“UN DOPPIO MOVIMENTO” di Giusto Puri Purini – Numero 3 – Gennaio 2016

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La prima, racconta con il fluire del tempo, la mutazione dal Classicismo all’Astrattismo, la materia “sottile” che esplode e si decompone, fino a diventare essa stessa “movimento”… (vedi tra gli altri il “Futurismo”).
La seconda, il Cinema, Arte più giovane, fotogramma per fotogramma, racconta il mondo per inquadrarne il procedere e sottolinearne il fantastico. Un Cocktail per diventare architetti?
Ora che lo sono da tanti anni, percepisco l’importanza delle due componenti ed il valore del loro intrecciarsi. Unite alla Cultura formativa, possono far nascere la “quadridimensionalità”, ovvero, la dimensione dello “spazio profondo”.

“UN DOPPIO MOVIMENTO”

 

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Enrico Prampolini diceva di Mino Delle Site: “Il colore è il suo naturale mezzo d’espressione ed egli lo usa per realizzare la quarta dimensione, scoperta entusiasmante e vitale del Futurismo”.

Lui, Delle Site da Lecce è salito a scoprire il mondo, io sono sceso verso sud, dopo averlo scoperto, e qui in un doppio movimento ci siamo incontrati.

Scriveva Bodini: “Delle Site presenta brani della sua anima che si manifesta.”

Il colore, quindi, per Mino Delle Site, che da Lecce, meravigliosa, dorata e barocca, terra dai toni caldi ai mezzitoni, ne fa un artista globale. Saturo d’interessi molteplici, dai paesaggi, alla moda, al design, alla pubblicità e poi all’aeropittura, lo portano negli anni 30 a Roma e poi in giro per il mondo, con quell’arioso e scientifico passato della sua terra.
Lo incontro, attraverso le sue belle opere, grazie alla figlia Chiara Letizia, in occasione dell’allestimento di un Salone di Rappresentanza al Circolo del Ministero Affari Esteri, che inevitabilmente diventa “la Sala Delle Site“, grazie naturalmente all’attiva partecipazione dei fratelli Vattani, Ambasciatori.

Lì percepisco le evoluzioni felici dell’aeropittura, i ghiribizzi cosmici, come li definisce Lorenzo Canova nella sua presentazione e quella delicatezza, tipica della terra salentina, dove ogni cosa è mutevole tra continue luci ed ombre.

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Ora ne parlo con cognizione di causa, essendomi in parte, dopo tanto girare, trasferito in un’antica masseria contadina, vicino a S.Maria di Leuca (Lecce), ristrutturata ed oggi, ecosostenibile, nel centro di quei vortici naturali, che caratterizzano gli ultimi 20 km del tacco d’Italia, tra due mari, lo Ionio e l’Adriatico.
Ecco, percepisco i luoghi dell’Arte e della formazione scientifica dell’artista, la sua appartenenza agli archetipi di quelle terre. Aleggiano come monadi nello spazio e sono messapiche, daune e peucezie, dall’Epiro veniva la madre di Alessandro il Grande, ad un tiro di schioppo da Otranto, andando a iniziare con il fiorire dell’architettura della pietra, dolmen, menhir, mura megalitiche, il grande ciclo formativo della cultura mediterranea.

 

AL LIMITE DI UN TEMPO SENZA STORIA di Alessandro Gaudio – Numero 3 – Gennaio 2016

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A proposito dei suoi versi si è spesso parlato di «itinerario fenomenologico e psicolinguistico nell’autobiografia»1 e lei stessa era solita definire la sua scrittura «psicanalitica e subconscia»2, creando poi per essa la categoria della bio-parola, ovvero della bio-poesia. Sono tante le poesie che si rifanno a questo principio − ad esempio, quelle incluse in Mediazioni e ipotesi per maschere (Firenze, Vallecchi, 1985) − ma preferisco trascrivere una di quelle contenute nel terzo volume delle Proporzioni poetiche, antologia curata da Domenico Cara nel 1987 (Milano, Laboratorio delle Arti, 1987, pp. 137-138). Si intitola E non rinasceremo e la riporto qui di seguito, prima di ridiscuterne brevemente la disposizione all’indagine esistenziale per i lettori di «Myrrha».

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AL LIMITE DI UN TEMPO SENZA STORIA

 

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Nella noia di un ritmico esistere, per il tramite della sua operazione poetica, la Verbaro porta avanti il viaggio inquieto che parte dal suo Sud («Quella terra fantastica / persa tra tempi lunghi e spiagge aperte»)

In questa località psichica, che ha una propria spazialità, ma che è priva di una topografia rigorosa, si forma uno degli stadi preliminari delle immagini che prendono parte alla poesia di Giusi Verbaro.

Quella terra fantastica
persa tra tempi lunghi e spiagge aperte
su cui scrivemmo antiche profezie
io l’ho veduta crescere nel sangue
e tingersi di rosso
e poi impazzire al grido degli uccelli
al commiato dolente dell’estate

Questa morte che un vento sterminato
mi colma di occhi bianchi
e mani accese
si consuma straziata
lungo tracce di passi innumerabili
e angeli addormentati nell’attesa

(Senza memoria arrendersi
nei giardini di Tebe
aspettando le piogge)

e mai come stasera − sfiancata dalle nebbie −
poserò le mie fughe
al limite di un tempo senza storia

Non abbiamo proposto che saggezze
al vento secco che straziato incalza
da millenni a millenni
e il torpore ha spianato faglia a faglia
il miracolo inquieto dell’amore
che schiantasse radici
gonfie di linfa viva
sulla soglia di un giorno rinviato
ad altro giorno ancora
ad altro, ad altro…

e non rinasceremo
alla grazia solare dell’estate

e, passando di strato in strato, da «da millenni a millenni / […] faglia a faglia», conduce a un tempo-luogo «su cui il mito affiora a codificare nel simbolo l’implicito, l’inconscio, il non codificabile».3 La poesia, dunque, si configura come rappresentazione che, essendo legata alla parola, al linguaggio verbale, più che subconscia è, per meglio dire, preconscia. Ma in che modo la parola consentirebbe alla Verbaro di pervenire a ciò che è implicitamente presente nell’attività mentale? Si conoscono bene, del resto, le difficoltà che Freud stesso aveva dovuto affrontare nel definire lo spazio del subconscio e che lo avevano indotto ad abbandonare tale categoria, preferendole quella di preconscio ed è quest’ultima che qui si sceglie per definire lo spazio virtuale all’interno del quale si muovono i versi della Verbaro.

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Cos’è, d’altra parte, il subconscio? Ciò che è debolmente conscio? Oppure ciò che si trova nella psiche al di sotto della soglia della coscienza? Oppure ciò che ad essa è precluso?

Si potrebbe dire che lo spazio preconscio, restando implicito, qualifichi ciò che sfugge alla coscienza; ed effettivamente lo fa, mediante il vaglio di una censura che, a un estremo, evita che i contenuti inconsci trovino la via per il preconscio e la coscienza, facendoli passare come in una strettoia; all’altro, controlla l’accesso alla coscienza, essendo in grado di selezionare i contenuti sui quali esercitare la propria attenzione. La bio-parola della Verbaro individua e descrive il residuo cosciente delle preoccupazioni perturbanti presenti nella sua esistenza; il soggetto, così, è perfettamente in grado di rievocare i propri ricordi lungo un viaggio poetico − tra memoria e mito, al limite di un tempo senza storia − che adegua una località psichica (psychische Lokalität, diceva Freud) a un sapere cosciente ma che, cionondimeno, non è dotato di una scansione predeterminata ed esatta.

Ciò avviene perché la poetessa, nei versi qui trascritti così come in altre occasioni, brandisce l’estraneità di ciò che le è familiare, situandosi in un altrove privo di ordinamento − dove il vento diviene sterminato e straziato e straziata è anche la morte, dove i passi sono innumerabili e il miracolo dell’amore è inquieto − la cui idea non può essere immediatamente analogica, ma che, nondimeno, le consente di instaurare un rapporto produttivo con il suo Io e con l’ambiente che lo circonda. Ciò, peraltro, chiarisce la funzione che − a detta della stessa Verbaro − ha avuto la poesia nel corso della sua esistenza: vale a dire, come preannunciato all’inizio, mappa, bussola, rotta, ragione e mezzo d’indagine di un’intera esistenza.

 1 S. Lanuzza, Lo sparviero sul pugno. Guida ai poeti italiani degli anni ottanta, Milano, Spirali, 1987, p. 256.
2G. Verbaro Cipollina, Le alchimie dello stregone. Appunti e riflessioni sulla poesia italiana degli anni ’80, Soveria Mannelli, Catanzaro, 1984, p. 60. Il saggio dal quale si trae la definizione riportata introduceva già la bella antologia intitolata Poeti della Calabria e curata dalla stessa poetessa nel 1982 per i tipi di Forum / Quinta Generazione; la citazione figura a p. 20.
3È quanto sostiene la stessa Verbaro Cipollina nella nota introduttiva a Mediazioni e ipotesi di maschere, silloge del 1985 già citata più in alto (p. 9).

 

TAMBURO, IL RITMO DEL CUORE di Titta Mancini – Numero 3 – Gennaio 2016

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Infatti, è essenzialmente poverissimo nella fattura, costruito con materiali facilmente offerti all’uomo dalla natura – pelle animale (di capra o capretto), legno e, a volte ma non sempre, pezzetti di latta o altro metallo di poco valore per i piattini (o cimbali) di accompagnamento lungo il bordo. 
Il nostro tamburello italiano o tamburo – ce ne sono di diverse circonferenze – è detto ‘a cornice’ proprio per la cornice di legno che contorna la pelle animale sulla quale il percussionista batte il tempo, dando origine alla vibrazione sonora, che costituisce la musica del tamburo, o se vogliamo, la sua voce.

TAMBURO, IL RITMO DEL CUORE

 

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Il tamburo è l’unico strumento musicale presente in tutte le culture del mondo, dagli indiani d’America all’estremo Oriente, dal nord Europa all’Africa, e il Mediterraneo dall’Italia al mondo arabo. Questo, in ogni epoca della storia. Ci sono testimonianze primitive dell’uso di strumenti a percussione di forma circolare. A noi vicine, le immagini dell’epoca fenicia o romana:

Una danza continua, le cui movenze ricordano i nostri antenati, il viaggio che dalla semina conduce al raccolto. Che lo si eserciti come ballo o che soltanto lo si apprezzi per il valore simbolico.

Sono soltanto esempi. L’iconografia ne è ricca, sia popolare laica, sia cattolica cristiana.
Dalle origini mitologiche all’uso nei campi, più di recente. La storia del nostro paese e, in particolare, del Sud, ci consegna la musica popolare come madre di ogni ritmo. Non a caso l’universalità dello strumento descritto, come si diceva, presente in ogni continente, nasce proprio dalla sua peculiarità:

le sacerdotesse fenice usavano suonare il tamburello nei riti propiziatori per la fertilità; i romani lo utilizzavano ad accompagnare le feste dionisiache, vino, canti e musica nelle ville di Pompei, e lo raccontano gli stessi affreschi salvati dalla distruzione della città antica.

Ci sono anche uomini e donne, per lo più anziani oggi, che hanno creato maniere di suonare, stili, che portano quindi il loro nome, alla maniera di…
Si accennava al mondo dei campi. Dal medioevo ad oggi la musica popolare, con il suono del tamburo, semplice, potente, evocativo, profondo o acuto, è servita a più scopi. Sul ritmo nascono rime e invocazioni, proteste e incoraggiamenti, riti propiziatori di derivazione pagana in favore della fertilità in senso lato, dell’amore come forma di corteggiamento, provocazione, sfida. Il lavoro nei campi e la fatica di guadagnarsi il pane, la necessaria ricompensa e la protesta in caso contrario, in nome di una sociale giustizia. Sono tutti temi che hanno attraversato il canto popolare dando corpo, voce e musica proprio a questi sentimenti di comunanza.

Il culto mariano, soprattutto nella regione Campania, ha riadattato la musica popolare in chiave religiosa, sacra; il popolo con le cosiddette ‘tammurriate’ (e qui il tamburo usato è di dimensioni più grandi, la tammorra) si rivolge direttamente alla Madonna

Il tamburo non è l’unico strumento del mondo popolare – spesso ad esempio è accompagnato da piccole nacchere o castagnette (così dette nel vesuviano), indossate e suonate dai danzatori sul ritmo della percussione – ma è certamente, il tamburo, l’oggetto musicale che meglio rappresenta nella sua stessa struttura la filosofia della musica nata dal popolo: una musica ancora viva nel nostro Sud e che continua a garantire il legame profondo che unisce l’uomo meridionale alla sua storia. E’ una musica circolare. Come il sole, come la luna, come il ciclo intero della vita.

il tempo sul tamburo rievoca, o addirittura imita, il ritmo del cuore. Il primo e più antico suono che l’orecchio umano abbia mai percepito, addirittura in se stesso.

(sette Madonne, secondo la tradizione quasi leggendaria, sette Sorelle, sei belle ed una nera), per una grazia che si chiede cantando e suonando. 
Il suonatore e i danzatori: nella cultura salentina, leccese, il tamburo accompagna invece il violino perché la musica ripetuta e ipnotica risvegli nella tarantata, quasi sempre donna, le capacità innate di guarigione, contro il veleno del ragno. E qui parliamo di pizzica: il morso vero o presunto, reale o immaginato, sempre certamente simbolico, l’espiazione del male e la liberazione attraverso la musica. 
Difficile sintetizzare in poche righe la sacralità che accompagna l’uso del tamburo anche laddove il rito o l’iniziativa musicale prende forma da una semplice necessità di aggregazione, come la festa, una tarantella via l’altra; c’è sempre nel sottofondo del ritmo il passo antico di una sonorità che ci appartiene, nel profondo. Quasi magica. Come la terra, la nascita, il cuore che batte.

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E forse ancor prima di nascere. Ecco il battere sulla pelle animale. E non c’è niente di scritto in questa musica che si tramanda di generazione in generazione, di padre in figlio, di nonno in nipote. E’ a trasmissione orale e manuale: il movimento delle mani, quella che regge lo strumento e quella che lo percuote, dall’impugnatura alla riproduzione del suono in tempo binario o terzinato, si impara osservando e provando assieme al maestro della tradizione, in genere un riconosciuto ‘grande vecchio’ del paese,

così al Sud, dove ancora è molto forte la cultura della musica sul tamburo e altrettanto forte la gelosia che accompagna la sapienza. Tecniche conosciute da centinaia di anni, ma riposte nelle mani di pochi.

Per accordare un tamburo servono acqua e fuoco, acqua per allentare la pelle, fuoco per renderla più tesa. Umidità e calore. E torniamo alle origini, per fare musica.

 

BRODERIES ET DENTELLES. “DERRIERE LA FENETRE D’UNE VIEILLE MAISON” di Venera Coco – Numero 3 – Gennaio 2016

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étaient les outils les plus courants dans les mains des jeunes Siciliennes qui préparaient anxieusement leurs trousseaux, en espérant pouvoir un jour exhiber leurs travaux avec l’audace propre aux maîtresses de maison. Pendant longtemps, les villes de cette île, complexe et mystérieuse, furent décorées de la beauté et de la finesse des broderies et des dentelles qui parvenaient à rendre précieux chaque recoin des maisons, chaque bannière des autels des églises, même ce qui se portait mais devait rester secret.

De la dentelle sicilienne, du macramé, du crochet et de la broderie, Domenico Dolce et Stefano Gabbana, ont fait un « must »: ce n’est pas un hasard si le mot dentelle fait immédiatement penser à la dentelle noire qui les a rendu célèbres.

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BRODERIES ET DENTELLES. “DERRIERE LA FENETRE D’UNE VIEILLE MAISON”

 

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Ces arabesques rappellent la créativité des artisans capables de travailler la céramique, le bois et l’argile. Au fond, il s’agit de transformer le fil en sculpture, un y appliquant une maîtrise patiente, que ces femmes mettent en oeuvre en répétant toujours les mêmes gestes, comme si elles chantaient une berceuse dont elles connaissent les paroles par cœur.
Ces oeuvres réalisées, point après point, dans une alternance harmonieuse de pleins et de vides, rendent les nappes et les draps précieuxCes arabesques rappellent la créativité des artisans capables de travailler la céramique, le bois et l’argile. Au fond, il s’agit de transformer le fil en sculpture, un y appliquant une maîtrise patiente, que ces femmes mettent en oeuvre en répétant toujours les mêmes gestes, comme si elles chantaient une berceuse dont elles connaissent les paroles par cœur.
Ces oeuvres réalisées, point après point, dans une alternance harmonieuse de pleins et de vides, rendent les nappes et les draps précieux

Les mains nerveuses tissent depuis des siècles dans les cours des maisons ce simple fil qui, par ses tours et ses acrobaties, tisse miraculeusement les arabesques à ajuster aux tissus pour les rendre précieux.

Ces broderies et ces dentelles rappellent la lave volcanique qui, en se refroidissant garde en elle l’air bleu et le parfum des genêts.

Les créations de Marras respirent l’excentricité et tournent autour de couches et d’incrustations de tissus et de broderies, qui racontent l’histoire mouvementée de sa terre, dans une succession d’influences et de cultures, et les rendent similaires à une roche sédimentaire.

En Sicile la dentelle se travaille toujours et la tâche est confiée aux femmes plus âgées, pliées sur leurs petits cadres ronds.
Les après-midi d’été, les cours des maisons anciennes deviennent leur refuge préféré loin de la chaleur de l’été. De « derrière la fenêtre d’une vieille maison», comme le chante Battiato dans «Mal d’Afrique», aux grandes multinationales du luxe, le chemin est court: les styles du passé se modernisent pour faire place à des versions plus contemporaines.

Fluide, magmatique et inoubliable, comme le feu qui jaillit de l’Etna, tel fut le défilé des modèles (à la fin du défilé automne / hiver 2013-2014) qui portaient sur leurs corps l’arrogance de la lave incandescente sur laquelle le jais jet le strass brillaient comme des joyaux . Le travail des brodeuses expertes enchante aussi la designer milanaise Luisa Beccaria qui a hérité de son mari, le noble Bonaccorsi de Reburdone, cette attitude typiquement sicilienne, et réalise des vêtements néo-romantiques de style préraphaélite, en broderie anglaise et macramé, mais aussi des jupes évasées qui incluent des pièces en dentelle.

Gonflées de crinolines, les robes de soirée en taffetas sont de véritables œuvres d’art de la Renaissance, légères et transparentes et savent comment mettre en valeur le travail laborieux qui produit les dentelles aériennes.

A Alghero également, dans la Sardaigne de Antonio Marras, les dentelles sont un élément essentiel de la culture de l’île. Dans la signature stylistique de la créatrice il y a a eu il y aura probablement toujours de la place pour la broderie, la dentelle de Bosa et les autres productions manuelles qui sont au coeur de l’artisanat sarde.

Si pendant longtemps on a essayé de donner de la légèreté aux vêtements, de les rendre aussi impalpables que des cristaux de sucre grâce aux dentelles et aux broderies, il ne faut pas oublier que cet effet est le résultat d’un travail savant et minutieux, qui cache les idées et les géométries de ceux qui réussissent à créer avec très peu, des nuages d’une telle beauté.

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LIBRERIA MARESCRITTO di Matteo Eremo – Numero 3 – Gennaio 2016

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“Il seguente articolo – estratto da un racconto più ampio contenuto nel volume: La voce dei libri II. Storie di libraie coraggiose raccolte e raccontate da Matteo Eremo – è qui pubblicato per gentile concessione dell’editore Marcos y Marcos e dell’autore”.

Immaginate una libreria vicino al mare, in Salento, in uno dei punti più estremi della nostra penisola, a due passi dalle coste dell’Albania e della Grecia. Immaginate un luogo minuscolo ma coloratissimo, dove è possibile sfogliare le pagine di un libro con in sottofondo le note celestiali di un capolavoro come Kind of Blue di Miles Davis.

a Tricase, fino a quel momento, non c’era stata richiesta di libri perché era mancata l’offerta, non il contrario. Il problema non era aprire una libreria al Sud ma, semmai, superare i pregiudizi. Perché la gente desiderosa di leggere c’è, eccome: bisogna solo offrire un servizio e un luogo adatti alle loro esigenze.

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LIBRERIA MARESCRITTO

 

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Un tempietto consacrato all’olimpo dei libri da una giovane donna che, dopo essere emigrata al Nord come tanti suoi conterranei del Sud, ha deciso di tornare nella propria città di origine per aprire una libreria. Sì, avete capito bene. Vendere libri nella più periferica delle periferie, dove nemmeno le librerie di catena osano andare, in una piccola cittadina del Capo di Leuca, al confine tra due mari: l’Adriatico e lo Ionio.

Letture contro i pregiudizi

 

“A vent’anni” racconta Isabella “ho sentito una forte esigenza di compensare le mie lacune culturali. Si trattava di un’autentica necessità di emancipazione da certi limiti del pensiero, di liberarmi da quelle che Henry Miller chiama ‘pastoie della propria natura’. Cercavo letture in grado di farmi vedere le cose da un punto di vista alternativo. 
“È così che è avvenuto l’incontro con gli autori che più amo e da cui mi sono lasciata influenzare: Marguerite Duras, Céline, Kafka, Simone de Beauvoir, la Beat Generation, Musil, Pasolini, Boris Vian, John Fante… Lo definirei un vero e proprio punto di non ritorno. Già mentre mi immergevo per la prima volta in quelle letture scoprivo nuovi orizzonti di senso. I miei libri erano tutti sottolineati, annotati, con le pagine usurate e ingiallite per il mio continuo soffermarmi su passaggi che ritenevo illuminanti.
“Mentre studiavo e lavoravo saltuariamente, ho cominciato a chiedermi cosa volessi fare nella vita, finché non ho raggiunto i miei fratelli a Bologna. Lì, all’ombra delle due torri, mentre mi reinventavo in diversi ruoli, mi sono posta la fatidica domanda: perché non aprire una libreria a Tricase, dove sono nata e cresciuta? 
“Gli aspetti positivi che potevano decretare la buona riuscita dell’impresa non mancavano di certo in quel periodo, alla fine degli anni Novanta. Pur essendo il centro più grande del Capo di Leuca, innanzitutto, Tricase aveva qualche piccola cartoleria rifornita di scolastica, ma nemmeno una vera libreria. Poi si trovava a soli tre chilometri dal mare, in una posizione privilegiata. 
“All’epoca, inoltre, stava per esplodere il fenomeno del Salento, con la riscoperta di forme musicali come la pizzica e la taranta. Eravamo ancora lontani dal successo turistico di oggi, ma già in quel momento si poteva intuire che ci sarebbe stato un grande rilancio della mia terra. Avevo però un dubbio: perché nessuno aveva aperto una libreria a Tricase? 
“All’epoca, purtroppo, ero ancora vittima del preconcetto secondo il quale al Sud è tutto più difficile. Per tanti anni, d’altronde, i nostri giovani sono emigrati al Nord o all’estero rafforzando una paura e un complesso di inferiorità con il quale chi nasce nel meridione prima o poi deve fare i conti. 
“La situazione, in realtà, è diversa:

Isabella Litti, l’intraprendente e coraggiosa libraia di Marescritto, è un perfetto testimonial della forza e della portata, troppo spesso sottovalutate, dei libri. 
La sua vita è infatti segnata da un netto spartiacque: c’è un prima e un dopo aver cominciato a leggere. E il dopo, ça va sans dire, è tutta un’altra storia.

“Un contesto in cui rientra anche la riscoperta della lentezza, una virtù messa in cattiva luce da una società frenetica, iperproduttiva e isterica. Del resto, chi l’ha detto che la velocità è tutto? Al contrario, come ci insegna Franco Cassano con una bellissima metafora, dovremmo ‘essere lenti come un vecchio treno di campagna, come chi va a piedi e vede aprirsi magicamente il mondo, perché andare a piedi è sfogliare il libro e invece correre è guardarne soltanto la copertina’. 
“Il futuro dei libri, non solo quello del Sud, passa anche da concetti come questo”.

basta leggere un libro come Il pensiero meridiano di Franco Cassano per assumere tutta un’altra prospettiva e capire che occorre restituire al Sud la sua antica dignità di soggetto del pensiero, riformulando l’immagine che esso stesso ha di sé. Non più ‘periferia degradata dell’impero’, ma centro di un’identità ricca e molteplice, autenticamente mediterranea.

“Non era un problema di domanda, ma di offerta”

 

L’avventura di Isabella Litti parte ufficialmente nel giugno del 2004, in un piccolissimo locale di appena trenta metri quadrati nel cuore del centro storico di Tricase. 
Il nome, così evocativo e sinestesico, è un omaggio a un ricercato libretto fotografico dell’amata Marguerite Duras: Il mare scritto, appunto. 
L’avvio è tutto in salita. Il budget limitato costringe Isabella a partire con grande cautela, con un catalogo di soli duemila titoli, e a passare attraverso i grossisti.
“Già nel corso del primo anno” ricorda Isabella Litti “ho però iniziato ad avere diversi riscontri positivi e ho capito una cosa fondamentale:

“Rinfrancata da queste considerazioni, ho speso tutte le mie energie per crescere in maniera costante, reinvestendo tutti i guadagni nella libreria: in pochi anni il catalogo è così passato da due a quattordicimila titoli, grazie anche ai rapporti di fiducia sviluppati nel tempo con gli editori”.
Marescritto è un piccolo mondo senza tempo a due passi dalla piazza principale di Tricase, dove svettano le sagome severe di due chiese e il profilo fiabesco del castello, nella cui Sala del trono Isabella organizza spesso le presentazioni. Il locale che ospita la libreria, d’altronde, è troppo piccolo per gli eventi.

La limitatezza degli spazi, però, non è vista dai clienti come un aspetto negativo, anzi. Isabella è infatti riuscita a creare un ambiente estremamente bello, intimo e di qualità. Un luogo vivace, ricco di spunti e di contaminazioni sotto le solide volte a botte del soffitto.

Qual è, dunque, il segreto di questo minuscolo scrigno? “Innanzitutto” spiega la libraia “contano molto il catalogo e la piacevolezza del luogo, entrambi studiati accuratamente. Marescritto si è formata attorno alle esigenze dei lettori, ma tenendo conto dei miei gusti e delle accortezze che studio stando qui, mentre osservo quello che accade in libreria.
“Il secondo segreto è invece la terra su cui sorge. Tricase è una cittadina vivace, con ben tre cinema, e si trova a due passi dal mare, la cui vista opera un vero e proprio sfondamento nel modo di pensare”.

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Nonostante la sua lontananza rispetto ai grandi centri produttivi del paese, Tricase si è dunque rivelato da diversi punti di vista un luogo privilegiato in cui aprire una libreria. Tanto che Isabella Litti, dopo aver confutato molti stereotipi, ora guarda con estrema fiducia al futuro del libro e del proprio mestiere. 
“Il turismo” spiega la libraia “garantisce un grande volume di vendite da maggio a settembre, ma anche durante tutto il resto dell’anno non ci possiamo lamentare, anzi.

Siamo infatti troppo periferici per subire la concorrenza delle librerie di catena, che non ci pensano proprio ad aprire da noi. E la base di clienti su cui possiamo contare è molto solida, anche perché il Salento, in controtendenza con molte zone del Sud e persino del Nord, subisce sempre meno il problema dell’esodo dei propri giovani.

Molti, anzi, stanno rientrando negli ultimi anni. 
“Col tempo siamo diventati un punto di riferimento per il tessuto sociale del luogo e abbiamo contribuito a rivitalizzare il centro storico. Ora ci sono numerosi ragazzi che vengono qui a chiacchierare e a confrontarsi, comprando tanti libri. Siamo diventati un luogo di aggregazione e confronto”.

Circondato dalle acque del Mediterraneo, a più di mille chilometri dalla frenesia della grande capitale italiana dell’editoria e dell’industria, c’è un Sud che, riscoprendo la propria identità e i benefici della lentezza, va decisamente più forte di tante realtà del Nord.

 

MINO DELLE SITE COSMICO E PROFETICO di Lorenzo Canova – Numero 3 – Gennaio 2016

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un codice visionario di immagini lanciate nel futuro, uno spazio celeste in bilico tra immaginazione e realtà: dopo un secolo, Mino Delle Site continua a trasportare i suoi spettatori in un vortice di pittura sospeso tra cielo e terra, in un universo parallelo che ci rivela costellazioni ignote e ci fa scoprire volti nuovi del mondo che credevamo di conoscere.

Nel suo turbine futurista, Delle Site viaggia nel tempo unendo epoche e stili, fondendo in modo profetico la pittura al mondo digitale, aprendosi allo spazio della vita attraverso l’architettura e i mass media, lavorando nel cinema e preconizzando gli intrecci visivi della nostra epoca.

Delle Site, infatti, come tutti i grandi futuristi, da Marinetti a Boccioni o a Balla, ma anche come il suo amico Prampolini, paradossalmente può essere più apprezzato oggi che nella sua epoca, ammirando il suo metodo costruttivo fatto di rotture di tradizioni e di aperture di nuove prospettive, di fasci luminosi e di interazioni tra piani spaziali e visivi, anticipando sviluppi interattivi e i dati di una percezione del domani.

La pittura di Delle Site trova dunque una giusta collocazione in un contesto che oltrepassa addirittura la dimensione ristretta delle arti visive e si colloca in quel contesto allargato attuale che Marinetti aveva previsto, ad esempio, nella sua difesa della pubblicità come nuova forma d’arte lanciata sulle strade come nuovi musei urbani e nella sua volontà di utilizzo consapevole dei mass media. 
Così le immagini di Delle Site, come quelli di altri grandi aeropittori come Dottori o Tullio Crali, precorse da quelle di Boccioni e di Severini, presagiscono le nostre visioni della terra vista dai satelliti, le mappe di Google Earth e la nostra realtà aumentata dove tutto si fonde in un intreccio simultaneo.

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MINO DELLE SITE COSMICO E PROFETICO

 

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Le diagonali di Delle Site tagliano allora il quadro e lo ricompongono, le linee fissano orbite astrali e configurano viaggi interplanetari, le geometrie convergono verso punti di fuga allucinati e iperbolici: l’autore rende tattile l’accelerazione della pittura che si trasforma in un vettore di luce per fendere i territori sorvolati dall’artista-pilota con i suoi tagli cromatici che bruciano le coste, i mari, le nuvole e i cieli come razzi sparati dall’occhio sovrumano del pittore demiurgo. 
Così, quando saremo immersi nel delirio visivo delle metropoli contemporanee, come, ad esempio, tra gli schermi interattivi e sbalorditivi di Times Square o se ammireremo gli effetti speciali di Star Wars o di Interstellar, ci potremo ricordare di artisti come Mino Delle Site che hanno contribuito a creare questo immenso mosaico visivo contemporaneo incrociando la loro ricerca e dirigendola verso i confini infiniti di uno spazio oltreumano, dove la conoscenza trova nuove frontiere, dove il viaggio incontra nuovi porti e dove, forse, le dita stesse di Dio giocano con il firmamento ricomponendo in eterno l’ordine cosmico del giorno e della notte.

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Delle Site si apre quindi all’avvenire con una pittura raffinatissima che divora la tradizione per farla rinascere con nuove forme, diventa elettronico usando ancora i pennelli e le velature dell’olio e dei pigmenti, supera lo spazio e il tempo lanciando la sua pittura su rotte interstellari al di là della nostra galassia.

 

L’ECO DEL MOLISE LE CAMPANE DELLA PONTIFICIA FONDERIA MARINELLI di Sergio Spatola – Numero 3 – Gennaio 2016

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L’ECO DEL MOLISE
LE CAMPANE DELLA PONTIFICIA FONDERIA MARINELLI

 

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Non è strano che Antonio Pascale abbia scritto “che il Molise si deve essere vendicato di quell’abbandono. Con le campane. Quell’eco è appunto del Molise che risuona in tutto il mondo”.

Peso, spessore e circonferenza sono le variabili che creano il timbro della campana, rapporti definiti per la prima volta da Diderot nell’Encyclopédie e che ancora oggi sono capisaldi della “scala campanaria”.

Tanto importanti sono le campane della Pontificia Fonderia che risuonano dalla Torre di Pisa, dal Santuario della Beata Vergine del Rosario di Pompei, dall’Abbazia di Montecassino, dalla Cattedrale di Buenos Aires.
Ne sono state commissionate e benedette da numerosi pontefici, quali Pio IX, Giovanni XXIII, Giovanni Paolo II Benedetto XVI e Francesco. Ne è stata commissionata, da ultimo, una di ben 850 kg di bronzo puro per Expo 2015.
Per una campana a regola d’arte occorrono molti mesi di lavorazione e diversi passaggi, tutti fondamentali.
Si passa dalla creazione dell’“anima” in mattoni alla copertura di questa con strati di argilla, con l’ausilio di una guida in legno. Sull’argilla – adatta a resistere all’azione erosiva del bronzo liquido durante la colata – vengono riportate le decorazioni e iscrizioni in cera – tra i quali lo stemma pontificio di cui i Marinelli si possono fregiare dal 1924 – così da arrivare alla creazione della falsa campana.
Falsa, perché si tratta di uno stampo da cui verrà ottenuto il negativo (il mantello), sovrapponendo altri strati di argilla lasciati essiccare tra un’applicazione e l’altra. 
Durante la fase di essiccazione, eseguita con carboni ardenti, la cera di cui sono costituiti i fregi si scioglie venendo assorbita dall’argilla (procedimento a cera persa) così da consentire di sollevare il mantello – nel quale restano impresse in negativo le decorazioni ed iscrizioni – e di liberare l’“anima” della campana.
A questo punto il mantello viene ricollocato sull’anima così da creare lo spazio vuoto in cui verrà colato il bronzo liquido (78 pari di rame e 22 di stagno).

Ed ecco arrivare la parte più suggestiva e religiosa della creazione: il mantello sotterrato in una fossa in corrispondenza dei forni, viene riempito dal bronzo liquido il quale, una volta raffreddato, viene liberato dando vita alla campana.

Questo ed altro si può osservare facendo visita alla Pontificia Fonderia Marinelli, dove, fatta una visita al suggestivo museo in cui sono conservati reperti antichissimi – come l’edizione olandese del 1664 del “De tintinnabulis”, vera e propria “Bibbia” dell’arte campanaria – e testimonianze fotografiche e campane commemorative, si può assistere, nella sala della Fonderia, ad un “concerto” di campane, previsto anche per commemorare il disastro avvenuto nel Terremoto del Molise del 2002.

Da trenta generazioni, dunque, i Marinelli si trovano ancora dove gli avi hanno impiantato il nucleo produttivo della fucina che oggi è divenuto un museo sotto la spinta della nomina, da parte dell’UNESCO, di “patrimonio dell’umanità”.

Copyright – La Nobilità del Fare – Acqua di Parma

E’ facile dimenticare un Sud così produttivo nell’odierno caos mediatico privo di approfondimenti. Myrrha vuole invece preservare e custodire questa memoria perché, come i rintocchi delle campane create dalla famiglia Marinelli, possa ricordare con eco costante, l’immenso giacimento culturale e artistico del Mezzogiorno.

Neanche la dominazione tedesca ha fermato questa famiglia, costretta ad abbandonare la Fonderia – divenuta Pontificia nel 1924 ad opera di Papa Pio IX -, nel frattempo trasformata all’uopo in fucina di creazione di armi da guerra.
La passione di una generazione di campanari si può “toccare con mano” andando a trovare la famiglia Marinelli nella fucina, ove la tecnica di creazione della voce angelica è rimasta immutata.
I Marinelli vi diranno che per la riuscita di una buona campana, è fondamentale attenersi a regole e misure ben precise, da secoli e secoli. Un suono che può essere deciso in fase di progetto e adattato alle esigenze del cliente.

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PIZZI E MERLETTI. “DIETRO UNA FINESTRA DI RINGHIERA” di Venera Coco – Numero 3 – Gennaio 2016

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racconta il professore Rocco Zito. Erano gli arnesi più comuni nelle mani delle giovani siciliane che preparavano con ansia i loro corredi, sperando di poter un giorno esibire quei manufatti con l’audacia delle padrone di casa. Per molto tempo le città di un’isola, complessa e misteriosa, sono state ornate dalla bellezza e raffinatezza di quei merletti e quei pizzi che riuscivano a rendere prezioso ogni angolo delle dimore, ogni vessillo sugli altari delle chiese, perfino ciò che poteva essere indossato e di certo rimanere segreto.

Di sfilati siciliani, macramè, uncinetto e tombolo, Domenico Dolce e Stefano Gabbana, ne hanno fatto un must-have: non a caso, il pizzo nero che ha reso celebre il loro fasciante tubino, ritorna immediatamente al pensiero quando si pronuncia la parola dentelle.

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PIZZI E MERLETTI. “DIETRO UNA FINESTRA DI RINGHIERA”

 

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Quegli arabeschi che ricordavano l’estro creativo di artigiani capaci di lavorare la ceramica, il legno e la creta. 
In fondo si trattava di rendere quel filo, simile ad una scultura, applicando di certo una paziente maestria, che quelle donne sapevano realizzare attraverso il ripetere di gesti uguali, come se cantassero una nenia di cui conoscevano a memoria le parole.
Quei rufoli realizzati, punto dopo punto, in un’armoniosa alternanza di pieni e vuoti, rendevano preziose le tovaglie e le vesti.

Le mani nervose, dentro i cortili, hanno intrecciato per secoli quel filo semplice e innocuo che attraverso giri e acrobazie tesseva miracolosamente arabeschi da applicare alle stoffe e renderle così leggiadre.

Trine e pizzi spesso simili a pietra lavica che raffreddandosi hanno trattenuto a sé l’aria azzurra e il profumo delle ginestre.

Gli abiti di Marras trasudano eccentricità e ruotano intorno a stratificazioni e incrostazioni di tessuti e ricami che, raccontando la storia travagliata della propria terra, in un succedersi di contaminazioni e culture, la rendono simile a roccia sedimentaria.

Ancora in Sicilia si lavorano i merletti e il compito è affidato alle donne più anziane, che si trovano chine sui piccoli e tondi telai. 
Nei pomeriggi d’estate, i cortili delle case antiche diventano le loro dimore preferite al riparo dalla calura estiva. Da “dietro una finestra di ringhiera”, come canta Battiato in “Mal d’Africa”, fino alle grandi multinazionali del lusso, il passaggio è breve: gli stilemi del passato si attualizzano per cedere il posto a versioni più contemporanee.

Fluido, magmatico e indimenticabile, come il fuoco che fuoriesce dall’Etna, lo scorrere delle modelle (alla fine della sfilata fall/winter 2013-2014) che trattengono sui loro corpi l’arroganza di lava incandescente sulla quale jais e strass brillano come lapilli. I lavori di esperte ricamatrici incantano anche la stilista milanese Luisa Beccaria, che ereditata dal marito, nobile Bonaccorsi di Reburdone, quell’attitude prettamente siciliana, realizza abiti neo-romantici in stile preraffaellita, in sangallo e macramè, ma anche gonne a ruota con tramezzi in pizzo.

Rigonfi di crinoline, gli evening gown in taffettà sono vere opere d’arte rinascimentali, leggeri e trasparenti sanno come mettere in risalto lavorazioni laboriose e merletti in filigrana.

Ad Alghero, ancora, nella Sardegna di Antonio Marras i merletti sono un caposaldo della cultura isolana. Nella cifra stilistica del designer c’è stato e probabilmente ci sarà sempre posto per tombolo, filet di Bosa, ricami e altre manualità che fanno parte del baluardo tipico dell’artigianato sardo.

Se per molto tempo si è tentato di dare leggerezza agli abiti, di renderli così impalpabili come cristalli di zucchero attraverso pizzi e merletti, non si può dimenticare che quell’effetto è il risultato di un lavoro sapiente e minuzioso, che nasconde al suo interno idee e geometrie di chi riesce a creare con molto poco nuvole di siffatta bellezza.

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THE ROYAL WAY di Tamara triffez – Numero 4 – Aprile 2016

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THE ROYAL WAY

 

Dear friends,   

 

Please share a moment of attention through my few words entrusted to the courtesy of Tamara. This event is called “A view of Italy from above”, but, in the case of Tamara, I should say “view from inside” because, like all great travelers, Tamara is an artist who moves to see people from very near; indeed, to probe the possibility of identification. Her exhibition has as theme the Royal Way which means the right way, the one that is, in fact, drawn from Art.   Here the protagonist is Sicily seen through processions, those moments when the feeling of a past that looms over the present becomes particularly strong, in each of us. But, this past can be easily seen, at least by a layman’s point of view, from two opposite and associated points: the solemnity and the ridicule. Citizens who all become actors of the sacred representation are living and true but, at the same time, take on such important and worrying roles that leave those who observe them from outside mostly stunned. Do they truly believe? Are they really able to identify those people with Christ, with his torturers, with the people attending, accompanying suffering and exulting? Of course the answer is yes, and it’s not even that difficult. The collective suggestion is a verifiable and moving reality. And what does our Tamara see in her crisp, clean black and white with which she scrutinizes people from a short distance? She sees the Character and the Man so overlapping and indistinguishable from each other that they push us to seriously believe in an ancestral world that, in its total unawareness, walks along the Royal Way.   Tamara Triffez dedicated and dedicates her life to this type of investigation. Perhaps, her most acute interest is Tibet, that tragic historical paradox that is the destruction, or rather the attempted annihilation of a Royal Way that, in the name of a misguided ideology, believes in the possibility of triumphing through elimination. Tamara, as an artist, opposes and always will oppose to any form of cancellation of the legacies which, although different in different parts of the world, are intrinsic to the very existence of the human being.   From this point of view her Sicily and her Tibet are no different; and they are not because it is the artist’s approach that is the same. Tamara gives a sense of participation to those who look at her work. The sequence of images is taken from within the procession and it is not a curious look caused by the peculiarity or strangeness; but, in fact, it is the vision of a participant who, evangelically, does not judge but only looks. And by looking, sees the greatness and weaknesses of the world winding together, because together they have always existed and will always exist. Sure, the characters of the procession, in some extraordinary places as Piana degli Albanesi, are inevitable quotations of the great figurative arts of the past. The Weeping women seem extracted from the wooden statues of the Middle Ages and the Renaissance, the Christ that passes or the lying one seem to be created by the figurative Mannerist culture. But maybe no one needs to know this, not even the artist who wanders among the people with her camera. When she approaches, though, the crowds thin out as if the photographic act were a sacred act itself, because it sanctifies the recklessness of those who do not know why they are there and why they should carry on preconceived attitudes.   In the procession everything has been already written, everything has already happened, but Tamara captures the expressions of doubt, perplexity, distraction, delusion, that show on the faces so powerfully filled with past that they result fascinating as they are. The photos were taken on the occasion of the Easter holidays, in recent times. But the date does not matter, because all this can always be lived, because it is very likely that it has never happened in the exact way we see it in Tamara’s photos. It is not a matter of stopping the time, which is impossible, but of portraying the emotions with a clear awareness that the fiction of art pushes towards the Royal Way.   Tamara belongs to that group of people who see life only as positive energy, but her images do not emanate a feeling of unconscious optimism. The fact is that the artist is keenly aware of what they are representing and its implications but does not treat the people represented as elements of a hedonistic exercise. Despite the clear beauty of these images, there is never the feeling of an ecstatic stop, that seizes that moment as particularly beautiful or charming.   The advance of the photographer in the procession proceeds, however, with the intent to make room within a world that could reject us because we do not know and perhaps fear it. We are afraid of hurting its ancient susceptibility, of not respecting rules that are unknown to us but obvious and granted for the locals; afraid of unintentionally disrespecting it, but only due to a lack of information. All these fears are latent in Tamara’s eyes but then exorcised by the strength of the relationship between the photographer and those who are in front of the camera. Precisely for this reason we get a sense of fullness and dominance of reason and spontaneity that, if well lived, could be good for us.   

 

 With my warmest wishes,   

 

 Claudio Strinati

In my reports, I venture often in search of ancient cultural roots expressed by humans, in various places on the planet. In recent years I have followed a path that highlights the procedures of human evolution.
That manifest themselves through art, myths, religions, to affirm their dignity.
My starting point is the event description, the reflection on everyday life, which expresses itself also in religious festivals.
Starting from these premises, therefore I have decided to follow the Easter celebrations in Sicily, with the many events that ensue.
With enthusiasm and vitality I flew over the staging of the festivities and the protagonists of living paintings.

Sicily is still a land rich in tradition and true ancestral rituals, which still give a testimony on the legendary and multi-cultural origins in the heart of the Mediterranean.
The camera lens has followed the Palm Sunday, in Piana degli Albanesi, a village founded by Albanian communities centuries ago, that has preserved its Orthodox tradition, highlighted by an unexpected amount of uses and customs, the Pope, the crosses… the Pope climbs on a donkey, to retrace the entry of Jesus Christ into Jerusalem.
Among the many celebrations, I perceived in the representation of Christ’s life of Marsala, the feeling of a journey back in time; glimpses of life in Jerusalem two thousand years ago. The evocative power of the representations is revealed thanks to the intense participation of actors and spectators, all inhabitants of towns and villages.

These are ceremonies where everyone re-lives, through representations, their own way of life and spiritual momentum. As in the exempla of the Middle Ages it comes to a religious and strongly cathartic human experience.
I also followed the preparatory representation of the mysteries of Trapani, where young children of various congregations learn to bring the “vare” miniatures. The art of the rhythmic step, the support, and the pace of the “trice e trac”, recurrent instrument in southern Italy, and the subduing of the fanfare (brass bands).
I documented processions of Palermo, the procession of the Cocchieri, tradition that has continued since the seventeenth century; the Ballarò market and the Good Friday procession of San Mauro Castelverde, a small village that climbs around a mountainous peak of the Madonie, where you can watch the kiss of Judas, his hanging, the Way of the Cross, the Crucifixion. The pain of a man. During this visit the mountain was strangely enveloped in a dense and cold fog; This introduced a dreamy sense of unease

Each event so indicates a path between the sacred and the profane.
On Easter Sunday in Ribera, for example, where men who are exhausted from the long journey and the weight of the different paintings – of representations of Christ, the Virgin Mary and St. Michael – are allowed to drink the holy blessed water as a reward for their devotion. The bottle flies quickly from hand to hand as the crowd, moved, sings and jumps.
The band gets excited, the cacophony of the firecrackers explodes, clouds of confetti are released into the air. All to remind us of the resurrection of Christ.
Doves flying between the banners and behold, in those days, reappearing beyond the slightly profane expressions, the soul anxious of knowledge, the path of suffering and finally the liberating joy of resurrection

Through the choice of this ancient and profound theme I wanted to pay tribute to the life of Christ, revealing through his extreme suffering, the divine essence, the transcendence. Research that man has expressed for millennia.

We can also say that “the Royal Way”, the title of this report, is an expression that was used in the ancient world. It shows the way, the straight road, by which we avoid the deviations and the twists and turns that can confuse the soul, symbolic approach to the heavenly Jerusalem, the symbol of Christ.

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LA ROUTE ROYALE di Tamara Triffez – Numero 4 – Aprile 2016

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LA ROUTE ROYALE

 

Je me hasarde souvent, dans mes reportages, à la recherche des anciennes racines culturelles que conservent les êtres humains en divers endroits de la planète. J’ai suivi ces dernières années, un parcours qui met en évidence les procédures de l’évolution humaine.
Qui se manifestent à travers l’art, les mythes, les religions, dans le but d’affirmer pleinement leur dignité.
Mon point de départ est la description des événements, la réflexion sur la vie quotidienne, qui s’exprime, entre autre, dans les fêtes religieuses. Et c’est à partir de cette prémisse que je décidai de suivre les fêtes de Pâques en Sicile, et les nombreux événements qu’elles incluent. Avec enthousiasme et vitalité j’ai côtoyé la mise en scène des fêtes et les protagonistes des tableaux vivants.

Chers amis,   

 

Je vous prie de me prêter un moment d’attention pour quelques mots confiés à la courtoisie de Tamara. Cet événement s’appelle globalement L’Italie Vue d’En Haut, mais dans le cas de Tamara, je devrais dire “vue de l’intérieur» parce que, comme tous les grands voyageurs, Tamara est une artiste qui se meut pour voir les gens de très près, pour étudier la possibilité de s’identifier avec eux. Son exposition a pour thème la Voie Royale qui indique, en substance, la route rectiligne, celle est tracée par l’Art. C’est la Sicile qui se met en scène à travers les processions, ces moments où se fait particulièrement fort, en chacun de nous, le sentiment d’un passé qui pèse sur le présent. Mais, ce passé peut être facilement vu, du moins par le profane, de deux points de vue opposés et associés: la solennité et le ridicule. Les citoyens qui deviennent tous acteurs de la représentation sacrée sont des êtres vivants de chair et d’os, mais ils incarnent dans le même temps des rôles tellement importants et inquiétants qu’ils laissent la plupart du temps ceux qui les observent de l’extérieur, interloqués. Y croient-ils vraiment? Sont-ils capables d’identifier ces personnes avec le Christ, ses tortionnaires, le peuple spectateur qui accompagne la souffrance et exulte? Bien sûr, la réponse est oui, et elle n’est pas difficile à donner. La suggestion collective est une réalité vérifiable et émouvante. Et notre Tamara, que voit-elle de son noir et blanc net et propre avec lequel elle scrute les gens à une distance, qu’elle réduit au minimum? Elle voit le Personnage et l’Homme se chevaucher, tellement indiscernables qu’ils nous incitent à croire sérieusement dans un monde ancestral qui, en toute ignorance totale, parcourt la Voie Royale. Tamara Triffez a dédié et consacré Sto arrivando! vie à ce type d’enquête. Son intérêt est peut-être plus aigu au Tibet, sur ce paradoxe historique tragique que constitue la destruction, ou plutôt la tentative d’anéantissement d’une Voie Royale, au nom d’une idéologie erronée, qui a cru triompher par l’annihilation. Tamara, en tant qu’artiste, s’est opposée, et s’opposera toujours, en tout effort d’annihilation des héritages qui, même s’ils sont différents dans diverses parties du monde, sont intrinsèques à l’existence même de l’être humain. De ce point de vue Sto arrivando! Sicile et son Tibet ne sont pas différents; et ils ne le sont pas car l’approche de l’artiste est la même. Tamara donne à ceux qui regardent son travail un sentiment de participation. La séquence d’images est dans la procession, ce n’est pas un regard curieux de l’originalité typique ou de l’étrangeté; mais le regard de ceux qui, évangéliquement, ne jugent pas mais regardent. Il voit les grandeurs et les faiblesses du monde que le vent assemble, parce que, ensemble, ils ont toujours existé et existeront toujours. Bien sûr, les personnages de la procession, dans certains endroits extraordinaires come Piana degli Albanesi, sont des citations incontournables des grands arts figuratifs du passé. Les pleureuses semblent sorties des statues de bois du Moyen Age et de la Renaissance, le Christ qui passe ou git semble généré par la culture figurative maniériste. Mais cela, personne ne doit le savoir, pas même l’artiste qui erre parmi les gens avec son appareil photo. À son approche, cependant, la foule se disperse comme si l’acte photographique était lui-même acte sacré, parce qu’il sanctifie l’inconscience de ceux qui ne savent pas pourquoi il sont là ni pourquoi il faut prendre des attitudes préconçues. Dans la procession tout est prescrit, tout est déjà arrivé, mais Tamara cueille l’expression de doute, la perplexité, la distraction, l’illusion, qui transparaissent dans les visages si puissamment chargés de passé qu’ils en deviennent fascinants. Les photos ont été faites récemment à l’occasion des fêtes de Pâques. Mais la date n’a pas d’importance, parce que tout cela peut avoir toujours existé, bien qu’il soit très probable qu’il ne se soit jamais produit comme nous le voyons dans les photos de Tamara. Il ne s’agit pas suspendre le temps, ce qui est impossible, mais de dépeindre les émotions avec une claire conscience que la fiction de l’art conduit sur la Voie Royale. Tamara appartient à cette catégorie de personnes qui voit la vie uniquement comme énergie positive, mais de ses images n’émane aucun sentiment d’optimisme inconscient. Le fait est que l’artiste est profondément consciente de ce qu’elle représente et de ses implications, mais ne traite pas les personnes représentées en tant que matière d’un exercice hédoniste. Malgré la beauté claire de ses images, il n’y a jamais de sentiment d’arrêt extatique, qui saisirait un moment comme particulièrement beau ou suggestif. L’entrée du photographe dans la procession se déroule, au contraire, avec l’intention de se faire une place dans un monde qui pourrait nous rejeter parce que nous ne le connaissons pas et que peut-être nous le craignons. Nous craignons de blesser des sensibilités anciennes, de ne pas respecter les règles qui nous sont inconnues, mais qui semblent, là, évidentes; nous avons peur de manquer de respect involontairement seulement par manque d’information. Toutes ces craintes sont latentes dans le regard de Tamara mais elles sont exorcisées par la force de la relation entre la photographe et celui est en face de la caméra. C’est précisément pour cette raison, que nous ressentons une plénitude et une impression de raison et de spontanéité, qui, si nous les vivons bien, pourraient nous rajeunir.   

 

Avec mes salutations les plus chaleureuses,   

 

Claudio Strinati

La Sicile est une terre riche en tradition et véritables rituels ancestraux, qui témoignent encore aujourd’hui des origines légendaires et multi-culturelles au cœur de la Méditerranée.

L’objectif de mon appareil photo a suivi le dimanche des Rameaux à Piana degli Albanesi, un village fondé il y a des siècles par les communautés albanaises, et a conservé sa tradition orthodoxe, mise en évidence par quantité d’us et des coutumes, inattendus, les popes, les croix … le pope chevauche un âne, pour retracer l’entrée de Jésus-Christ à Jérusalem. Parmi les nombreuses célébrations, j’ai ressenti dans la représentation de la vie du Christ de Marsala, le sentiment d’un voyage dans le temps; un aperçu de la vie à Jérusalem il y a deux mille ans. La puissance évocatrice des représentations trouve Sto arrivando! source dans la participation intense des acteurs et spectateurs, tous habitants des villes et villages.

Il y a des cérémonies où tout le monde vit, à travers des représentations, son propre parcours de vie et son propre élan spirituel. Comme dans les Mystères du Moyen Age, il s’agit d’une expérience humaine religieuse fortement cathartique.

J’ai également suivi la représentation préparatoire des mystères de Trapani, où les jeunes enfants des diverses congrégations apprennent à porter des statues miniature. L’art du pas rythmé, du portage, et le rythme de tric trac, instrument récurrent dans le sud de l’Italie et celui conquérant de la fanfare.
J’ai documenté les processions de Palerme, la procession de Cocchieri, des traditions qui se poursuivent depuis le XVIIe siècle; la procession du marché Ballarò et le Vendredi Saint de San Mauro Castelverde, un petit village lové autour d’un pic montagneux des Madonie, où on peut assister au baiser de Judas, à Sto arrivando! pendaison, au Chemin de la Croix, à la Crucifixion. À la douleur d’un homme. Au cours de cette visite, la montagne était étrangement enveloppée dans un brouillard dense et froid, qui donnait un sentiment de malaise et d’irréalité.
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Chaque événement indique ainsi un chemin entre sacré et profane.

Le dimanche de Pâques à Ribera, par exemple, où les hommes épuisés par le long parcours et le poids des différents tableaux – représentations du Christ, de la Vierge Marie et de Saint-Michel – sont autorisés à boire l’eau bénite, en récompense de leur dévouement. La bouteille vole rapidement de main en main pendant que la foule, émue, chante et saute. La ferveur s’approfondit, la cacophonie des pétards explose, des nuages de confettis sont libérés dans l’air. Le tout pour nous rappeler de la résurrection du Christ.

Les colombes volent entre les bannières et, en ces jours, réapparaissent, au-delà des expressions un peu profane, l’âme anxieuse de connaissance, le chemin de la souffrance et, enfin, la joie, la libération, de la résurrection.

Par le choix de ce thème ancien et profond j’ai voulu rendre hommage à la vie du Christ, révélant par Sto arrivando! souffrance extrême, l’essence divine, la transcendance. La recherche que l’homme exprime depuis des millénaires.
 
«La Voie Royale», le titre de ce reportage, est une expression utilisée dans la passé. Elle indique le chemin, la route droite, par laquelle on évite les déviations et les tours et détours qui peuvent confondre l’âme, l’approche symbolique de la Jérusalem céleste, symbole du Christ.

 

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