“I SUD CHE AMO”. PATRIZIA RINALDI di Giuditta Casale – Numero 7 – Aprile 2017

Premio Andersen 2016 come migliore scrittrice per ragazzi: Patrizia Rinaldi è scrittrice senza specificazioni o determinazioni. Scrive di passioni, con raffinatezza ma senza affettazione, con l’eleganza e la grazia innata di cui godono certe anime.

 

Nel tuo ultimo romanzo, “Ma già prima di giugno” (E/O) c’è la volontà di rappresentare e descrivere un sentimento del sud incarnato da una città multiforme e contraddittoria come Napoli, attraverso una donna, Maria Antonia, forte propositiva volitiva e tenace, carnale e sensuale, che non cede al destino né alla Storia (è una delle sfollate da Spalato: scena che tu racconti con straordinario impatto).

 

Il Sud è maschile o femminile? Oppure la scommessa per il futuro
è di non essere né lui né l’altra?

 

Forse ogni femmina bella e sapiente contiene il suo contrario. Forse ogni maschio virile e fiero sa concedersi la fragilità che per sbaglio
è ritenuta donna. 
 

Ho cercato di rendere Maria Antonia un personaggio che si dimena nelle sue differenti nature.
Mi auguro un Sud ermafrodita, che indichi il rispetto per quello che siamo e pure per quello che non desideriamo essere. 

 

Nei libri per ragazzi, i luoghi sono più ombreggiati, meno determinati e dettagliati. Penso alla scuola crollata di “Piano Forte” (Sinnos),  in cui i protagonisti rimangono prigionieri a sperimentare le loro fragilità e più ancora le loro potenzialità; ai (non) luoghi, che sono ambientazione universale della gioventù, di “Adesso scappa” (Sinnos): casa strade palestra; ai cunicoli di “La compagnia dei soli” (Sinnos), in cui però si possono scorgere i sotterranei di Napoli, come in “Federico il pazzo”, (Sinnos) in cui appare una Napoli presente, ma sfumata nei contorni, definita ma anche universalizzata nella sua carica di “periferia”, che non vuol dire solo degrado e abbandono, ma anche solidarietà, amicizia, cultura e convivenza. Perché da Francesco, adolescente che si finge Federico II di Svevia, e che viene etichettato dai compagni come “pazzo”, impariamo concretamente che la cultura ci salva, dal bullismo, dalla storia e da un destino segnato.

 

 

C’è nel Sud, quello più direttamente pensato e abitato dagli adolescenti,
una carica di riscatto e di universalità, 
che lo fa assurgere
a ombelico del mondo? 
Possiamo sperare che del Sud
i nostri figli comprenderanno 
e valorizzeranno

gli aspetti positivi e i valori portanti? 

 

Non so se noi possiamo sperare, ma dobbiamo consentire la speranza
ai nostri ragazzi.

 

La denuncia dei danni e delle omissioni sociali non basta, i ragazzi che vivono nelle periferie dei poteri sono la maggior parte. Hanno diritto al futuro, allo spiraglio possibile.
In questo non faccio alcuna differenza tra nord e sud.

 

Patrizia Rinaldi è una scrittrice del Sud? E se sì, quali sono gli elementi che rendono la tua scrittura “meridionale” o “mediterranea”?

 

Sono una scrittrice nata a Napoli da genitori campani e sono profondamente legata alla mia terra.
La sfida che propongo alla mia scrittura, a ogni nuovo romanzo, è cambiare per accordarsi al contesto narrativo e continuare a somigliarsi.
 

 

Un’ultima domanda in omaggio alla rivista che ci ospita: Myrrha il dono del sud.
Qual è la myrrha del sud, quel potenziale culturale e letterario degno di essere portato in dono a una divinità? E se dovessi scegliere tra i tuoi titoli, o i progetti letterari a cui hai aderito, quale di questi definiresti un dono del Sud?

 

Un particolare anche minimo che cambi in meglio il giorno, soprattutto
dei ragazzi, che contenga la variabile dell’amore, in ogni forma.
L’omaggio che porterei è una piccola utopia di bellezza,
anche solo da immaginare. 
Sceglierei i progetti letterari
del carcere minorile di Nisida, mi hanno insegnato
la resistenza ostinata contro il danno.
 

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 I Sud che amo non sono omologati in definizioni fisse.
Sfumano, si contraddicono, gridano e sussurrano.

 

Hanno la rabbia della Ortese, la lucidità perfetta di Sciascia, strascichi barocchi di Consolo, la perfezione della lingua di Bufalino, gli squarci vivi e popolari di Viviani e De Simone, la cultura mai didattica di Montesano, i ricordi nostri tradotti in arte da Starnone, le fondamenta da tradire di Basile, la grazia sublime, drammatica e amorosa, di Ruccello.
La lista sarebbe troppo lunga e rischierei di diventare pedante, cosa che il Sud non deve diventare. Noi siamo in movimento e non possiamo contrapporci ad altri afflati culturali, ad altri paesaggi. Piuttosto li dobbiamo amare e comprenderli. Farne pane nostro, come si addice ai porti e ai monti scalati e senza muri.

 

La voce calda e suadente di Patrizia Rinaldi, scrittrice a tutto tondo,
come poche in Italia, si presenta da sola con la lista che traccia
un itinerario di poetica: la sua.

 

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“I SUD  CHE AMO”

 

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SAN LEUCIO. GENIUS LOCI di Helene Blignaut – Numero 7 – Aprile 2017

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SAN LEUCIO. GENIUs         LOCI

 

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La bellezza conquista e innamora perché, oltre al fascino della superficie percepita dallo sguardo umano, nasconde e palesa una profondità, una sub-stantia che irradia valore e che chiede di non essere trattenuta, bensì diffusa a chi ne sappia godere.

Bellezza contagia bellezza e, in un luogo che riesca ad apparire nello splendore che gli viene dalla sua propria storia, ogni cosa e ogni avvenimento che vi s’inseriscano saranno belli per conseguenza e brilleranno della stessa luce, seguendo naturalmente il palinsesto prospettico generato dal mirabile contenitore.

 

Esiste  un l uogo,  nel Sud d’Italia, la cui bellezza, come in una fiaba, deve tutto alle sue stesse vicende secolari e alle opere  che  proprio  lì furono create.  Opere  che,  ancora  oggi, escono da sapienti mani artigiane per essere offerte all’intelligenza  dell’estimatore  in  tutta  la  loro  profondità  estetica  atemporale  e  che  perpetuano l’ambizione di una virtuosa  sintesi  tra  il  bello  e  il  giusto  così  come la pretese l’assoluto iniziatore, il re Ferdinando IV di Borbone. Si parla   dunque   di  San  Leucio,  frazione  della  città  di  Caserta, che,  per  volere  di  questo  re,  divenne  subito   un imprevedibile  unicum  tra  nobiltà  monumentale  affacciata  su verdi paesaggi pensosi e una comunità umana che si ritrovò privilegiata nell’apprendere l’arte della tessitura della seta e della produzione di straordinari manufatti.

 

Mentre la Real Colonia di San Leucio vedeva la luce e si avviava quieta e operosa a realizzare, giorno dopo giorno, pur nel suo esiguo limite territoriale, il regale sogno sconfinato, i cognati di Ferdinando IV lasciavano la testa sotto la lama di una cruenta rivoluzione.

 

Il nostro re aveva preso in moglie Maria Carolina d’Asburgo e Lorena, sorella dell’Autri-chienne (ndr. Chienne in francese significa cagna), così come era chiamata, dal popolo francese in rivolta, Maria Antonietta d’Austria, sposa del re Luigi XVI. Sangue e terrore la cui eco, tuttavia, non riuscì a fermare la volontà di questo visionario che, forse sopraffatto dall’eccessiva pompa della reggia di Caserta, aveva deciso di trasformare il borgo in una splendida nicchia la cui esistenza e meraviglia non restassero, però, fini a sé stesse. Nel luogo già esisteva una deliziosa antica chiesetta e lui fece costruire, nell’area del Belvedere, un casino di caccia e vi mandò a vivere alcune famiglie perché vi si dedicassero. Il re era dotato di una mentalità moderna e così pensò di dare vita a un modello sociale di assoluta novità, imponendo un armonico assetto urbano con una piazza circolare e strade a sistema radiale; promuovendo un’autonomia economica con la creazione di un opificio per la produzione di sete di eccellenza, di qualcosa che davvero mai si fosse visto prima.

   

Non solo visionario, ma anticipatore di quella uguaglianza 

che fondava la dignità del vivere sul lavoro ma anche
sulla previdenza sociale e la considerazione (ante-litteram) 

dei diritti umani con l’orario giornaliero di lavoro ridotto a undici ore anziché le quattordici in vigore nel resto d’Europa, con la parità di paga per uomini e donne, la formazione scolastica obbligatoria e gratuita

e con l’avviamento al lavoro che teneva conto delle attitudini 

dei ragazzi. 

 

Anche la casa di abitazione era gratuita e costruita con tutti i comfort possibili all’epoca. La vaccinazione per prevenire il vaiolo era obbligatoria. La gestione di questa impresa, che inoltre sapeva produrre un notevole indotto, anticipava infatti l’affermazione di diritti la cui rivendicazione avrebbe segnato in seguito la storia politica e sociale del continente. Una sorta di Fernandopoli con un Codice, i cui principi fondamentali erano: l’educazione, la buona fede e il merito e in cui non vi era spazio per distinzioni di grado e condizione. Dal patrimonio vivente dei bachi da seta che venivano coltivati nell’edificio della cuculliera, fino alla preparazione delle matasse, ai filatoi, ai telai, alla seteria meccanica, la creazione di tessuti lussuosi per l’abbigliamento e per prestigiosi arredi seppe evolvere in una straordinaria gamma di broccati di seta con oro e argento, di particolari gros de Naples e anche in un originale tessuto innovativo che venne chiamato Leucide.

   

Con l’introduzione nella prima metà dell’Ottocento del jacquard,

la tecnica di tessitura, di cui si vantava la Francia,

vennero create opere che ne nobilitavano i risultati 

e si avvicinavano più all’arte che a oggetti 

di uso comune.
 

I colori erano naturali e l’ispirazione culturale delle sfumature inusitate imponeva definizioni che già da sé evocavano emozioni e desideri: verde salice, verde di Prussia, Siviglia, Acqua del Nilo… Nomi suggestivi di stoffe per tappezzerie, arazzi, tendaggi, coperture di divani e cuscini, ma anche scialli, corsetti, fazzoletti e altri deliziosi capi d’abbigliamento. I tessuti per l’arredo affascinavano re e regine e Papi e ancora oggi impreziosiscono gli ambienti del Quirinale, del Vaticano, di Buckingham Palace, della Casa Bianca e di altri prestigiosi siti. Ancora, famosi stilisti della moda internazionale si lasciano tentare per le loro creazioni di altissima gamma. La storia scorre, il divenire del progresso produce decadenze e nuovi inizi; così, con l’avvento dell’Unità d’Italia, il sogno di Fernandopoli venne inglobato dal demanio statale. Tuttavia, la mitologia di una materia nata dalla volontà imperterrita di un re non poteva soccombere.

 

Oggi, i tessuti di San Leucio restano un patrimonio d’eccezione e,

in quelle trame, resta immutata una vitalità del fare che non ha mai smesso di nutrire sé stessa. Con l’opportuno ausilio delle nuove tecnologie,senza snaturare il lavoro artigianale, si realizzano opere

che ancora ci riportano la profondità multipla della loro bellezza,

la loro storia, la loro eredità utopica,
 

ma anche la delicatezza tattile o lo spessore cremoso di certe lavorazioni, la consistenza – che pare profumata – dei grandi disegni floreali, le tonalità sonore delle sete croccanti. Sensazioni che stimolano un’appassionata attenzione euristica per scoprirne ulteriori significati. Gli appartamenti reali e la casa del tessitore sono visibili oggi nella loro formula museale; tuttavia, il consorzio delle aziende che discendono da quelle antiche famiglie è più che mai attivo e disponibile. Le iniziative culturali richiamano visitatori da tutto il mondo: in luglio, il Leuciana Festival è un’evocazione storica in costume. In ottobre, la Festa del Vino, delle Vigne e della Seta perpetua, in maniera felicemente materiale, quella fantasticheria che animò un antico re. Nelle fabbriche e nelle botteghe tutta una ricchezza di tesori da scoprire.

 

 

 

 

 

Le foto sono state gentilmente concesse dal Complesso Monumentale di San Leucio

 

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Helene Blignaut

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MOULIN: IL PITTORE EREMITA di Pierluigi Giorgio – Numero 7 – Aprile 2017

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MOULIN:   il pittore eremita  

 

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“Qui non vi è altro che l’opera della natura selvaggia e incontaminata! Vorrei riuscire a tradurre in delicati pastelli, riflessi e trasparenze…. e in ogni sua mirabile mutevolezza, tutta, tutta la luce delle Mainarde….”

 

Ebbene sì, sono a caccia di fantasmi dall’alba, stimolato per caso da una vecchia rivista del 1960 con un articolo a firma Maurizio Costanzo, ove si riferiva della strana vicenda di un pittore francese, vincitore di prestigiosi premi e votato ad una gloria che mai perseguì: Charles Lucien Moulin, nato a Lille nel 1869 e deceduto in Molise nel 1960, che – dando un calcio a galleristi e mercanti d’arte – scelse di vivere quasi metà della sua non breve esistenza, ritirandosi in una sorta di eremitaggio artistico e creativo, nelle alte terre del Volturno. Eccomi a rintracciare questo riflesso di Francia tra i risvolti della montagna e i vicoli del borgo per inseguirne nonostante il tempo andato, il pensiero, la filosofia di vita semplice, del tutto personale eppur così umana, significativa: maggiormente oggigiorno, in tempi di crisi identitaria e relazionale: un messaggio di pace e d’equilibrio sereno con tutte le cose, la natura, gli uomini, gli animali:

 

“Ciò che mi guida, è l’amore, il bello; ma tutte le cose hanno una ragione d’essere; “L’arte dà il segno del divino che è in te. Tu lo intuisci,
lo cerchi – se vuoi. Nella natura, nella comunione di spirito con essa,
lo vivi… Questa sola è la mia verità: l’amore per il prossimo,
la natura e tutto, tutto ciò che è bello!…”

 

“Mio zio lavorava in Francia” mi fa Mimì Coia, un anziano impettito signore, “conosceva Moulin e quando seppe che sarebbe venuto a Villa Medici per un lungo periodo, grazie alla borsa di studio vinta per i suoi meriti artistici, gli disse di fare un salto a Castelnuovo a trovare il fratello che qui in piazza aveva una rivendita di vino e generi diversi. Mio padre se lo vide arrivare a piedi un pomeriggio con una gran barba lunga e folta, addosso un vestito dimesso ed ai piedi le ciocie. Pensando che fosse un vagabondo in cerca di elemosina, o al massimo uno zampognaro di passaggio lo invitò a bere un bicchiere di vino. Il pittore gli rispose con un sorriso e con un italiano misto ad accento francese: “Tu sei Giovanni Coia, vero? Io sono Charles Moulin!”. Al mio papà per poco non gli veniva un colpo: il fratello gli aveva anticipato in una lettera l’arrivo di un “gran professore”, ma non certo così conciato!….”

 

Era persona colta, saggia, paziente, disponibile. Tra l’altro, aveva studiato presso l’Orto botanico di Parigi l’uso delle erbe medicinali
e curò gratuitamente tanta gente, beccandosi una denuncia
da parte del medico locale: nessuno andava più da lui!

 

Roberto Fiocca mi parla della sua natura artistica: Moulin nasce con l’educazione naturalistica di Lille, si perfeziona con questa alta precisione fatta di creazione di vita e di bellezza ideale. Il soggiorno a Castelnuovo al Volturno, è un approdo: egli vede quello che ha sempre sognato: la “bellezza” di Bougherau, suo insegnante d’accademia, la trova nella realtà attraverso lo studio approfondito della natura…. Non seguì nessuna corrente pittorica in particolare: possedeva la rara capacità di afferrare l’anima delle cose; di tutte le cose…. Nei suoi dipinti, vibranti di luce, nella gamma variegata dei colori, si avverte l’alito divino della sua anima… I soggetti ed i delicati paesaggi – tra armonie di tinte e sfumature di colore, luci ed ombre – hanno lo stupore, la meraviglia dell’uomo appena creato; della natura che si scopre alla sua prima alba, venerata come una dea per mostrarla agli uomini in tutta la sua divina bellezza e sacralità…

 

“Il mio metodo è di trovare la composizione che meglio permette di chiarire il sentimento di ogni soggetto; l’ora si intende come luce: passata l’ora, è passato l’incanto… Non cerco mai la stranezza nell’originalità: faccio e agisco solo secondo coscienza. Ho potuto conservare la mia libertà e non mi è costato. Ho sempre sentito di non poter diventare ricco e di non veder chiaro nei miei problemi di pittura che in solitudine e molto tardi: adesso comincio a capire il perché delle cose.

 

Se il fine della vita è l’aspirazione alla felicità, l’Arte deve, in misura dei suoi mezzi, contribuire a questo fine, seminando serena commozione e splendore di bellezza… Il principio ed il dovere dell’artista è di essere l’archetto del violino delle anime e di farle vibrare: è d’essere un germe di felicità.

 

La felicità della pittura moderna invece, consiste proprio nel non riuscire a scoprire nessun perché: essa è piena d’inquietudine e incertezze, è una pittura da sbandati, che rispecchia il male del secolo, dell’uomo moderno che cerca di salire sulle proprie spalle per non essere schiacciato nel vuoto che ha nel cuore…”.

 

Incontrando la gente tornata stanca dalla campagna, chiedeva spesso se poteva fare un ritratto: qualcuno a volte restava perplesso, sapendo che Mssiù li avrebbe fatti posare a lungo e non per una sola volta… Al termine, donava il dipinto e si condivideva quel che una misera tavola poteva offrire: una minestra, un piatto di fagioli o di patate. Non chiedeva mai nulla; si accontentava di poco…  “I Castelnuovesi sono buoni e generosi perché hanno il sole; quando il sole riscalda l’uomo non ha bisogno di lottare: la natura non dà mai cattivi consigli”.

 

M’informo sull’eremitaggio di Moulin: la baracca è lì, proprio in cima a Monte Marrone: l’ha costruita con le sue mani, pietra su pietra; lì è vissuto per qualche anno di erbe, radici, decotti e un pò di cibo offerto dai pastori, tra lupi e camosci e – come la gente del luogo narra – in compagnia di spiriti, streghe e folletti. “Qui non vi è altro che l’opera della natura selvaggia e incontaminata! E’ tutto grandezza e magnificenza!… A chi gli chiedeva se avesse mai visto l’orso, rispondeva: “Ma certo! Ogni mattina quando mi guardavo in uno specchio rotto…”. Era un convinto assertore della filosofia di Jean-Jacques Rousseau da lui tradotta in vita pratica: la civiltà, origine dei mali e le infelicità dell’uomo; la natura, invece, depositaria delle qualità positive… Un’esistenza da condurre in totale simbiosi con la natura stessa; per sentirsi parte viva di essa con animo genuinamente primitivo, con lo stupore autentico di un bambino che conserva ancora il suo spontaneo incanto.

 

“Non si deve rompere l’equilibrio con la natura, ma lasciare il mondo così come è stato creato… Il progresso porterà al regresso, alla corruzione, all’autodistruzione dell’uomo. Ma il mondo non finirà: esso si trasformerà in caos, ma nel caos ci sarà sempre la vita
e tutto risorgerà…  E poi, allo scadere del ciclo – ci saranno altri cicli,
di milioni, miliardi di anni – di nuovo e ancora il caos…”
 

 

Tina Castrataro mi accoglie nella sua casa piena di gatti: “Ero affascinata da quel vecchio, ne ero forse innamorata, in senso spirituale, come può esserlo una bambina; provavo ammirazione, tenerezza. Ricordo che parlava in modo gentile, a frasi brevi, secche, con voce bassissima ed una particolare inflessione francese. Era un uomo fantastico, mite, grande! Credeva in qualche cosa di assoluto e indirettamente credeva in Dio, poiché confidava nell’arte, nel sublimare tutto in essa, affetti, religione. “Non è per virtù mia che mi vengono le idee… è una forza, un’energia superiore che me lo manda: il mio Dio? La bellezza, la natura, l’arte, l’intelligenza… Un Creatore che chiamano Dio, Allah, Geova e altri nomi ancora… Vivere secondo i principi morali della religione, di qualsiasi religione, è per me vivere secondo natura, nel rispetto di tutte le creature, nell’accontentarmi di quanto mi è stato dato, nell’accettare la vita com’è…”

 

21 Aprile 1960: una suora lo assisteva già da tempo per le cure necessarie. Ormai novantunenne, allettato e nonostante gli acciacchi, volle ritrarla… D’un tratto, la mano scivolò sul foglio, inerte…….  Se ne andò via così Moulin, proprio quando la luce con le sue sfumature, si risveglia dal lungo sonno invernale: sì, se ne andò così… il primo giorno di primavera…

 

È l’alba…. attratto da una forza irresistibile, ai piedi del monte, gli scarponi inzuppati di rugiada, fiatone in gola, passo dopo passo, m’inerpico lungo una ripido sentiero, ingoiato da un immenso bosco di faggi secolari. Un paio d’ore tutte d’un fiato per arrivare in cima… e finalmente il rifugio in pietra, tra quattro rocce e basse chiome di faggio contorte dal vento! Eccomi qui, eremita anch’io nell’antico ricovero in pietra, nello scenario dei momenti più significativi, nello spazio delle emozioni e del pensiero più segretamente intimi dell’artista…. Come posso descrivere ciò che sento? Moulin provò la prima volta le stesse emozioni che ora avverto io?…  Sì, Moulin è qui; è sempre stato qui!… Tutto è permeato della sua Energia: colma i risvolti della montagna, le variegate sfumature della luce, il canto del vento, il ciangottio del torrente, avvolge la mia stessa anima…. Sì, tutto questo è Moulin!…

 

Abbraccio tutto con lo sguardo… Su questo baratro infinito, credo di comprendere la scelta del pittore, tra impegno e abbandono, coinvolgimento e distacco, ma non fuga dal mondo, no!… La comprendo e compenetro, in uno stato di profonda empatia – quasi tra sovrapposizione, fusione e sdoppiamento: lui e me – in questa ricerca di un deliberato, intenso contatto con l’artista, con il suo pensiero, con il modo d’essere e di vivere… Nel desiderio unico di riappropriarsi, di riaccordarsi con se stessi… Nell’appagamento semplice di un richiamo, di una voce interiore; nel bisogno ritrovato di salvaguardare la meraviglia, lo stupore, l’incanto del bambino; per proteggere il patrimonio dei valori profondi che l’uomo – che ognuno di noi – ha dentro di sé; nello scrigno segreto del proprio cuore… Senza inquinamenti né contaminazione, senza disperderli nel cicaleccio del mondo; scimmiottando il mondo… Un’appartenenza a sé, che lui avrebbe perso forse tra galleristi famelici, mercanti d’arte, le luci ammalianti del successo: sì, è l’amore la sua scelta: il motivo fondamentale, la vera opera d’arte della sua vita; un amore ideale, puro, universale; un’esistenza attuata secondo coscienza… tradotta in dipinti, parole, saggezza e spiritualità: nella sublimazione totale nell’arte: proprio tutto, anche il sentimento per una donna…

 

“La donna è una creatura sublime, soggetto d’arte: io avrei dovuto scegliere o l’una
o l’altra e ho scelto l’altra; nessuna avrebbe mai potuto capire fino in fondo la mia vita
e sarebbe stato ingiusto da parte mia imporgliela. Lega tra loro due uccelli: avranno insieme quattro ali, ma non potranno mai volare…”.

 

Si racconta che in gioventù partì per l’Italia con una delusione nel cuore: Emilìe, conosciuta poco tempo prima di andare in sposa ad un altro uomo. Fu un amore reciproco, mai dichiarato, ormai non più possibile… Quel filo impalpabile tra i due non si spezzò mai; una notte, dopo svariati anni, lui la sognò: qualche tempo dopo venne a sapere che Emilìe era morta proprio nello stesso istante… Un attimo prima dell’ultimo viaggio, le anime che non hanno età, si erano incontrate per l’ultima volta: la candida anima dell’una si era accostata a quella dell’altro, per un tenero, estremo commiato…

 

M’incammino per scendere giù in paese… Non so che ora sia e cosa del futuro mi aspetti; ma non me ne importa proprio niente!…

 

Giù, dalla valle, echi di zampogna….

 

Pierluigi Giorgio è autore, attore, regista. Ha girato: “Moulin, il poeta del pastello”, film – documentario che si può richiedere contattandolo su Fb.

 

 

 

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Mi appare all’improvviso e sovrasta il paese. Castelnuovo al Volturno, in territorio d’Isernia, è incollato lì, come un presepe aggrappato alla roccia, quasi per timore di scivolar giù nelle acque del fresco torrente alle pendici del monte; e come presepe che non si smentisce, è paese di validi zampognari. “Per Monte Marrone esiste un sentiero?…” chiedo a due che incontro per strada: resto letteralmente di stucco quando uno di loro, s’informa se sto cercando la capanna di Mssiù Mulè il pittore e, nel pronunciare il nome, si fa il segno della croce come stesse parlando di un santo.

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IL BATTISTERO DELL’ANIMA. CASTEL DEL MONTE di Nicola Primo Zema – Numero 7 – Aprile 2017

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La “folgorazione” è avvenuta a cavallo delle ultime feste 2014 – 2015. Stefano Benazzo, Ambasciatore d’Italia, fotografo, scultore e modellista architettonico, che mi onora della sua amicizia, aveva allestito in Doglio, un luogo delizioso quanto mai adatto ad ospitare la bellezza, una Mostra intitolata “Dialogo” in cui venivano esposti modelli architettonici di chiese cristiane, una moschea ed una sinagoga. Tra questi luoghi esplicitamente di culto, al centro della Mostra, spiccava un modello in scala di Castel del Monte.

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IL BATTISTERO DELL’ANIMA. CASTEL         DEL MONTE

 

Si va da posizioni “negazioniste” di qualunque valore simbolico del Monumento, a derive estreme che affermano realtà esoteriche nascoste alluse da elementi simbolici: cercherò di stare nel mezzo, non tanto perché “in medio stat virtus”, quanto perché mi sembra, in definitiva, una posizione più plausibile. Divido la riflessione in tre parti: Ipotesi sulla funzione del Castello; un monumento disegnato dalle mani del Sole; percorso attraverso alcuni simboli presenti, simulando un itinerario iniziatico.

Da svariati decenni si è discusso sulla reale “funzione” del Castello: è un dibattito ancora aperto.

Il prof. Giorgio Masetti della Università di Bari, Facoltà Lettere Antiche, afferma che di tale termine esistono ben sette significati, tutti validi in funzione del contesto. Tra questi, si possono citare “lastricato” o come pavimentazione, o come lastrico solare, cioè una copertura, il che porta a considerare l’intervento come completamento di una struttura già esistente; oppure, indicante, genericamente, “materiale edilizio da costruzione”, per un’opera da completare o da iniziare, quindi, nello specifico, potrebbe indicare la costruzione ex novo del Castello. Dubito di questa ultima interpretazione, proprio sulla base del documento riportato: 

 

– Se actractus significa genericamente materiale edilizio da costruzione, allora diventa pletorica la specificazione actractum ipsum in calce lapidibus et omnibus aliis oportunis…“questo actractus con calce, pietre e tutto il necessario”…

 

– Diventa incomprensibile l’esecuzione totale di un’opera così importante affidata ad un funzionario di una giurisdizione territoriale diversa, licet de tua iurisdictione non sit “benché esso non stia nel distretto della Tua giurisdizione”; si può capire questo incarico solo con carattere di estemporaneità, per un intervento urgente e di completamento. Dunque il Castello, di cui si ignorano il nome dell’architetto, l’impegno economico e, in definitiva, il primo committente, era un fabbricato preesistente, completato da Federico II solo per un intervento marginale.

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Ipotesi sulla funzione del Castello. 

Chi ha costruito il Castello? 

Sembra una domanda oziosa dalla risposta scontata: Federico II di Svevia. Non sembra così certo.

Per ogni Castello che Federico II intendeva costruire sono documentati il luogo scelto, il nome dell’architetto e la somma di denaro destinata all’opera1. Per Castel del Monte si ha soltanto un mandato del 29 gennaio 1240 dell’Imperatore Federico II, inviato da Gubbio al giustiziere di Capitanata, Riccardo di Montefuscolo, in cui viene prescritto: «Cum pro castro, quod apud s. Mariam de Monte fieri volumus per te, licet de tua iurisdictione non sit, instanter fieri velimus actractum, fidelitati tue precipiendo mandamus, quatinus actractum ipsum in calce lapidibus et omnibus aliis oportunis fieri facias sine mora; significaturus nobis frequenter, quid inde duxeris faciendum.». «Poiché per il castello, che abbiamo intenzione di costruire vicino a Santa Maria de Monte, vogliamo che venga subito eseguito tuo tramite – benché esso non stia nel distretto della Tua giurisdizione l’actractus, ti incarichiamo, quale nostro fedele, di predisporre senza indugio questo actractus con calce, pietre e tutto il necessario, in attesa che Tu ci tenga continuamente informati di ciò che intendi fare in questa faccenda…»2

Cosa è l’actractus.

Ipotesi di studiosi che si fondano sul simbolismo esterno e sui simboli ancora visibili all’interno del fabbricato stesso, attribuiscono la originaria proprietà del Castello ai Templari: Castel del Monte, come vedremo nella seconda parte, è come disegnato dalle “mani del sole” caratteristica tipica delle costruzioni templari.

In proposito, nella terza parte, relativa ai simboli presenti, ne citerò due tipicamente templari e trarrò interessanti sviluppi su uno di essi. Il prof. Giorgio Masetti, succitato, definisce actractus in questo modo: canalis in quam aqua actrahitur “canale nel quale si attira l’acqua”. Si tratterebbe, quindi, della esecuzione di un’opera accessoria per una struttura esistente. E qui si apre il pregevole e convincente contributo di due docenti del Politecnico di Bari, Facoltà di Architettura, prof. Ubaldo Occhinegro e prof. Giuseppe Fallacara che hanno redatto un saggio: Castel del Monte: Nuove ipotesi sull’utilitas del monumento, accessibile per via informatica e che invito caldamente a leggere. Castel del Monte non è un’opera militare e questo si può chiaramente dedurre sulla base degli elementi di architettura militare e logistica non rilevabili nel Monumento. In estrema sintesi, il Castello è una costruzione per la raccolta dell’acqua piovana e di falda per il loro trattamento finalizzato alla cura del corpo e dello spirito.

Dicono i nostri Autori: “Castel del Monte è stato progettato per essere il “battistero” per la redenzione del corpo in primis, ma anche dell’anima dell’Imperatore stesso, alla strenua ricerca dell’Immortalità”.

In effetti, il Castello era impiegato per gli stessi scopi anche per ospiti importanti dell’Imperatore, siano essi alti funzionari che Cavalieri che intraprendevano come un percorso iniziatico. “In esso, concepito come ideale battistero del corpo e dell’anima, lavoravano medici ed alchimisti…”I nostri Autori espongono, in modo puntuale, l’organizzazione degli spazi interni del Castello riconducendoli alla loro funzione e ipotizzando i trattamenti che vi avvenivano leggendo le geometrie interne e segni lasciati dai residui secchi di prodotti alchemici, senza entrare, però, per onestà intellettuale, nella interpretazione dei simboli presenti di cui il castello è pieno. I percorsi sono obbligati ed indicati dalla struttura dei portali: riccamente decorati sul prospetto di entrata, nudi nella parte posteriore, come a “vietare”una via di ritorno, assimilabile ad un ripensamento di chi ha intrapreso il “viaggio”.

Si accede obbligatoriamente nel cortile ottagonale al centro del quale è testimoniata la presenza di una grande vasca anch’essa ottagonale, monolitica, di marmo, con sedile periferico interno3, riempita d’acqua e con getto centrale a mo’ di sorgente: la forma di questa vasca ricorda un “battistero”. L’inizio di un lavacro purificatore per il corpo
e per lo spirito.

I vani finemente decorati originariamente con marmi, stucchi e mosaici, fungevano da “tepidari”e “calidari”, con pavimenti più bassi, soglie di separazione delle sale più alte, rispettivi camini e servizi igienici con acqua corrente: i pavimenti, come negli hammam islamici, sarebbero invasi di acqua più o meno calda adatta alle diverse cure del corpo. L’edificio è munito di cinque cisterne pensili di raccolta di acqua piovana, di 28 m3 l’una, non a servizio diretto dei cinque servizi igienici delle torri, ma comunicano, per il troppo pieno, in altre direzioni, ma soprattutto con una cisterna posta sotto il cortile ottagonale della capacità di 250 m3; questa ultima riversa il troppo pieno entro una ultima cisterna interrata posta a 20,00 m dall’edificio. I recenti restauri, inoltre, hanno rilevato la presenza di pozzi profondi 60,00 m che raggiungono falde ricche di acqua sottostanti il castello. Chiudo questa sezione con una osservazione sintetica degli autori citati, raccomandando, ancora, di accedere al loro lavoro:

“Studiando il progetto dell’edificio, dalla planimetria generale sino ai più piccoli elementi di decoro architettonici, il castello risulta essere una enorme macchina di raccolta, smistamento ed utilizzo delle acque piovane.” E, come detto sopra: “…concepito come ideale battistero del corpo e dell’anima…”.

(Seguirà la seconda parte: Un monumento disegnato dalle mani del Sole).

1 Cfr. Aldo Tavolaro, Castel del Monte e il santo Graal, EDIZIONE GIUSEPPE LATERZA di Giuseppe Laterza, 2004, p. 30 e segg. 

Traduzione di Dankwart Leistikov , da un opuscolo AndriArte curato da R. Ruotolo – P. Petrarolo, Sveva Editrice, Andria, 1993, pagg. 33-42

Completamente demolita da vandali nella seconda metà del XIX secolo.

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ARCHITETTURE DEL SALENTO: LE TORRI DI DIFESA di Giusto Puri Purini – Numero 7 – Aprile 2017

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ARCHITETTURE DEL SALENTO: LE TORRI DI DIFESA

 

Santa Sofia diventa La “Grande Moschea” e nasce nel Mediterraneo Orientale una nuova, grande, colta ed aggressiva superba potenza, che entrerà velocemente in conflitto con la Repubblica di Venezia, la quale, fino ad allora, aveva liberamente solcato i mari dall’Adriatico all’Egeo, con i suoi flussi mercantili e le innumerevoli postazioni e domini, seminati dalla Dalmazia fino all’Asia Minore ed oltre. La Puglia, diventava un nodo strategico per le scorrerie Ottomane e,nonostante l’occupazione della penisola nel 1484 da parte dei veneziani (lo sbarco a Taviano), questi ultimi non riuscirono più, a frenarne l’impeto. L’Algerino Khaized-Din (detto il Barbarossa), nel 1537, distrusse Castro e Marittima e, sul versante ionico, l’antica Ugento. Il sistema di difesa della Puglia, ed in particolare del Salento, era impreparato e precario; tra opere risalenti prima agli antichi Romani, poi ai Bizantini (per difendersi da Longobardi ed Aragonesi), costruite nei secoli precedenti sotto forma di torri costiere e masserie fortificate, esso non era più all’altezza del compito. A questo punto, nel panorama europeo, l’aspro conflitto tra Francesco I Re di Francia, e Carlo V re di Spagna, si risolse in favore di quest’ultimo portandolo a governare una gran parte d’Europa.

La Storia del Salento è costellata da una miriade di invasioni: all’inizio, da parte di popoli divenuti stanziali, come i Messapi ed i Japigi; poi, da parte dei greci; incursioni di pirati saraceni, attacchi e saccheggi, ed ora il grande pericolo degli Ottomani, che tra l’altro cullavano l’idea di riunificare l’Impero Romano d’Oriente con Roma. Fu dunque sotto l’Impero di Carlo V che il Vicerè del Regno di Napoli, Pietro de Toledo, nel 1532, promosse un’imponente e strategica prima linea di difesa lungo le coste Adriatiche e Ioniche della Puglia, con quel vasto promontorio che si protende nel cuore del Mediterraneo. Come un’urbanista dei sistemi di difesa, fece realizzare un progetto dove ogni torre potesse vedere e segnalare alla successiva i pericoli incombenti. Come allarme si usavano i corni e le campane, o allarmi visivi, come il fumo (di giorno) ed il fuoco (la notte). Una seconda linea di difesa erano le masserie fortificate e, più all’interno, imponenti Castelli tra i quali spicca, ancora oggi, quello di Acaya. Il provvedimento del Viceré fu rafforzato nel 1563 dall’ordinanza di Don Pedro Afan de Ribera.

Quest’Italia, protesa e bagnata dalle acque quasi in ogni punto del suo periplo, “offriva” e fungeva da attrazione e calamita per altre popolazioni.

Oggi l’esodo biblico che milioni di genti compiono quotidianamente in questi ultimi anni, rimette in moto antichi rancori, paure e disequilibri, e deve nascere una coscienza nuova che induca i grandi Stati (colonizzatori) a sviluppare nei luoghi di origine lavoro e sviluppo, per riportare il nostro mare ad essere, come da sempre, luogo di mercanti, di scambi economico-finanziari, di cultura, direligione, di pensiero e di lavoro.

Nel 1529, dopo altri conflitti e finalmente l’intesa con il Papa Clemente VII, Carlo V ottenne il riconoscimento dei suoi “ambìti” possedimenti in Italia, tra i quali il Regno di Napoli, che includeva l’amata Puglia (dove tra l’altro non arrivò mai).

Il costo economico di tale impresa era diventato così alto che, attraverso bandi di concorso, si conferivano titoli a chi s’incaricava di costruire torri, assegnandogli il titolo di “Capitano di Torre”, il quale, oltre a segnalare scorrerie ed ad approntare difese con cannoni ed archibugi, poteva anche riscuotere dazi. Agli insolventi veniva “duramente” negato il diritto di difesa.

Le Torri, in seguito, serviranno anche per contrastare il contrabbando, in parte tollerato, per impedire il commercio abusivo del sale molto in voga in quei tempi, data la povertà delle popolazioni contadine, e ad intercettare il traffico degli schiavi. Quelle edificate da Carlo V, costruite con conci di tufo regolari, sono generalmente a pianta quadrata o circolare, con il basamento scarpato; all’interno, ambienti normalmente su 2 livelli ed un terrazzo merlato di copertura; feritoie e caditoie completano la facciata. Le Torri sono fornite di una cisterna sotterranea per raccogliere l’acqua piovana. In certi casi, oggi, sono delle Capitanerie di Porto ancora efficienti; molte sono solo ruderi (purtroppo) ed altre sono state restaurate. Come dice Mario Muscari Tomajoli “La costruzione di Osservazioni fortificate è riportata fin da Plutarco (125-50 a.C.) e fu realizzata anche dai Romani, il cui commercio venne messo in crisi dai pirati sino al 67 a. c., quando la legge Gabinia consentì a Pompeo di armare una flotta contro i predoni e rendere tranquillo il Mare Nostrum”.

Ma questo sistema di difesa non esiste solo in Puglia e nel basso Salento, bensì in tutte le nostre ed in tante altre coste del Mediterraneo, e segna, come un’immane punteggiatura nelle mappe, il rapporto di amore e di paura che il grande mare portava con sé.

Il primato della civiltà, della storia, della fertilità della natura, del costume, le imponeva anche sistemi di autodifesa, ed ecco che, oggi, queste mirabili costruzioni, nel ritmico fluire dei paesaggi, diventano segni indelebili della storia.

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TRANI – LA BELLA ADDORMENTATA SUL MARE di Giannicola Sinisi – Numero 7 – Aprile 2017

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TRANI
LA BELLA ADDORMENTATA SUL MARE

 

 

 

Negli Stati Uniti d’America, Walt Disney ha materializzato questo binomio realizzando, dal nulla, luoghi incantati, costruendo parchi di divertimento nei quali la magia immaginaria delle fiabe diventava una realtà possibile.

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 In Italia e, più in particolare in alcune città del Sud, una millenaria attitudine alla bellezza, ed una ricca sovrapposizione di vicende epiche,
sono state artefici della costruzione, 
quasi come se fosse opera
di un unico grande architetto senza tempo,
di luoghi egualmente fantastici, 

ma assai meno noti.

 

 

La città di Trani ne è un esempio, adagiata sul mare con architetture realizzate dalla mano dell’uomo che, viste dal mare, competono con la bellezza e la grandezza della natura. Ma la stessa umanità che ha lanciato questa sfida al Creato, non ha saputo mettere il suo genio al servizio dei bisogni di questo tempo, e non è stata capace, fino ad ora, di trasformare questo grandioso patrimonio collettivo in benessere al servizio di tutti. Alcuni dei suoi monumenti potrebbero essere alla base di una nuova economia, se le timide iniziative di oggi potranno diventare un’impresa sfacciata come quella del principe che baciò la bella addormentata, destandola dal suo lungo sonno. 

  

La Cattedrale di trani. Un piccolo gruppo di imprenditori turistici di Trani
si sta organizzando per ottenere, con il consenso della Curia,
il riconoscimento della Cattedrale di Trani quale
“patrimonio UNESCO dell’umanità”.

 

Nel Mediterraneo, e probabilmente nel mondo intero, non esiste un’altra Cattedrale medievale edificata sul mare. Nel XII secolo dovette sembrare quanto meno azzardato costruire un imponente edificio religioso sul mare. Il mare, infatti, in quell’epoca costituiva più una fonte di pericolo per le invasioni e le guerre, che le religioni ispiravano ed alimentavano, piuttosto che un’opportunità di pace e di coesione tra i popoli. Eppure quella sfida coraggiosa, ed in qualche misura fondata sulla capacità della sua gente di costruire legami attraverso il mare, piuttosto che conflitti, ha retto per quasi un millennio ed oggi rappresenta un esempio meraviglioso di purezza di stile, oltre che un inimitabile simbolo di pace. Oggi che il mare Mediterraneo assiste ad una nuova epopea di migranti, armati solo della loro disperazione, muovendo da terre attraversate da mille conflitti, e dove le religioni vengono ancora prese a pretesto per saziare l’avidità di potere di qualcuno, la Cattedrale di Trani, che su quel mare si affaccia, può essere una testimonianza viva di come questo mare, il nostro mare, ci consente di prosperare solo se siamo capaci di vederlo come una ricchezza, e non come una minaccia.

 

Il Polo MusealeNella stessa piazza della Cattedrale, all’interno di palazzo Lodispoto (sec. XVIII), è stata realizzata la sede del Polo Museale di Trani. Già l’edificio, per l’eleganza della sua architettura e la spettacolarità
del suo affaccio sulla piazza e sul mare,
è un’inaspettata sorpresa.

 

Un’accorta trasformazione dei suoi spazi interni ha consentito di realizzare una struttura efficiente che ospita il museo della macchina da scrivere ed il museo diocesano, oltre a degli efficienti e moderni servizi per conferenze e convegni. È una rara quanto apprezzabile sinergia tra un privato collezionista e la diocesi di Trani, proprietaria dello stabile. Lì si trovano esposti il patrimonio capitolare ed i reperti lapidei di cui è titolare la diocesi, ed una rara collezione di 400 macchine da scrivere appartenenti ad un imprenditore locale, che ha costituito la fondazione SE.CA. che gestisce questa interessante impresa culturale. Va apprezzata non solo l’originalità del progetto, ma anche la straordinaria qualità espositiva, in teche e supporti ben realizzati, che formano percorsi culturali di grande effetto.

 

Il Monastero di Colonna. Su un altro promontorio della città di Trani,
a poca distanza, si erge, anch’esso affacciato sul mare, un monastero
dell’XI secolo che ospitò i benedettini fino al XV secolo
ed i francescani fino al XIX secolo.

 

 

Oggi è di proprietà del comune di Trani che ha in animo di realizzarvi un museo archeologico, sotto l’egida della competente soprintendenza, per ospitare i reperti frutto dei ritrovamenti della civiltà dei Iapigi che abitarono questi luoghi sin dall’età del ferro. Una consistente opera di restauro, appena terminata, ha consentito all’ente locale di deliberare un indirizzo per un bando di gara che ne stabilisce la destinazione come museo archeologico, prevendendone la concessione in gestione da parte di privati, che potranno realizzare delle economie non solo dai biglietti d’ingresso, ma anche da ogni altra forma di utilizzo compatibile.

 

 

La città gode di innumerevoli ulteriori risorse artistiche, storiche, culturali, che possono essere al centro di una nuova economia, aperta verso flussi di viaggiatori che cercano la bellezza, ed amano la storia

 

 

LE MINNUZZE DI SANT’AGATA di Hilde Ponti – Numero 7 – Aprile 2017

LE MINNUZZE DI SANT’AGATA

 

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È indiscusso il coraggio dimostrato dalla giovane Agata – nata a Catania nei primi decenni del III secolo – che, eludendo ogni lusinga del prefetto romano Quinziano, non si concede, fedele ai suoi convincimenti, e viene, quindi, torturata nelle parti negate, fino a staccarle i seni, per, infine, perire, martire annoverata del cristianesimo primitivo.

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Il suo è un esempio unico che ci perviene da fonti storiche, intrecciate a una forte tradizione popolare. Tuttavia, la dedizione per la strenua fanciulla – eletta più tardi patrona di Catania –  si è espressa quasi subito. Prova ne danno gli Atti dei Martiri.

   

Quinziano, respinto, ordina di far rotolare Agata nuda, su lapilli incandescenti. Proprio in quell’istante un violento terremoto
scuote la città. La popolazione, convinta che il sisma fosse punizione divina, si precipita inferocita al pretorio,
costringendo Quinziano a sospendere l’esecuzione. 

Ad Agata sono rimaste solo poche ore.

 

“Sant’Aita, Sant’Aituzza bedda”, presero a invocarla subito, in quell’idioma musicale, i suoi concittadini: a tutt’oggi, più che mai, presente nella memoria collettiva di Catania e della Sicilia; supplicata, persino, dai Giudei e da altre confessioni. I miracoli attribuiti per Sua intercessione sono davvero tanti: il primo si verifica a un anno dalla sua morte, il 5 febbraio 252 d.C. L’Etna, l’imponente vulcano che circonfonde Catania e la pianura sottostante, emette una forte eruzione. 

   

Gli abitanti – sapendo che l’avanzare della lava significa sempre distruzione – tentano il tutto, invano, e, non rassegnati, si avviano incontro a quell’inferno con il Velo della Santa: e il prodigio avviene. La colata, molto vicina alla città, si arresta
solo davanti all’antico cimelio di Agata.

 

Da questo evento, ha inizio l’inestinguibile devozione di Catania verso la sua Santuzza. E così, dalla storia –leggenda testé evocata, l’Etna, Sant’Agata, Catania e i suoi cittadini si sono accomunati in parallelo per sempre. Tanto che, per ricordarla, hanno istituito due feste annuali: una di tre giorni in febbraio, l’altra in agosto. Nel 2002, l’Unesco ha dichiarato queste festività “Patrimonio dell’umanità”.

 

Inoltre, proprio per non smarrire l’umano senso del possesso, 

i siciliani hanno arricchito il loro pregevole valore gastronomico con un dolce ormai classico, proprio in onore della loro beniamina: le cassatelle di Sant’Agata (Minne di vergine).

 

Per delineare verità remote e leggenda ci rifaremo ai racconti degli storici: l’eruzione del 1669. Lava e lapilli incandescenti erodevano i fianchi della montagna, devastando ogni dove: migliaia senzatetto. La colata arrivò, via via, fino alla città: Catania si spopolò. Eppure, anche allora, avvenne qualcosa di straordinario: la lava, arrivando nei pressi della Cattedrale, scansò luoghi ritenuti tappe del martirio di Agata. Dopodiché, il magma raggiunse il mare, proseguendo la corsa per altri tre chilometri. Anche oggi è visibile quel reperto pietrificato dai secoli: va da Catania a Acireale, ed è chiamato La Costa dei Ciclopi, riferendosi al litorale descritto svariati secoli prima da Omero nell’Odissea.
 

Altra cronaca riguardante Sant’Agata, evocata nel tempo per via orale, narra quando Papa Innocenzo III nominò re di Sicilia l’imperatore di Germania, Federico II e buona parte 

degli isolani non si trovò d’accordo.

 

Allorché lo svevo ne venne a conoscenza, decise di stabilire, in qualsiasi modo, la sua sovranità. Com’era solito fare – stupor mundi: voleva stupire sempre – prima di passare ai fatti meditava. Capitando in una chiesa a Catania, diede inizio alla sua riflessione pubblica, e, in barba alla prosopopea, dovette lui meravigliarsi: all’istante, sotto i suoi occhi, vide materializzarsi alcune lettere: N.O.P.A.Q.V.I.E. – frase in latino, il cui acronimo riferiva “Noli offendere Patriam Agathae quia ultria iniuriarum est” (non offendere il paese di Agata, perché vendicatrice di ogni ingiustizia). L’episodio fece desistere Federico II dal vendicarsi. A tutt’oggi, sulla facciata barocca della cattedrale, nella finestra ovale – lato sinistro di chi guarda – si può leggere l’acronimo in una formella, mentre alla destra se ne trova un altro oggetto di culto, menzionato negli Atti del Martirio.
 

Ma i segni barocchi di Catania sono sparsi un po’ ovunque.

 

Seguendo, per esempio, il tracciato delle mura, si arriva a Palazzo Biscari: come non ci si può soffermare davanti alla fastosa facciata? Essa è movimentata da decorazioni: putti, cariatidi grottesche e altri fregi inneggianti al barocco. Palazzo Biscari si affaccia anche su via Museo Biscari, da cui si accede a Palazzo Platamone: i cortili all’interno sono teatro di luoghi magici, illustrano magistralmente le varie stratificazioni storico-architettoniche di Catania, dove la tradizione riconosce, nei resti sotterranei di domus romane, la casa natale di Sant’Agata, della quale, sulla via adiacente, un’edicola settecentesca rievoca proprio il culto. Il palazzo, in epoca Medievale e Rinascimentale, era residenza dell’importante famiglia Platamone, che – in età aragonese e fino a Carlo V – ricoprì importanti incarichi politici. Distrutto dal terremoto del 1693, venne ricostruito nel ‘700 da architetti che facevano rivivere la città rappresentando rari esempi di barocco. E poi il castello Ursino, fatto edificare da Federico II, su un magnifico promontorio circondato dal mare, simbolo della città. Obbligatorio non tralasciare la visita al magnifico quartiere liberty, un po’ dismesso, testimone di splendori epocali. 
 

Edifici monumentali, vestigia storiche, attestanti culture 

di varie età, ma anche devozione per Sant’Agata 

della sua città e della Sicilia, condivisa anche 

dalle nuove generazioni.

 

E fa davvero meraviglia, pur non trovando motivazione unica: curiosità? Tradizione? Folclore? Fede? Diventa per tutti un collante quando  si tratta di gusto e squisitezze. La preparazione dalle forme morbide – gonfie di ricotta di pecora, zucchero, gocce di cioccolato miste a canditi profumatissimi – incanta.
 

E l’accostarsi alle Cassatelle di Sant’Agata 

(Minne di vergine) è, per tradizione, l’interloquire tacito trasformato in realtà, Epifania per i fedeli 

e i cultori del gusto.

 

 

APULIA LANGOBARDURUM di Gianluca Anglana – Numero 7 – Aprile 2017

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L’epoca delle grandi migrazioni in Europa colmò un ampio arco di tempo, divaricatosi tra il III e il IX secolo. Fu come una slavina, appena annunciata da pochi grani di neve: dapprima si trattò di semplici razzie e scorribande, successivamente di vere e proprie trasmigrazioni di popoli. Con il progressivo indebolimento dell’Impero Romano in Occidente, queste ondate di oceani umani divennero sempre più frequenti e massicce fino a cristallizzarsi in apparati amministrativi e addirittura in regni associati1.

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APULIA LANGOBARDURUM

 

Dal caos liquido del Medioevo emerse una civiltà tuttora avvolta in una foschia di mistero e per questo affascinante: la civiltà dei Longobardi.

Nella sua Historia Langobardorum Paolo Diacono, monaco longobardo cui fu affidato il compito di narrare l’epopea della propria gente, ne dipinge in maniera plastica e protoromantica il momento del primo ingresso in Italia: “Quando dunque re Alboino giunse ai confini dell’Italia con tutto il suo esercito e con una moltitudine di popolo promiscuo, ascese un monte che si innalza in quei luoghi e lì contemplò quella parte d’Italia fin dove poté spingere lo sguardo”2.

Di certo, essi avvertirono il magnetismo esercitato sulla periferia europea dai fasti e dalla grandezza dei gangli centrali dell’Impero. Nel contempo, essi erano però divorati dall’ansia di distinguersi rispetto alle massime autorità del tempo, cioè rispetto al Papa di Roma e all’Imperatore di Costantinopoli4: lo fecero rivendicando a lungo il loro credo ariano e issando i vessilli del proprio indomito orgoglio germanico. Tra le loro icone più rappresentative scelsero San Michele, il milite per eccellenza, il vendicatore incaricato di punire il Diavolo che osò paragonarsi a Dio. La smania di tutelare il Simbolo e di aggiudicarsi il prestigio di uno dei più noti luoghi micaelici del mondo cristiano spinse il Duca longobardo Romualdo, nella seconda metà del settimo secolo, a muovere da Benevento verso il Gargano, per mettere il Santuario dell’Arcangelo al riparo dai frequenti saccheggi di profanatori provenienti da Est: fu allora che quei luoghi sacri volsero le spalle a Levante ed entrarono nella sfera di influenza germanica.

creature entrambe di natura divina e dal caratteristico equipaggiamento militare (la prima munita di una spada, la seconda di una lancia denominata Gungnir).Galvanizzati dai loro stessi successi militari, i nuovi conquistatori si avventurarono più a Sud, quasi seguendo la Linea di San Michele, quella retta immaginaria che l’Europa tatua su di sé tra punti talvolta equidistanti e sempre corrispondenti a Santuari dedicati al Monarca degli Angeli.

A testimonianza della presenza longobardica a Trani si citano oggi alcuni ritrovamenti funerari in pieno centro storico e l’antichissima Chiesetta di San Martino. La rapacità dei Duchi di Benevento ispirò, negli anni settanta del settimo secolo, un’altra difficile spedizione, destinata a culminare nella conquista del Salento settentrionale. Di queste turbolenze si trova cenno, ancora una volta, nell’Historia Langobardorum: “Romualdo, duca di Benevento, messo insieme un grande esercito, espugnò Taranto, e nello stesso modo conquistò Brindisi, sottomettendo al suo potere tutta la vastissima regione circostante”9. Si direbbe quasi che, col tempo, i Salentini abbiano rimosso il ricordo di Signori germanici e delle loro insaziabili truppe (forse perché la fede di costoro era in definitiva un’eresia e quindi una devianza rispetto all’ortodossia romana).

Il loro territorio fatica invece a scrollarsi di dosso il proprio passato.

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Ai Longobardi, figli bellicosi delle gelide lande del Nord, la Penisola, fertile e ricca di auree città, dovette forse apparire una sorta di Terra Promessa3.

Monte Sant’Angelo è un sito di notevolissima rilevanza di ordine storico-artistico, tanto da essere annoverato nella lista dell’Unesco.

La sua struttura colpisce per una peculiarità: nelle viscere del Santuario vero e proprio si apre una cavità rupestre, dove la fede attesta un’Apparitio dell’Arcangelo. È questo il dettaglio che desta maggiore interesse e che potrebbe avere agganciato la memoria genetica dei guerrieri dalle lunghe barbe; il tema della “grotta”, come luogo sacro, infatti, rinvia al prodigio di cui parla ilDiacono: “Negli estremi territori della Germania, verso nord-est, sulle rive dell’Oceano, sotto un’alta rupe si scorge un antro nel quale sette uomini, non si sa da quanto tempo, riposano assopiti in un lungo sonno, così integri non solo nei corpi ma anche nelle vesti, che (…) sono oggetto di venerazione per quelle genti incolte e barbare (…)”5.

Insomma, Monte Sant’Angelo era, in Italia, ildove in cui replicare l’ancestrale immaginario norreno6, sia per la sua morfologia sia per le analogie iconografiche tra l’Arcangelo Michele e il Dio germanico Wotan7,

L’antica Tarenum, il municipio romano oggi noto come Trani, fu strappata a Bisanzio dai Longobardi, che ne rinforzarono le strutture difensive e ne ampliarono il perimetro8.

Muovendosi ancora più in giù, lungo la Linea di San Michele, si arriva a Crepacòre, nel brindisino. Una terra la cui avvenenza si apprezza anche quando il sole latita e grossi nembi fluttuano bassi,

quando le nubi sembrano un battaglione lanciato all’attacco contro un nemico invisibile e si muovono minacciose, di quella rapidità con cui si compone e si disfa il mutevole cielo invernale di Puglia. Rotolano, rimbalzano, si avvinghiano l’una all’altra e si accalcano vorticosamente, gettando di quando in quando occhiate violente sull’erba e sulla terra bagnata. In simili giornate, bave di luce trafiggono le masse d’aria come lunghe spade, al punto da quasi poter vedere il braccio dell’Arcangelo fendere le nuvole come un missile, allungarsi sul mondo degli umani e puntargli contro lame incandescenti. Crepacòre ha già solo nel nome l’evocazione di una bellezza tagliente. Quella che un tempo fu la Messapia ha, qui, conservato il suo aspetto più selvaggio e autentico. Qui, la monotonia della sonnolenta pianura salentina si perde, il terreno si arriccia in declivi e si solleva in alture inaspettate, le coltivazioni fanno posto a piccole selve.

Nel notoriamente assetato Salento fa un certo effetto scorgere un rio, il cui timido serpeggiare tra le campagne è tradito dal nastro verde della vegetazione e dall’ondeggiare dei canneti. É il canale di Galesano.

Volendo prestare fede ad alcune teorie, questo rigagnolo, assieme ai terrazzamenti circostanti, potrebbe essere una delle prove dell’esistenza del Limitone dei Greci, ovvero il mitico Limes tra i territori bizantini e i possedimenti longobardi. L’ipotesi ottocentesca di un confine fisico tra i due domini in perenne e cangiante frizione tra loro è in verità di recente avversata, soprattutto a causa di un’endemica mancanza di riscontri oggettivi. Da più parti si sostiene ormai che il Limitone dei Greci, come enorme muro di confine, non sia mai realmente esistito: in caso contrario, esso avrebbe avuto la stessa imponenza del Vallo di Adriano. Non pare plausibile che il cosiddetto Paretone fosse un mastodontico sistema di muraglie. Per spiegarne la natura è forse opportuno ricorrere al concetto che i Romani avevano di Limes: un complesso sistema di mura e palizzate con scopi dichiaratamente difensivi. Si pensi ad esempio al Limes Germanico-Retico che era nulla più che una palizzata alta circa tre metri e che, con fortificazioni e torri, correva lungo un fossato per oltre cinquecento chilometri. Di questa struttura, in Germania, non resta quasi più nulla, ma nessuno si arrischia per questo a giurare che essa non sia mai esistita. A sostegno di questa tesi, taluni segnalano in particolare che“a proposito dei fondi militari romano-bizantini, si è studiato di dimostrare che nelle provincie greche dell’Italia meridionale persistette il sistema adottato dai primi tempi dell’Impero romano a difesa dei paesi di confine, ponendo fra l’altro in risalto che dove mancavano ripari naturali (fiumi, monti, clusurae), se ne costruivano di artificiali, indicati a preferenza con la parola limes”10. Altri propugnano che“in conclusione, la frontiera bizantino-longobarda pugliese appare come una zona di fluttuazione, di integrazione o di contiguità di influenze, che non sembrano arginate da frontiere stabili e durature”11.

Questa reciproca compenetrazione culturale ha dato i suoi frutti, come la splendida Chiesetta di San Pietro in Crepacòre, rarissimo punto di sintesi tra le due culture antagoniste: quella greca e quella longobarda.

Circondato da una natura più sensuale che mai e da una minuscola necropoli, il tempietto di San Pietro colpisce in primo luogo per le sue cupole in asse, caratteristica tipica delle costruzioni sacre di matrice longobardo-beneventana L’interno, un tempo completamente affrescato, conserva oggi solo una parte delle sue pregevoli raffigurazioni agiografiche. Ciò che ne resta è comunque di straordinaria fattura. Tra gli affreschi si legge, in greco, un’iscrizione votiva: “Questo tempio è stato edificato per la remissione dei peccati del servo di Dio … e della sua consorte Veneria e dei loro figli. Amen”. L’identità dell’agiato committente è rimasta a lungo ignota: grazie a recenti studi, si è potuto ipotizzare che il misterioso VIP fosse un certo Gaiderisio, principe beneventano e quindi di alto lignaggio longobardico, chiamato ad amministrare la città di Oria, “nodo strategico nei collegamenti via terra fra Jonio e Tirreno e “porta” del Salento per chi provenisse da Settentrione”12. Accedere in questi luoghi, farsi largo nella boscaglia, risalire o discendere queste alture seducenti è un po’ come varcare unoStargate aperto su una dimensione temporale semignota, gettarsi a capofitto nella cisterna del passato e naufragare sui lidi di altre ere, quando sentinelle di popoli in stato di costante belligeranza si scrutavano l’un l’altra sui terrapieni di confine e sul ciglio dei tempi.

 

1 Cfr. Federico Zeri, Dietro l’immagine, TEA (1987), p. 36.

2 Paolo Diacono, Storia dei Longobardi, BUR, p. 243. Questa evocazione, quasi cinematografica, è carica di atmosfere oniriche, come alcune opere del pittore tedesco Caspar David Friedrich, e tradisce il pulsare di alcune peculiarità della Germanitas, che in fondo non sono mai del tutto scomparse.

3 Bruno Luiselli, La Società longobardica del secolo VIII e Paolo Diacono storiografo tra romanizzazione e nazionalismo longobardico, BUR, p. 18.

4 Si ricordi che lo Scisma d’Oriente avvenne nel 1054. 

5 Paolo Diacono, Storia dei Longobardi, BUR, p. 151. 

I Longobardi, che in origine si sarebbero chiamati Vinnili, originerebbero dalla Scandinavia (v. UTET, 1967, XI – p. 445.). 

7 Wotan, alias Odino, è la divinità principale della mitologia germanica. 

8 Si tramanda che furono proprio i Longobardi a inglobare nel tessuto urbano di Trani la zona ebraica, prima di essi fuori le mura. 9 Paolo Diacono, Storia dei Longobardi, BUR, p. 485.

10 G. Antonucci, Note critiche di Japigia, a. IV, pp. 78-80.

11 G. Stranieri, Un Limes bizantino nel Salento? La frontiera bizantino-lomgobarda nella Puglia meridionale. Realtà e mito del Dzlimitone dei grecidz, p. 7. In questo interessante studio si assume che Dzperfino qualora la consistenza storica del limitone dei greci dovesse essere provata, in definitiva, esso dovrebbe essere visto piuttosto come una linea di delimitazione o di dissuasione che non come una muraglia confinariadz.

12 Dizionario biografico Treccani.it. 

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L’UTOPIA POSSIBILE DI GIBELLINA di Nicolò Stabile – Numero 1 – Luglio 2015

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È un’opera che si sottrae a qualsiasi tentativo di catalogazione. Letteralmente costruita con le pietre e le cose che furono strade, piazze, case, stalle, negozi, laboratori, scuole, chiese, ma anche un teatro all’italiana, un castello chiaramontano del XIV secolo… è il sepolcro e la matrice perduta di un piccolo paese del Sud, ricostruisce percorsi ideali, spaziali e temporali tra la memoria e il presente, tra i vivi e i morti. La sua storia è complessa. Iniziata nel 1979, non è ancora conclusa. Ha avuto un deus ex-machina, Ludovico Corrao, sindaco di Gibellina dal 1970 al 1994, che come Fitzcarraldo sapeva che chi sogna può muovere le montagne. Siamo alla fine degli anni Settanta. Mentre stiamo scontando un surplus di pena che dura da un decennio in baracche gelide d’inverno e roventi d’estate, i nuovi centri urbani (alcuni, come Gibellina, lontani dai vecchi centri) cominciano a prendere forma. Sono stati disegnati a tavolino in un ufficio romano da un manipolo di urbanisti che pensavano (come hanno scritto nella relazione di progetto) di sradicare la mafia costruendo strade larghe per mettere distanza tra gli abitanti. Nessun ascolto delle istanze e delle esigenze delle comunità locali, anzi: per legge i Comuni vengono esautorati da qualsiasi potere decisionale.

Ludovico Corrao, impotente sulle scelte urbanistiche imposte dallo Stato, ma consapevole della loro bruttezza, e convinto che le case da sole non bastino a far rinascere il senso di comunità e di attaccamento, e che alla ricostruzione bisogna dare un senso alto in cui la bellezza sia motore e legante, chiama a raccolta artisti, intellettuali e uomini di cultura, per cercare di renderla più bella di prima.

La mattina del 23 maggio 1987 Burri vede per la prima e ultima volta il suo Cretto: sembra deluso, non dice quasi nulla. Gli manca probabilmente il punto di vista dall’alto a cui l’aveva abituato la maquette. Gli manca, malgrado le dimensioni, quel senso di grandiosità che aveva immaginato. La visita dura meno di un’ora, appena in tempo per immortalare in uno scatto l’incontro tra l’artista e la sua opera. 

Nell’89 si fermano i lavori, all’80% del totale, per mancanza di risorse. Corrao riesce a farsi finanziare dalla Regione il completamento, ancora una volta presentando il progetto non come opera d’arte, ma come sedicente «parco urbano». Ma non fa in tempo a far partire la macchina burocratica. Dopo più di vent’anni, la gente di Gibellina non lo vuole più sindaco, e nel 1994 Corrao non sarà rieletto. Chi verrà dopo di lui, scientemente, riuscirà a far perdere quel finanziamento e da allora per il Cretto inizia un lento abbandono. 

Passano gli anni e il bianco diventa grigio. I ferri sotto la superficie arruginiscono facendo staccare pezzi di cemento. Qualche piccolo crollo, distacchi, crepe. Nessuna manutenzione, a parte qualche pulitura dalla vegetazione che inizia a infestarlo. Ai Ruderi nessuno va quasi più, sempre meno le occasioni di riunirsi lì. Del Cretto quasi ci si dimentica. Anche Burri non ne parla volentieri. Come aveva previsto, morirà (nel 1997) senza averlo visto ultimato. 

Poi sulle corona di colline che lo circondano, laddove fino a qualche anno prima c’erano giovani boschi, appare una batteria di pale eoliche. Il Comune pensa bene ci sia bisogno di un parcheggio, e lo realizza, a ridosso dell’opera, dello stesso cemento bianco: da lontano sembra una metastasi del corpo quadrangolare del Cretto. Con lo stesso materiale si ripavimenta il pezzo di strada provinciale che ne lambisce un lato, slabbrandone la forma. Nessuna levata di scudi contro questi macroscopici interventi pubblici che violentano l’idea di Burri. Vandalismo istituzionale. 

L’idea di lanciare un appello in favore del Cretto, perché “si restaurasse e completasse e se ne assicurasse la conservazione a futura memoria”, mi venne un pomeriggio di inizio estate del 2010 parlando con Ludovico Corrao, già molto malato, ma non per questo rassegnato. Non poter vedere il Cretto finito era per lui motivo di grande tristezza. L’appello viene firmato da un centinaio di personalità dell’arte e della cultura e inviato al Ministro e all’Assessore regionale. Neanche due mesi dopo, in una nota congiunta del Ministero, il sottosegretario e l’assessore dichiarano che l’appello non rimarrà inascoltato. Il Ministero mette subito dopo a disposizione per il restauro 1.100.000 euro dei fondi del lotto. La Regione prende tempo per quanto riguarda il completamento, l’assessore insiste perché si ricorra ai privati. Non riesco a farlo ragionare. Comincio a pensare che bisognerà inventarsi qualcos’altro… 

Poi, il 7 agosto del 2011, Ludovico Corrao muore ucciso dal suo badante con un’esecuzione che sa di tragedia greca. Tre giorni dopo, sul sagrato della Chiesa Madre di Gibellina, mentre stiamo dando l’estremo saluto al Senatore, l’assessore Missineo mi prende sottobraccio e sull’onda dell’emozione mi dice che troverà i fondi necessari per il completamento, che lo deve anche a Corrao (e manterrà la promessa). 

L’ultima montagna il Senatore l’ha spostata con la propria morte. 

I lavori del Cretto sono stati completati qualche settimana fa. La parte nuova, del bianco candido voluto da Burri, evidenzia ancora di più il grigiore della parte vecchia, creando una stridente dissonanza. 

Cosa fare per assicurarne “la conservazione a futura memoria”? Come uniformare la parte vecchia con la nuova?

Della necessità che la manutenzione di quell’opera straordinaria avesse bisogno di un approccio altrettanto straordinario ne avevo parlato con Corrao. Per lui era 

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1 Stefano Zorzi, Parola di Burri, U. Allemandi & Co, 1995; p. 59.
2 idem
3 idem, pag 60

 

L’UTOPIA POSSIBILE DI GIBELLINA

 

Scrive Sciascia nel discorso che pronunciò a Gibellina il 15 gennaio 1988 per il ventennale del terremoto: «Lo Stato italiano – bisogna pur dirlo – non era pronto né incline ad accogliere un’istanza di ricostruzione che non fosse una ricostruzione della miseria: si sperava forse, appunto, nella fuga, nell’abbandono, “nell’aprir bottega altrove”; e ne è dimostrazione il fatto che la cosiddetta legge del due per cento, la legge che devolve il due per cento della spesa per le opere pubbliche agli abbellimenti artistici, sia stata sospesa e invalidata per la ricostruzione di questi paesi. Vietata l’arte, vietata la bellezza: quasi si volesse che tutto fosse più brutto di prima, che la gente non riconoscesse e non si riconoscesse. Intenzione o inconscio desiderio o semplicemente carenza, nella classe di potere, di una sia pur vaga idea di ciò che abbellisce la vita e la fortifica, che più volte, qui intorno, è andata a segno; ma che qui a Gibellina ha trovato un centro di resistenza. [Ludovico Corrao] ha dato insomma il senso che la vita non è altrove, ma che può essere anche qui».

Gli artisti rispondono all’appello di Corrao e la nuova Gibellina, che lo Stato voleva più brutta della vecchia, si anima d’arte. Negli anni Ottanta diventa un laboratorio permanente delle arti, un crocevia di artisti, e un museo a cielo aperto. Corrao riesce a convincere anche il non facile Burri a venire a Gibellina. Succede nell’estate del 1979.

L’idea gli viene la sera stessa: «Io farei così: compattiamo le macerie, che tanto sono un problema anche per voi, le armiamo per bene, e con il cemento facciamo un immenso cretto bianco, così che resti un perenne ricordo di questo avvenimento»2.

Per poter realizzare i lavori, Burri sogna la partecipazione attiva e fattiva dei gibellinesi (solo molto tempo dopo gli arriverà all’orecchio, e sarà motivo di grande tristezza, che a molti il Cretto non solo non piace, ma da più d’uno è vissuto come una violenza).

Per reperire fondi, materiali, forza lavoro, Corrao s’inventa mille stratagemmi. Coinvolge persino l’esercito che presta cinque ruspe e forza lavoro. Opera una sorta di geniale e benevola concussione ai «danni» dei costruttori che in quegli anni realizzano opere pubbliche a Gibellina Nuova: chiede loro di donare la costruzione di un po’ di Cretto. E accettano, contenti e orgogliosi di farlo. Allo Stato non può chiedere aiuto: e lui dà incarico ai tecnici del Comune di preparare un progetto in cui i lavori per il Cretto siano camuffati da «opere di sistemazione idrogeologica del vecchio sito urbano». Lo Stato ci casca e, raggirato dal genio di Corrao, diventa inconsapevole cofinanziatore del Cretto.

Nel 1985 la cosa inizia a prendere forma, a farsi spazio tra le macerie. Burri segue da lontano, attraverso l’amico Alberto Zanmatti. Zanmatti sarà il legame tra Burri e il Cretto di Gibellina. Ai tecnici e agli operai il compito di inventare soluzioni tecnologiche per tradurre quelle raccomandazioni in forma.

Qualche anno dopo, alla domanda se nel bozzetto fossero riportate anche le ondulazioni che caratterizzano le pareti del Cretto, Burri risponderà «no, quelle devono crearle di volta in volta con le tavole e le lamiere…. ma dico, devo insegnarglielo io il mestiere?»3.

Misura 270 per 310 metri. Ricopre come un sudario di cemento bianco le macerie del paese distrutto dal terremoto del 15 gennaio 1968. Al centro della Sicilia occidentale, in un territorio ad alta stratificazione culturale, sta a metà strada, in un ideale dialogo senza tempo di assoluta bellezza, tra le imponenti colonne della greca Selinunte, e la magnifica solitudine del tempio dell’elima Segesta. 

Burri arriva con tutti i suoi preconcetti sul Sud e i suoi abitanti. La nuova città non lo ispira, e non lo tenta l’idea di lasciare un’opera accanto a quelle di artisti che non ama: «Qui non ci faccio niente di sicuro»1. Ma poi visita i Ruderi – deve aver sentito quel silenzio rotto solo dal gracidare dei corvi, in quel paesaggio di colline che sconfinano fino al mare d’Africa – e quasi si commuove.

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il Cretto di Gibellina non era un’opera d’arte come le altre e che oltre l’idea c’è il dato oggettivo: è il sepolcro del vecchio paese, sotto la sua superficie di cemento realizzate non dalla mano del Maestro ma da muratori e carpentieri, ci sono i ricordi, la storia e le radici di tutta la comunità gibellinese.

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E’ un’opera attraversabile. Più che una scultura è architettura. Ed è stata pensata e voluta da Burri bianca, di un bianco talmente squillante da essere quasi disturbante. 

Burri, come già ricordato, avrebbe voluto che fosse la comunità di Gibellina a realizzarlo. D’altronde, la sua opera è stata donata alla cittadinanza, e la cittadinanza, sebbene espropriata del titolo di proprietà delle proprie case non più esistenti, ne è moralmente proprietaria e quindi custode. Anche su queste basi si ragionava con Corrao, e l’idea che il Cretto andasse ripulito e imbiancato periodicamente dalla comunità (con la calce, materiale povero che disinfetta e disinfesta, facile da usare, e che ci riporta a una tradizione di tutta l’aerea del Mediterraneo) ci sembrava l’unica strada percorribile. L’alternativa sarebbe un restauro conservativo di ispirazione brandiana, un modello giustamente diventato prassi nelle soprintendenze italiane, ma che ha i suoi limiti oggettivi e nessuna ragione valida che impedisca la sua revisione in presenza di opere contemporanee e inclassificabili qual’è il Cretto. Un modello che proprio partendo da una discussione sul caso specifico del Cretto potrebbe trovare validi e utili spunti per fare il punto, rinnovare, superare, anche attingendo da visioni e prassi diverse, prime fra tutte quelle di scuola anglosassone. 

Un’altra considerazione credo vada fatta, senza per questo volere piegare la filosofia che sta alla base di un intervento di questo tipo a ragioni puramente economiche. Non possiamo però far finta di non considerare i costi insostenibili di un restauro conservativo, e la necessità che esso venga ripetuto spesso. Chi dovrebbe sostenere tali costi? Il Cretto non deve morire, ma non può neanche trasformarsi in un buco nero di soldi pubblici. Anzi, dovrebbe diventare, grazie ad azioni mirate che ne assicurino la promozione e la visibilità, un bene culturale comune capace di attirare turisti e di conseguenza, se ben gestito, produrre economia. 

Ma il vero nodo da sciogliere per assicurare al Cretto un futuro sta nel rapporto tra il sito dei Ruderi e la sua gente. Il Cretto è stato vissuto all’inizio come un corpo estraneo, una violenza contro quelle macerie che nella loro povera fisicità erano però capaci di alimentare un rapporto fortemente sentimentale. L’iniziale rifiuto di quell’opera ha come aumentato la distanza fisica (18 km) tra la Nuova e la vecchia Gibellina, una distanza poi cresciuta per l’indifferenza verso un’opera lasciata a metà. 

La necessità di un restauro partecipato e attivato dalla Comunità parte prima di tutto come necessità di creare un nuovo rapporto con l’opera di Burri e con l’intero sito dei Ruderi. Ed è partendo da questa necessità che dovrebbe essere progettato e messo in atto. Dovrebbe prima di tutto essere un’opportunità per ritrovarsi in un momento di festa e rituale in cui la popolazione si riappropria del luogo e dei simboli a esso riconducibili. Dovrebbe essere non solo economicamente sostenibile, ma capace di produrre economia e quindi vantaggi diretti. E deve chiaramente servire a mantenere costantemente visibile l’idea di Burri, nella sua originale e fondamentale cromia.

Per la gente di Gibellina sarebbe un modo per rompere l’incantesimo dell’umana nostalgia di un passato mitizzato dall’evento tragico del terremoto e di quello che ne è seguito, per finalmente accettare il presente, e cominciare a investire nel futuro.

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Un restauro fatto in tale modo, coinvolgendo i molti artisti che hanno già dato disponibilità a partecipare, diventerebbe un evento perfetto per la comunicazione, uno strumento straordinario di promozione mediatica, estremamente efficace per attrarre volontari, pubblico, flussi turistici, e sponsor privati. 

Questi ultimi tre anni ho avuto modo di condividere quest’idea con restauratori, esperti di materiali del contemporaneo, storici dell’arte, curatori. Con artisti, musicisti, performer. Con le persone che più di tutte sono state vicine e hanno collaborato con il Maestro negli anni in cui si costruiva il Cretto. Con la gente di Gibellina. E con le istituzioni che devono decidere, Comune di Gibellina e Soprintendenza di Trapani. A parte queste ultime, legate all’idea di restauro conservativo, tutti hanno accolto con entusiamo l’idea e il suo senso profondo. 

Il progetto di Corrao incarnato da Gibellina, esemplarmente sintetizzato dal Cretto di Burri, fondato sull’idea mediterranea che la bellezza rigeneri in un approccio maieutico, sulla necessità di rivivere, riattivandoli, i miti fondanti della nostra civiltà, è stato finora, non a torto, considerato un’utopia.

Il restauro partecipato segnerebbe il passaggio tra l’utopia e il presente, e il Cretto, finalmente, diventerebbe l’opera d’arte totale che Burri sognava di realizzare.

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IL RITORNO DELL’URBANISTICA, LE CITTÀ IDEALI SOSTENIBILI di Giusto Puri Purini – Numero 1 – Luglio 2015

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progettata da Le Corbusier, che ne disegna e costruisce i palazzi governativi in mattoni rossi, il centro universitario in c.a., i grandi viali e le immense strade, dando al tutto un sapore “Ville Radieuse”, suo progetto utopico degli anni 30/40. L.C. è attratto dal socialismo di Nehru, e dalla sua volontà di portare l’India, leader allora dei paesi non impegnati, verso un destino futuro di equità. Tamara d’improvviso mi dice: “per vivere città ideali, ci vogliono esseri ideali…”. Certo, l’idealità è un grande deterrente, per il miglioramento della “specie”, ma poi nella realtà delle cose vi si frappone quel “lato oscuro dell’Urbanistica”, il collante che tiene insieme la base sociale, fattore imprevedibile e non razionale, che non è fatto di numeri e di grafici ma da scenari eticamente non compromessi, sana espressione della qualità della vita.

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IL RITORNO DELL’URBANISTICA, LE CITTÀ IDEALI SOSTENIBILI

 

Principi che purtroppo nel mondo occidentale sono stati disattesi, costruendo solo grandi dormitori senza vita, considerati oggi dei fallimenti urbanistici, come nella sua “Unite d’Habitation” di Marsiglia, ispirata alla casbah, di Algeri, ed in altri casi, come Corviale a Roma, Secondigliano a Napoli, lo Zen a Palermo, solo per citarne alcuni, Senza infrastrutture sociali ed economiche e scelte di fondo coraggiose, proiettate nelle “nuove” utopie della sostenibilità, che ricostruiscono il tessuto sociale, impoverito da molte scelte sbagliate e da una marcata “assenza”, questi grandi mammuth urbanistici implodono.
Non sarà forse in mezzo a queste vie che nasce inevitabile, come gli eventi naturali che ci circondano, la “CITTÀ IDEALE SOSTENIBILE”, regina degli altrimondi e sobriamente felice? E, torno in Italia, dove nella sua storia, tanti architetti-urbanisti hanno profuso nella scienza prima delle città stato e poi delle città aperte, profondi elementi umanistici, estetici, funzionali.
Nelle città stato, il principe, il mercante, il banchiere, l’artista, l’orafo, l’artigiano, il contadino ed altri ancora, formavano un variegato ed attivo mondo operoso, che rendeva la propria città, grande e potente, in un rivaleggiare evolutivo, di cui fruivano tutti.
Oggi non ci sono più alternative e dobbiamo gioco-forza spingerci verso questa terza via senza scordare gli insegnamenti del passato: IDEALITÀ, SOSTENIBILITÀ, COMPETIVITÀ.
Ci troviamo di fronte, per la prima volta, a dover agire in profondità nel nostro pianeta; i cambiamenti climatici, l’inquinamento, prodotto dalle fonti di energia tradizionali, ci spingono verso una grande rivoluzione, fondamentalmente verde…”Going green!” Senza perdere di vista l’occasione creata dall’apertura di enormi mercati, basati sull’anti-inquinamento, ed il risparmio energetico, un’occasione unica per tutti, una nuova globalizzazione del pensiero.
Diventeremo da consumatori, produttori individuali di energia, rimettendo in rete il surplus dei nostri consumi.

L.C., nella casbah di Algeri, un’altra tipologia urbana, ha a lungo studiato interazioni sociali, trovando una profonda armonia tra quel brulicare di popolo, di botteghe artigiane, di mercanti che accrescevano in modo esponenziale un’offerta di beni, che è alla base dello sviluppo di ogni comunità.

Una trasformazione epocale che muterà il globo nei prossimi decenni.

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Tamara, mia moglie, mi ha chiamato l’altro giorno dall’India, stava fotografando Chandigar, capitale dell’Utar Pradesch, voluta dal Pandit Nehru, presidente dell’India negli anni cinquanta e 

Addirittura la Cina, oggi la più grande inquinatrice, sta producendo velocemente nuove tecnologie per ridurre gli effetti negativi del suo sviluppo, in un frenetico gioco del “costruire e distruggere”!Riappropriarci, nel nostro paese, dei “Centri Minori”, per avviare prima che nelle grandi città questa trasformazione, sembrerebbe uno dei primi passi da compiere.
Quindi si prevede che entro il 2040, il 60% della popolazione mondiale graviterà e cozzerà come un asteroide intorno alle grandi megalopoli, e già questo impone una rilettura immediata di tutti i dati urbanistici fino ad ora considerati. Si va inevitabilmente verso una “Urban evolution”.
L’Urbanismo totale coinvolgerà come un gigantesco magnete tutta la nuova ricerca scientifica ed umanista, dall’economia, alla riorganizzazione e distribuzione delle nuove fonti energetiche, al processo dei rifiuti urbani, all’architettura sociale, alla riqualificazione urbana, alla viabilità…campagna che entrerà in città e viceversa, un gigantesco dentro-fuori, che conserverà in parte la cultura contadina, con orti e campi coltivati, con espressioni individuali e collettive della grande capacità di Arte in questo paese.
Alcuni esempi: Daniel Libeskind, parla di “People’s Power”, per sottolineare che non si parla più solo di edifici; gli architetti delle nuove “Green Cities” concentrano le loro attenzioni su 4 punti chiave: energia, acqua, rifiuti e trasporti, “Averting crisis”, di come le città stanno affrontando il problema dei cambiamenti climatici.
(Inserto del Financial Times, “The Future of Cities” del 8/8/2010).
Queste ricerche e questi nuovi parametri, serviranno soprattutto nell’importantissima battaglia da condurre in Italia, alla salvaguardia delle “Città Minori”(15-30mila ab.), serbatoi di vita da non svuotare ma da conservare e fare evolvere come beni preziosi per il nostro futuro. Un’attenzione quindi particolare a questi luoghi, spesso magie urbanistiche, sentinelle del territorio altrimenti esautorato.

Tra le miriadi di queste micro città nel territorio italiano, ne emergono due, in Sicilia, contrapposte storicamente ed esplosivamente, una all’altra: la neo razionalista “Gibellina Nuova”, ad occidente, dove le esperienze moderne italiane, si riallacciano
ad una architettura del mezzogiorno,

 immagine di un Mediterraneo non rovinato da geometri ed architetti analfabeti, ma sulle orme piuttosto di una tradizione già “cantata” ed espressa, nelle città minori della bonifica pontina, nelle architetture del dodecanneso ed in genere nelle colonie italiane…

e la tardo barocca Noto, nella Sicilia orientale, la cui nuova impostazione urbanistica fu affidata, agli inizi del 700, ad un nobile “sapiente”, l’arch. Giuseppe Lanza, duca di Camastra, che
riunì dalle famose scuole di Napoli, pensatori, scienziati,
architetti, ingegneri, artisti,

per disegnare lontano dalla città originale distrutta da un terremoto, un asse viario da est ad ovest che per quasi 2km, allineato sempre sulla stessa quota a metà collina, separa a monte (nord), i maestosi edifici del clero e della nobiltà, ed a valle (sud), l’amministrazione pubblica, il teatro, l’habitat popolare.
La città è circondata da centinaia di ettari di mandorleto, di vigne, vi cresce il carrubo, si vive quel dentro-fuori tanto auspicato dalle filosofie contemporanee. Ma oltre al turismo e all’agricoltura, non c’è niente, la gente vende e fugge.
A Gibellina nuova è l’Arte che fa da traino, attraverso progetti suntuosi di tanti artisti contemporanei, dal cretto di Burri, all’aratro di Pomodoro, al teatro di Consagra, felicemente sposati alle architetture e alle piazze di Samonà, Venezia, Ungers, Purini e tanti altri, ma ora i completamenti si sono tragicamente interrotti.
Rivitalizzare questi centri, e non solo con il turismo usa e getta, ma renderli “desiderabili”, quindi sostenibili e autosufficienti, anche per chi ci vive, attraverso analisi scientifiche precise e rigorose, è il compito delle amministrazioni pubbliche, del settore privato con i loro investimenti, e di questa nuova generazione che incalza irrequieta ma che va dotata di consapevolezza e di nuovo sapere.

Il principio base deve diventare salvare il “Centro Minore”, per creare nei luoghi stessi quelle premesse di stabilità e benefici equamente ripartiti, armonie per fortuna già raggiunte nel nostro paese da tanti insediamenti, e insistere nel mezzogiorno, luogo già così felicemente “speziato” in ogni ordine di sapori che aggiungervi la parola “Urbanistica” non dovrebbe rappresentare
un problema insuperabile.

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Il Belice come narra la storia, una volta era la vita, e come dice Lorenzo Barbera, si chiamava “Il fiume caldo”: era navigabile e vi fiorivano città e villaggi, un ecosistema armonico che i romani furono i primi a distruggere trasformando i delicati equilibri vigenti in monoculture a base di grano.
Nei 2 millenni successivi il Belice s’inaridì seccandosi nel periodo estivo e nacque tra la popolazione il sogno della diga che avrebbe ridato al territorio, con un nuovo regime delle acque, l’antico splendore.
Ma insieme, sempre ai romani, questa volta sotto forma d’invadenza statalista (vedi Ministri ed affini) in Sicilia e nel Belice in particolare, altre forze potenti, portatrici malsane di interessi privati, si erano messe di traverso per bloccare l’evoluzione sociale del popolo, ed il suo ingresso nel mondo contemporaneo.
Quella ricchezza che poteva derivare dalla natura “armonizzata” e che grande il pensatore contemporaneo Paul Hawken ha reso affermando che “Il capitalismo naturale è alquanto differente dal capitalismo tradizionale che ha sempre trascurato il valore monetario delle risorse naturali e dei servizi forniti dagli ecosistemi, senza i quali non sarebbe possibile alcuna attività economica oltre la vita stessa.
Il capitalismo naturale al contrario capitalizza le risorse e punta all’efficienza per riuscire a produrre di più con meno.
Ridisegna le logiche industriali sulla base di un modello che esclude gli sprechi e la produzione di rifiuti; sposta l’economia verso un flusso continuo di valori e di servizi, investe nella protezione ed espansione del capitale naturale esistente”… Era ben lontana da venire. Poi ci fu quell’attimo del 15 gennaio 1968, come racconta Lorenzo Barbera: “…il boato urta contro la crosta della terra e tutti i fili della luce del Belice si spezzano e la luce si spegne, il comò si inginocchia e la casa è una barca in balia delle onde…” Il terremoto del Belice!Tutti i sogni, i pensieri, le lotte, si sbriciolarono in un attimo e per le genti delle valli, che sognavano un mitico ritorno ad un passato felice, il destino cambiò per sempre.
Gibellina verrà ricostruita molti anni dopo (17 anni) tra incongruità, incompetenze, e vere e proprie vessazioni contro la popolazione, ora separandola, ora aggregandola, diversamente spostando i nuovi centri urbani lontani dagli antichi luoghi, quasi tutti.
Vi trionferà la nuova Urbanistica (Samonà, Quaroni, Gregotti e altri), ispirata alle new towns inglesi.
Ma nel Belice avviene qualcosa di sorprendente, soprattutto a Gibellina, dove il Sindaco dell’epoca (Ludovico Corrao), si batte affinché la ricostruzione fosse anche l’occasione per un grande rilancio culturale.

Decine di architetti, urbanisti, artisti, volontari, (Nicolin, Venezia, Ungers, Pomodoro, Consagra, Burri, Paladino, Purini, Attardi, Thermes, Schifano) e tanti altri…, si succedono negli anni dando a Gibellina quella fisionomia attuale

che la rende frammentaria ed incompiuta al suo interno, ma che lascia intravedere nel suo degrado, nel non finito, opere architettoniche ed artistiche straordinarie, che la pongono automaticamente, sulla via della rinascita, tra le eccellenze dell’avanguardia, europea e mondiale. Risorgere dalle ceneri e riscattarsi con l’Arte!
É su questa speranza che le nuove generazioni devono fondare le loro forze, almeno due dal ‘68 ad oggi si sono succedute, nel portare avanti progetti impossibili, contestati e spesso fatti abortire, ora è il momento di ripartire.

Il valore oggettivo di questo Parco Artistico è incalcolabile, vanno riprese le fila dei molti interventi, dalla manutenzione ai completamenti architettonici, dai servizi, alle attività collaterali e alla promozione su scala mondiale. Come spetta ad un luogo che
non è più solo “memoria”, ma incredibile museo-habitat a cielo
aperto.

Guardare nel futuro, come avrebbero desiderato, per l’oggi, i tanti Dolci, Barbera, Corrao per fare pace con il passato e le sue incredibili sofferenze.

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