BENEVENTO: LEGGENDA STORIA VETUSTÀ di Hilde Ponti – Numero 10 – Marzo 2018

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BENEVENTO: LEGGENDA STORIA VETUSTÀ

 

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abbonda di testimonianze storiche intrecciate a leggende misteriche, annoverate ormai alla tradizione popolare, spesso confermate da documenti sulla Sacra Inquisizione.

Come si presenta Benevento, città piena di doni, magica per elezione? Si svela come una terra amena, posta in una conca, attorniata da montagne, dove il fiume Sàbato confluisce nel Calore. Un mondo questo, carico di presenze straordinarie. Mille incantesimi, antichità spesso dormienti, attestano un centro sannita che entra nella Storia, solo dopo la vittoria dei Romani su Pirro. Da allora, Maleventum – il nome arcaico, muta in Beneventum – nel 268 a.C. quasi a decretare fortuna.

 

E’ l’imperatore Traiano a procurarle ricchezza, tracciando la via Appia Traiana, 

che avvicina il sito ai commerci del porto di Brindisi.

 

A decretare Benevento capitale, però, dovettero intervenire i Longobardi, creando un principato, dove fiorì la scrittura beneventana: splendidi manoscritti miniati, ancora oggi tesori inestimabili. 

 

Risale proprio a quella Età la leggenda di Benevento esoterica: descrivendo le pendici settentrionali del colle beneventano come zona dove guerrieri barbari davano vita a riti scabrosi, ancestrali, proprio intorno a un albero di noce. Tuttavia, anche dopo il dominio longobardo, le credenze si ammantarono ulteriormente di liturgie diaboliche: donne confessavano davanti al tribunale dell’Inquisizione, aver volato in sella a esseri infernali, al noce di Benevento, celebrare il Sabba e congiungersi al demonio.

 

Talvolta, invece, con afflati fantasiosi, descrivevano con dovizia il volo, 

cavalcando a loro dire scope – forse l’oggetto a loro più familiare – 

sopra i cieli di Roma,

 

zona San Giovanni, la notte del solstizio d’estate, quando si dice che i semplici emanino l’ennesima potenza dei loro principi. Ormai, venivano chiamate Herbane, essendo pienamente consce degli effetti magici dei semplici, elaborati in formule alchemiche, una sorta di scienza da divulgare, marchiandola proprio sotto al noce.  

 

Forse, fu proprio per interrompere sensualità particolari, supplizi e stragi, comunque porre fine a dicerie, che il sant’uomo del posto, nella persona del Vescovo Barbato, pensò di far sradicare la pianta.

 

Niente scandali sul suolo passato alla Chiesa, dominio che durò fino all’Unità d’Italia. Ciò nonostante, la leggenda ebbe a rafforzarsi, tanto da far parlare 

del fatto misterico, pure in un passo de I promessi sposi del Manzoni. 

“L’elemosina. Sapete di quel miracolo delle noci, 

che avvenne molt’anni or sono…?”.

 

Intanto il volgo sposta il racconto sulle rive del fiume Sàbato, alla mitica Ripa delle Janare, luogo atto agli incontri carnali, tra fattucchiere dedite a creare incantesimi, prodigi vari e veleni, con esseri diabolici. Storie di contrada, a cui ha attinto persino un Marchio: torroni e liquore “Strega”, famosi nel mondo. Brand di qualità, che promovendo un importante Premio Letterario, unirà leggenda e cultura editoriale. 

Ma cosa è rimasto della storia infinita di Benevento?

 

Divulgati su argomenti profani, si riparerà decantando la bellezza impareggiabile del Duomo: dove cinque navate ad arco tutto sesto dell’ingresso, mostrano colonne corinzie di epoca romana, mentre la spettacolare facciata ospita, oltre a frammenti romani e bizantini, anche iscrizioni longobarde.
 
Meraviglia desta anche l’imponente Teatro romano: diecimila spettatori accolti sotto venticinque arcate monumentali, costruzione avviata nel 126 a.C. dall’imperatore Adriano. L’età non ha scalfito né la cavea, tanto meno la scena: ospita ancora rappresentazioni liriche e di prosa. 
 

E come non provare emozione all’arco di Traiano? Un vero passaggio trionfale, eretto per onorare l’imperatore, 

in assoluto il più ricco dei monumenti vetusti, splendori in bassorilievo 

rivestiti in marmo pario.


Invece, i rilievi che spiccano nei due fronti esaltano il saggio governo romano, mentre le immagini all’interno riferiscono rapporti fruttuosi dell’imperatore con la popolazione beneventana. 

 

E poi, non si può tralasciare la Medievale Santa Sofia, dove si celebrano ancora manoscritti e miniature coniate dalla Scrittura beneventana. La costruzione è sorprendente, di pianta semicircolare, sontuosa la cupola, sorretta al centro da un giro esagonale di grandi colonne, affascinante prospettico a effetti geometrici, presenta via via un ciclo di affreschi dell’VIII Secolo:

lascia senza fiato quell’arte siriaco-armena.

 

E come non essere ammaliati da cimeli, colonne, lapidi, cippi romani, incastrati talvolta nei muri di case e ancora androni, cortili trasudanti seduzioni quotidiane, archi, palazzetti barocchi del centro vetusto: Benevento è uno scrigno di tesori. Eccellenze da brivido! Incantesimi, non sempre da immaginario collettivo. 

 

 

 

 

 

  

 

 

 

  

 

 

 

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 Foto: witches-brooms-3067494a Gianmichele Galassi. Le streghe hanno smesso di esistere…

 

IL SOGNO MEDITERRANEO DI FEDERICO II di Fabio De Paolis – Numero 10 – Marzo 2018

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IL SOGNO MEDITERRANEO DI FEDERICO II

 

E anche se questo nome non fu più usato nel battesimo egli venne accolto nella comunità cristiana con i nomi di entrambi i suoi grandi nonni monarchi: Ruggero II Re di Sicilia, e Federico I Imperatore del Sacro Romano Impero. Nel XIII secolo Federico, Sacro Romano Imperatore, si presentava, durante le grandi celebrazioni religiose, indossando una tunica e una dalmatica di seta siciliana, calzari e calze rosse, sempre in seta siciliana e guanti dello stesso colore tempestati di perle. Poi indossava altresì un mantello color rosso cupo, con ricami in oro rappresentanti un leone artigliante un cammello, nei bordi una iscrizione in arabo che voleva significare che quel manto era stato confezionato nel 1133 per il Sommo Ruggero nella città di Palermo.

Il rosso della seta (come la porpora bizantina) testimonia la discendenza romana del potere esercitato da chi se ne ammantava

 

Erano colori che venivano utilizzati normalmente dagli imperatori bizantini, dai pontefici e da tutti quelli che accampavano diritti di autorità universale e assoluti. Nemico giurato dello sgretolamento feudale, Federico II sognava sin da giovanissimo di restaurare sotto la sua autorità l’unità dell’antico impero romano. E ne mostrava l’intenzione ad ogni occasione e con ogni mezzo. Come per gli abiti, anche la corona che l’imperatore indossava in Sicilia e nell’Italia meridionale era carica di simili richiami. Era di una forma creata alla moda degli imperatori bizantini, cinta torno torno, sia in tessuto ricamato o in metallo prezioso, da lunghi pendenti scintillanti di gioielli, un semicerchio che simboleggiava il dominio temporale di chi la portava. La tunica, la dalmatica e la corona consacravano Federico II come possessore di uno status superiore a quello del comune mortale, come una mediazione tra Dio e l’uomo, un riflesso maestoso del Signore sulla terra.

 

Erede delle corone di Germania e di Sicilia, Federico II 

appena ebbe l’occasione diede luce ai suoi sogni, 

e con grande energia perseguì i suoi ideali.

 

Ideali complessi, estremamente conflittuali. Ideali che partivano dal presupposto che l’umanità in seguito al peccato originale fosse condannata a discordie e violenze. Ne conseguiva che lo Stato voluto da Dio, era l’unico strumento che consentisse all’umanità di organizzarsi in una comunità rivolta al conseguimento di pace e giustizia. Era lo Stato che doveva assicurarle entrambe, ed era Dio che ne affidava la guida a un unico individuo, l’Imperatore. Egli era al vertice della gerarchia, l’esempio vivente di virtù e modello di perfezione terrena. L’Impero e i sudditi erano legati da un vincolo di fedeltà: chiunque lo avesse infranto doveva essere punito dal sovrano.

Con simili presupposti, tra l’Imperatore ed i successoridi Papa Innocenzo III, 

gelosi della propria autorità temporale,e convinti della superiorità 

della Santa Sede rispetto all’Impero, l’urto era inevitabile.


Per tradizione i Papi tenevano alla separazione fra le due corone di Imperatore e di Re di Sicilia. Federico promise certamente ad Innocenzo III di abbandonare il Regno non appena avesse cinto la corona imperiale ma poi nei fatti non ne fece nulla. Al contrario alla morte di Innocenzo III (il pontefice a cui la madre morente lo aveva affidato per sottrarlo alle lotte interne tra i grandi feudatari)

 

riunificò le corone di Sicilia e Germania e si dedicò subito 

al rafforzamento proprio potere.


La concezione monarchica e la struttura amministrativa passarono indenni attraverso l’apparente anarchia della giovinezza di Federico II per costituire la base di un rinnovato dispotismo normanno dopo il 1220. Federico in quanto imperatore portò alla ribalta mondiale idee normanne di monarchia. Questo era l’elemento mancante nell’assolutismo romano di Ruggero II: la dimensione universale. Con Federico questa dimensione era ora presente. E da lui venne sfruttata con energia.

 

Padrone del Regno di Sicilia, titolare dell’Impero, assertore
dell’autorità sovrana sulle città dell’Italia Settentrionale,
Federico II era detto dai suoi ammiratori “Stupor Mundi”,
ma anche “Bestia dell’Apocalisse“ dai suoi detrattori.


E questo perché Federico II con la sua ambizione, il suo pensiero politico, la sua mentalità moderna e il suo culto della ragione, con la sua indifferenza religiosa, il suo spirito di avventura, con la totale mancanza di scrupoli, rappresentava per lo Stato della Chiesa una minaccia continua, superiore a qualsiasi altra presentatasi nei secoli precedenti della storia medioevale. I pontefici videro in lui un nemico astuto, ardito, potente e giudicarono combatterlo con tutte le loro forze. Federico, che era totalmente convinto della sua missione, si erse a rigido difensore dei suoi diritti, si vide come fautore del nuovo assolutismo monarchico.

Stabilì che l’Italia Meridionale fosse la base adatta per affermare
il suo potere dove, a differenza della Germania, la sua autorità
era ben più salda. Nell’ottica delle sue grandissime aspirazioni,
il Regno venne scelto per crearsi nel Sud
una base solida e prospera:


il centro di un vasto impero mediterraneo. Federico, con energia profusa senza limiti, vi ristabilì l’ordine compromesso ai tempi della sua minore età, spezzò le resistenze dei feudatari, soffocò le aspirazioni autonomistiche dei comuni. Di tutto il suo Impero, la Sicilia era il possedimento più amato da Federico II. La sua fucina. La Sicilia non solo perché vi aveva trascorso la fanciullezza. O perché era una terra estremamente ricca e opulenta.

Ma in primis perché era strategica ai suoi fini: era soprattutto
da quelle coste che si controllavano le rotte commerciali
del Mediterraneo. Una fitta rete di scambi collegava
l’isola con la costa Africana, la Puglia, Salerno,
Napoli, Amalfi e l’Oriente.


Dalla Sicilia, e non dalla Germania, che si poteva creare una fortissima economia in grado di realizzare il suo sogno. Questo era il sogno mediterraneo di Federico, un sogno, però, che non teneva in debito conto sia il potere del Papato sia la complessa situazione interna della Sicilia. Ma di questo parleremo la prossima volta.

 

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IL FUOCO E IL MARE di Giorgia Ippoliti – Numero 10 – Marzo 2018

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Il marinaio, unico sopravvissuto, pur di non essere sopraffatto dalle onde burrascose, si aggrappò a quel che rimase della sua imbarcazione e, a quel punto, si trovò nella più profonda oscurità. Non gli rimase che rivolgersi al cielo. “(…) Mamma, Mamma ‘e tutt’‘e Mmamme, aiutame tu!”2.
Improvvisamente la notte si fece giorno.
Un’immensa luce lo colse, e gli sembrò di udire una musica celestiale. Una bella signora, vestita di bianco, e cinta nel capo da dodici stelle, gli tese la mano; non v’erano dubbi: era l’Immacolata Concezione!

 

Allora l’acqua, prima ostile e nemica, divenne un valido alleato,
tanto che le onde lo cullarono, privo di sensi, fino a riva.

 

Si risvegliò, all’alba, sull’arenile, accanto alla banchina di Zi’ Catiello. A metà, tra il sogno e la realtà, fu avvistato da alcuni passanti, che accorsero in suo aiuto, con estrema gioia e stupore. Anche questa volta, la vita aveva vinto. Ripresosi, capì che ciò che aveva vissuto non era un sogno … e che quella era, sì, la Mamma di tutte le mamme. Chiamò i presenti “Fratièlle e Surelle” intorno a un falò e insieme cominciarono a recitare il Rosario alla Madonna. 

 

Basta rompere le barriere del pregiudizio e dello stereotipo, che annebbiano la vista, per entrare in contatto con un mondo strabiliante e ricco di

 

tradizioni che, con la loro attualità e forza, irrompono
nella vita di ognuno di noi.

 

È proprio quello che accade a Castellamare di Stabia dove, in un fulgido esempio di unione fra presente e passato, ancora oggi la tradizione svela quella forza viva che la anima e che risiede nella nostra contemporaneità.

Nella notte tra il 7 e l’8 dicembre, in questa splendida provincia napoletana, città delle acque – ben ventotto sorgenti di acque minerali differenti – la storia di Luigi prende vita. 

In un parallelismo fra cielo e terra, nei dodici giorni antecedenti a questa notte, corrispondenti alle dodici stelle di cui era cinto il capo della Mamma delle mamme, riecheggia, dalle prime luci del mattino, la cantilena dei Fratelli e Sorelle che, richiamando tutti i fedeli, li esortano a “dare la voce” a questa tradizione, che suona come un ringraziamento, proprio come secoli prima fecero il marinaio e le persone accorse.

 

La notte diventa di nuovo giorno. Una voce rompe il silenzio, squarciando il buio dell’oscurità.

 

Un richiamo alla preghiera, dunque, gridato a gran voce – ogni quartiere ha la sua “voce” – da un uomo che, camminando per le strade insieme ai fedeli, ogni giorno, annuncia nel canto la stella della Madonna in cui ci si trovi. In ogni angolo della strada, in ogni quartiere, in ogni casa, prende vita questo canto di gioia e di speranza. Sull’arenile della città, proprio come avvenne sull’arenile vicino alla banchina di Zi’ Catiello, si accendono i falò, detti “fucaracchi”, dove nascono momenti di condivisione, con musica e balli tipici.

 

O’ pale e miezz, la legna, viene raccolta dai ragazzi dei rioni
che, già diversi mesi prima, iniziano a ricercare tutto ciò
che possa rendere il falò vivido e imponente.

 

La voce dei Fratelli e Sorelle risuona in ogni rione, accompagnata, nella prima e nell’ultima notte, da una banda musicale che, in un unico suono di giubilo, invita i presenti a unirsi per ringraziare Colei che, secoli prima, salvò quel marinaio sconosciuto e riconoscente. Tutti gli stabiesi si riuniscono in strada e, nell’ultima notte – quando sono terminate le dodici stelle – attendono l’alba: percorrendo un’ultima volta il percorso votivo, intonano l’invocazione alla Madonna. 

Il paesaggio è incredibile. Castellammare di Stabia, città del mare, si colora di vivacità e ardore…

 

la maestosità del fuoco e i suoi vividi colori invadono
ogni angolo, ogni casa, ogni cuore.

 

In un’atmosfera suggestiva, davanti a spettacoli pirotecnici, che si proiettano nel cielo e nel mare, come in un gioco di specularità e simbiosi, la tradizione di Luigi si svela con tutta la sua attualità. Un’attualità fatta di vita, di gioia, di condivisione. Uno scintillio di canti e balli, un profumo confortante di antico e invincibile, scaturente dalla commistione di salsedine e legna, un vento di speranza da una tradizione, da una cultura che, nonostante le difficoltà, vuole innalzare al cielo la propria storia e la propria identità. Un parallelismo fra passato e presente, fra memoria e attualità, un turbinio di insegnamenti che si innestano nella notte dei tempi arrivando sino ai giorni d’oggi. Una città, quella stessa città che anni prima si unì al coro di Luigi, che non dimentica le proprie radici.

 

È un ringraziamento, un inno alla vita, un gesto di gratitudine
di un popolo che ha memoria e che non vuole dimenticare
la storia di quell’immenso miracolo chiamato Vita.

Tutto questo grazie al fuoco, simbolo di calore che riscalda corpo e anima, e del mare, quale metafora della vita che, tra alti e bassi, vale la pena di essere celebrata.

 

 

 

Luigi, detto “O’ Chiavone”, in una notte come tante, si trovò ad affrontare, con la sua imbarcazione (O’ paranziello), con tutto il suo equipaggio, una tempesta, di un’imponenza tale da non essersi mai vista. “(…) un colpo di mare spazzò via i marinai dalla coperta e poco dopo la barca fu inghiottita dal mare (…)”1

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IL FUOCO E            IL MARE

 

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1 “Antiche Tradizioni Stabiesi – Fratièlle e surélle” di Ciro Alminni – anno 1999.

 

2“Antiche Tradizioni Stabiesi – Fratièlle e surélle” di Ciro Alminni – anno 1999.

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L’ABRUZZO NON ESISTE di Marzio Maria Cimini – Numero 10 – Marzo 2018

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L’ABRUZZO NON ESISTE

 

sarebbe piaciuto a Giorgio Manganelli (1922-1990), che all’Abruzzo ha dedicato pagine terse e solenni, forse le più belle che siano state scritte su questa regione ascosa e spigolosa. Quando l’attraversò in lungo e in largo, nel 1987, scortato dall’automedonte Pino Coscetta, entrambi al soldo del Messaggero, trovò che l’Abruzzo fosse “specializzato nella produzione di freddo” e gli abruzzesi “bizzosi, protervi”, con collane di serpenti, latori di “qualcosa di acre e insieme di angolosamente elegante” 1 e gli piacquero non poco.

 

Non era nuovo alla scoperta dell’Abruzzo, Manganelli: l’attraversò con la sua Bakunina, un motorino anarchico, scendendo direttamente da Milano, sua città natale, dalla quale fuggiva, fuggendo da una madre ebrea convertita cattivissima (“qual è la differenza tra un condor e una madre ebrea? Entrambi ti mangiano il cuore, ma almeno il condor aspetta tu sia morto”), da una moglie che non lo amava, da una figlia in fasce, da un’amante un po’ matta che rispondeva al nome di Alda Merini, andando incontro al suo destino di grande scrittore, a Roma. Allievo, a Pavia, di quel Vittorio Beonio Brocchieri che alla guida di un monomotore solcava i cieli dei due emisferi puntando dritto ai Poli, Manganelli non era neppure minimamente progettato per il viaggio: pingue e nevrotico, attraversato da milioni di incubi e manie, manderà nondimeno corrispondenze mirabolanti e straordinarie dalle sue esplorazioni di mondi lontani e paradossali. Una volta che lasciò Roma per intraprendere uno dei suoi viaggi avventurosi disse che si sarebbe recato a Teramo.
 
In effetti l’Abruzzo è un luogo lontanissimo, per arrivarci senza valicare l’Appennino – che lì tocca i tremila metri del Gran Sasso d’Italia – bisogna compiere un giro intorno alla Terra, e non è detto che non sia 
la maniera più comoda e più veloce per raggiungerlo, se pure 
Boccaccio per indicare luogo nascosto e irraggiungibile 
scrive “più là che Abruzzi”2
 
E la sua distanza dal mondo, la sua albagia un po’ cisposa e un po’ voluttuosa ne fanno un oggetto strano, non pienamente definibile e tantomeno maneggevole. Anche chi v’è nato, solitamente attraversato da un amore selvatico e belluino per questa terra di “sassi, rocce, queste cose che hanno movimenti, spasimi e trasalimenti che durano millenni, e poi brividi di un secondo che fanno strage”3, ha sovente difficoltà a capire la sua terra, che si ostina ad osservare e dalla quale viene ricambiato solo da effimeri segnali d’amicizia, strette di mano calorose e fugaci. 
 
Non stupisce dunque che i foresti facciano fatica a comprendere la natura di questa terra di orsi, camozze e lupi. 
 
Che posto ha l’Abruzzo nell’Italia del XXI secolo? Anzitutto, 
ha un problema di collocazione. La storia del Novecento, curiosamente, l’ha fatta a poco a poco avanzare verso Settentrione: quanti sono oggi 
gli abruzzesi che definirebbero loro stessi pienamente meridionali? 
 
Temo pochissimi. L’Abruzzo d’oggi ha dimenticato i suoi mille anni sotto il Regno di Sicilia, poi quello di Napoli e infine sotto il Regno delle Due Sicilie. Eppure le bizzarre costruzioni degli uomini che appartengono all’ingegneria politica dopo il 1861 non hanno mai sottratto l’Abruzzo a questo suo pristino e antico legame con il Meridione della penisola. Regione più settentrionale del Regno duosiciliano e anzi irriducibile terra di confine (Civitella del Tronto, fortezza estrema posta sul confine col Regno Pontificio, resistette alle truppe sabaude duecento giorni, fino al 20 marzo 1861, ossia fino a tre giorni dopo la proclamazione dell’Unità d’Italia da parte di Vittorio Emanuele II), l’Abruzzo regnicolo ha guardato cinquecento anni a Napoli quale suo riferimento morale e politico, mentre oggi pensa solo a Roma, a cui è velocemente collegata da due supersoniche autostrade, le più alte d’Europa, le più belle del mondo secondo la scrittrice premio Nobel Alice Munro, che le attraversò nel 2008 restandone incantata. Napoli e tutto il meridione sembrano oggi lontanissimi dall’Abruzzo, e non solo a causa della congenita difficoltà e lentezza dei trasporti su gomma e su rotaia che affligge il sud d’Italia, ma per ben più radicati sentimenti: l’Abruzzo d’oggi si sente appartenente ad un indefinito “centro Italia”, più simile alle Marche, all’Umbria, al Lazio che vantano tra loro apparentamenti storici assai vincolanti e illustri. 
 
Anche l’osservatore che abbia vaghe conoscenze dei popoli e delle terre aprutini – nessuno sa con esattezza i suoi confini e la sua toponomastica è flagellata dall’approssimazione – non è pronto ad ammettere l’Abruzzo tra le regioni del Mezzogiorno.
 
Ma se l’Abruzzo, meridionale e napolitano per storia, costumi, lingua, cucina, dimentica d’appartenere al Sud, ed è negletto e trascurato dal Centro, e alieno e giustamente inaccolto dal Settentrione, cessa d’esistere. Non so se l’Abruzzo sia effettivamente un dono del Sud, ma di certo del Sud è figlio legittimo e non scapestrato: del Meridione conserva la cucina sapida e ingegnosa, fatta di cibi rituali assai legati alla terra e alle stagioni, con una sostanziale distrattezza per i frutti del mare; del Meridione parla la lingua, la cui radice partenopea si avverte ovunque, inasprita dal passaggio dei monti; del Meridione porta i costumi, impreziositi dai lavori a tombolo e da arcaici schemi geometrici; del Meridione condivide, infine e soprattutto, la storia, una lunga storia fatta di seduzioni antiche e di furori ben temperati, a cui ha fornito acute intelligenze e non poche mani d’artista, che contribuirono non distrattamente a compiere i destini pre e post-unitari del Mezzogiorno d’Italia, con esiti quasi sempre felici. 
 
Non è possibile immaginare una storia d’Italia senza considerare il suo ingombrante Meridione, non è possibile immaginare 
una storia del Meridione senza l’Abruzzo.
 
E allora perché questa Regione di un milione e trecentomila abitanti, di poco più piccola della Campania e di poco più grande della Basilicata, è così desiderosa d’affrancarsi dal Sud, pronta ad abbracciare altre storie, altre tradizioni, altre lingue? Forse è il destino di tutte le terre di frontiera, mescolarsi agli altri, non definire con chiarezza i contorni della propria appartenenza, mimetizzarsi e confondersi per il timore di vedersi un giorno assaliti dall’altrui ferocia. È forse questo anche il motivo della sua atavica ospitalità nei confronti di quanti venivano dall’altra parte del Mare Adriatico, non temibili come i Saraceni in Puglia, ma contrappunto commerciale, sponda amica, portatore di Santi Patroni, come quel San Cetteo che protegge Pescara, Porta Aprutii e sera Regni, con ogni probabilità originario dei Balcani, così come dai Balcani viene quell’uso di mangiare le pecore, le stesse pecore che davano una lana di così alta qualità da essere gelosamente protetta e richiesta dai Medici di Firenze e che hanno rappresentato per secoli la maggiore fonte di ricchezza, sulla via del Tratturo Magno, per larghe porzioni della sua popolazione. 
 
Il Tratturo Magno, questa via antichissima, “quasi un erbal fiume silente”4 nelle parole del più abruzzese dei poeti, del più italiano 
dei cuori, Gabriele d’Annunzio, che milioni di pecore e migliaia 
di pastori, per mille anni e forse mille altri ancora, 
 
hanno percorso per fuggire i rigori invernali di questo esportatore netto d’inverno e di freddo che è l’Abruzzo, dai massicci del Gran Sasso e della Majella fino alle spiagge adriatiche e poi giù, ancora, verso i tepori del Tavoliere delle Puglie. È questa la via che conduce a Meridione, è questa la via che gli abruzzesi devono tornare a percorrere per ricongiungersi con la propria storia e andare fiduciosi incontro al destino. È questa la via che, “su le vestigia degli antichi padri”5, porta all’identità più profonda, segna una collocazione nell’Italia di oggi e in un Mondo dai confini sempre più sbiaditi e mutevoli, valica i confini politici delle regioni e conduce ad una nuova concezione degli spazi, costituendo entità spirituali e amministrative nuove e antiche al tempo stesso. Senza memoria delle sue appartenenze illustri l’Abruzzo non esiste.

 

1 -Tutti gli articoli che Giorgio Manganelli scrisse per il quotidiano “Il Messaggero” nel 1987 sono oggi raccolti ne La favola pitagorica, Adelphi, Milano, 2005, da cui sono tratte le citazioni riportate in questo scritto.

 

2 – V. G. Boccaccio, Decameron, Giornata ottava-Novella terza: «Disse allora Calandrino: “E quante miglia ci ha?” Maso rispose: “Haccene più di millanta, che tutta notte canta.” Disse Calandrino: “Dunque dee egli essere più là che Abruzzi.” “Sì bene” rispose Maso “sì è cavelle.»

 

3 –  Ancora G. Manganelli, op.cit., p. 106

 

4 –  G. d’Annunzio, I pastori, da Alcyone, Fratelli Treves, Milano, 1903.

 

5 –  Ibidem.

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CAMPI CITTA’ DEL LIBRO di Gianluca Anglana – Numero 9 – Dicembre 2017

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CAMPI CITTA’  DEL LIBRO

 

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da carmelo bene

Novembre 2017. 

Metti una sera in Puglia. Si sente odore di autunno: è quello dei camini accesi e della carne cotta alla brace. È già il crepuscolo e le strade brulicano ancora di vita. È la folla composta e discreta di coloro che amano i libri, di chi cerca la cultura. Capannelli di gente si formano davanti all’ingresso della Chiesa di San Giuseppe. A giudicare dalla sua facciata austera non diresti mai che, all’interno, svetta un altare centrale pregevolissimo, quasi un retablo spagnolo: un piccolo capolavoro, insomma, in cui riconoscere la firma di Giuseppe Cino, architetto tra i più insigni del barocco leccese..

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Palazzo Marchesale

“Campi città aperta”, si potrebbe dire, parafrasando Roberto Rossellini:
le vie del centro sono spalancate alla milizia del sapere.
I suoi monumenti s’illuminano a festa: accolgono
i pellegrini della conoscenza.


Si va a caccia dell’evento più attrattivo. Si sfida l’imbarazzo della scelta. Gruppi di curiosi stendono davanti agli occhi, come una mappa del metrò, il programma della Città del Libro, il festival dell’editoria giunto quest’anno alla sua ventiduesima edizione. Un bel traguardo, per Campi Salentina, il paese che se ne attesta la paternità e che lo ospita sin dal 1995. Un vanto per questa terra, vero motivo di orgoglio, per lo più snobbato dalla stampa nazionale, distratta dagli schiamazzi della politica e dal sensazionalismo della cronaca nera. L’Imam di Lecce, Saiffedine Maaroufi, al quale mi presento, si chiede, mi chiede: «dove sono i giornalisti?» Mi concede parte del suo tempo prima di tornare a Lecce. È un uomo dagli occhi sorridenti, dalla barba fitta e da quella, che mi sembra, una palpabile fiducia nel futuro. Il suo intervento è inserito nella Rassegna dal titolo I cammini dell’uomo verso un nuovo umanesimo. Si compiace dell’interesse della gente e si rammarica della scarsa attenzione dei mass media: un’assenza esecrabile, a mio modo di vedere, in un periodo storico in cui invece sarebbe più saggio investire sugli incontri, piuttosto che sui presunti scontri di civiltà. Scambiamo qualche parola: scopro che è originario della Tunisia. Commentiamo insieme il dibattito appena conclusosi tra la scrittrice Simona Toma e Sumaya Abdel Qader, blogger perugina, di origine giordana, oggi consigliera comunale della città di Milano nonché autrice del libro Porto il velo. Adoro i Queen. Molta la partecipazione, soprattutto al femminile: alcune lettrici hanno fame di conoscere, sono animate dalla curiosità e pongono alla Signora Qader domande sulla religione musulmana, sulla cultura araba e sulla condizione della donna nelle aree di fede islamica.

 

C’è una bella atmosfera a Campi, c’è voglia d’incontro, c’è il desiderio 

di capire e di capirsi, c’è la curiosità di conoscere meglio altri individui, altri popoli, altre culture, altre religiosità. C’è l’aspirazione 

a cercare elementi unificanti piuttosto che divisivi.

 

E non potrebbe essere altrimenti, visto che l’Edizione numero ventidue di Città del Libro è dedicata ad Abramo – leggo sulla pagina web del Festival letterario – «il cui nome significa ‘padre di molti popoli’» e costituirà un riferimento culturale fondamentale capace di far dialogare le letterature e i popoli che abitano l’area mediterranea e africana. Una moltitudine di nomi importanti: lo scrittore marocchino Tahar Ben Jelloun; il Direttore Generale di Treccani, Massimo Bray; il giornalista Domenico Quirico; la giurista francese Jeannette Bougrab; la scrittrice inglese Nicolette James, solo per citarne alcuni. 

 

Dicembre 2017. È un mattino di sole. Negli uffici comunali, incontro il Sindaco di Campi Salentina, il Prof. Egidio Zacheo1, cui va l’indiscutibile merito di avere dato i natali alla Città del Libro nel 1995.

Fu l’inizio di un rinascimento: Campi, che fino ad allora saliva
alla ribalta delle cronache esclusivamente per fatti di malavita, 

cominciò a mutare volto, a credere maggiormente in se stessa – fregiandosi persino del titolo di Città grazie a un Decreto della Presidenza della Repubblica2 – e a tributare maggiore rispetto 

al suo passato sfavillante e ai suoi monumenti 

sia architettonici sia umani. 

 

Pochi sanno, ad esempio, che a Campi sorge uno dei rarissimi esempi di arte gotica nel Salento: si tratta dei resti della Cappella Maremonti, rinvenuti quasi per caso all’interno della Chiesa Principale. Pochi sanno che Campi è il luogo in cui è nato uno dei massimi artisti italiani del Novecento, Carmelo Bene, cui va il merito di avere cambiato per sempre il teatro italiano.

 

Perché il Sud migliore, quello produttivo e propositivo,
fatica ancora a fare notizia?

 

«Mi meraviglierei del contrario. In tutti i campi, il Sud ha maggiori difficoltà rispetto al resto d’Italia. Molti eventi, che si tengono nel Mezzogiorno, soffrono l’indifferenza dell’informazione. È un po’ ciò che è accaduto alla Città del Libro, la quale tuttavia quest’anno ha catalizzato un’attenzione maggiore perché la formula utilizzata è stata davvero innovativa: non si poteva non tenerne conto. Il 2017 ha segnato un cambio di passo, potremmo dire un salto di qualità. La Città del Libro è stata per anni la Fiera del Libro, cioè l’incontro di autori ed editori per pubblicizzare e far vendere libri: cosa del tutto legittima e positiva, per carità, sia benvenuta ogni iniziativa volta a fare vendere più libri. Quest’anno, però, abbiamo pensato a qualcosa di diverso. La nostra rassegna non poteva più essere la Fiera del Libro: doveva avere obiettivi culturali di più ampio respiro. Abbiamo voluto un evento che avesse un ruolo strategico, che fosse uno strumento di dialogo tra le varie sponde del Mediterraneo».

 

Un ponte tra le culture e le nazioni…

 

«Noi abbiamo creato e creiamo opportunità di dialogo in una fase storica in cui invece si amplificano il contrasto, l’incomprensione, persino il timore del diverso (pensi, ad esempio, al fenomeno delle migrazioni in Europa che suscita paura e sgomento). Tutto ciò si combatte con la cultura e con il dialogo. Il nostro è un obiettivo ambizioso, che noi dobbiamo proporci di portare avanti, perché la Puglia è una regione vocata a questo compito, perché il Salento è un avamposto proiettato nel Mediterraneo, un osservatorio atto a favorire formidabili momenti di scambio. E noi abbiamo pensato di fare di Città del Libro un’occasione per intrecciare dei contatti culturali con altre genti. Abbiamo stabilito rapporti di scambio con case editrici e autori al fine di favorire la pubblicazione in Italia di opere edite nei Paesi con cui abbiamo collaborato e viceversa; è stata siglata un’intesa tra Università di Lecce, Città di Campi e alcuni Atenei del Nordafrica per un Erasmus nella direzione di quei Paesi, insomma un Erasmus verso il Sud piuttosto che un Erasmus verso il Nord3. Campi diventa lo snodo di questa intesa, che prevede iniziative di varia natura. Campi è il comune che avrà la regia di tutto questo. In questa progettualità sta la novità rispetto al passato e risultano coinvolti la Regione Puglia e l’Università di Lecce e quindi tutto il territorio. La finalità è combattere la diffidenza, i pregiudizi e la paura con il dialogo, tramite l’interazione tra culture di varia provenienza. Città del Libro aveva bisogno di trovare una sua specificità, data anche la collocazione geografica del Salento e di Campi in particolare in quanto baricentrica rispetto alle tre province4. Quest’anno, ribadisco, c’è stato il grande salto di qualità: prova ne è la partecipazione di personalità di grande rilievo e caratura».

 

Sono passati molti anni dal 1995, quando ebbe l’intuizione 

di scommettere sul suo paese e dare vita ad un festival 

dedicato ai libri. Che cosa la spinse a questa scommessa?

 

«Allora Campi era in mano alla criminalità organizzata. Ci chiedemmo: come combatterla? Scommettemmo sulla cultura: a nostro modo di vedere, la cultura poteva vincere la barbarie. I cittadini avrebbero potuto riappropriarsi della loro città (qui alle otto di sera c’era il coprifuoco!), se si fossero rammentate loro la nobiltà delle proprie radici e la ricchezza culturale della loro terra. Quell’amministrazione organizzò quindi feste, spettacoli, concerti, incontri, presentazioni di libri, mostre; costituì perfino un’orchestra comunale; esaltò il talento e la creatività e la gente cominciò a reimpossessarsi della città. E man mano che i cittadini si reimpossessavano degli spazi pubblici, arretrava la criminalità. Potemmo certo contare sul sostegno degli altri livelli istituzionali, delle forze dell’ordine, delle scuole e delle associazioni. Ma fu la cultura a dimostrarsi la carta vincente, il grimaldello con cui scardinare il meccanismo dell’illegalità. Alla fine di ogni anno scolastico, veniva donato un libro a tutti gli studenti, inondando la città di millecinquecento volumi: fu così che prese quota l’idea di Città del Libro. È stata una scommessa bella e anche difficile, perché abbiamo fatto tutto con le nostre mani. Pensi che l’anno scorso la Regione Puglia ha stanziato più di un milione di euro per la Notte della Taranta e ventunomila euro per la Città del Libro. C’è proporzione? Noi siamo riusciti a portare avanti la nostra manifestazione, perché ci abbiamo creduto e perché siamo aiutati dai cittadini e da un numero di persone straordinarie che per più di due mesi lavorano gratuitamente»

In un’intervista dello scorso Giugno, il Presidente della Fondazione della Città del Libro, Cosimo Durante, ha parlato 

di un nuovo modo di fare turismo: quello sostenibile, 

quel turismo che procede orientato dai beni e dagli interessi culturali e quindi anche da appuntamenti come Città del Libro (che vanno ad inserirsi in Puglia3655). 

Qual è la Sua idea di turismo?

 

«Consideri quello che è accaduto a Gallipoli, parlo del turismo “mordi e fuggi” e di puro intrattenimento, che nega la valorizzazione delle risorse culturali di una località. Mentre la parabola di questa forma di turismo ha toccato il suo picco massimo, a Gallipoli ha chiuso i battenti l’ultima libreria cittadina6. Ecco, noi tentiamo di muoverci nella direzione esattamente opposta. Vogliamo un turismo intelligente che valorizzi le risorse culturali, artistiche, storiche, monumentali e soprattutto umane: questa terra vanta la luce di figure straordinarie. Vede, noi abbiamo affidato l’inaugurazione dell’Edizione 2017 della Città del Libro a un concerto dell’ottima Orchestra del Salento, la quale, nella magnifica cornice della Chiesa di Santa Maria delle Grazie, ha eseguito un’opera di Carmelo Bene. Carmelo Bene, un genio salentino, ha reinterpretato il Manfred di Robert Schumann sul testo di Lord Byron7. Mi sono venuti i brividi! La nostra terra ha dialogato con le espressioni più alte della cultura universale: e Carmelo Bene era di Campi! Quella sera si capiva visivamente quante potenzialità abbiamo: e invece per Carmelo Bene, per la musica e per gli artisti e i musicisti locali abbiamo fatto ancora troppo poco». 

 

Perché mancano manifestazioni teatrali di alto livello
nella città di Carmelo Bene?

 

«Il Salento è una terra che nei confronti del suo figlio illustre ha mostrato di avere una certa smemoratezza: noi abbiamo voluto farle tornare la memoria. Come? In primo luogo, nel corso del 2017 e con bando nazionale, ha avuto luogo la prima edizione del Premio Carmelo Bene: una commissione di Docenti Universitari ha premiato due tesi di laurea e una pubblicazione sull’Opera di Carmelo Bene8. Inoltre, il Teatro di Campi è stato già intitolato a Carmelo Bene: è il primo teatro a lui dedicato in Italia e nel Mondo. In più, stiamo lavorando per tenere a Campi nei prossimi mesi, spero prima dell’estate, un convegno nazionale che si riunisca magari con cadenza biennale e che faccia un po’ il punto sugli studi su Bene. Questa è la progettualità per Carmelo Bene, per la cui radicazione occorre tempo».

 

A proposito di viaggiatori e di turisti in cammino, colpisce 

la collaborazione tra Fondazione Città del Libro e Matera 2019. 

È facile fare sistema tra realtà meridionali?

«Sia nel mondo dell’impresa sia nel mondo politico-istituzionale, non siamo educati a fare sistema: questo ci rende più deboli. Noi facciamo fatica a trovare l’appoggio o la collaborazione stabile da parte del settore imprenditoriale o bancario, salvi alcuni casi. Proprio per questo, Città del Libro è un piccolo miracolo del Sud».

 

L’edizione numero ventidue di Città del Libro si è tenuta a Campi dal 23 al 26 Novembre. Proprio il 27 Novembre il Sole 24 Ore pubblicava la consueta classifica annuale del benessere socio-economico delle province italiane. Anche quest’anno le province meridionali occupano la parte bassa della classifica. Mi colpiscono in particolare le ultime due posizioni, assegnate rispettivamente a Taranto e a Caserta, territori ricchissimi di storia e un tempo gloriosi.

Fa specie vedere così in affanno l’antica Tarentum e la città 

della Reggia. Lecce è centoquattresima su centodieci. 

Secondo Lei, cosa serve al Meridione per decollare?

 

«Più civismo. Risorsa fondamentale per la qualità della vita. Civismo vuol dire legare di più il cittadino alla dimensione pubblica. Per ragioni storiche, i nostri concittadini non sentono questo legame. Quella meridionale non è solo una questione economica, bensì anche di civismo. Il civismo comporta la valorizzazione di ciò che è di tutti. Il pubblico è cosa di tutti: la nostra mentalità tende a ritenere che ciò che è pubblico è di nessuno. Dobbiamo lavorare sulla piena valorizzazione dei nostri tesori e talenti, perché il nostro meglio entri in un sistema pubblico. Lecce è una città meravigliosa: perché affonda tanto nelle graduatorie nazionali? Perché i cittadini sentono il rapporto con la dimensione pubblica in modo debole. Potenziare il civismo significa accrescere la qualità della vita. L’illusione è che si possa stare bene restando isolati: se si resta isolati, non si sta mai bene. E se manca la dimensione pubblica è difficile essere felici».

Che cos’è per Lei il Dono del Sud?


«Il Sud è ricco di doni. La civiltà moderna è nata in queste contrade: noi siamo la terra di Federico II. Qui sono nati l’arte moderna, la cultura moderna, il diritto moderno, la scienza moderna. Come? Attraverso le contaminazioni. Ecco la “Città del Libro-ponte”: la cultura araba è stata promossa da Federico, perché ai suoi tempi quello arabo era un sapere avanzato (soprattutto sul piano scientifico e filosofico), perché ai suoi tempi il Nord dell’Europa eravamo noi. Il Sud è una terra piena di doni: ha donato molto al mondo e poi ha smarrito questo ruolo, perché non ha saputo diventare comunità. Noi abbiamo bisogno della comunità, d’istituzioni e classi dirigenti credibili, di legare il cittadino al destino comune, di fargli capire che ciò che è di tutti è di tutti e non di nessuno. Gli interventi finanziari, da soli, sono inefficaci: il divario rispetto al Nord è rimasto, perché di matrice culturale».

Se lei volesse fare uno spot per Campi Salentina, 

quale slogan utilizzerebbe?


«Mi lasci partire da un esempio. Carmelo Bene non è un prodotto casuale. Tra la fine del 400 e tutto il 600, Campi è stata una comunità molto attiva dal punto di vista artistico e specialmente teatrale. C’era un humus. Questa è una città ricca di cultura e figure straordinarie. Questo consentirebbe a Campi di entrare nel futuro con più equilibrio e sicurezza. Perciò ecco lo slogan che io conierei: grazie a una cultura antica proiettarsi verso l’avvenire. Guardi, Federico II di Svevia veniva in queste terre con Pier delle Vigne per cacciare e contemporaneamente ragionare delle Costituzioni di Melfi, promulgate nel 1231. Federico è un brand della Puglia: opere straordinarie come il castello federiciano di Brindisi o la Torre di Leverano9 andrebbero messe a sistema. Federico era puer Apuliae, sicché auspicherei un percorso prettamente salentino dei luoghi federiciani: Oria, Leverano, Campi Salentina, Lecce. Dietro questo circuito dei monumenti si nasconde un circuito intellettuale, in cui la Puglia e il Salento hanno ancora molto da dire. Abbiamo creato la ricchezza materiale: va bene. Abbiamo riempito lo stomaco: va bene. Ora, è tempo di investire in cultura. Riempiamo un po’ la testa… Riempiamo un po’ la testa…». 

 

La mia conversazione finisce con la cordialità di una stretta di mano. Esco dal Municipio ed entro nella luce abbagliante di quest’autunno che muore. Sento il vento del Nord che mi annusa il cappotto: osservo l’eleganza dell’entrata laterale della Chiesa di Santa Maria delle Grazie, che da quel vento ha preso il nome, la Porta della Tramontana. Procedo in direzione del Palazzo Marchesale e penso a Federico a caccia, nei boschi attorno a Campi: il fascino di questa terra ricca di storia mi riempie un po’ la testa.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

decoro cultura
1  Il Prof. Zacheo è stato più volte sindaco di Campi (dal 24 aprile 1995 fino al 13 febbraio 2001: oggi è in carica dal 27 maggio 2014).
2 DPR 2 settembre 1998.

3 Si tratta di una Dichiarazione di intenti, siglata a Campi Salentina il 24/11/2017, da una parte, da Città del Libro, a firma del Sindaco Zacheo oltre che del Presidente della Fondazione “Città del Libro”, Cosimo Durante, e dell’Assessora all’Industria Turistica e Culturale della Regione Puglia, Loredana Capone; dall’altra, dall’Università di Lecce, dagli Atenei di El-Tarf e Annaba in Algeria e dall’Università Mohammed V di Rabat in Marocco.

4 Lecce, Brindisi e Taranto (nda).

Puglia365 è il piano strategico del turismo della Regione Puglia per il periodo 2016-2025.

6 Cfr. articolo del 14/12/2017 pubblicato su www.illibraio.it .

7 Il Manfred è uno spettacolo teatrale del 1978, diretto, interpretato e tradotto da Carmelo Bene, tratto dal poema drammatico di George Gordon Byron con musiche di Robert Schumann.

8 Qui: http://www.comune.campi-salentina.le.it/documenti/notizie/VERBALE.pdf, il Verbale della Commissione Giudicatrice.

9 La Torre Federiciana di Leverano, che si eleva per circa 28 metri nel centro abitato, fu voluta, secondo la tradizione, da Federico II di Svevia per monitorare la costa ionica. Monumento nazionale dal 1870, la torre presenta una forma parallelepipeda a base quadrata con i prospetti orientati secondo i punti cardinali ed è provvista di merli.

 

E’ SAGGIO? TOTO’: “NO, IO SONO NAPOLETANO”. Cinzia Terlizzi – Numero 9 – Dicembre 2017

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E’ SAGGIO? TOTO’: “NO, IO SONO NAPOLETANO”.

 

 

“Totò è irripetibile, indefinibile, inimmaginabile… Non è un grande attore, è molto di più… è come una maschera, un Pinocchio…”Così Carlo Croccolo, che ha lavorato con Totò in diversi film ma soprattutto ha condiviso con lui vita professionale e personale, set ed amicizia… “Mi considerava suo figlio adottivo, il maschio che non aveva avuto… …io giovane e ribelle, lui severo ma affettuoso… in più Totò era l’asso dei tempi comici ed io gli stavo dietro… fra noi c’era una intesa perfetta”. Al punto che Croccolo è stato anche l’unico doppiatore che Totò, provato dalla malattia agli occhi, accettava… nelle scene esterne di film ad esempio I Due Marescialli con Vittorio De Sica. Incontriamo l’attore che ha da poco compiuto 90 anni a Castelvolturno, dove vive con la moglie Daniela… parlare con lui significa tornare indietro di 50 anni e più, da quando cioè il principe Antonio Griffo Focas Flavio Angelo Ducas Pofirogenito Gagliardi De Curtis di Bisanzio in arte Totò ci ha lasciato il 15 aprile 1967, unico al mondo ad aver avuto tre funerali, due a Napoli e uno a Roma dove è morto.

 

E tante sono le manifestazioni, iniziative, incontri e spettacoli in tutta Italia che si svolgono in diversi mesi per rendere omaggio
al personaggio e all’uomo Totò.

 

Ovviamente Napoli la fa da padrona con Totò Genio la grande mostra antologica, recentemente allestita a Napoli in tre luoghi, il Maschio Angioino, la sala dorica di Palazzo Reale e San Domenico Maggiore …moltissimi materiali, anche inediti fra foto, disegni, scritti, abiti, il suo baule per far sentire ancora più – semmai ce ne fosse bisogno – Totò vicino a noi e noi vicini a Totò.   “È un sentimento viscerale, un amore fra Napoli e Totò, e Totò e i napoletani – sottolinea Valerio Caprara, storico e critico di cinema – anche se Totò è stato un personaggio universale, profondamente napoletano ma aperto al mondo… La sua grandezza si trova nel meglio della napoletanità, la napoletanità beffeggiatrice… Nessuno dei nuovi comici ha provato a imitare Totò – aggiunge – ce ne sono tanti ma tutti sono costretti a confrontarsi con lui senza poterne mai avvicinare l’eccezionalità, altrimenti si brucerebbero e farebbero brutte figure. 

 

Si può accogliere il testimone di Totò ma non si può replicarlo.”

 

Totò talmente grande e unico che c’è chi vorrebbe portarlo nelle scuole…è Giacomo Poretti del trio Aldo Giovanni e Giacomo… “Balbetto quando parlo di Totò – dice – è unico per l’uso straordinario del corpo proprio del comico e perché è un dinamitardo della lingua… Basti solo pensare alla lettera che detta a Peppino De Filippo in Totò Peppino e la Malafemmina. Lo porterei nelle scuole perché è l’enciclopedia della comicità, perché dobbiamo avere l’aggancio con la storia, conoscere da dove proveniamo e quindi conoscere Totò Charlie Chaplin e Buster Keaton che sono i caposaldi”. Conoscere l’artista, dunque, ma anche l’uomo… Fuori dal set schivo ma generoso… è nota la sua passione per i cani che, come gli aveva un giorno detto un americano, considerava a metà fra un angelo e un bambino. E frequentemente, come racconta Carlo Croccolo, la sera usciva per le strade di Roma con l’attore Francesco Mulè per raccogliere i randagi e portarli nel canile che aveva rilevato da un’anziana signora dove venivano ospitati duecento animali. Generoso anche con le persone “Per me è stato come un padre, un fratello maggiore – confida Ninetto Davoli – sul set mi insegnava alcuni trucchetti per stare davanti alla cinepresa. Era un uomo sensibile, semplice, buono”. L’attore ha iniziato la sua carriera con Totò, che Pier Paolo Pasolini aveva voluto come protagonista di Uccellacci uccellini prima, poi La terra vista dalla luna episodio del film Le streghe e di Che cosa sono le nuvole?, episodio del film Capriccio all’italiana, girato nel 1967 poco prima che Totò morisse e uscito postumo.

 

Con Pierpaolo non sono mai riusciti a darsi del tu – racconta Davoli –
e Totò all’inizio si è trovato in difficoltà perché lui improvvisava, con Pasolini questo non era possibile. Ma come ti vengono tutte ’ste parole? diceva Totò a Pasolini, e lui rispondeva…
ma non sono parole!”.

 

La generosità di Totò viene evidenziata anche dalla nipote Elena Anticoli de Curtis che non ha mai conosciuto il nonno, ma ha vissuto con la nonna Diana, la prima moglie di Totò. Racconta che tra i due l’amore è stato grande lui la adorava ma era molto geloso, eccessivamente geloso… E quando lei se ne è andata Totò ha scritto la canzone Malafemmena, dedicata appunto a colei che gli aveva fatto del male… Fu un grande successo e con i proventi ottenuti regalò una casa a Diana “perché – le disse – questa canzone è tua!”. Ma la generosità più grande, che certo non si è esaurita con la sua morte, è stata quella rivolta al suo pubblico che continua ad amarlo, a ridere e sorridere, a riflettere e ad emozionarsi ogni volta che vede un film, una sua partecipazione o intervista televisiva, o si ascoltano le sue poesie e le sue canzoni. Totò principe della risata, ma non solo, potremmo dire principe della gioia che

 

“ha unito il paese quando c’erano spinte alla divisione, ci ha consolato dopo il dramma della seconda guerra mondiale… ha consolato tutti,
il ricco e il povero, il Nord e il Sud”…

 

Sono parole di Renzo Arbore dette in occasione del conferimento della laurea ad honorem a Totò. Alla cerimonia che si è svolta ad aprile all’Università Federico II di Napoli, era presente anche la nipote Elena: “Nonno avrebbe detto alla faccia del bicarbonato di sodio”… Poi ha aggiunto commossa “Oggi gli viene restituita un po’ della gioia che lui da mezzo secolo regala a noi.”

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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IL CODICE PURPUREO DI ROSSANO CALABRO di Michele Minisci – Numero 9 – Dicembre 2017

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Codice purpureo di rossano calabro

 

Il Codice Purpureo (Codex Purpureus) di Rossano Calabro contiene una serie di miniature che illustrano alcuni dei momenti più significativi della vita e della predicazione di Gesù. È stato scritto con un inchiostro aureo per il titolo e argenteo per le tre righe iniziali di ciascun Vangelo e per tutto il resto.  È una preziosissima pergamena di ben 376 pagine (188 fogli della dimensione di cm. 30,7×20), che contiene un antichissimo evangelario scritto con raffinati caratteri in oro e argento, illustrato da 16 stupende miniature sulla vita di Cristo e risale fra la fine del V e l’inizio del VI secolo. Questo documento, unico nel suo genere, riporta in lingua greca il Vangelo di Matteo e quello di Marco fino al cap. XVI,14. In origine doveva contenere anche Luca e Giovanni, visto anche il frontespizio con l’illustrazione dei quattro evangelisti.

Questo evangelario è considerato il più importante esempio
al mondo di codice greco miniato, ed è stato composto certamente
in Medio-Oriente, ad Antiochia di Siria o a Cesarea di Palestina,
e deriva il suo nome dal fatto che è scritto su una pergamena sottilissima color porpora,


fatta con la pelle di agnello con poche settimane di vita, che, nelle terre di Bisanzio veniva anticamente utilizzata solo per documenti particolarmente importanti. Il Codex ha avuto il suggello della sua straordinarietà da parte dell’Istituto Centrale per il Restauro e la Conservazione del Patrimonio Archivistico e Librario di Roma che ha lungamente studiato, analizzato e restaurato l’opera, e contemporaneamente è stato considerato Patrimonio dell’Umanità da parte dell’Unesco. “Memoria del Mondo” è il titolo con cui l’Unesco ha riconosciuto il Codice Purpureo Rossanense, Patrimonio dell’Umanità.

 

Come sia arrivato a Rossano non è stato possibile stabilirlo: potrebbe essere stato portato in Calabria dai quei monaci melchiti che, a cavallo tra l’VIII e il IX secolo fuggirono dalle persecuzioni subite durante l’espansione islamica all’interno dei territori cristiani bizantini.

 

La città di Rossano Calabro, situata sull’alta costa ionica della Calabria, in provincia di Cosenza, a pochi chilometri dal mare e dall’importante sito archeologico di Sibari, era già nel VI secolo un notevole centro bizantino di circa ventimila abitanti, ove spesso confluivano profughi dal Medio Oriente, come anche dalla Sicilia, anch’essa invasa dagli arabi. Ed è proprio a causa dell’immigrazione di monaci ed eremiti greci che Rossano diventò punto di diffusione, nell’Italia meridionale, della cultura e della liturgia greca. Il Codex Purpureus è custodito presso il Museo Diocesiano, e precedentemente era conservato nel monastero del Patirion, a pochi chilometri dalla città (anch’esso da visitare!). 

 

Furono due ricercatori tedeschi, Von Harnak e Von Geghardt
a comprendere la grandissima importanza storica della pergamena, segnalandone la presenza agli studiosi di tutto il mondo nel 1879.
Gli studiosi furono subito colpiti dalla bellezza del testo,
scritto su due colonne di venti righe ciascuna.

 

Il Codice è composto, come si è detto, di 188 fogli, ma originariamente ne doveva contenere circa 400, con l’intero testo dei quattro vangeli, delle dieci tavole dei canoni, e della lettera di Eusebio di Cesarea a Carpiano sulla concordanza dei Vangeli, lettera di cui è rimasta solo una parte. Fu proprio Eusebio, vescovo di Cesarea, a lasciarci nel 318 una delle più antiche testimonianze del Canone cristiano, l’elenco dei libri sacri che compongono il Nuovo Testamento.

 

Un altro esempio dei tesori custoditi in terra di Calabria
restituito alla Storia

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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LE VIE FRANCIGENE DEL SUD di Giorgio Salvatori – Numero 9 – Dicembre 2017

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LE VIE FRANCIGENE DEL SUD

 

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Era nata la via Francigena che, in seguito, si estenderà,
con un prolungamento del percorso e decine di diverticoli,
al resto della penisola. Diventerà così non soltanto
la via per Roma, la “Romea”, ma anche
la ‘’via verso Gerusalemme’’,


arricchendo il cammino di nuove tappe in quelle regioni che, oggi, sono il Molise, la Campania, la Basilicata e, soprattutto, la Puglia. Un percorso di fede e, contemporaneamente, una sfida, un viaggio alla scoperta di se stessi. 

 

E oggi? Sulla scia del sorprendente successo che anima ancora l’itinerario di fede cristiana verso Santiago di Compostela anche la Francigena, anzi le francigene, come sarebbe più giusto dire, tornano, da alcuni anni, a rianimarsi di frequentazioni. Non solo di fedeli ma anche di curiosi ed amanti di percorsi turistici alternativi e paesaggi rurali. Un rifiorire di passi lenti lungo antichi borghi e mansioni e, soprattutto, cammini impegnativi. Gli itinerari vanno da Nord a Sud e viceversa, attraverso quattro nazioni, Gran Bretagna, Francia, Svizzera e Italia. Ma non bisogna spaventarsi. Chi ama viaggiare senza le quattro ruote, ma non vuole o non può camminare troppo a lungo o affatto, può utilizzare altri mezzi, come la bicicletta o il cavallo. E se la fede oscilla, oltre a chiese e ostelli religiosi che, tradizionalmente, offrono soste di preghiera e pernottamenti ai pellegrini più devoti, il percorso concede approcci diversi e appuntamenti culturali. Un confronto laico, ma non un travestimento irriverente, che, in sette edizioni, ha visto crescere e raddoppiare le presenze di viaggiatori lungo le Francigene, senza nulla sottrarre al sacro e favorendo il contatto con genti e tradizioni dei luoghi percorsi. Collegato strettamente alle diverse tappe dell’itinerario un poliedrico festival ne vivifica le giornate, e soprattutto le serate. I camminatori possono così scegliere tra il silenzio olistico del proprio pellegrinaggio oppure ritagliarsi spazi meno solitari e più animati da svaghi ed eventi che favoriscano lo spirito di gruppo e la voglia di conoscersi. Il Sud, naturalmente, ha carte d’oro da giocare su questo tavolo. Per scoprirle abbiamo incontrato Sandro Polci, ideatore e Direttore del Festival Europeo della Via Francigena. 

 

I numeri ci dicono che il lungo tracciato delle Francigene
si sta popolando sempre più di pellegrini, appassionati, curiosi.
E’ stato il festival a favorire questo interesse?
E come è nata la manifestazione?

 

Molto umilmente abbiamo dato il nostro contributo. Io credo che la crescita – che direi in doppia cifra, anno su anno, negli ultimi 5 anni – dipenda dal momento culturale: vi è bisogno di verità e certezze. Non parlo (solo) di un anelito religioso ma più ampiamente spirituale e condiviso. Qualcosa “oltre”, verso una verità da scoprire, innanzitutto in se stessi e con compagni di strada, spesso non scelti. La condivisione più bella non è esclusiva è inclusiva e trae vantaggio anche dall’imprevedibilità (pioggia, fame, malinconia?). Sognare, creare bellezza, senza remore ma con rinnovata passione. Solo così sapremo valorizzare anche i piccoli centri che traversiamo e che rappresentano: una peculiarità e una garanzia del nostro sistema sociale e culturale; una certezza nella manutenzione del territorio; una opportunità di sviluppo economico. Francia e Italia sono le nazioni europee dove la popolazione è maggiormente distribuita: nel nostro Paese l’85% dei comuni – ben 6. 875 – ha meno di 10. 000 abitanti. Popoliamo un territorio che conta oltre 22.000 centri abitati, quasi 33. 000 nuclei insediativi, senza considerare le caratteristiche di tanta parte del nostro sistema agricolo composto di “case sparse”. 

 

La “piccola dimensione” è spesso considerata un forte limite, rispetto alle esigenze di capitalizzazione e di capacità competitiva, dato dalle necessarie economie di scala e dai sistemi di rete che solo organizzazioni più complesse garantiscono. Io invece credo che ciò può costituire una “attrattività smart”: intelligente e innovativa, ad iniziare dalle politiche di inclusione. E’ dunque possibile un nuovo protagonismo sociale, basato sull’“economia circolare”, di cui il “dinamismo” è una componente fondamentale. Pensiamo ad esempio al turismo delle identità, per “(ri)creare identità antiche e nuove” e valorizzare culture materiali e immateriali, in agricoltura, nell’artigianato e nell’industria creativa, legate alla naturalità dei luoghi. Tale ibridazione, se “ben narrata”, è una opportunità concreta e ancora inesplorata. 

 

Il Sud è entrato a pieno titolo nel progetto di rinascita
della Francigena. Qual è stato l’evento più seguito
del suo Festival in Meridione La scorsa estate?

 

Mi permetto di segnalare il sito festival.viefrancigene.org, dove valutare i circa 500 eventi quest’anno raccolti sotto il tematismo “Borghi e nuvole”. “Borghi”, perché nell’anno dei borghi abbiamo voluto favorire trekking urbani e non solo ruralità affascinanti. “Nuvole”, perché dobbiamo alzare lo sguardo per cogliere leggerezze e qualità di natura e genti. Tra tanti eventi, le tipologie più affascinanti per me sono: le musiche serali, i pasti condivisi, semplici ma di tipicità locali che sposano saperi e tradizioni. Così la “Compagnia dei 12” nel sud del Lazio o gli amici del Cammino di San Benedetto o la vitalità pugliese fino alla nostra finis terrae italiana sono solo alcuni esempi. 

 

La cosiddetta ‘’bisaccia del pellegrino’’ che cosa è esattamente?

 

La bisaccia è il magro bagaglio del pellegrino, fatto di poche, indispensabili cose: il sacco, un ricambio, un farmaco di emergenza e un cellulare augurabilmente spento. Ma da 2 anni la bisaccia del pellegrino è anche una fortunata iniziativa, voluta dall’Associazione Europea delle Vie Francigene e dall’Associazione Civita, che promuove la promozione e la vendita di alcuni prodotti tipici e naturali dei diversi territori ai camminatori di passaggio. Stiamo mutuando l’efficace capacità francese del terroir, ovvero la valorizzazione dell’inscindibile legame tra i prodotti di una terra e la voglia di scoprire quella stessa terra, da parte di un turismo pellegrino che chiede verità, sincerità ma anche godimento.

 

Potrà contribuire a far conoscere meglio ed apprezzare
la cornucopia di odori, colori, sapori del Sud?

 

Lo sta già facendo e attende soltanto i suggerimenti di opinion leader e maker che interpretano al meglio tanti valori e desideri. È un’opera aperta da scrivere insieme. 

 

Un recente sondaggio condotto tra i pellegrini delle Francigene
ha portato alla luce le differenti motivazioni che spingono
i viaggiatori a ripercorrere questo storico itinerario religioso.
I risultati sono sorprendenti: solo il 10 per cento lo compie 

perché spinto dalla tradizionale molla della fede, il 22 per cento 

è spinto da ragioni culturali, il 17 per cento per cercare
percorsi alternativi al turismo di massa. Terrete conto
di queste motivazioni per comporre il calendario
degli eventi della prossima edizione del Festival?

 

Le chiedo. Quando lei mangia un gustoso minestrone, giudica la pietanza nel suo insieme o disquisisce di ogni ortaggio? Io, ad esempio, quando la mattina prima di camminare mi chiedono se sono credente o meno, rinvio la risposta alla sera, quando stanchi e felici sembra una domanda inutile o, come si diceva, sovrastrutturale. Camminare è fratellanza, condivisione, spiritualità e, per chi crede, religione e fede. Comunque, a onor del vero, altre analisi elevano la percentuale dei credenti.

 

 Quale sarà la proposta, l’iniziativa più significativa
del Festival nel 2018?

 

Stiamo faticando, senza risorse e armati solo di passione, per creare il Festival veramente Europeo dei Cammini, per ogni cammino. Ben sappiamo infatti che la Via di Santiago e la Via Francigena sono per antonomasia le “Vie traino” ma che in nulla offuscano i mille altri itinerari di fede, cultura, natura e coesione sociale. Dunque, confidiamo nei suggerimenti, proposte e nuovi progetti di cammini per l’8° Festival Europeo dei Cammini, francigeni, romei e di ogni altra ispirazione perché, ripetiamolo, i Cammini sono la linfa vitale che connette e condivide le eccellenze borghigiane. Un fitto reticolo che, muovendo dalla conoscenza per antonomasia della Via Francigena, traversa i nostri territori innervandone bellezza e ospitalità. E il Festival, in ciò, ne è il messaggero, il buon lievito del pane che alimenta l’hardware, favorendo la fruizione sociale, culturale ed economica di questo vasto scrigno paesaggistico. Dunque, Buon Cammino.

 

 

 

 

nonsolo fede e sudore

Sono trascorsi più di mille anni dal primo, storico viaggio a Roma di Sigerico, neoconsacrato arcivescovo di Canterbury. Ricevuto il pallio, durante il rientro nella sua sede vescovile, l’alto prelato descrisse minuziosamente le 79 tappe che si dovevano rispettare per percorrere, a piedi o a cavallo, i quasi duemila chilometri che separavano (e separano) la capitale della cristianità dalla terra degli Angli, all’epoca fresca di evangelizzazione. Altri monaci avevano compiuto lo stesso percorso prima di lui, ma Sigerico fu il primo a documentare la mappa precisa dell’itinerario e delle inevitabili soste. 

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IL ROMANZO DEI CAMINANTI di Alessandro Gaudio – Numero 9 – Dicembre 2017

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 IL ROMANZO DEI CAMINANTI

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Cos’è un camminante (o caminante, in siciliano)?1
Quali tracce hanno lasciato i Camminanti lungo il corso dei loro molteplici itinerari attraverso tutta l’Italia? Specialmente dal 1952,
quando molti di loro si insediarono a Noto, a Priolo,
a Sommatino e in altri centri siciliani,

 

principalmente nella provincia di Caltanissetta, e poi, negli anni Settanta e Ottanta dello scorso secolo, come si è evoluto il loro legame con il mondo esterno? Cosa resta oggi delle loro attitudini originarie? Grazie a un bellissimo documentario di Giuseppe Tumino, regista indipendente ragusano trapiantato in Basilicata2, e della fotografa Rita Mirabella, ideatrice del soggetto e co-regista3, possiamo tentare di dare una risposta a tali quesiti. Dal lavoro − intitolato Il segreto dei Caminanti (Italia – 63′), uscito nel 2016 per Extempora e realizzato con il sostegno della Sicilia Film Commission − apprendiamo, se non altro, il modo in cui quel legame, non certo dei più labili, si è sviluppato nel tempo. Sulla sua consistenza e il suo peso sembra aver influito la scelta di stabilirsi in alcuni luoghi, di disporre di qualcosa che appartenesse finalmente a loro, di una casa, nella quale abitare durevolmente, di arredi, di alcuni oggetti, senza che, del resto, tale scelta abbia mai modificato la loro attitudine di nomadi.

 

La ricostruzione di questa attitudine, dell’universo del camminantismo, della filosofia e della ratio alla base del fenomeno, è giocata nel film sull’individuazione di alcuni concetti chiave, il principale dei quali
pare senz’altro essere quello di miseria.

 

è la miseria il motivo cardine del nomadismo di un popolo che, a quanto pare, sbarcò in Sicilia già alla fine del XIV secolo, al seguito dei profughi Arbëreshë che Carlo V stanziò nell’Italia meridionale per rinforzarne le difese contro la minaccia degli Ottomani? Pur dovendo sospendere ogni conclusione sull’autoctonia o sulla ziganità di antica data di questa comunità, sembra proprio così; tuttavia, non è il solo presupposto. C’è qualcos’altro cui pare che alluda anche il titolo del film. 

 

Alla miseria dei Camminanti – un tempo conciabrocche e stagnini, ora riparatori di cucine a gas e d’ombrelli e venditori di palloncini – Tumino e Mirabella si accostano lasciando che le immagini e le persone stesse parlino il più possibile per conto loro.

 

Alle immagini si aggiunge un uso contrappuntistico della musica, spesso a mo’ di vero e proprio commento ironico. Si tratta, nella maggior parte dei casi, di componimenti neomelodici napoletani, prima ancora che popolari, prediletti dai Camminanti medesimi. Le parole delle canzonette di Mario Merola, di Gianni Celeste o di Angelo Mauro, richiestissime star del genere, integrano o, talvolta, contraddicono il senso di una immagine o la reticenza di una dichiarazione. Aggiungono una sfumatura laddove questa non sia immediatamente deducibile da quell’immagine o da quella laconica asserzione. In fondo, i registi costruiscono il loro film proprio sul non detto, pur avendo scelto di servirsi di modalità cineastiche che recuperano la concretezza dell’esperienza umana, concentrandosi non tanto sulle cose in se stesse, quanto sulle storie di alcuni uomini vivi nelle cose. Passando dall’uomo − in particolare, dalla storia e dalle parole di Antonino Rasizzi Scalora4 e della sua famiglia − ed eliminando ogni commento fuori campo, Tumino e Mirabella trovano una misura, un controcanto mai meramente emotivo o incantato o mitizzato che consente loro di liberarsi della struttura ideologica del documentario e del suo soggetto: i diversi intervistati rispondono con le loro voci, senza doppiaggio, 

 

e la fotografia s’impone come mezzo privilegiato dell’analisi della realtà, alternando veloci fotogrammi con inquadrature lunghe e fisse, in modo da definire la staticità di un volto, l’accendersi improvviso di uno sguardo o il peso di un gesto, come se fossero scolpiti in un tempo
eternamente presente, di fatto sottratto alla storia.

 

I registi, che non possono comunque limitarsi a mostrare, di fatto partecipano alla rappresentazione. Lo fanno, osservando, intervenendo sul sentimento del film. Ciò non significa affatto indulgere nel sentimentalismo, ma prediligere alcune modalità di figurazione: l’alternanza delle inquadrature, il montaggio serrato, la presa diretta di parole e spesso di suoni, rumori e musiche sono tutti accorgimenti che consentono di tradurre in termini audiovisivi tanto le dinamiche endogene del gruppo di Camminanti quanto le complesse e spesso difficili relazioni con l’esterno.   

 

Tumino e Mirabella vanno ben oltre la fascinazione che può originarsi dall’osservazione di una tribù di nomadi semistanziali e fornitori di servizi5, scegliendo di curare il nesso con i gaggi, vale a dire con i non camminanti.

 

Se si vuole indicare lo spazio di rappresentazione individuato da
Il segreto dei Caminanti bisogna cercarlo laddove la vita e le esperienze di questo popolo incontrano il nostro mondo, quello sul quale continuano a camminare («il camminantismo – assicura uno di loro – non si fermerà mai; come la rondine che non resta in gabbia»).

 

Si tratta dello spazio dell’immaginario e non è affatto scontato che un film riesca sempre a intercettarlo. Tumino e Mirabella ci riescono ponendo su quello spazio le eterne problematiche dell’integrazione e della comprensione dell’altro. Contribuiscono, per così dire, a colmare quel vuoto di immaginazione nel quale troppo spesso si è deciso di relegare questa gente. Lo hanno fatto con la passione e la sensibilità che filtrano da un lungo lavoro di ricerca (cui Rita Mirabella si è dedicata sin dalla fine degli anni Ottanta), senza rinunciare a mostrare le ombre, le cose poco scoperte, i simboli (significativo quello della rondine, ad esempio, talvolta ferita), le reticenze del baccaglio (il singolare linguaggio usato per non farsi capire), le superstizioni e le tante contraddizioni di questo popolo nel popolo. Presentano anche i tentativi di auto-rappresentazione operati dagli stessi Camminanti e, valutandoli alla luce della loro storia, delle rinunce alla loro libertà e alle specificità della loro cultura, ne registrano il fallimento. Questo fallimento, che pertiene anche al modo in cui i non camminanti si sono rappresentati questa comunità, qualcosa significa. «Cos’è un camminante?» − si chiede Antonino, il protagonista, alla fine del documentario. E arriva, subito dopo, alla conclusione che no, non c’è definizione che si possa dare, non c’è paragone che si possa fare. E non risiederà magari proprio in questa diffusa impossibilità di rendersi comprensibile uno dei motivi, forse il principale, della mancata integrazione di questa comunità?

 

Tutto sommato, sembra che la storia dei Camminanti, essendo interamente chiusa nel presente, sia rimasta in ombra per secoli
rispetto all’avanzare del progresso.

 

è quanto sostiene Sebastiano Vassalli nel ventiduesimo capitolo, intitolato Il camminante, del suo romanzo più noto, La chimera. Vassalli racconta di Gasparo Bosi, tra i Camminanti del basso Piemonte meglio conosciuto come Tosetto, che, nel tentativo di difendersi e di difendere il modo della sua esistenza, si chiude nel suo io, vivendo di appagamenti elementari; si costituisce, cioè, come personificazione di una esistenza votata al romanzo, dice Vassalli, rifacendosi alle testimonianze sui Camminanti fornite dagli scritti di Antonio Massara, letterato e studioso novarese vissuto tra Ottocento e Novecento. E allora, con Vassalli, proviamo a fornire qui una definizione di Camminante.   

 

Cos’è un Camminante se non un romanzo? Romanzo che nessuno si sarebbe sognato di scrivere perché vissuto interamente nel presente del suo essere Camminante, fatto di sofferenza fisica, indifferenza e discriminazioni.

 

Il destino comune a tutti i Camminanti è memorizzato, commemorato, trasmesso di generazione in generazione attraverso la famiglia,
il lavoro, le musiche. 

 

Sebbene la scuola pubblica italiana integri il passato nazionale nello spirito dei ragazzi Camminanti che la frequentano in numero sempre maggiore6, essi rivivono le angosce, i lutti, le poche vittorie della loro esperienza di vita. è proprio nel dolore e nella sofferenza della loro specifica condizione che i Camminanti individuano la loro visione del mondo, la loro immagine, la metafora palpitante della loro vita.

 

L’identificazione con questo passato, che continua inesorabilmente
nel presente, rende quella dei Camminanti una specie di comunità
di destino, i cui limiti, fatti di una miseria che si teme, ma che si
usa per vivere, non sono facilmente superabili nella riflessione
o in qualcosa che risieda al di là di quella comunità medesima.

 

Così, come conclude Vassalli, «un camminante è un camminante e basta»7: una tautologia − dunque non quel paragone che Antonino non riesce a formulare − che restituisce pienamente lo spirito cui si sono attenuti anche Tumino e Mirabella nel tentare di scrivere il romanzo di uomini di cui si parla da secoli ma che, contro ogni evidenza e nonostante il loro profondo legame con la vita e con il mondo, non sono mai esistiti.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

[1] Sulla comunità dei Camminanti, di cui si era occupato Giuseppe Pitrè sin dalla fine dell’Ottocento, si veda il documentario andato in onda il 12 dicembre 1989 all’interno della rubrica Binocolo di Maria Grazia Mazzola, intitolato I camminanti e diretto, per la RAI, da Rita Calapso. Si considerino, poi, la tesi di laurea di Rita Paola Toro, di cui «Lacio Drom», rivista del Centro Studi Zingari (all’interno del n. 3-4 del 1991, pp. 4-79), ha pubblicato un’ampia sintesi, il volume di Teresa Schemmari, I Caminanti. Nomadi di Sicilia (Firenze, Atheneum, 1992) e i lavori di Sebastiano Rizza, apparsi su «Lacio Drom», negli anni Novanta, su «Italia Romaní», nel corso del decennio successivo e, più recentemente, sui «Quaderni di Semantica», tutti per lo più dedicati al bbaccàgghiu, il gergo usato dai nomadi siciliani. Se ne riportano qui di seguito i titoli più significativi: I ‘gizi’ di Sicilia erano zingari?, «Lacio Drom», settembre-ottobre 1991, n. 5, pp. 27-28; Alcune note: Tre voci ebraiche nel gergo dei Camminanti di Noto, «Lacio Drom», marzo-aprile 1993, n. 2, p. 25; Alcune note: Un blasone popolare zingaro, ivi, pp. 25-26; Zingari in Sicilia fra magia e religiosità popolare, «Lacio Drom», maggio-giugno 1995, n. 3, pp. 13-16; Genesi e metamorfosi dello “zannu” siciliano, «Italia Romaní» (a cura di M. Aresu e L. Piasere), Roma, CISU, 2008, vol. V, pp. 166-184; Tabbarari a mašcu: viaggio nel gergo dei caminanti siciliani, «Quaderni di Semantica», n. 2, 2012, pp. 291-308; Bbaccagghiu sic. e parlèsia nap.: due gerghi a confronto, «Quaderni di Semantica», n. 1, 2014, pp. 125-133; L’elemento zingarico nel bbaccàgghiu dei caminanti siciliani, «Quaderni di Semantica», n. 2, 2016, pp. 191-217.
[2] Giuseppe Tumino ha diretto documentari, cortometraggi, tra i quali Beddu nostru signuri (2’52”-2005), Terramadre (15’-2012), Abbiamo raccolto le pietre (23’-2008) e Atti e scene in luogo pubblico (25’- 2014), nonché diversi lavori sull’intercultura e alcuni videoclip. Sta lavorando alla sceneggiatura del suo primo lungometraggio. 

[3] Di Rita Mirabella si veda l’interessante indagine fotografica intitolata Caminanti siciliani, pubblicata su «Italia Romaní» (vol. II, a cura di L. Piasere, Roma, CISU, 1999, pp. 37-46); della stessa si consideri anche Parole di Caminanti, «Italia Romaní» (a cura di S. Pontrandolfo e L. Piasere), Roma, CISU, 2002, vol. III, pp. 199-237. 

[4] La foto che lo ritrae è un frame del documentario. L’altro scatto è di Marcello Bocchieri. 

[5] Cfr. D. Nemeth, Nomadi fornitori di servizi: signori temporanei di mercati imperfetti, in L. Piasere (a cura di), Comunità girovaghe, comunità zingare, Napoli, Liguori, 1995, pp. 231-248.

[6] Nel 2010 i Camminanti iscritti alle scuole pubbliche di Noto erano quasi 4 mila e costituivano il 40 per cento della popolazione scolastica. Tra i diversi studi dedicati all’analisi del processo di educazione scolastica di questa comunità, si veda A. Palazzolo, Noto. L’inclusione scolastica dei Caminanti siciliani, in Rom, Sinti e Caminanti e comunità locali. Studio sulle condizioni di vita e sull’inserimento nella rete dei servizi socio-assistenziali nel Mezzogiorno, Roma, maggio 2010, pp. 146-161. Si considerino anche S. Taccone, Dove i caminanti hanno trovato casa. Esperienza di integrazione a Noto, «Popoli e missione», maggio 2010, pp. 10-15 

 

 

 

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MORREMO TUTTI QUI di Alessandro Gaudio – Numero 8 – Luglio 2017

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MORREMO TUTTI QUI

 

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erano piaciute le deformazioni espressioniste e grottesche della narrazione, ma ciò non era bastato per accordarle, infine, dignità di stampa, in quanto «la cornice di storia paesana [soffocava] − a detta di Calvino − l’interesse delle pagine più vive».[1] Questo difetto e altri convinsero Lazzaro, traduttore e poco conosciuto scrittore, nato nel 1912 in un più che sperduto paesino calabrese, a lasciare il manoscritto in un cassetto, fino a quando non venne pubblicato postumo, nel 1987, a diciotto anni dalla morte del suo autore. Pur tuttavia, a distanza di altri tre decenni, appaiono ancora evidenti quelle virtù intraviste dai lettori di allora.[2]

 

Al centro della vicenda c’è la vita − tanto miserabile quanto grottesca, nella descrizione che ne fa lo stesso Lazzaro − di un indefinito villaggio del meridione d’Italia, avvinto in un mortale silenzio, i cui mille abitanti 

vengono sterminati da una misteriosa e fulminea epidemia.

 

È servendosi delle armi dell’ironia e dell’allucinazione che lo scrittore di Motta Filocastro[3] quasi arriva a suggerire come le cause del tragico evento vadano fatte risalire all’attitudine di quegli uomini per superstizione e fatalità o, più sinteticamente, a una bestemmia o, meglio ancora, a una specie di eccesso di immaginazione. Non può essere considerata trascurabile la portata di un espediente di ordine creativo in grado di legare così finemente l’oscurità della miseria alla luminosità della fantasia.

 

E, d’altronde, neanche un’evasione di massa salverebbe il villaggio di 

Mille anime dalle persecuzioni dei santi o dall’attesa senza fine dei loro miracoli. Né, tutto sommato, risolverà alcunché 

la scomparsa dei suoi abitanti:

 

bisognerebbe, piuttosto, ristabilire il corso del tempo, ricollocarsi nel ritmo della vita, oppure − secondo Michele, amico e maestro del protagonista − «mutare il corso del sole e delle stelle, la direzione dei venti, l’animo degli uomini»;[4] purtroppo, non si può. Tale consapevolezza provoca uno sgomento diffuso che, progressivamente, finisce in una inesorabile brama di morte, di autodistruzione, quasi di ritorno a uno stato inorganico.

 

Lazzaro racconta di una esistenza inerte, resa ancor più opprimente dall’immobilismo fascista (cui più volte si riferisce, neanche troppo sommessamente, lo scrittore)[5] e popolata da corpi senza vita, 

oltre che da fantasmi.

 

Sogni, ombre e magàrie incombono sul villaggio, di volta in volta percepito come «un terribile e gigantesco ragno con volto umano che urla spesso di dolore»,[6] come un «carcere della miseria»,[7] «un morto lago da cui emergono grigi fantasmi senza epoca»,[8] spesso colto in «un’immobile e vitrea luce lunare, e, lontano, il mare come un gran lago di mercurio chiuso dalle ombre azzurre delle isole e dominato da Mahammetta»,[9] che non è che uno di quei fantasmi.    

 

Eppure, si tratta di fantasmi − la Vergine di Romania, San Nicola di Bari, San Rocco di Mileto, San Giuseppe il Corto, San Giuseppe il Lungo e molti altri − le cui proprietà e azioni sembrano essere sottomesse alle medesime leggi del mondo visibile e che non posseggono, dunque, uno statuto soprannaturale. Sarà per questo che da essi non si genera alcuna azione, né essi costituiscono un motivo di evasione in un mondo misterioso all’interno del quale la ragione non possa penetrare. Un quadro così interamente improntato sulla reificazione collettiva dell’immaginario presuppone, sul versante opposto, un’idea di letteratura che, ironicamente, si ponga come osservazione razionale difficile da mettere nel sacco, ma che, tuttavia, allo stesso modo del quadro che delinea, è incline a quell’amarezza che erompe tanto dalla scrittura quanto dalla miseria.

Certo è che laddove, da un lato, troviamo la disperazione del villaggio, quell’«irreparabile merdaio»,[10] con le ottusità e l’apatia che pervadono chi vi abita, dall’altro, c’è l’enorme spettro dell’immaginazione,

 

dal quale l’autore di Mille anime recupera la materia − fatta di memorie, miti e superstizioni − diffusa tra il popolo, con l’intento di normalizzarla, il più delle volte mediante l’ironia. Esemplare, nel realismo fantastico che riesce a prefigurare, quella di un contadino che, entrato in chiesa a ora insolita, parla in questi termini ai suoi fantasmi:

 

O Vergine di Romania, se non sei una svergognata, mandaci la pioggia. O San Nicola di Bari, se non sei più cornuto delle tue vacche, 

 mandaci una goccia d’acqua.[11]


In nessuna occasione, tale processo di normalizzazione, è bene precisarlo, sfocia in una considerazione votata all’indulgenza; anela, invece, alla rottura del cerchio, a mostrare che quanto meno sia possibile porsi contemporaneamente nel tempo e fuori di esso. Possibilità che sembrerebbe essere negata dal finale del romanzo (e anche dall’inesorabile frase di Michele che ho scelto come titolo per questa nota), ma che forse risulta, anche solo per un istante, avvalorata dall’idea dalla quale la narrazione è generata e dalla struttura d’insieme acutamente canzonatoria per la quale Lazzaro propende e che neanche Calvino aveva compreso sino in fondo.

 

 

   

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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 [1] Lo rivela lo stesso Lazzaro in una nota del 1968, pubblicata poi in appendice a P. Lazzaro, La stagione del basilisco [1968], Milano, Jaca Book, 2003, pp. 139-142; nella nota è inclusa una lettera di Calvino, datata 17 maggio 1957, dalla quale è desumibile il parere di lettura cui si fa rifermento (p. 142). [2] Delle mille anime di Motta Filocastro, da una prospettiva antropologica, si parla anche in V. Teti, Il senso dei luoghi. Memoria e storia dei paesi abbandonati, Roma, Donzelli, 2004, pp. 361-370. [3] Si tratta di una frazione di Limbadi, paese di poco più di tremila abitanti, oggi in provincia di Vibo Valentia, situato tra Tropea e Rosarno. Dall’alto del centro abitato, sede di confino politico negli anni del fascismo, si vede tutta la piana di Gioia Tauro e il porto. Sul muro di una casa abbandonata di Mandaradoni, altra frazione di Limbadi, sta lentamente sbiadendo un dipinto che ritrae la faccia del duce (e che era accompagnata dalla seguente didascalia: « Solo Iddio può piegare la volontà fascista, gli uomini e le cose mai»). Sono state scattate nel 2017 da Annalisa Lentini le foto che ritraggono il Mussolini di Mandaradoni e uno scorcio di Limbadi.[4] P. Lazzaro, Mille anime, Milano, Jaca Book, 1987, p. 45. Anche il titolo di questo intervento è parte del concetto espresso qui da Michele. [5] Il riferimento, si intende, è sempre condotto in chiave ironica, come, ad esempio, nella frase che si trascrive: «Gridarono alalà quasi tutti, sconcertati dal tono di lui e dal mistero che quella incognita parola introduceva nel nostro Villaggio. […] E qualche caposcarico andava recitando la seguente banale filastrocca: Alalà, Alalà / tua sorella l’ha fatta o la farà?» (ivi, p. 87). [6] Ivi, pp. 24-25. [7] Ivi, p. 45. [8] Ivi, p. 46. [9] Ivi, p. 72. [10] Ivi, p. 9. [11] Ivi, p. 15.

 

 

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