, Roma, Benevento, Milano, Torino, Vigevano, Forlì, Siena, in collaborazione sia con Università, che con Associazioni, Enti locali, Istituti di Istruzione ecc. Contemporaneamente, notevole è stata l’attività di ricerca e la produzione editoriale, con sette pubblicazioni, tra cui due Quaderni, di notevole valore scientifico, che offrono gli strumenti indispensabili per la conoscenza di Leonardo Sinisgalli a visitatori, studiosi, ricercatori e docenti.

 

Cuore pulsante dell’attività della Fondazione è la Casa delle Muse 

di Sinisgalli. La struttura museale domina la cresta 

che affaccia sul fosso di Libritti,

 

di fronte alla piccola abitazione dove Leonardo Sinisgalli nacque nel 1908 e sulla cui parete è possibile leggere, a caratteri capitali, i versi della sua poesia più celebre dedicata al gioco del battimuro “Monete rosse”.   È possibile visitare la “Sala degli amici artisti” (con disegni e acquerelli di Giulio Turcato, Domenico Cantatore, Lorenzo Guerrini, Bruno Caruso, Antonello Leone, Franco Gentilini), “Il focolare degli affetti” (con testi memoriali e poetici, fotografie, oggetti vari e utensili), la “Sala Leonardo” (con l’esposizione dei 70 volumi originali e rari, oltre alle copertine delle riviste aziendali), la “Biblioteca di Sinisgalli” (con i suoi 3.000 libri, la macchina da scrivere, il ritratto ad olio di Maria Padula, le pubblicità e i disegni), la Sala “Vincenzo Sinisgalli” (con la mostra dedicata ad Agnese de Donato, dal titolo “Intimo Sinisgalli”).   

 

La Casa delle Muse, inaugurata il 20 ottobre del 2013, è stata meta per circa 8.000 persone, soprattutto studenti e docenti, provenienti da ogni parte d’Italia.

 

Per celebrare la poliedricità, un vero e proprio furor, degli interessi di Leonardo Sinisgalli, la Fondazione sin dal 2012 ha ideato un contenitore-ponte tra la cultura umanistica e letteraria. 

 

In autunno, si organizzano eventi (dalla pubblicità alla fisica, dalla poesia alla matematica, dall’arte alla tecnologia ecc.) caratterizzati da un approccio dialogico e contaminante tra arti e discipline, con docenti, studiosi, scrittori e musicisti, provenienti dal mondo accademico, artistico, letterario e scientifico. Nell’ultima edizione del Furor, ad esempio, è stato organizzato un convegno dal titolo “Per una cultura dell’incontro nelle arti”. Ad aprire i lavori è stato l’artista Giuseppe Caccavale, docente presso l’École Nationale Superieure des Arts Décoratifs di Parigi, con un intervento dal titolo Dalla figura alla parola: Il Viale dei Canti, incentrato sull’opera multimodale da lui realizzata presso l’Istituto di Cultura Italiana a Parigi, attraverso la riproduzione grafica e sonora dei versi di cinque poeti italiani: tra cui Leonardo Sinisgalli.    

 

Il mondo della scuola per la Fondazione rappresenta un interlocutore privilegiato. D’altronde le poesie e i racconti di Sinisgalli pullulano di fanciulli e monelli. E anche quando dirigeva riviste e gli uffici di pubblicità delle grandi aziende, spesso ricorreva al loro estro, ai loro disegni, al loro stupore. Dal 2013 infatti proponiamo lectiones magistrales, destinate in modo particolare agli studenti dell’ultimo anno delle scuole superiori. La quinta edizione delle Lezioni del Novecento (ciclo speciale), aperta a un pubblico più vasto oltre che a quello scolastico, ha portato in cattedra cinque grandi ospiti, di caratura internazionale: Silvio Ramat dell’Università di Padova, Clelia Martignoni dell’Università di Pavia, Riccardo Mazzeo, saggista ed editor della Erickson, nonché traduttore di Bauman, Miguel Benasayag, filosofo e psicanalista franco-argentino e Agnes Heller, una delle più grandi filosofe viventi, allieva di G. Lukács  ed esponente della Scuola filosofica di Budapest.   

 

L’attività della Fondazione corre lungo tutto l’anno. E anche nelle sere d’estate non rallenta. Proponendo veri e propri inviti alla lettura, con presentazioni di libri e incontri d’autore.


Tra i graffiti della Scuola fondata dal maestro Giuseppe Antonello Leone e il lavatoio costruito negli anni Trenta, un pubblico numeroso 

e attento segue le nostre proposte librarie, sotto le stelle, 

nell’atmosfera magica dell’Orto di Merola. 

 

Sinisgalli amava l’arte di un amore profondo, per tutta la vita ha frequentato gallerie e pittori, si è circondato della loro presenza e delle loro opere, ha commissionato disegni e illustrazioni per le sue riviste aziendali, ha pubblicato recensioni su quotidiani e riviste, e scritto tantissime presentazioni di cataloghi per mostre. Inoltre, nell’ultima fase della sua vita si è abbandonato al disegno, come arte consolatoria, diventando egli stesso un “disegnatore”. Per questi motivi e non solo la Fondazione ha aderito a gennaio al circuito Acamm (dall’acronimo dei quattro paesi e delle quattro realtà museali presenti: Aliano, Castronuovo Sant’Andrea, Moliterno e Montemurro), sotto la guida dello storico dell’arte Giuseppe Appella, in una logica sinergica di sistema che valorizzi, con mostre d’arte ed eventi culturali, il patrimonio esistente in un’ottica non periferica, ma nazionale.   

 

Sono stati realizzati finora tre importanti omaggi artistici: a Guido Strazza, artista italiano di spicco nel panorama contemporaneo, in occasione della grande mostra antologica alla GN. Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma; a Mario Cresci (fotografo), in contemporanea con l’antologica alla GAMeC di Bergamo); e infine a Fausto Melotti, in parallelo con la retrospettiva dal titolo EDEN, che la Galleria-Museo Hauser & Wirth di Zurigo, ha dedicato al noto artista roveretano.

 

Certo la Fondazione, a detta di chi ci osserva da vicino e da lontano, costituisce uno straordinario ombelico culturale, un vero e proprio presidio, flessibile e poco costoso, nel mosaico di una Regione 

che intende aprirsi, attraverso Matera, capitale della cultura 2019, 

ad una dimensione europea e a un turismo colto e intelligente. 

 

Ma Il vero obiettivo della Fondazione resta legato alla questione dei diritti editoriali del poeta-ingegnere. Senza la ristampa della sua opera omnia, tutto il percorso fatto finora, sarebbe completamente inutile. 

 

Faremo di tutto affinché Sinisgalli, come lui stesso scrisse per la sua epigrafe… possa risorgere “fra tre anni o tre secoli, fra tempeste 

di grandine nel mese di giugno”.  

 

È una promessa, ma soprattutto un debito.

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LA FONDAZIONE LEONARDO SINISGALLI

 

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Un “Leonardo del Novecento”, è stato definito Leonardo Sinisgalli. Infatti, i suoi interessi, dalla poesia alla matematica, dalla grafica pubblicitaria alla radio, dal cinema alla critica d’arte, dall’architettura al disegno, lo rendono così moderno e affascinante che si registra intorno alla sua figura un interesse elevatissimo, da parte di docenti, di cultori, di editori, di galleristi, di studenti, di matematici, di letterati e artisti. 

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IL SUD È UN DONO? – Intervista a Valeria Parrella di Giuditta Casale – Numero 8 – Luglio 2017

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IL SUD È UN DONO?

 

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Chiedo a Valeria Parrella, scrittrice napoletana tra le più interessanti del panorama letterario contemporaneo, e feconde nella capacità di creare immaginari esistenziali e di indagare l’animo umano.

Ma cazzo, è un dono. – mi risponde, con la straordinaria capacità di fondere lo sguardo tagliente e ruvido sulla realtà alla felicità piena della parola, mai abusata e sempre pluristratificata di suggestioni, che in parte provengono dalle letterature antiche su cui si è formata e che ancora plasmano l’universo da lei narrato. –  È il dono che l’ente supremo dei doni, cioè il principio evolutivo, ha voluto concedere al mondo per bilanciare il nord.   
 
Se dovessi offrire in dono alla divinità un elemento del sud, quale le porgeresti? E quale invece è talmente irrinunciabile che lo terresti stretto a te, senza cederlo a nessuno, uomo o dio che fosse? 
 

Nulla è irrinunciabile, ma mi fa fatica pensare a una divinità, non sono abituata.

 

Allora facciamo che posso portare in dono a un extraterrestre qualcosa del sud, mhh, vediamo gli porterei una pianta di limone, una di ulivo e una di vite. Così posso tenerne altre strette a me.


Valeria Parrella ha nelle corde sia il respiro profondo del racconto (“Mosca più balena”  con cui nel 2003 esordisce per Minimum fax, a cui segue per la stessa casa editrice “Per grazia ricevuta”, e ancora “Troppa importanza all’amore” per Einaudi) sia  l’ampiezza dello sguardo del romanzo: “Lo spazio bianco”, “Lettera di dimissioni” e “Tempo di imparare” pubblicati con Einaudi; “Ma quale amore” con Rizzoli, poi ripubblicato nei tascabili Einaudi; e da pochi giorni di nuovo in libreria con “Enciclopedia delle donne. Aggiornamento”, un romanzo “scostumato” come me l’ha definito lei stessa. La sua produzione attinge anche alla polifonia del teatro, la molteplicità e l’effetto scenico delle parole: “Il verdetto”, “Ciao maschio” e “Euridice e Orfeo” per Bompiani; “Tre terzi”, insieme a Diego De Silva e Antonio Pascale, e “Antigone” per Einaudi; nel 2011 il libretto “Terra” su musica di Luca Francesconi.

 

Valeria Parrella ha il dono di una scrittura che misura con grazia e attenzione maniacale il peso delle parole, che scava nei diversi registri linguistici, letterari e non solo, per portare alla luce prospettive e visioni inedite dell’interiorità

 

Capace di presentare personaggi che nella loro individualità assurgono a emblemi di una condizione esistenziale universale. 

 

Nei tuoi romanzi i luoghi non prendono mai il sopravvento, sono sempre filtrati dai personaggi e dalla loro percezione emotiva. Penso ai posti frequentati dalla madre in “Tempo di imparare” o a quelli vissuti dalla protagonista di “Lo spazio bianco”. Forse una loro più forte caratterizzazione c’è in “Lettera di dimissioni”, che tra i tuoi libri è quello in un certo senso più “civile” e meno introspettivo. Con “Ma quale amore” dalla Napoli dei romanzi precedenti la scrittrice protagonista passeggia per le strade di Buenos Aires, il sud letterario per eccellenza. Nei racconti invece il tuo orizzonte geografico appare più vario. Che valore hanno i luoghi, quelli meridionali in particolare, nella tua narrativa? È fuorviante osservare che nei romanzi rimani più ancorata a Napoli, e nella forma del racconto “emigri” in altri luoghi, senza mai lasciare veramente la città partenopea? Si potrebbe arrivare a ipotizzare, anche attraverso i luoghi narrati, che nei romanzi Valeria Parrella regala più della sua autobiografia, e nei racconti invece il distacco è più netto?  

 

L’unico problema è Napoli, intendo come luogo tutto, geografico e umano. Perché tra teatro letteratura cinema e televisione capisci che archetipo e stereotipo comune che ne abbiamo e a cui bisogna sempre cercare nuove smussature, facce nascoste, o rifiutarlo…insomma un casino. Il resto del sud, la provincia per esempio non mi spaventa quanto Napoli.

 

Il mio sistema è non verificare, lasciare che il ricordo abbia il sopravvento sulla realtà. Insomma spaesarmi.

 

Rispetto all’autobiografismo non sono d’accordo. No: credo che siano profondamente autobiografici i temi che tratto, nello spazio di una racconto o di un romanzo, o di una piece teatrale. Alla fine mi interessano cinque o sei cose e tutta la mia produzione è una declinazione di queste. Gli avvenimenti, cioè le storie che racconto invece non sono MAI autobiografici. Non c’è una, per dire, delle mie voci narranti, non c’è un IO che sia davvero mai stata io.

 

Le tue meravigliose donne: non ce n’è una che non sia stata un po’ ME. Non è forse questa la forza straordinaria della letteratura: non parlare di sé ma parlare al sé, che è in ciascuno? I tuoi libri sono molto amati, tradotti e i testi teatrali rappresentati in molti luoghi: veicolano un’idea di sud o l’appartenenza a una geografia narrativa e letteraria non ti interessa? Ti senti in un certo senso di rappresentare come scrittrice una nozione di sud, e quale?   

 

Allora: a me non interessa, cioè nel momento in cui scrivo non ho un obiettivo, non mi interessa di nulla e di nessuno. Se poi a posteriori arriva questa idea di sud e di donne mi va benissimo, visto che sono una donna del sud.

 

Mi chiedo ad esempio se la madre di “Tempo di imparare” non sarebbe una donna o una madre diversa lontana da Napoli,

 

e lo stesso per Clelia, di “Lettera di dimissioni”, se la sua vicenda professionale non sia straordinariamente legata a una certa “politica” caratteristica, anche se non unica, del meridione. No, non credo. “Tempo di imparare” è un romanzo così intimo che non ha collocazioni spazio temporali, e ho conosciuto tante donne nel mondo e fuori dal mondo (detenute per esempio) con bambini disabili e ti dico che la geografia non c’entra nulla. Anche per Clelia non credo: quella politica lì non appartiene al sud, appartiene alla ex sinistra e a Roma o a Milano è uguale. Certo, Clelia non potrebbe essere una scandinava, questo sì. Ma in Italia potrebbe stare dappertutto.   

 

Quale delle tue protagoniste, includendo anche le eroine mitiche come Antigone ed Euridice, è più necessaria oggi al sud, e con chi l’accompagneresti?   

 

Scelgo la protagonista di “Lettera di dimissioni”, Clelia: una donna dal passato comunista, che deve ricollocarsi nello spazio e nel tempo. Credo che quello sia il mio vero romanzo civile. E la farei andare a cena con Jane Eyre.

 

“Sono una donna del sud”: c’è stato un momento nel tuo percorso letterario, in cui questa affermazione è stata pronunciata con orgoglio? Oppure ti sei trovata ad affermare con più disinvoltura:
“sono Valeria Parrella”?

 

Sono Valeria Parrella e sono una donna del sud che più sud non si può. E certo che c’è orgoglio nel dirlo, cosa altro? Però ti dico pure che se mi sento più vicina ai sud che ai nord, alla Grecia che all’Olanda, è anche vero che penso sempre che dove nasciamo è un caso, altrimenti non potrei capire profondamente le migrazioni e pensarle come una possibilità di rinascita, per chi parte e per chi accoglie.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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UN GIGANTE DI PIETRA – IL CASTELLO DI CORIGLIANO D’OTRANTO di Gianluca Anglana – Numero 8 – Luglio 2017

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UN GIGANTE DI PIETRA

 

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«È il vento», disse Matilda, «che sibila tra i merli della torre lassù: l’hai udito migliaia di volte»

Quando, nel 1764, consegnò alle stampe Il Castello di Otranto, dando così avvio alla fortunata stagione letteraria del romanzo gotico, Horace Walpole immaginò anche sulle residenze fortificate del Meridione italiano la coltre di oscure atmosfere tipica dei manieri inglesi.

 

In realtà, i numerosi castelli piantati qua e là come enormi bulloni sulle pianure salentine hanno assai poco a che fare con l’estetica un po’ dark dei territori di Sua Maestà. Essi sono giganti di pietra, immersi nella luce del Mezzogiorno, piuttosto che trappole di sassi, ove vagano gli spettri di vegliardi o di monache sanguinolente[1]. Tra tutte queste fortezze, spicca, per fascino e grandiosità, una in particolare: quella di Corigliano d’Otranto. Le origini di questo borgo sono molto antiche e tuttora dibattute. Di certo Corigliano, forse messapica di nascita, fu risucchiata nell’orbita della Magna Grecia, per non uscirne di fatto mai più:

 

Corigliano è tuttora grika. È parte della cosiddetta Grecìa Salentina ovvero di un territorio il cui linguaggio tradisce una inequivocabile connotazione ellenofona.

 

Lo stesso toponimo sembra derivare dal vocabolo “χωρίον”, che significa podere. E in effetti, nel corso del Medioevo, Corigliano fu un casale. Nel suo passato remoto, il Salento era un coacervo di casali, cioè gruppi isolati di case rurali sparpagliati un po’ ovunque. Solo più tardi questi aggregati abitativi mutarono pelle, irrobustendosi in paesi e centri più o meno grandi e, in alcuni casi, incastellandosi[2]. Le cause, che innescarono il processo storico di mutazione del tessuto socio-urbanistico, furono molteplici e di variegata natura, in particolare strategico-militare, economica e soprattutto politica. Ad una prima epoca, basata sul sistema della proprietà fondiaria o della curtis (unità produttiva fondata su un intreccio di rapporti sociali e politico-giuridici, facenti capo alla nobiltà laica o alla gerarchia ecclesiastica), ne seguì una seconda, denominata signorile. La cerniera tra queste due fasi si situerebbe intorno all’Anno Mille[3].

 
 La signoria feudale «raggruppa in castelli e villaggi una popolazione il cui capo – il Signore – riunisce nella sua persona funzioni di direzione economica dei contadini (…) e poteri di comando»[4]

Con il concentramento delle popolazioni in villaggi e paesi, i Signori – che si erano gradatamente impossessati di territori più o meno vasti – avrebbero avuto maggiore facilità vuoi nel controllo dei laboratores vuoi nell’esercizio del loro potere sul contado. Dal X secolo in avanti, l’Occidente europeo conobbe una stagione d’impetuosa fioritura economica, soprattutto in ambito rurale[5]. Questa lunga fase di congiuntura favorevole vide in Corellianum un indubbio protagonista, in grado non solo di imporre la propria leadership su tutta l’area circostante, ma persino di rivaleggiare con la stessa Otranto nella competizione per il ruolo di traino economico locale. Nel 1465 l’intero feudo coriglianese venne ceduto alla Famiglia dei Monti. Proveniente da Capua, il clan dei Monti giunse in Italia al seguito degli Angiò: anch’esso seppe esprimere, com’era d’uso allora tra le dinastie più blasonate, i suoi capitani coraggiosi, illustri uomini d’arme messi a servizio di questa o quella signoria italiana e spediti a combattere sui campi di battaglia di mezza Europa. Francesco de’ Monti, come diremmo noi oggi, seppe farsi notare: divenne uno dei condottieri più fidati della corona aragonese «che lo utilizzò come ambasciatore in Ungheria (…), in Germania (…) e presso la corte pontificia»[6].   Francesco fu anche ospite nel celebre castello milanese di Ludovico Sforza, presso il quale era stato inviato nel 1498 nel quadro di una complessa missione diplomatica[7]. Si distinse per ardimento durante gli scontri con la potenza turca. Nel 1480, Otranto era stata espugnata dalle forze di Maometto II. La città era così divenuta un nido di vipere, un avamposto da cui scatenare razzie e terrore nell’entroterra: nel Febbraio del 1481, assieme a Galatina e a Soleto, anche Corigliano fu saccheggiata dagli invasori. Fu proprio durante una di queste aspre battaglie che Francesco venne fatto prigioniero e ridotto in schiavitù, per poi riscattarsi tempo dopo[8].

 

Si devono proprio a lui la risistemazione e l’ammodernamento del castello medievale, «il più bel monumento di architettura militare

e feudale in Terra d’Otranto ed (…) il modello più compiuto
del trapasso dalle torri quadre a quelle rotonde»[9].


Le torri, a base scarpata e a tre livelli di fuoco, sono dedicate a quattro Santi e ingentilite dalla raffigurazione allegorica delle virtù cardinali: Michele Arcangelo e la Fortezza; Antonio Abate e la Temperanza; Giorgio e la Prudenza; Giovanni Battista e la Giustizia. Il cortile interno è semplice e austero. Il fossato è ancora esistente. Il corpo centrale e più antico è riconoscibile per la presenza di beccatelli e merlature. Del parco marchesale, un tempo assai esteso, non restano che poche tracce: la sua vegetazione doveva però apparire lussureggiante se, nel 1525, stregò l’umanista bolognese Leandro Alberti. Nella sua Descrittione di tutta l’Italia[10], costui annota che, durante la sua visita a Corigliano, fu condotto da Giovanbattista de’ Monti, figlio di Francesco, nel «giardino, molto vago e bello, pieno di cedroni, aranci e d’altri alberi fruttevoli»[11]: ad accogliere lui e il suo compagno di viaggio, con il loro Signore, «molti nobili huomini a cavallo molto ben vestiti»[12] e i suoi due figliuoli «altrimenti addobbati, et parimente i cavalli, da quel che avanti erano».

 

Quando la famiglia de’ Monti si estinse, Corigliano divenne proprietà di un’altra casata, cioè i Trani, signori di Tutino (oggi un rione di Tricase). Costoro decisero di trasformare la rocca in dimora gentilizia e di intervenire soprattutto in facciata. Realizzata nel 1667 sotto
la direzione del mastro coriglianese Francesco Manuli[13],

 

essa riporta un balcone con decorazioni barocche: doveva essere una sorta di manifesto, una dichiarazione di fedeltà alla corona spagnola. Così venne abbellita da una rassegna di busti dedicati a personalità che contribuirono a fare grande la Spagna (tra loro si ammira anche un ritratto di Cristoforo Colombo).

 

Nei giorni nostri, Corigliano si è riappropriata del posto che le spetta e che dopo tutto ha sempre avuto: quello di riferimento cui guardare in un’ottica, a lunga gittata, di sviluppo del territorio.

 

Oggi il Castello, che è scrigno e tesoro al tempo stesso, è un luogo di aggregazione e sperimentazione. È un centro propulsore del sapere: oltre a custodire una biblioteca, ospita manifestazioni
culturali, mostre, concerti e spettacoli teatrali.


Ma è quando si abbassano le luci, quando le stelle tornano a spiare la terra dal davanzale dell’universo e la notte stende il suo manto di velluto sopra i sogni degli uomini, è solo allora che, nel buio, il gigante sospira e riaccende le sue pietre pallide al chiarore degli astri. E quando la luna soffia il suo lucore tra i rami degli alberi, tramutandoli in ricami neri; quando l’eco delle ultime voci si è ormai sbriciolata come uno sciame di scintille e si ode solo il ronzio degli insetti, è solo allora che, nel giardino muto vecchio di secoli, le sagome scure delle piante tornano a mormorare nel vento come fantasmi e a reclamare ancora il ruolo di testimoni di questa storia antica. 

 

E nell’aria lieve della sera, sotto la cupola delle costellazioni, si può indovinare appena, nel silenzio, il fulgore di quelle ricchezze
che tanto abbagliarono i visitatori venuti da lontano.


«In the hanging garden please don’t speak. In the hanging garden no one sleeps»[14]

 

 

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 [1] Gli spiriti di Alfonso ne Il Castello di Otranto di Horace Walpole e di Beatrice de las Cisternas, la Monaca Sanguinante, ne Il Monaco di Matthew G. Lewis.

[2] Cfr. Raffaele Licinio, Castelli medievali, Ed. Dedalo (1994), p. 30 e, sul web, http://www.perieghesis.it/casali.htm.

[3] Jacques Le Goff, Il Medioevo, Ed. Laterza (1996), p. 27.

[4] Jacques Le Goff, Il Medioevo, Ed. Laterza (1996), p. 28.

[5] Jacques Le Goff, Il Medioevo, Ed. Laterza (1996), p. 59.

[6] Mario Cazzato, Guida ai Castelli Pugliesi – 1. La provincia di Lecce, Congedo Editore (1997), p. 58.

[7] Dizionario biografico Treccani, www.treccani.it.

[8] Mario Cazzato, Guida ai Castelli Pugliesi – 1. La provincia di Lecce, Congedo Editore (1997), p. 58 (il Cazzato lascia intendere che, proprio a seguito di questi eventi, Francesco si accattivò i favori dei Sovrani aragonesi di Napoli).

[9] Mario Cazzato, Guida ai Castelli Pugliesi – 1. La provincia di Lecce, Congedo Editore, p. 60. Quelle qui riprese sono parole di G. Basile di Castiglione.

[10] Si tratta di un’opera che l’Alberti scrisse dopo aver percorso l’Italia intera e che egli dedicò ai sovrani francesi Enrico II e Caterina de’ Medici.

[11] Leandro Alberti, Descrittione di tutta l’Italia (1568), p. 406.

[12] Leandro Alberti, Descrittione di tutta l’Italia (1568), p. 405.[

13] Mario Cazzato, Guida ai Castelli Pugliesi – 1. La provincia di Lecce, Congedo Editore, p. 60.

[14] The Cure, The hanging garden, 1982, Fiction Records.

 

SALENTO ARCHITECTURES – THE DEFENSE TOWERS by Giusto Puri Purini – Numero 7 – Aprile 2017

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SALENTO ARCHITECTURES: THE DEFENSE TOWERS

 

Santa Sophia became the “Great Mosque” and a new, great, cultured and aggressive superpower emerged from the Eastern Mediterranean, and quickly came into conflict with the Republic of Venice that, until then, had freely sailed from the Adriatic Sea to the Aegean Sea, with its merchant flows and countless placements and dominions, from Dalmatia to Asia Minor and beyond.Puglia became a strategic knot for Ottoman raids and, despite the occupation of the peninsula in 1484 by the Venetians (that arrived in Taviano), the latter could no longer bend their impetus.Algerian Khaided-Din (called Barbarossa), in 1537, destroyed Castro and Marittima and, on the ionic side, the ancient Ugento.The defense system of Puglia, and in particular of Salento, was unprepared and precarious; between works dating back to the ancient Romans, then to the Byzantines (to defend themselves from the Longobards and Aragoneses), built in the previous centuries in the form of fortified towers and fortified farms, it was no longer up to the task.At this point, in the European context, the fierce conflict between Francis I King of France and Charles V of Spain came to favor the latter and led him to govern a large part of Europe.

The history of Salento is dotted with a myriad of invasions: at first, by populations who became stationary, such as the Messapi and the Japigi; then by the Greeks; Incursions of Saracen pirates, attacks and looting, up to the great danger of the Ottomans which, among other things, cherished in the idea of reuniting the Roman Empire of the East with Rome. It was therefore under the Empire of Charles V that in 1532 the Viceroy of the Kingdom of Naples, Pietro de Toledo, promoted an impressive and strategic first line of defense along the Adriatic and Ionian coasts of Puglia, with the vast promontory extended in the heart of the Mediterranean. As a defense system urbanist he made a project where every tower could see and report dangers to the next one. Horns and bells, or visual alarms such as smoke (in daylight) and fire (at night) were used as an alarm. A second line of defense were the fortified farmhouses and, more inward, imponent castles, among which the Acaya one still stands out today. The ordinance of the Viceroy was strengthened in 1563 by the decree of Don Pedro Afan de Ribera.

This Italy, stretched and bathed by the waters almost everywhere in its circumnavigation, “offered” and acted as attraction and magnet for other populations.

The biblical exodus that millions of people carry out daily in recent years, puts in motion old grudges, fears and imbalances, and there is the need for a new conscience that will bring the great States (colonisers) to develop jobs and margins for a potential growth in the original places, in order to bring our Mediterranean back to being, as it was, a place for merchants, economic-financial exchanges, culture, religion, thought and work.

In 1529, after other conflicts and finally an agreement with Pope Clement VII, Charles V received the recognition of his “sought-after” possessions in Italy, among which the Kingdom of Naples, that included the beloved Puglia (where, morover, he never arrived).

The cost of this endeavour had become so high that, through competition announcements, titles were awarded to those who were willing to build towers, assigning it the title of “Captain of Tower”, who, besides reporting raids and defending with cannons and archibugs, could also collect duties. Whoever did not pay was denied the “right” of defense.

The Towers were then also used to contrast smuggling, that was partially tollerated, to prevent abusive salt trade that was big in those times, given the poverty of peasant populations, and to intercept slave traffic. Those constructed by Charles V, made of regular tuff quarried stones, generally had square or circular planes, with a sloping base; inside there usuallt were 2 levels, and a covered terrace; slits and gratings completed the facade. The Towers were provided with an underground cistern to collect rainwater. In some cases, today, they belong to port authorities and are still efficient whilst many are just ruins (unfortunately) and others have been restored. As Mario Muscari Tomajoli says, “The building of Fortified Observation points has been reported since Plutarch (125-50 BC) and was also made by the Romans, whose trade was put into crisis by pirates until 67 BC, when the Gabinia law allowed Pompey to arm a fleet against ravagers and made the Mare Nostrum calm.”

But this defense system does not exist only in Puglia and in the lower Salento, but in all of Italy’s and many other coasts of the Mediterranean, and marks, as a punctuation in the maps, 

the relationship of love and fear that the great sea carried brought.

Italy’s primacy of civilization, history, fertility of nature and costume imposed the need for self-defense systems, and today 

these wonderful constructions, in the rhythmic flow 

of landscapes, become indelible signs of history.

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I BRONZI RICOLLOCATI di Daniele M. Cananzi – Numero 7 – Aprile 2017

Bronzi di Riace
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I BRONZI RICOLLOCATI

 

Atteso da alcuni anni, il nuovo museo – evento nell’evento – ha portato alla ricollocazione dei Bronzi di Riace nella sede naturale che li ha accolti da quando vennero ritrovati nel 1972 a largo della costa ionica e dopo le operazioni di ripulitura e restauro attente e delicate, che hanno restituito la bellezza e l’incanto dei due nudi del V sec. a.C. che il mare nostrum si è preso la briga di conservare e preservare tanto a lungo.

 

 

E evidentemente, se si ammette l’assunto, è perché l’evento non è poi così tanto piccolo, e perché magari trova compimento in un momento di favorevole concatenazione di fatti che agevolano il verificarsi della novità. Fatto è che nel profondo Sud un evento, piccolo ma non tanto piccolo, si è verificato: la riapertura del Museo Archeologico Nazionale della Magna Grecia di Reggio Calabria. Uno dei più importanti siti magno greci, punto di riferimento internazionale, uno dei pochi edifici progettati sin dall’origine come museo e che esce dalla matita di Marcello Piacentini nel 1932.

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Cosa significa che due capolavori indiscussi dell’arte di ogni tempo sono stati ricollocati nel Museo? Si potrebbe pensare che nulla è più ovvio
di un’opera d’arte in un museo. 
Eppure parlare di evento
non è esagerato in questo caso.

 

Il Sud, specie quando è profondo, si ammansisce dietro un trascorrere del tempo che si dilata e sembra, in taluni casi, quasi arrestarsi. È quanto è accaduto per il Museo di Palazzo Piacentiniquando, sette anni addietro, è stato chiuso per una restaurazione che è diventata una ricostruzione, tanto da mantenere le mura esterne del progetto originario e da ristrutturare lo spazio interno quasi totalmente. Tanti anni, troppi, trascorsi nell’assenza di uno spazio essenziale, vitale, per una città. 
Finanziato nei progetti di elevato interesse tra quelli che dovevano essere rimessi a nuovo per i centocinquant’anni anni dell’Unità d’Italia, i lavori hanno trovato una serie di difficoltà che hanno ritardato il loro completamento, avvenuto solo con l’inaugurazione del 2016. Cose che capitano, purtroppo, togliendo così però spazi essenziali perché “spazi pubblici di apparizione” – per dirla con Hanna Arendt – nei quali e grazie ai quali si mantiene e raccoglie la cittadinanza, si mantiene e raccoglie la vita, quella migliore, di un territorio e di una città.

 

Ricollocare i due Bronzi, allora, ha un forte valore simbolico oltre che culturale. Durante la chiusura del Museo per restauro,essi sono stati trasferiti
a Palazzo Campanella dove a loro volta sono stati sottoposti

a un delicato intervento di ripulitura interna.

 

Si  era  infatti  osservato  che  le  crete di fusione,  rimaste al loro interno,  stavano lentamente corrodendo il bronzo. Con strumenti  chirurgici  e  sonde,  una équipe  specializzata  ha  provveduto  a  rimuovere il materiale in modo da impedire il processo corrosivo. Per tutto il periodo di questo nuovo restauro, i due Bronzi sono rimasti in una apposita sala costruita per permettere al pubblico di seguire le operazioni.

 

Un vetro, come nelle nursery, ha permesso di andare a trovare
i due augusti ‘malati’ nel letto di ricovero, 
rivelando l’amore
e l’affezione non solo di turisti e appassionati,
ma dell’intero popolo reggino.

 

Il quale non ha mancato di farvi visita e così di mostrare la partecipazione –come avviene per ogni degente – alle cure prima e alla guarigione dopo, dimostrando il perdurare di un legame profondo del popolo rispetto ai suoi illustri e antichi campioni che, ora perfettamente ristabiliti, si ergono nuovamente nella sala museale, fieri eredi di un nobile passato, audaci narratori di una storia che sfida, proprio attraverso loro, il tempo. Avere ricollocato i due Bronzi, dicevo, acquista così un valore simbolico altissimo.

 

Si tratta di un intero territorio che tenta di risollevarsi, che ora deve nuovamente ergersi, superando le difficoltà della sua storia recente e meno recente,
per ritrovare la fierezza e l’audacia che non può rimanere solo
entro le mura del Museo a testimonianza del passato,

 

ma da lì ed esemplarmente deve uscire per tornare a vivere tra le vie di una Città, Reggio Calabria, che tenta di risorgere, tra tante difficoltà, per riacquisire lo splendore del suo antico passato. Perché il Museo e proprio dal Museo ci si può aspettare tanto? Perché lì è conservata la memoria, perché nel percorso appassionante che conduce il visitatore dalla Preistoria e dalla Protostoria all’età Magnogreca, passando dalla terra al mare, dal mare alla terra, c’è la possibilità di verificare la grande bellezza e l’ineguagliabile capacità svelata nelle crete, negli oggetti di uso comune, nei pinakes, nelle opere decorative degli edifici pubblici e privati che ci narrano di un gusto, di una spiritualità, di un modo, che in realtà è un modo di vedere lo spazio, un modo di pensare, riempire, abitare lo spazio; di pensare e abitare la città.

 

I due Bronzi ricollocati anche questo rappresentano, e di questo rimangono in un tempo senza tempo – com’è quello che si avverte nella sala quando si è a loro cospetto – esemplari e testimoni.

 

Una terra martoriata, com’è quella della neo Città metropolitana di Reggio Calabria, da qui può e deve ripartire; lavorando sui problemi e superando le difficoltà, ricollocandosi – proprio come i Bronzi – in uno spazio diversamente pensato rispetto a quello asfittico che ne ha segnato drammaticamente, soprattutto dagli anni ottanta dello scorso secolo, una sub-condizione urbana. Anche per la Città c’è da rimuovere incrostazioni che ne deturpano e corrodono l’anima, quella nobile, quella bella; anche per la Città c’è bisogno di una opera di riqualificazione.

 

Ecco perché un evento piccolo, ma neanche troppo piccolo, potrebbe portare una grande novità che deve venire dal popolo innanzitutto.
Quello stesso che ha dimostrato la sua partecipazione
alla salute dei Bronzi 
e che deve volere rivendicare
l’orgoglio del Sud, della sua bellezza 

tutt’altro che sfiorita.

 

E forse proprio il combinato disposto di nuovo Museo, dunque luogo della memoria e del passato, con l’istituzione (nel 2014) della Città Metropolitana, dunque di una nuova struttura amministrativa territoriale operativa e luogo del futuro, potrebbe essere quella concatenazione favorevole per una svolta, finalmente, attesa e desiderata da tempo che i cittadini meritano ma di cui si devono essi stessi fare primi promotori; loro per primi devono riqualificare responsabilmente il loro spazio e le architetture sociali che lo determinano; magari proprio riprendendo quel gusto antico e magno greco per lo spazio pubblico che è bene comune. Una città, in fondo, è fatta dai cittadini, a loro si conforma e con loro cresce o si involve. Nei momenti difficili sono proprio i cittadini, è il popolo che deve riconquistare il diritto ad avere un futuro, esercitando quella tenacia iscritta nel DNA italico e meridionale in particolare.

 

 

I Bronzi ricollocati rappresentano la possibilità, rappresentano la speranza, indicano la via che è quella della bellezza mediterranea, nel tempo e fuori dal tempo, di un modo di pensare il proprio spazio, il proprio futuro.  

 

 

 

 

Cananzi
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 Immagini concesse dal Museo Archeologico Nazionale di Reggio Calabria