NICOLA PECCHENEDDA DA POLLA di Nadia Parlante – Numero 12 – Ottobre 2018

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NICOLA PECCHENEDDA  DA POLLA

 

 

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Soprattutto autentica, efficace, comunicativa. Un “corpus” di opere davvero immenso quello dell’artista di Polla, non ancora definitivo che, di anno in anno, si arricchisce di nuove scoperte autografe, come le splendide Nozze di Cana e La Piscina Probatica, forse bozzetti per opere di maggiori dimensioni, rintracciate in una collezione privata fiorentina.

Dalla natia Polla, nel salernitano, Nicola Peccheneda di strada ne aveva fatta tanta.


Le modeste commissioni di paese, poi la decisione maturata in famiglia di andare a Napoli a perfezionarsi nell’arte della pittura e del disegno in qualche bottega importante. 

 

Nella capitale del Regno dei Borbone si era trasferito da tempo suo fratello Francesco, esperto giureconsulto che non tarderà ad inserirsi nell’ambiente cortese, uomo stimatissimo dallo stesso sovrano tanto da essere promosso, anni dopo, all’ambita carica di segretario della Real Camera di Santa Chiara e caporuota. Mastro Carlo “fabricatore”, il padre di entrambi, aveva messo su un’impresa edile di tutto rispetto che l’arte di Nicola, una volta rientrato al paese, avrebbe impreziosito con il suo operato.

E così fu. Una famiglia, quella dei Peccheneda di Polla, di “mastri” muratori, 

artigiani sapienti e operosi che in maniera capillare, ha lavorato 

sinergicamente tra Basilicata e Campania,.

 

supportata dall’opera talentuosa di Nicola, che nelle chiese realizzate dall’impresa paterna e in molte altre, ha lasciato dipinti e ampi cicli pittorici distintivi per originalità e fattura. 

 

Polla, Atena Lucana, Sant’Arsenio, Padula, Caggiano, Sassano, Vibonati, Buccino, Altavilla Silentina, Petina, Giffoni Valle Piana, Marcianise (CE), senza escludere le molteplici commissioni lucane: Melfi, Marsiconuovo, Brindisi di Montagna, Picerno, Brienza… Non si contano poi le opere distrutte o disperse.

 

I primi studi sull’artista e la sua bottega, effettuati dagli studiosi Vittorio Bracco 

e Antonella Cucciniello, sono stati favoriti dalla riscoperta e dalla necessità 

di catalogare l’immenso patrimonio artistico ferito dal sisma del 1980

 

ed hanno fatto luce su una vicenda esistenziale e artistica tutt’altro marginale della pittura devozionale campana del XVIII secolo, favorendo la valorizzazione, il restauro e la giusta ricollocazione storico-critica delle sue opere, che si va ulteriormente arricchendo ma certamente non può ancora dirsi conclusa. I notevoli apporti documentari degli ultimi venti anni, hanno tracciato un profilo meno incerto della sua attività artistica e quella della fiorente impresa edile familiare, che tuttavia andrà ulteriormente indagata, soprattutto per quanto riguarda il periodo della formazione napoletana, ancora piuttosto lacunoso di informazioni. 

 

Il pittore, che si era formato nell’ambito della cultura raffinata della capitale del Regno, allora all’apice di una stagione artistica senza precedenti, pur avendo la possibilità di inserirsi nell’entourage cortese napoletano, scelse la periferia come luogo di vita e di lavoro, riuscendo ad “importare” i fortunati modelli napoletani di matrice solimenesco-demuriana, innestandoli in un linguaggio personale e distintivo, senza mai perdere il senso di una coerenza stilistica che rimane sostanzialmente fedele a se stessa.

Tale formula espressiva conciliò le esigenze devozionali del popolo 

e quelle della committenza, assicurandogli molto lavoro

 

senza tuttavia negare al pittore una certa libertà personale e la possibilità di realizzare le sue aspirazioni sociali, spiccatamente antibaronali, che gli aprirono anche le porte della politica. Una vicenda singolare quella dei due Peccheneda, l’artista e l’avvocato, i fratelli di Polla che, grazie alla loro intraprendenza e capacità, riuscirono a superare le barriere sociali della loro umile nascita e a guadagnarsi l’ammirazione dei contemporanei e la considerazione dei posteri, ponendosi a modello di quella nuova borghesia che faticosamente tentava di emergere dal mai sopito strapotere feudale, e proprio al culmine del secolo dei Lumi, ribadiva attraverso la forza delle idee e dell’arte, l’inesauribile e sapiente vivacità creativa e intellettuale della periferia.

 

 

Quello di Nicola Peccheneda è un linguaggio pittorico inconfondibile, ricercato e contemplativo che, dopo quasi tre secoli, riesce ancora a coinvolgere chi entra nelle chiese della Basilicata e del Vallo di Diano e a trasportarlo in un’atmosfera velata, plasmata da una devozione dai toni classici, aulica e popolare allo stesso tempo.

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ALESSANO, LA PIAZZA DEI DUE CASTELLI di Giusto Puri Purini – Numero 12 – Ottobre 2018

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ALESSANO,  LA PIAZZA dei due castelli 

 

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importante borgo del sud Salento, chiamato Messapia dai Greci, “terra fra i due mari”, non si può prescindere da un balzo a ritroso nella storia tumultuosa della penisola salentina, protesa nel Mediterraneo e terra di approdo per tanti naviganti, lontana dai condizionamenti dei grandi centri urbani di allora, Roma, Sparta, Atene.

Vennero dall’Oriente i Messapi e gli Spartani, che occuparono le terre dei Dauni 

e dei Pucezi dando inizio ad una rivalità secolare, narrata da Erodoto, 

che non finiremo mai di ringraziare per le sue cronache 

puntuali e precise.


In molti dei miei viaggi ho seguito con cura i suoi racconti, dalla Puglia salentina alle lontane porte dell’Anatolia ai confini con la Siria. Memorabile la vista da lui descritta, in un viaggio via mare, lungo le coste della Lycia (nel 300 circa a.C.), delle migliaia di fiammelle che sgorgavano dalla terra, lungo i declivi dei monti circostanti, discendenti verso il mare, accanto all’Olimpia Jonica, a ricordare lo schianto al suolo della Chimera, colpita dal dardo infuocato di Bellerofonte.

Lucani e Messapi, popoli di grandi guerrieri, sconfissero gli spartani 

di Taras (Taranto) nel 473 a.C., consolidando, fino alla conquista romana,

 la supremazia sulla “Calabria”, l’antico nome della penisola salentina.


L’avvenimento fu ricordato da Aristotele che precisa: “Accadde un po’ dopo che i Persiani invasero la Grecia.” Queste premesse ci fanno capire l’impronta profonda e strutturale che i Messapi lasciarono sul territorio. Guerrieri e contadini, lo trasformarono profondamente con le loro architetture megalitiche, facendo largo uso del duro, morbido zoccolo di pietre calcaree, di cui il territorio salentino è composto, aprirono inoltre nuovi itinerari e rotte nel basso Mediterraneo. Anche Tucidide li cita, nella sua Storia, durante la guerra del Peloponneso, tra Atene e Siracusa, dove furono caricati, alle isole Cheradi (Porto Cesareo), 150 lanciatori di giavellotto messapi, capitanati da Arta, un potente capo locale. La dodecapoli messapica nella penisola salentina, vedi l’analogia con quella etrusca, riguardava 16 città, di queste Vereto, dista pochi chilometri da Alessano.

La lunga dominazione romana dal 230 a.C. portò nel Salento 

infrastrutture e opere pubbliche,


come la via Appia fino a Brindisi, che divenne un porto importantissimo per Roma, con lo scalo verso la Grecia e l’Oriente lontano, vi fiorirono in quei tempi anche grandi personalità ed artisti, quali Livio Andronico, Quintinio Ennio e Marco Pacuvio. A Brindisi tristemente morì il grande Virgilio. Ai Romani succedettero i Bizantini, i Longobardi, poi i Normanni, i Veneziani, gli Svevi, gli Angioini, gli Aragonesi, infine i Borboni. Molteplicità di culture intrecciate ed a volte fuse, determinarono un’unicità del Salento, terra dalle fondamenta strutturali antropologicamente potenti ed aperta verso le terre d’oltremare. Durante la dominazione Angioina, Alessano fu capoluogo di Contea, dal mare di Capranica del Capo fino alla dorsale di Specchia.

Alessano, quindi, ebbe il suo momento di massimo splendore e sviluppo 

tra il XV ed il XVI secolo,


importanti famiglie nobiliari si succedettero, i Della Ratta, i Del Balzo, i De Capua, i Gonzaga, i Guarini ed altri, garantendovi il prestigio e lo sviluppo del territorio. S’insediarono anche numerose famiglie di mercanti-commercianti veneziani ed una piccola comunità ebraica, il centro città si arricchì di numerosi palazzi in stile rinascimentale e si svilupparono arte e cultura. 

 

In particolare il Palazzo Ducale ed il Palazzo Sangiovanni, rispettivamente, oggi, della famiglia Sangiovanni e di una importante famiglia belga, gli Adriaenssen, affacciati entrambi sulla stessa piazza, Piazza Castello, sul cocuzzolo più alto di Alessano, a coronamento finale di un centro storico ricco e modulato.

Il Palazzo Ducale, importante centro di cultura durante il governo dei Gonzaga, 

è un castello fortificato a forma di quadrilatero,


con torri e merli ed un ampio parco giardino e frutteto all’interno. Fu realizzato nel tardo ‘400 durante il governo dei feudatari Del Balzo, di cui resta memoria nella stella a sedici punte, simbolo della casata.

La facciata del Palazzo Sangiovanni, invece, riprende il motivo 

delle bugne diamantate del Palazzo dei Diamanti a Ferrara,


all’interno una struttura architettonica più articolata, immersa nei giardini di frutta e negli oliveti secolari. 

 

“Il Palazzo S.Giovanni” o la “casa del Mercante” (o la “casa del Cavaliere”) e le “Silenti Attenzioni” del Vasari. Palazzo dei Diamanti o Sangiovanni ad Alessano (Lecce)…così si chiama il capitolo a cura di Ferruccio Canali e di Virgilio Carmine Galati, dedicato ad “Alessano, la più grande Signoria del Salento meridionale, lo sviluppo urbano e i suoi Palazzi tra Quattro e Cinquecento”. Scrive Galati: “Alla severità dei fortificati anni precedenti, nel tardo Cinquecento compaiono vezzi di gusti antiquari come finestre che richiamavano quelle realizzate da Giorgio Martini ad Urbino, oppure decorazioni a bugna di diamante, estese circoscritte o a filari verticali scalati zigzaganti ed ancora paramenti a fasce bicromatiche.

Un nuovo modello decorativo, se non tipologico si era dunque fatto strada 

anche nella parte meridionale del ‘Golfo di Venezia’ dall’Apulia al Salento,


all’interno dei gruppi baronali e nei ceti emergenti (con singolari realizzazioni anche in Sicilia e Campania)”. Le corti feudali procedevano ad un aggiornamento e ad una qualificazione delle loro residenze, mentre i mercanti, arricchitisi con i traffici transadriatici, caratterizzavano le loro abitazioni. Leandro Alberti ricorda Alessano così:

“Alessano con luoghi ben coltivati, ed ornati di belle vigne, di olive, di aranci e di altri alberi fruttiferi, che paiono giardini, dando gran piacere ai ‘Riguardanti’”.

Oggi, i due Palazzi, lassù, nell’alto di Alessano, Piazza Castello, in parte ristrutturati con l’intervento di validi architetti, godono della fortuna di aver avuto 

proprietari avveduti e ricchi d’iniziative.


Entrambi i Palazzi si aprono al pubblico, a momenti, in un fervore d’iniziative artistiche e culturali, ora mostre, concerti, avvenimenti, ricevimenti, incontri con moderni “viandanti” italiani ed europei, alla ricerca di quel mondo semi-nascosto italiano, che dovrebbe diventare permanente, pieno di quei tanti tesori d’arte e di cultura, punti di riferimento della continuità storica di Alessano.

 

 

 

 

 

 

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SAN CLEMENTE A CASAURIA E I SUOI DUE PADRI di Gianluca Anglana – Numero 12 – Ottobre 2018

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SAN CLEMENTE A CASAURIA

 

 

E I SUOI DUE PADRI

 

Mandrie di bovini osservano impassibili gli itinerari degli umani. Cavalli allo stato brado brucano con indifferenza. Dal fianco della montagna risalgono nuvole. Panorami da Gustave Doré. 

Una bambagia di nubi sembra poggiarsi soffice sulle sommità spoglie. È quassù che si rende omaggio al Sovrano degli Appennini. Il “Tibet d’Italia” accoglie i viandanti del ventunesimo secolo, pellegrini versione 2.0. Un mare di verde. Onde di pascoli disegnano avvallamenti che paiono curve di donna.

 

Rocca Calascio all’imbrunire: quando ormai il profilo dei monti è solo un acquarello su carta di riso. Questo è un luogo stupendo e spettrale a un tempo. Le rovine dell’antica fortezza svettano sulle cime. Tra le pietre erose dal tempo, il vento sibila: sembra il lamento di una qualche Catherine che tormenta ancora il suo Heathcliff. 

 

L’Abruzzo e la bellezza. L’Abruzzo e il silenzio.

 

La quiete è quella dell’Abbazia di San Clemente a Casauria,


contrada di Castiglione a Casauria, provincia di Pescara. La riconosci subito dalla sua squadrata austerità. Il suo portico è solenne e severo: si apre in tre archi, di cui solo i laterali a sesto acuto.

 

Questa magnificenza si deve a due uomini.

La sua fondazione certamente a un Franco: Ludovico II1


Oltre che Imperatore, Ludovico divenne anche Re d’Italia e fu particolarmente attivo nelle regioni meridionali della Penisola. Ebbe molti grattacapi. Faticò non poco per tenere a bada i Saraceni a Sud2; indispettì i Greci piantando in asso la figlia del Basileus Teofilo preferendole Engelberga dei Supponidi3, una delle famiglie più influenti dell’aristocrazia franca (mogli e buoi…); litigò a più riprese con Papa Niccolò I e soprattutto entrò in conflitto con il principe beneventano Adelchi. Costui gli si ribellò nell’871, aizzandogli contro i dignitari del Ducato: la coppia imperiale fu tenuta in cattività per un mese intero e liberata solo dopo avere «promesso di non cercare di vendicarsi e soprattutto di non ricomparire più con le sue schiere nel territorio di Benevento»4. Dopo il rilascio, Ludovico piegò su Roma: qui ricevette da Papa Adriano II le reliquie del martire Clemente.

È in questi anni, precisamente a partire dall’871 secondo il Chronicon Casauriense (oggi conservato alla Bibliothèque Nationale de France)5, che l’Imperatore 

ordinò di erigere in Casauria un monastero


(dapprima dedicato alla Santissima Trinità, quindi appunto a San Clemente), che si ergesse come segno inequivocabile della sua presenza rispetto all’Italia meridionale anarchica. 

 

Un simbolo della maestà imperiale o un gigantesco ex voto per la fine della prigionia.

La Regola fu quella di San Benedetto.


Forte della sua posizione strategica
«lungo il fiume Pescara, ai confini dei ducati di Spoleto e Benevento e presso la Via Claudia-Valeria, l’Abbazia al tempo dell’Abate Lupo nel 911 vantava i possedimenti in quasi tutta la regione»6. Per via delle cospicue donazioni, il Monastero condivise con altri del suo stesso ordine la medesima sorte scintillante.7

Poi il buio, dovuto all’invasione dei Saraceni nel 916 e a quella dei Normanni 

nel 10768.  Il Cenobio ritrovò il suo splendore solo grazie a Leonate, 

consacrato abate nel 1156


Costui intendeva restituirgli lustro: fu anche per questo che ne concepì la facciata come una sorta di accesso trionfale, perché fossero chiari a tutti il prestigio e la potenza di quella comunità. Egli morì il 25 Marzo 1182 e non fece in tempo a vedere completato il suo progetto. Ai lavori contribuirono maestranze provenienti da più parti: sicuramente dalla Puglia e dalla Borgogna.

 

Il portico appare tutt’ora poderoso, ingentilito da quattro bifore e sormontato 

da un oratorio dedicato a San Michele Arcangelo, alla Santa Croce 

e a S. Tommaso Becket,

 

uno di quei santi inglesi «di rango aristocratico – vescovi e nobili laici – che si erano opposti al potere regio»9 e la cui fama si propagò in tutta Europa: la canonizzazione dell’Arcivescovo di Canterbury avvenne nel 1173. Allora, già da circa cento anni, gli Abati di Casauria sottoponevano le questioni di loro competenza non più agli imperatori, bensì ai papi. 

 

All’interno della lunetta sovrastante il portale principale, Leonate è raffigurato nell’atto di presentare a Clemente la chiesa rimessa a nuovo. 

 

Più sotto,

 

un architrave narra le origini dell’Abbazia: la sua genesi è a Roma, 

dove Adriano II consegna a un più che mai deferente Ludovico II 

la teca contenente i resti del Santo;


accompagnato da Suppone armato (parente di Engelberga?), l’Imperatore segue l’asino carico delle reliquie; nei pressi dell’Abbazia circondata dalle acque del fiume Pescara, il Sovrano consegna a Romano, primo Abate del Monastero, lo scettro abbaziale e il potere sui fertili feudi circostanti.

I capitelli, su cui poggia l’architrave, insegnano cosa sia il male e cosa il bene:


sul capitello di sinistra (la regione del male), un drago è la calunnia, che sussurra all’orecchio di un uomo le parole del peccato; sul capitello di destra (la regione del bene), in groppa ad un animale fantastico, un uomo volge le spalle al vizio e ne rifugge per sempre.

Nella lunetta sovrastante il portale laterale di sinistra, San Michele Arcangelo 

infilza il drago, simbolo del male.


Maria col Bambino, tutrice dei pellegrini, è assisa sul portale di destra. 

 

Racchiusi negli stipiti come dentro a delle garitte, sono a guardia quattro re, forse i carolingi Ugo, Lotario, Lamberto e Berengario. 

 

All’Abate Gioele (1182-1189) va ascritta la porta bronzea centrale.

L’interno, a tre navate, è spoglio ed elegante.


Il pezzo forte è l’ambone, la cui cassa poggia su quattro colonne ed altrettanti capitelli adornati di palme. Queste, simbolo del martirio, sono scolpite nell’atto di dischiudersi in una successione facile a indovinarsi, se si guardano i capitelli in senso antiorario, partendo dal primo sulla destra. Un invito ai fedeli ad aprirsi alla parola del predicatore. E ce n’è anche per lui: lungo il perimetro del manufatto, scorre in latino l’esortazione ai retori della Chiesa a condurre una vita coerente con le proprie omelie. Dei fiori sono mirabilmente scolpiti. Un’aquila afferra un libro, che a sua volta sormonta un leone (questa gerarchia verrà invertita sulle colonnine esterne all’abside), e guarda al candelabro poggiante su un’ara adornata di quattro teste leonine.

 

L’altare, al di sotto di un ciborio, è in realtà un sarcofago paleocristiano 

della fine del IV secolo o degli inizi del V.


Al suo interno, era forse conservato il reliquiario di alabastro, che oggi si trova alla destra della mensa, protetto da una teca, e

all’interno del quale furono deposte le ossa di Clemente.


Per nostra fortuna, oggi possiamo ancora ammirare questi capolavori.

 

Ciò grazie alla tenacia di un uomo:

Pier Luigi Calore. È lui il secondo padre.


A lui, vissuto nel diciannovesimo secolo, mille anni dopo Ludovico, si devono la riscoperta e la valorizzazione di questi luoghi: sfidò la burocrazia, investì energie e pagò in prima persona, allo scopo di salvarli dal grave stato di degrado in cui li avevano ridotti i terremoti, le devastazioni delle solite truppe francesi, l’incuria e la cupidigia degli uomini ai quali erano stati affidati10. Amico di Gabriele D’Annunzio che lo stimava, lottò con tenacia fino ad ottenere la dichiarazione di San Clemente quale monumento nazionale con un regio decreto del 28 giugno 1894. 

 

Ed è a lui che è intitolato l’antiquarium nei locali adiacenti alla chiesa, dove sono raccolti alcuni reperti di eccezionale fattura (come il capitello decorato con aquile di federiciana memoria che ghermiscono una serpe oppure la commovente statua della Madonna con Bambino, in pietra della Maiella). 

 

In questo piccolo museo, non puoi non chiederti che volto abbiano i Pier Luigi Calore dei nostri giorni, sempre che ne esistano. E rabbrividisci, nell’uscirne, alla lettura dell’ammonimento di Basilide di Alessandria11 appeso al muro di sinistra (la regione del male), augurandoti che sia tutto fuorché una profezia:

 

“E verrà… il tempo in cui non vi saranno uomini spirituali, ma soltanto ignoranti 

che rifiutano ciò che appartiene allo spirito”.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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1 – Nipote di Ludovico I il Pio, fu il primogenito di Lotario I e di Ermengarda di Tours. Fu incoronato Imperatore a Roma, nell’Aprile dell’850, da Leone IV. Morì a Ghedi nel bresciano. Le sue spoglie riposano nella Basilica di Sant’Ambrogio a Milano (cfr: www.treccani.it).

2 – Nell’871 condusse una spedizione a Bari, per strapparla ai Musulmani: v. UTET, Torino, 1967, p. 519: «di tutti i Carolingi fu quegli che più si interessò al nostro Paese e più caldamente vagheggiò il disegno di riunirlo in un solo Regno».

3 – Il fidanzamento contratto a Treviri con la principessa bizantina nell’842 fu rotto unilateralmente da Ludovico, il quale tra l’851 e l’853 sposò Engelberga, figlia del conte di Parma, Adalgiso (www.treccani.it).

4 – Ibidem.

5 – Su: www.sanclementeacausaria.beniculturali.it (invece, su www.regione.abruzzo.it, l’anno di fondazione è individuato nell’873).

6 – Opuscolo illustrativo del MIBACT – Polo Museale dell’Abruzzo.

7 – «Per il rapido moltiplicarsi delle donazioni la proprietà dei monasteri benedettini assunse presto proporzioni grandiose» F. Panzini-A. Rogmann, Pagine di critica storica, Ferraro, 1990, p. 75.

8 – Le notizie storiche e le informazioni di ordine artistico sono attinte ai siti internet indicati nella nota 5.

9 – André Vauchez, La santità nel Medioevo, Il Mulino, 1989, p. 124-125.

10 – San Clemente divenne oggetto di un istituto denominato Commenda Perpetua, consistente nella pratica di affidare abbazie o monasteri in difficoltà a cardinali o prelati affinché ne risollevassero le sorti: spesso offriva a gente priva di scrupoli, anche all’interno della Chiesa, l’occasione di depauperare gli stessi enti che si sarebbero dovuti salvaguardare.

11 – Eresiarca gnostico del II secolo d.C.

 

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LA FONDAZIONE FORTUNATO di Francesco Antonio Genovese – Numero 12 – Ottobre 2018

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LA FONDAZIONE FORTUNATO

 

 

 

RIONERO IN VULTURE, GIUSTINO FORTUNATO e NINO CALICE

 

1. Rionero città di frontiera. In che senso? Aveva ragione il compianto Nino Calice quando affermava che Rionero in Vulture, oggi importante centro dell’articolazione urbana della Basilicata, è stato (lo è ancora?) un paese di frontiera, nel senso di un luogo urbano senza conti da regolare con centri sociali e di potere preesistenti, feudali o clericali, spregiudicata, diversamente da Melfi, dove la presenza plurisecolare di vescovi e feudatari aveva dato luogo ad una società verticale, gerarchica e perciò timida, portata alla dipendenza1. Dopo la secessione dal Vescovo di Rapolla, fatta per ragioni fiscali dal 1314 al 1330, passando sotto la circoscrizione di Atella (e già questo dice del carattere della città), accogliendo nuove genti di ogni tipo, dagli albanesi di Scutari alle maestranze di ogni genere e provenienza (irpina, sannitica o pugliese: un melting pot unico in quella Basilicata moderna) in occasione dei tagli al bosco del Gualdo o alle pendici del Vulture, di commerci vari, 

 

“Rionegro” divenne un paese aperto e mobile, passando dagli originari 500 ai 9000 abitanti nel secolo dei lumi, capace di sfuggire, per la sua connaturata diffidenza 

e inquietudine, anche all’opera missionaria di un S. Alfonso dei Liguori.  


Ne venne fuori una realtà urbana viva ma anche aspra, “senza esclusione di colpi, di intrighi, di malandrinerie, di calunnie, di bugie, di vendette”, in cui ogni volta “bisogna ricominciare daccapo”, ricucendo gli strappi “dei costumi, delle feste, delle classi, delle case, dei quartieri, delle piazze”2

2. La Famiglia Fortunato e don Giustino a Rionero.

 

Secondo la ricostruzione di Calice, neppure i Fortunato sfuggirono a questa realtà conflittuale, nonostante le apparenze ieratiche delle due ultime figure rappresentative di questa importante famiglia del nostro Sud e della nostra storia nazionale: Ernesto e Giustino. Nel capitolo intitolato Dove è finito il barone Rotondo? Calice racconta di una vicenda di ordinaria turbativa degli incanti. Nel 1837, la Mensa vescovile di Melfi mette in vendita i diritti di enfiteusi sui beni della tenuta di Gaudianello, in agro di Lavello (città che con Venosa, assieme alle due già menzionate, completa il quadrilatero dei grandi centri della Basilicata settentrionale), estesi ben 3900 tomoli (terre a bosco e pascolo), quelli che diverranno dal 1872 il cuore dell’azienda modello cerealicolo-pastorale organizzata e diretta da Ernesto Fortunato3.

 

Alla gara i Fortunato offrirono 2400 ducati e i Rotondo 2600 ducati (i Tedesco di Minervino non erano competitivi) ma la tenuta venne aggiudicata ai Fortunato, con lo stratagemma dell’elevazione posteriore dell’offerta, passata da 2400 a 2800 ducati, non senza che una tale opportunità (non del tutto trasparente) fosse divenuta possibile grazie a qualche intervento extra ordinem: un favore del vescovo di Melfi ad Anselmo Fortunato (allora, a Napoli, Presidente della Corte dei conti) o la promessa di non riscattare il canone enfiteutico4. E la promessa venne persino imposta agli eredi da don Giustino con il suo testamento5. Sta di fatto che,

 

vincendo quella gara, i Fortunato innescarono il volano dello sviluppo della loro potenza economica, quella stessa (intelligentemente e progressivamente amministrata da Ernesto: la guida imprenditoriale della famiglia) 

che consentì di garantire al più noto fratello Giustino di recitare 

un ruolo di grande importanza nella politica 

e nella vita civile nazionale.

 

Ci sarà poi da stupirsi tanto se, dopotutto, sui Fortunato, nel 1861, verranno riversate accuse di protezione verso i briganti e se gli accusati sdegnosamente abbandoneranno Rionero per trasferirsi a Napoli? Quello, Rionero, era pur sempre un Paese di frontiera, di lotte politico-sociali aspre, “senza esclusione di colpi, di intrighi, di malandrinerie, di calunnie, di bugie, di vendette”, in cui ogni volta “bisogna ricominciare daccapo”.

 

Il Palazzo Fortunato, perciò, resterà vuoto fino al 1878 quando avvenne la ricucitura tra la Città e il suo più illustre notabilato, con il sindaco (Pierro) 

che va incontro ai due fratelli fuori dal paese e va a riverire 

il candidato al Parlamento nazionale.

 

Ernesto, perciò, poté tornare a Gaudiano, a gestire l’azienda più avanzata dell’intera Basilicata (e fra le più avanzate dell’intero Mezzogiorno), mentre Giustino da parlamentare vivrà tra Napoli (la residenza di via Vittoria Colonna) e Roma, con brevi rientri estivi a Rionero e Gaudiano. Ci sarà da stupirsi ancora se nel 1917, passeggiando a Rionero con alcuni degli amici più fedeli, don Giustino verrà ferito da un esaltato che l’aveva accusato di essere responsabile, addirittura, della guerra? Ma stavolta Fortunato non tornerà più a Rionero, fino al giorno della sua morte, avvenuta il 23 luglio 1932. Purtroppo, occorrerà solo quella per conseguire finalmente il desiderio “di vivere nella gratitudine vostra, miei concittadini”6?

 

3. Rionero si è veramente riappacificata con Giustino Fortunato? 

 

A Rionero, sulla piazza principale c’è il Palazzo Fortunato, composto dal fabbricato di circa cinquanta stanze, da un giardino e da un cortile, per una superficie di circa 4000 metri quadri: un importante monumento architettonico che vide passare, ospiti della famiglia, personaggi storici di rilievo: Giuseppe Bonaparte, Ferdinando di Borbone, Giuseppe Zanardelli, Benedetto Croce, Gaetano Salvemini, Francesco Saverio Nitti.

 

Oggi il Palazzo ospita la Fondazione Fortunato e la Biblioteca di famiglia, forte di circa 11.000 volumi, tra cui molte cinquecentine e libri dal Seicento all’Ottocento; nelle scuderie, un Museo della Civiltà Contadina e l’archivio storico e fotografico della famiglia e del Comune di Rionero nonché, quasi un paradosso, 

anche una mostra permanente sul Brigantaggio.

 

La città sembra essere definitivamente riconciliata con il suo più importante personaggio, il grande intellettuale e meridionalista che gli ha dato prestigio e fama.

Ma le iniziative della comunità locale non si può dire che siano del tutto all’altezza del grande concittadino e della sua storia, basti vedere anche semplicemente il sito internet che dovrebbe orientare il visitatore ed il curioso, per non dire lo studioso del pensiero e dell’organizzazione familiare.

 

Ma forse sarebbe anche il caso di pensare ad un Parco Letterario Giustino Fortunato, per far conoscere i luoghi della sua vita

 

(perlomeno di quella non vissuta a Napoli): un’iniziativa – possibile anche solo in sede locale, sebbene non riferita strettamente ad uno scrittore o un poeta, ma a uno storico, a un politico e politologo di razza, a uno statista come pochi – che farebbe svanire del tutto il dubbio circa il fatto che la sua città natale abbia mantenuto ancora qualche ombra sull’intellettuale nazionale di cui può invece trarre incondizionato vanto.

Sembra allora che la città si sia fatta perdonare per quegli screzi sol perché un altro intellettuale e politico rionerese, Nino Calice, ha dedicato ai Fortunato alcune opere importanti della sua complessiva produzione storica e politologica.

Non solo. La casa editrice da Lui fondata ha anche stampato alcune opere di don Giustino e, tuttora, dopo la morte del fondatore, mostra di proseguire la sua preziosa attività

 

4. Un erede rionerese per don Giustino: Nino Calice.

 

La verità è che Nino Calice (1937-1997), professore di storia e di filosofia nei licei, ma poi anche consigliere regionale (eletto con il PCI), Sindaco del Comune di Rionero, deputato al Parlamento e poi Senatore della Repubblica, componente del Consiglio d’Europa, fondatore del centro studi Giustino Fortunato, storico, e protagonista di tante iniziative culturali e politiche, oltre che di importanti ricerche storiche anche sulla vita della Basilicata, è indubbiamente – si proprio Lui – il vero erede di don Giustino e non solo per le ragioni legate alla comune origine cittadina.

 

Il ponte di passaggio tra le due figure mi pare ascrivibile alla grande tradizione democratico-liberale nazionale, quella che ha avuto varie declinazioni, 

fino al sacrificio personale, di importanti e prestigiose figure,

 

da Salvemini a Fortunato, dai Fratelli Rosselli a Giovanni Amendola, da Gobetti a Nitti, di cui si è detto, in gran misura, erede il cessato Partito comunista italiano (o importanti parti di esso), che se ne è intestato, pur tra distinguo e precisazioni, il filo della continuità.

La coscienza di tale linea è ancor viva, come si è visto e sentito, nel corso di un convegno svoltosi di recente (il 5 dicembre 2017) nel Castello di Lagopesole (Avigliano), non lontano da Rionero, proprio dedicato alla figura di Nino Calice. Giorgio Napolitano, ad esempio, ha scritto del suo commilitone politico:

 

“Se noi avessimo dieci, venti Rionero nel Mezzogiorno, coltivate, dissodate 

da organizzatori culturali come Nino Calice, credo che sarebbe un po’ diverso 

il Mezzogiorno da quello che è,

 

o potremmo essere meno allarmati di come, purtroppo, dobbiamo esserlo. Io mi auguro che davvero i giovani, ai quali tocca l’impresa del rilancio della politica, prendano esempio dalla lezione di Nino Calice”. Emanuele Macaluso, a sua volta, ha dichiarato: “Quando penso a figure come Nino Calice penso subito a cos’è stato il Partito comunista italiano, perché io penso che Calice è stato quello che è stato, nella sua specifica complessità, perché c’è stato il Partito comunista. E il Partito comunista è stato quel che è stato perché ci sono stati uomini come Nino Calice”.

Più specificamente, sul rapporto tra Calice e Fortunato, uno storico di matrice cattolico-democratica, Giampaolo D’Andrea, ha affermato:

 

“Nino Calice ci ha lasciato una grande passione civile e per la storia della sua terra 

e del Mezzogiorno. Passione ereditata da tutta una tradizione che in Basilicata 

è molto viva e che lui riannoda spesso con quella di Giustino Fortunato.

 

Una lettura non dico sorprendente ma non consueta negli intellettuali della sua generazione e della sua ispirazione culturale è la rivalutazione che fa del meridionalismo fortunatiano insieme alla rivalutazione del meridionalismo classico e con le spinte alla modernizzazione che inevitabilmente sono venute. In uno dei suoi ultimi saggi fece una riflessione lucidissima sull’illuminismo diffuso in Basilicata e su quello che aveva rappresentato, caratteristiche di una riflessione culturale che ha influenzato anche le sue posizioni politiche nel dibattito sui temi che di volta in volta si presentavano alla sua attenzione. Ha cercato di inserire la Basilicata in un contesto più ampio del Mezzogiorno per riconnetterlo all’Italia e in sintonia con la tradizione dei grandi meridionalisti della nostra terra come Fortunato e Nitti non ha mai pensato alla Basilicata come un’isola né felice né infelice e mai ha pensato al Mezzogiorno separatamente dall’Italia. Questo era un punto fermo della posizione dei meridionalisti: non rivendicavano attenzioni per il Mezzogiorno ma solo perché il Mezzogiorno potesse contribuire meglio al futuro dell’Italia.”7

 

 

C’è solo da sperare che la città di frontiera, se tale essa è ancor oggi, nel suo continuo dubitare, non sia troppo irriconoscente anche con Nino Calice,

poiché sono certo che il più giovane intellettuale, vissuto nel secolo scorso, avrebbe approvato (e lavorato per) la creazione di un Parco letterario dedicato alla complessa e poliedrica figura di Giustino Fortunato. Un simile Parco, coinvolgendo una gran parte del territorio della Basilicata Settentrionale (le ricerche storiche di Giustino, da sole, creerebbero una mappa-reticolo dei luoghi storici da lui riscoperti e individuati, traendoli dall’oblio e dalla dimenticanza; senza dire dei luoghi delle Strade ferrate propugnati come direttrici di sviluppo o dell’azienda familiare di Gaudiano o dei giovani intellettuali lucani, provenienti da tanti piccoli centri, da lui seguiti, valorizzati ed incoraggiati), si inserirebbe nello stesso rilancio dell’immagine della Regione, perché percorsa da un tenace filo di pensiero liberal-democratico, di respiro nazionale. 

 

 

 

 

 

 

 

 

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1- N. Calice, Rionero. Pagine sparse e disperse, II ed. 2012, p. 41.

2- N. Calice, ivi, p. 50.

3 – N. Calice, Ernesto e Giustino Fortunato: l’azienda di Gaudiano e il Collegio di Melfi, Bari 1982. Dello stesso A. si veda anche: La famiglia Fortunato, in AA.VV, La Borghesia tra Ottocento e Novecento in Basilicata. Storie di famiglie, Rionero in Vulture 2006, pp. 87-102.

4 – Così N. Calice, Rionero. Pagine sparse e disperse, p. 57. La vicenda era già stata ricordata in Id. Ernesto e Giustino Fortunato, cit. pp. 20-21 ove riporta anche la partecipazione alla polemica di Basilide Del Zio e Gennaro Araneo.

5 – Id. Ernesto e Giustino Fortunato, cit., p. 21.

6 –  G. Fortunato, Agli elettori del Collegio di Melfi, 10 febbraio 1909.

7 – Sul convegno, si rinvia a quanto scritto dall’Agenzia giornalistica della Regione Basilicata: http://www.consiglio.basilicata.it/consiglioinforma/detail.jsp?otype=1120&id=3399954#ad-image-0.

 

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L’ECONOMIA DELLA BELLEZZA di Patrizia Di Dio – Numero 12 – Ottobre 2018

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L’ECONOMIA DELLA BELLEZZA

 

Palermo, la mia città, può essere presa a simbolo di una Italia che investe sulla sua bellezza e sulla sua capacità di meravigliare il mondo intero, nonché quale emblema delle grandi potenzialità del Sud che, tuttavia, non si sono ancora compiutamente espresse a vantaggio di chi ci vive.

Come il Sud, Palermo è metafora di città splendida e nello stesso tempo decadente, dalle enormi potenzialità e grandi stimoli, eppure spesso in indolente inerzia; memoria di ferita e lacerazione, eppure esempio di recupero fascinoso 

e stimolante, antico e moderno insieme.


Città in cui abbiamo il percorso arabo-normanno patrimonio dell’UNESCO da un lato e che ospita, dal 16 giugno al 4 novembre nel 2018, “Manifesta 12”, una delle più importanti iniziative di arte contemporanea al mondo, la biennale itinerante europea. E sempre quest’anno, è capitale italiana della cultura 2018. Insomma, emblema insieme del nostro passato e del nostro futuro, di crisi e di opportunità. Palermo è anche una storia di impegno in campo umanitario, dove Stato, istituzioni, forze dell’ordine fino al più semplice dei cittadini, agiscono senza esitazioni.

Mentre le discussioni in Europa e in Italia si imperniano su cosa e chi deve fare, 

qui si fa senza chiedersi a chi tocca, pensando solo che ci sono cose 

che non posso attendere.


Noi del Sud siamo fatti così ed è in fondo la nostra grandezza. C’è poi la convivenza, l’esempio materiale di interazione e interscambio tra diverse componenti culturali di provenienza storica e geografica eterogenee che, a Palermo, ha generato un originale stile architettonico e artistico, lo stile arabo-normanno. Di eccezionale valore universale, vi sono mirabilmente fusi elementi bizantini, islamici e latini, capace di volta in volta di prodursi in combinazioni uniche e sincretiche.

La nostra storia di accoglienza e integrazione è il nostro paradigma di bellezza.

 

Palermo è la città dove l’Arcivescovo, monsignor Lorefice, per il discorso in occasione del festino, che si celebra ogni anno da oltre 390 anni in onore di Santa Rosalia, la nostra santuzza patrona, ha espresso considerazioni sulla dignità, sul significato di umanità e sul valore di appartenenza a un sistema e a una comunità di “senso”: parole che ci toccano particolarmente, non solo per la forza innovativa e profondamente cristiana ma anche per l’anelito a porre le basi di un rinnovato modo di intendere le prospettive della nostra vita. Perché, come dice l’Arcivescovo, “le relazioni vere nascono e crescono dove c’è sintonia, c’è finezza, c’è rispetto, ascolto”. Insomma dove c’è bellezza!

La città di Palermo, luogo simbolo di incontro di culture, di religioni, della possibilità 

di vivere nel segno della solidarietà e della pace, esempio di riconciliazione 

e rispetto reciproco, muove nella direzione di un’Economia consapevole 

del livello valoriale della società che le dà vita. Valori che rispecchiano

 quella che chiamo Economia della Bellezza. 

 

Il Sud è considerato, appunto, sinonimo di Bellezza, in virtù del suo patrimonio culturale, artistico, monumentale, paesaggistico, ma anche per la sua alimentazione, il gusto, il design e la moda. La ripresa deve partire da questo immenso patrimonio materiale unito a quello immateriale di Benessere, per un nuovo modello economico, di cui imprenditori e imprenditrici illuminate sono interpreti e protagonisti. Ritengo anche che, nella prospettiva di un mondo futuro dominato dalla tecnologia, si debba coltivare il fattore umano, riportando l’individuo al centro delle dinamiche produttive e riservando alle relazioni umane un posto di prim’ordine nelle strategie aziendali. Per noi, dunque, l’Economia della Bellezza si esprime con una cultura d’impresa che sa guardare lontano e che promuove comportamenti virtuosi sempre più attenti all’individuo e alla comunità, permeata delle specificità femminili di cura, visione dell’altro, “ricerca di senso”, coraggio, istinto ecologico, cultura, relazioni, solidarietà.

L’economia della bellezza che desideriamo promuovere, quindi, è anche
Economia del nuovo Umanesimo, che rappresenta la necessità
di favorire, nel concreto, una visione dell’umanità con una
prospettiva 
arricchente, migliorativa, inclusiva,


fatta di amore, cura, passione, sensibilità, ascolto: l’arte, il paesaggio, il cibo, la musica, la lingua coniugati con il saper vivere, con la capacità di entrare in sintonia, di creare relazioni empatiche, di esaltare intuito, creatività e abilità, cioè i talenti che ci contraddistinguono nel mondo. È un immenso patrimonio di ricchezza, un giacimento ancora quasi del tutto da utilizzare in tutte le sue potenzialità.

Una irripetibile pluralità che determina, nel suo insieme, quello “stile di vita” 

che il mondo intero ci invidia e tenta di imitare.

 

Un tesoro unico che ci appartiene e che abbiamo il dovere di proteggere e valorizzare, per vivere meglio il Sud di oggi e per lasciare ai cittadini di domani un Sud migliore; ma soprattutto per costruire subito nuove opportunità che consentano ai nostri “cervelli”, e in generale a giovani e meno giovani, di non essere costretti ad andar via, abbandonando. 

 

Questo Sud non può più attendere. Va riconosciuto, guardato con attenzione, raccontato con passione, per costruire prosperità. E dunque non solo pensando a quelle attrattive evidenti e generalmente riconosciute presenti nelle grandi città, come la mia Palermo, ma anche a tutti gli angoli più nascosti, e tuttavia non meno affascinanti, che costituiscono le caratteristiche riconnesse alle identità culturali e sociali tipiche delle piccole città e dei piccoli borghi.

Credere nell’Economia della Bellezza significa costruire un’identità 

competitiva per il Meridione,


contribuendo al rilancio del Paese e trasformando il suo straordinario potenziale in una risorsa strategica di sviluppo economico e sociale.

 

 

 

 

 

 

 

 

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LE CORALLARE DI TORRE DEL GRECO di Stefania Conti – Numero 11 – Luglio 2018

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LE CORALLARE DI TORRE    DEL GRECO              

 

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Solo lì, sul collo bianco e saldo delle donne, nell’immediata vicinanza dell’arteria pulsante, sorella dei cuori femminili, rinascevano a nuova vita, acquistavano splendore e bellezza ed esercitavano il loro innato magico potere di attrarre gli uomini e ridestare le loro voglie amorose”. 

 

Una visione poetica come solo uno scrittore della sua epoca può dare. E, a dire il vero, non solo le contadine hanno amato gli Antozoi (questo il nome scientifico). Usato da Sumeri, Egizi, Celti, presente nell’arte bizantina, diffuso nel Medioevo occidentale, ha avuto una particolare fioritura in Italia nel 17° e 18° secolo. Tra le nobili, come tra le plebee. Come gioiello o come oggetto di ornamento. Ma se si trascende da questo aspetto,

si può leggere una storia molto interessante dal punto di vista economico 

e sociologico. Perché i coralli hanno scritto una pagina importante 

nella storia dell’emancipazione femminile meridionale. E non solo.


Uno dei centri di pesca del prezioso materiale è stato per secoli Torre del Greco. Nel 1805 un imprenditore francese, Bartolomeo Martin, ottiene da Ferdinando IV di Borbone l’autorizzazione ad impiantare una fabbrica per la lavorazione. Fino a quel momento i pescatori avevano venduto il corallo pescato dalle coralline di Torre del Greco ai mercanti di Livorno, che poi a loro volta lo vendevano a Trapani, Genova, Marsiglia. 

 

Se Martin era un rappresentante del new age napoleonico, un borghese imprenditore con lo sguardo lungo, Ferdinando di Borbone era l’espressione dell’ancien régime, ma era molto interessato al tema delle manifatture (è lui il fondatore delle seterie di San Leucio, ancora oggi un vero e proprio modello di organizzazione). Ed è proprio il re Borbone che impone al Martin la clausola che qui ci interessa: la manodopera deve essere femminile.

Il motivo era semplice. Gli uomini impegnati nella pesca del corallo 

stavano fuori casa anche per anni. La famiglia 

veniva mandata avanti dalle donne.


Ma spesso i soldi non bastavano, anche perché non si sapeva mai con certezza la data del rientro e bastava un niente per farla saltare. Le povere torresi erano costrette a ricorrere agli usurai e, nei casi peggiori, a prostituirsi. Torre del Greco stava diventando una vera e propria piaga. Per questo Ferdinando interviene. Non solo. Nel 1807 si decide anche di aprire una scuola nel Real Albergo dei Poveri a Napoli, dedicata alle “donzelle” per la manifattura del corallo. Scuola che ben presto sarà aperta anche ai giovani reclusi. Le cose al Real Albergo di Napoli non andarono bene. Ma a Torre, sì. Già nel 1806 Il lavoro delle donne andava particolarmente bene.

Avevano una forte motivazione che le rendeva particolarmente abili nel bucare, 

infilare e confezionare collane. Con misure ante litteram potevano anche scegliere 

di lavorare a casa o part time, così potevano accudire i bambini.


Ce la mettevano tutta, lavorare in fabbrica era il mezzo per uscire dalla povertà e dall’emarginazione.

 

“C’erano bambini, a Torre, cresciuti praticamente nelle cassette di corallo grezzo: quando erano piccoli, le mamme li mettevano lì per averli sotto gli occhi e continuare a lavorare”, ricorda Caterina Ascione, storica dell’arte e appassionata studiosa del corallo.

Nel 1878 sorse in città addirittura una Scuola per l’incisione e la lavorazione 

del corallo, tuttora esistente, presso la quale nel 1933 

fu istituito l’omonimo museo.


Caduti i Borbone, arrivano i francesi. Giuseppe Napoleone prima e Gioacchino Murat dopo. Anche con loro la fabbrica di Bartolomeo Martin continua. Anzi, tra alti e bassi va avanti per oltre vent’anni. I due sovrani francesi incoraggiano e promuovono l’attività industriale meridionale. E per quanto riguarda il corallo, Martin certamente è aiutato dalla moda che esplode nelle corti napoleoniche. Una ambasciatrice autorevole è stata Carolina Bonaparte Murat, che per l’oro rosso aveva una vera e propria passione. Al punto di regalare a suo fratello Napoleone (sembra per far pace dopo una lite) i cammei di corallo finemente lavorati che decorano la spada di gala del Gran Corso. Oggi la si può vedere nel museo napoleonico di Fontainebleau. 

 

Carolina va oltre. Lo sponsorizza come prodotto speciale del Regno.

Diventa le souvenir de la Reine. Le riviste di moda francesi lo propongono 

come gioielleria “da giorno”. Una parure di corallo associata ad uno chale cachemire morbidamente appoggiato sulle braccia di una dama, e, voilà, il gioco è fatto.


Una rapida e duratura fortuna presso le signore dell’alta borghesia e dell’aristocrazia che presto conquisterà tutta l’Europa, e stavolta non sarà più pour les dames di più alto lignaggio, ma anche presso le popolane. 

 

La lavorazione ancora oggi è in mano femminile. Torre del Greco è considerata una capitale del corallo e combatte da pari con la concorrenza dei prodotti asiatici.

 

 

 

 

 

nel suo libro Il mercante di coralli immaginava che l’anelito dei coralli fosse quello “di essere colti e portati sulla superficie della terra dai palombari, essere tagliati, levigati e infilati per adempiere infine il vero scopo della loro esistenza: diventare il monile di belle contadine.

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Foto: autorizzate da Soprintendenza Archeologia, Belle arti e Paesaggio per il Comune di Napoli Istituto d’Istruzione Superiore “Francesco Degni” Torre del Greco

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IL GIARDINO ALPINO SUL GRAN SASSO di Loretta Giuseppina Pace – Numero 11 – Luglio 2018

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IL GIARDINO ALPINO SUL GRAN SASSO

 

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In una piovosa giornata di fine estate del 1952, a 2117 m di altitudine alle pendici del Monte Aquila, Vincenzo Rivera, primo rettore dell’Università degli Studi dell’Aquila, poneva la prima pietra del “laboratorio giardino” che avrebbe poi ospitato studiosi da tutto il mondo con lo scopo di svelare “i più affascinati interrogativi sul vivo” della ricerca botanica.

1_Il Giardino Alpino di Campo Imperatore sullo sfondo il Corno Grande

Iniziò così l’avvincente avventura di un Giardino Alpino che segue i ritmi propri della montagna, passi lenti e corti per arrivare alla meta.

 

Furono allestite alcune aiuole che ospitavano le specie più significative della flora appenninica d’alta quota, i primi studi riguardarono le piante foraggere dei pascoli montani che rappresentavano una indispensabile risorsa per l’allevamento del bestiame. Il completamento della foresteria e la collaborazione di un giardiniere per l’intero periodo primaverile-estivo permise, negli anni seguenti, l’impianto di circa 300 entità vegetali, tra le quali relitti glaciali, endemismi, piante rare e/o di particolare interesse fitoterapico.

 

Cominciò dunque l’iter burocratico, che nel 1993 assegnò
definitivamente all’Ateneo aquilano la proprietà del Giardino Alpino
ed all’allora Istituto di Botanica le responsabilità scientifiche.

Nel 1990 fu stipulata una Convenzione tra l’Università degli Studi dell’Aquila e l’Azienda di Stato per le Foreste Demaniali secondo la quale quest’ultima avrebbe provveduto agli interventi di manutenzione e di miglioramento del Giardino, mentre il responsabile universitario avrebbe programmato e guidato gli aspetti scientifici. Tale proficua collaborazione è stata svolta con i finanziamenti ottenuti dalla L.R. 9 aprile 1997, n. 35 “Tutela della biodiversità vegetale e la gestione dei giardini ed orti botanici”, fondi erogati fino al 2009.

 

La posizione strategica del Giardino Alpino, situato in prossimità della stazione 

della funivia, nel cuore del Parco Nazionale del Gran Sasso e Monti della Laga, costituisce un importante richiamo per gli escursionisti attratti 

dalle sorprendenti ed inaspettate fioriture.

La bellezza e la complessità della flora e della vegetazione del Gran Sasso sono il risultato di eventi di varia origine che si sono succeduti e intersecati tra loro nel corso dei millenni. Il Massiccio del Gran Sasso, per la sua posizione geografica, ha rappresentato un antichissimo crocevia di entità mediterranee nella risalita verso il nord (interglaciale), di entità alpine nella colonizzazione dei versanti meridionali (nel glaciale), di entità orientali ancora più antiche e lontane che nel terziario, attraverso i collegamenti di terre emerse, ampliavano il loro areale verso occidente (Leontopodium nivale, Gentiana dinarica, Aster alpinus, ecc.). Le imponenti glaciazioni del quaternario, alternate da lunghi periodi interglaciali, sono testimoniate dai numerosi relitti glaciali, ora fortemente minacciate dal cambiamento climatico, che si sono rifugiate nei settori più elevati del Gran Sasso (Dryas octopetala, Gentiana nivalis, Vaccinium myrtillus, Artemisia umbelliformis ssp eriantha). Le entità più importanti della flora del Gran Sasso sono rappresentate da endemismi, tra i quali si ricordano: Androsace mathildae, Adonis distorta, Festuca imperatrix, Minuartia glomerata ssp. trichocalycina, Saxifraga italica.

 

La gestione del Giardino Alpino è oggi affidata alla sezione di Scienze Ambientali 

del Dipartimento di Medicina clinica, sanità pubblica, scienze della vita 

e dell’ambiente (MESVA) che promuove la ricerca scientifica 

con particolare riguardo alle specie ed alle comunità vegetali 

dei settori altitudinali.


Studi applicativi sono rivolti alla micropropagazione di piante rare e/o in pericolo di estinzione ed al monitoraggio delle particelle aerodisperse (pollini e spore fungine) in alta quota. Purtroppo, la mancata erogazione di fondi specifici e la carenza di personale dedicato, non permettono attualmente al Giardino di programmare anticipatamente le attività turistico-divulgative, tanto apprezzate dai numerosi visitatori. 

 

D’altronde, le rigide condizioni climatiche consentono la fruizione del Giardino solo per il breve periodo estivo. Tuttavia le attività di ricerca continuano per tutto l’arco dell’anno presso i laboratori dell’Università dell’Aquila, nella sede di Coppito 1, dove è stato organizzato anche un percorso espositivo dedicato agli aspetti botanici, zoologici, geologici ed ecologici dell’ambiente appenninico, con particolare riguardo al settore centrale.

 

Il futuro del Giardino Alpino è al momento incerto, in quanto non potendo contare 

su un finanziamento erogato in modo regolare dagli enti preposti, 

non è possibile programmare in modo adeguato 

la sua gestione ordinaria,


indispensabile per una efficace fruizione estiva per i tanti visitatori che frequentano Campo Imperatore e spesso rimangono delusi dall’impossibilità di accedervi, davanti al suo cancello chiuso.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

la tenacia che resiste

Bibliografia: 

 

AAVV. (a cura di): PACE L. & FASCIANI P., Fioriture in alta quota: il Giardino Alpino di Campo Imperatore, Edizioni L’Una, 2014, p. 63-68, ISBN: 978-88-96319-31-4. 

 

PACE L., PACIONI G, PIRONE G., RANIERI L., Il Giardino Alpino di Campo Imperatore (Gran Sasso d’Italia, L’Aquila), Informatore Botanico, 37 (2), 2005, p. 1211-1214, Atti “I Giardini della Sapienza”. 

 

PACE L., A Campo Imperatore una preziosa eredità da custodire: il Giardino Alpino, CARSA Edizione, 2002, p. 72 -75. CATONICA C., 

 

PACE L., – Il Giardino Alpino di Campo Imperatore: una vetrina sul Gran Sasso. Il Limite Meridionale del Mondo Artico. Boll. C.A.I., G.T.E. L’Aquila, n.167, 2000, p. 25-36

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MULTAQA: UN MEDITERRANEO OLTRE LE INCOMPRENSIONI di Giorgio Salvatori – Numero 11 – Luglio 2018

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MULTAQA: UN MEDITERRANEO OLTRE LE INCOMPRENSIONI

 

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e che sottintende la locuzione: “tra genti diverse”. Un punto d’incontro che si deve riportare al centro del Mediterraneo, ed elettivamente in Sicilia, terra di antichi approdi, di fecondi scambi economici e culturali, di osmosi di civiltà, a dispetto di un presente diverso, che si propone, quotidianamente, con immagini di diaspora umana e di conflitti etnici.

 

Una sfida, in ardita controtendenza, lanciata ad Agrigento dai rappresentanti 

delle tre grandi religioni monoteiste: Cristianesimo, Islamismo, Ebraismo, 

le stesse che hanno plasmato la vita dei popoli del bacino del Mediterraneo 

ed hanno contribuito a scrivere la storia e la cultura di tre continenti, 

Europa, Africa e, almeno in parte, dell’Asia.


Un ‘idea ambiziosa che ha come data di nascita il 1998, quando, nella città dei templi, si svolse il primo incontro sullo stesso tema e con lo stesso titolo: Multaqa, Mediterraneo di civiltà e di pace’’. L’iniziativa, oggi come allora, è di Emmanuele F. M. Emanuele, presidente e infaticabile animatore della Fondazione filantropica internazionale Terzo Pilastro. Utopia? Certamente, ma è dalle utopie che scaturiscono le metamorfosi possibili e auspicabili quando le rigidità sociali e culturali reclamano un cambiamento di rotta.

Non erano forse animati da una smisurata utopia uomini come Francesco d’Assisi, Ibn Arabi, Rumi, che, spiritualmente distanti dal furore delle “guerre sante’’ che, 

di lì a poco, sarebbero deflagrate tra regni cristiani e califfati islamici, 

si prodigarono per il dialogo, la comprensione, l’incontro, appunto, 

tra genti diverse per costumi, fede, etnia?


E perfino durante i conflitti più aspri, con il clangore delle spade in assordante crescendo, vi fu chi, come Federico II di Svevia, non rinunciò all’utopia della Multaqa da contrapporre al fanatismo e alla omologazione religiosa, economica e culturale del Mediterraneo se fosse prevalsa la dominazione di una sola corona o di un’unica tiara. Ed e’ proprio la distopia dell’oggi a rendere prepotentemente necessario, per gli uomini di buona volontà, ritessere le sottili trame del dialogo tra le genti del Mediterraneo.

 

Non deve perciò meravigliare se l’incontro di Agrigento si sia svolto con il rimbombo delle armi israeliane e delle proteste palestinesi lungo la striscia di Gaza o con l’eco del pianto incessante dei migranti in precaria navigazione verso l’Europa. Per nulla scoraggiati da questo drammatico contesto, ad Agrigento hanno riaffermato la comune volontà di dialogo, tra i popoli delle diverse sponde del Mediterraneo,

tre relatori d’eccezione: il Cardinale Giovanni Battista Re, vice Decano 

del Collegio Cardinalizio, il Rabbino Capo di Napoli, Ariel Finzi, 

l’Imam della Moschea di Ethem Bej, in Albania, Elton Karaj.


Proprio da quest’ultimo e’ giunto il messaggio più incoraggiante per le sorti delle genti del Mediterraneo. Karaj ha ricordato come dal 1912 convivano pacificamente in Albania i tre Credo prevalenti: Islamismo, Cattolicesimo ed Ortodossia, aggiungendo che per favorire un proficuo dialogo tra le religioni si incentiva costantemente un impegno accademico assiduo nelle facoltà di teologia. In precedenza, il Cardinale Re aveva affermato con vigore: “Quel Dio che ci ha creato non può essere motivo di contrasti tra le religioni: esse devono tutte cooperare per il benessere, il progresso, la pace e la cooperazione tra i popoli.

Ogni Credo ha le sue caratteristiche e dobbiamo essere fedeli alla nostra religione, ma allo stesso tempo e’ indispensabile avere fiducia e rispetto verso gli altri 

e salvaguardare la libertà altrui, questa e’ l’unica maniera 

per poter vivere insieme in armonia e serenità”. 


Il Rabbino Finzi ha preferito citare alcuni esempi illuminanti della lingua ebraica per affermare la stessa ineludibilità del dialogo e della comprensione tra le religioni. “Pace’’, ha detto Finzi, “si dice shalom nella nostra lingua ed ha la stessa origine di shalem, che significa completo. Una comune radice che rimanda al cuore del problema, il mondo non può essere ‘completo’ finché non regni la pace”. Finzi non si è soffermato ad analizzare le cause storiche e politiche delle aspre contrapposizioni che caratterizzano il confronto tra il suo Paese e le genti della Palestina; ha invece affermato che i fondamentali principi di democrazia e rispetto dei diritti umani cui si ispira lo Stato d’Israele includono anche le pari opportunità per le donne e l’accoglienza degli omosessuali. E in un contesto metapolitico come quello in cui si è svolto l’incontro di Agrigento non desta meraviglia che la cronaca degli scontri tra opposti fanatismi sia stata tenuta fuori dell’aula del convegno. 

 

Ha lucidamente osservato il Professor Emmanuele F. M. Emanuele, chiudendo i lavori, che “Oggi la pace è ancora lontana, ma lo sforzo che l’umanità e noi in primis dobbiamo fare è quello di perpetuare diritti e valori che sono alla base del concetto di civiltà…

L’osmosi tra le civiltà nate nel bacino del Mediterraneo ha generato sensibilità comuni che hanno edificato l’Occidente per influsso 

delle culture provenienti dall’Oriente.


La poesia, la letteratura, l’arte, ma soprattutto il concetto di democrazia, la primazia delle leggi e la religione fanno parte di quel patrimonio che e’ diventato ormai parte della civiltà mondiale”. Emanuele ha poi lanciato una proposta ambiziosa: “Da anni propongo la Sicilia come la Bruxelles degli Stati Mediterranei…si tratta di un sogno, ma continuo a lavorare affinché ciò accada. Con la Fondazione Terzo Pilastro abbiamo contribuito al restauro della Cattedrale di Sant’Agostino ad Annaba, in Algeria…, sostenuto un progetto di irrigazione nelle aree pre-desertiche di Nabeul, in Tunisia…creato corsi ad Aqaba-Eilat in cui bambini arabi e israeliani studiano insieme…realizzato una Fondazione per la Ricerca sul Cancro a Malta, siamo intervenuti in Siria con il progetto Ospedali Aperti a Damasco, siamo presenti in Spagna e in prospettiva anche in Grecia”. 

 

 “Il Meridione – ha concluso Emanuele – rappresenta la naturale cerniera tra mondi che si affacciano sul nostro mare, ad esso bisogna guardare con l’intento di riconoscersi come comunità capace di trasmettere valori importanti sulla pace e sul rispetto reciproco…La mia speranza è che questo luogo in cui la civiltà è nata possa tornare ad essere motore della rinascita di un mondo in cui i valori della reciproca comprensione possano trovare opportunità di germogliare’’.

 

 

 

 

 

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Photo by http://www.geographicus.com/mm5/cartographers/homannheirs.txt – This file was provided to Wikimedia Commons by Geographicus Rare Antique Maps, a specialist dealer in rare maps and other cartography of the 15th, 16th, 17th, 18th and 19th centuries, as part of a cooperation project., Public Domain, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=14688526

 

SUD ETERNO MITO di Paola Pariset – Numero 11 – Luglio 2018

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SUD ETERNO MITO

 

 

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della cultura dell’Italia, della Grecia, dei popoli del Mediterraneo, è rimasta propria del mondo tedesco, persino con l’avvento della Rivoluzione industriale del secolo XIX. Gli architetti del Movimento Moderno, i creatori del Werkbund di Monaco nel 1914, Muthesius, Behrens, van der Rohe, e poi Gropius, accettarono sì i princìpi ideologico-estetici della produzione seriale, dell’utile senza l’ornato (“ciò che è funzionale è anche bello”), della standardizzazione, della typisierung: ma vedendo in ciò un’estetica pari a quella delle

Questione di punti vista. Anche ciò che può sembrare incontrovertibile, acquisito, indiscutibile, si presta talvolta ad interpretazioni alternative. Cos’è, ad esempio, il “Sud” se non l’esito di una delle possibili prospettive con le quali guardare al territorio? Per Myrrha, infatti, il Meridione geografico italiano è un polo di attrazione e non sinonimo di arretratezza culturale, così come, nei secoli scorsi, il Sud, considerato depositario della perfezione artistica ed estetica, coincideva con la città eterna – Roma – ove stili e forme rimanevano inalterati nonostante le traversie storiche. A conferma di ciò, una vicenda singolare che ha ispirato anche una pièce teatrale.    

(La redazione)

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Ed a Roma, oltre che gli sconvolgenti monumenti archeologici e l’arte antica, c’era un avamposto tedesco straordinario, la casa di via del Corso 18 (oggi Museo), in cui aveva abitato per quasi due anni Wolfgang Goethe, nel 1786-88, durante il celebre Viaggio in Italia (poi diventato un libro-modello per l’Ottocento). Dopo la morte del poeta e drammaturgo, la casa è stata frequentata da intellettuali ed artisti e tuttora è sede di mostre a tema: dal 30 maggio 2018, ad esempio, essa ospita sino ad ottobre la mostra di R. Gschwantner, sulla Cascata delle Marmore e il porto di Traiano a Fiumicino, già mèta degli artisti del Gran Tour, a partire da Goethe. Ma, pur nella magica atmosfera della casa del poeta, un bel mattino del gennaio 1876, una coppia di ospiti tedeschi vi fu trovata morta nella propria camera. Ne riferisce il libro Via del Corso 18, Roma – Storia di un indirizzo di Dorothee Hock, mitica specialista del Museo Casa di Goethe a Roma, che in esso ha dato spazio e rigore documentario sia alla vita romana del grande tedesco che la abitò sia al “dopo”.

 

Ma torniamo alla tragica fine della coppia di Maximilian Schmidt e Luise Munstermann, morti nell’appartamento abitato da Goethe, lì dove lo spirito tedesco si era unito per sempre con l’eternità di quello greco-romano. Ad avvertire il potenziale drammaturgico dell’episodio, è stato il direttore artistico della stagione musicale della RomaTre Orchestra, Valerio Vicari, conquistato dalla vicenda narrata nel libro della Hock. Insieme con Giorgia Aloisio, ne ha redatto un testo teatrale, Amore e morte al Corso, andato in scena dapprima nel Museo Casa di Goethe nel maggio 2017, indi il 29 marzo scorso nel Teatro Torlonia presso via Nomentana. Guidati dalla accattivante ricostruzione di Valerio Vicari, ci chiediamo:

 

cosa spinse il maturo Schmidt, funzionario della Polizia di Stato tedesca, 

innamorato della figlioccia Louise, figlia di primo letto di sua moglie 

(che già gli aveva dato un bambino) a lasciare l’Alsazia per Roma, 

dove vivere un amore impossibile e morire 

nella casa che era stata di Goethe?


Furono l’amore per l’arte e la bella giovinezza di Louise, con la quale egli era fuggito lasciando la troppo rigorosa Germania: cosa ventilata dal Vicari sulla falsariga del libro di Dorothee Hock. 

 

Nei dialoghi, egli delinea molto bene i caratteri opposti della fanciulla, lanciata – nella sua irresponsabile felicità – fra i capolavori artistici di Roma, le immense Terme, i Musei, le pinete, le fontane, e del tormentato ex funzionario, che invece paventava lo scandalo generato dalla propria bruciante colpa. Intanto, in pochi mesi erano finiti i denari e avanzava la gravidanza di Louise. Vicari a questo punto – staccandosi dal testo della Hock – ha fatto leggere in scena il servizio del quotidiano romano “La Gazzetta della Capitale” del 25 gennaio 1876, che nella cronaca cittadina descriveva con commozione e pietà il ritrovamento dei due suicidi: la bionda giovinetta, biancovestita, sdraiata sul letto accanto al suo compagno in un abito scuro, che ne accentuava la durezza dei tratti del volto. Sul tavolo i calici, coi resti fatali di cianuro di potassio.

I due certamente non si sentivano di vivere oltre nella colpa, nemmeno nella conciliante Italia, dove pur si respirava la vita intramontabile della grecità.


Ma, più fortemente dei motivi sociali, in una giovane con un figlio in grembo, non doveva prevalere la volontà della vita sulla morte, verso cui l’innamorato decisamente la spingeva? La scelta invece fu di entrambi, poiché nella cronaca del predetto quotidiano non risultano segni di colluttazione: anzi le braccia di Louise, attorno al collo dell’uomo, sembrano indicare l’assolutezza di un amore, fino alla morte. Possibile mai, insomma, che una giovane incinta non difendesse la vita, soprattutto quella non più solo sua?

Ma infine il fascino e il di lei secondo amore per l’arte e per la sua culla nel Sud ebbero la meglio e le diedero il coraggio della morte.


Il cianuro comprato in Germania tempo prima (i cronisti ne lessero l’etichetta) rende indubbia la volontà dei due di togliersi la vita: né la casa di Goethe a Weimar bastò a persuaderli. Se il grande poeta era sceso a Roma per vivere l’arte sino in fondo, i due amanti ebbero bisogno di questo immenso aiuto, per morire insieme. 

 

E la Medusa Rondanini, simbolo immortale della “quieta grandezza” dell’arte greco-romana, in copia nella casa romana di Goethe, aleggiò sulla coppia di innamorati. E in un ultimo attimo, decise per loro.

 

 

 

 

 

 

 

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arti armoniche. Le quali riposavano ancora e sempre lì, nel modello greco, 

nel Sud e a Roma: già, perché se Paul Klee – giunto con la moglie in Liguria 

all’inizio del secolo – scriveva nei suoi Diari “Sono a Genova, sono nel Sud”, 

Roma era privilegiata terra “dove fioriscono i limoni”, 

il vero Sud tanto vagheggiato

 

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AUDENO, VESCOVO DI CASSANO di Mario Manzin – Numero 11 – Luglio 2018

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AUDENO, VESCOVO DI CASSANO

 

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Il foglietto è tuttora conservato nel Liber ma da una più attenta lettura si evince che a consacrare l’altare il 6 settembre 1578 fu sì un “episcopus cassanensis”, ma non l’Owen, bensì Giovanni Battista Serbelloni che resse quella diocesi dal 1561 fino alla rinuncia avvenuta nel 1580.

Al parroco prealpino era evidentemente nota la storia antica 

della lontana diocesi calabra


ed era a conoscenza che, dal 1553 fino all’Owen, era stata illustrata da tre eminenti prelati legati a Carlo Borromeo. Con il santo arcivescovo i tre intrattennero strettissime relazioni anche familiari: Gianangelo Medici, zio del santo, eletto poi pontefice con il nome di Pio IV; Matteo Sittico Altemps, cugino del Borromeo e, dopo la sua rinuncia, Giovanni Battista Serbelloni.

In queste brevi note sembra buona cosa riproporre la figura dell’Owen, 

vissuto in un periodo tra i più tormentati della storia d’Europa 

e della Chiesa, che proprio nella Diocesi di Cassano 

attuò alcune delle più significative novità 

successive al Concilio di Trento.


Nasce a Llangadwaladr, nell’Anglesey, dunque gallese, il 28 dicembre 1533. La sua educazione si forma a Winchester e al New College di Oxford, diplomandosi nel 1558 dottore in diritto civile, nell’atmosfera torbida della restaurazione cattolica tentata da Maria Tudor; ma la carriera di docente avviene in concomitanza con l’avvento al trono di Elisabetta. Non accetta l’Atto di supremazia e ripara nelle Fiandre.

Nominato alla cattedra di diritto civile e canonico nella nuova Università di Douai 

col titolo di regius professor, prevosto nel capitolo di Cambrai, dal suo arcivescovo viene inviato a Roma per discutere un delicato affare giuridico e svolge l’incarico 

con tale competenza che papa Gregorio XIII lo trattiene, intuendo le sue capacità soprattutto nell’attuazione dei decreti tridentini riguardanti i seminari.


Diventa referendario dell’una e dell’altra Segnatura. Era attivo a Roma, dal 1362, l’Ospizio inglese della SS Trinità e di S. Tommaso, meglio conosciuto sotto il nome di Ospizio dei Pellegrini inglesi in via Monserrato: Owen convince il pontefice a trasformarlo in Collegio-Seminario rendendolo aderente alla realtà del momento storico. Nell’autunno del 1579 Carlo Borromeo è a Roma, conosce Owen, ne apprezza le qualità e lo porta con sé a Milano, nominandolo suo confessore e quindi vicario generale, affidandogli la riforma dei seminari, incarico che svolgerà con impegno guadagnandosi l’apprezzamento dell’arcivescovo che lo definisce “ottimo personaggio e mio amico carissimo e come fratello”. Sono ambedue vicini a Maria Stuarda, l’infelice regina che dimostra stima per il gallese. Incarcerata, scrive a Carlo Borromeo chiedendogli preghiere e l’arcivescovo risponde confortandola. Avviandosi alla conclusione così si esprime: “Lewis Audoeno, mon vicaire, m’a dit que votre Majesté désiderait vivement que la recommandasse à Jésus Christ”. Si dice a disposizione ma quando nel 1587 Maria sarà decapitata, egli sarà da tempo nella tomba.

L’attenzione della Curia romana su Owen non era mai mancata e il 3 febbraio 1588 papa Sisto V lo nomina vescovo di Cassano, oggi Cassano all’Ionio, dominio spagnolo. Consacrato il 14 febbraio, parte il 26 marzo per la sua “montagnosa Diocesi calabrese”. Amministrarla non era impresa facile. A parte l’estensione 

del territorio popolato da latini ed albanesi di rito greco, il vescovo godeva anche 

del temporale dominio su Mormanno e Trebisacce con la giurisdizione 

“in criminalibus” eccettuati due casi, “videlicet ubi venit imponenda 

poena mortis et mutilationis membri”.


In quell’estremo lembo della penisola non erano stati pochi i vescovi che vi avevano soggiornato con scarsa continuità; non così Owen, che sente l’importanza dell’incarico e, memore degli insegnamenti controriformisti borromaici, si impegna anzitutto sull’istruzione dei preti, organizza il IV Sinodo Diocesano, conduce la prima Visita pastorale al territorio, istituisce la Congregazione per l’insegnamento della dottrina cristiana, l’orazione delle “Quarant’ore”, il registro dei poveri, fonda diverse Confraternite di laici e altre iniziative di uguale peso. Secondo il dettato tridentino era teso alla razionalizzazione della diocesi di cui il seminario doveva essere struttura portante. Già nel 1565 nel sinodo indetto dal vescovo milanese Giovanni Battista Serbelloni si erano nominati quattro ecclesiastici per avviarne la costruzione, ma evidentemente non se n’era fatto nulla perché il suo successore Tiberio Carafa lo fondava per decreto nel 1588. L’Audeno (il nome sarà sempre latinizzato) lo conferma e passa immediatamente all’organizzazione entrando nel concreto e stabilendo in 12 il numero dei seminaristi. Nella sua Diocesi, il Nostro ha lasciato anche tracce lapidee. Sul piede del fonte battesimale della cattedrale di Cassano e sulla parete di fianco è conservato il suo blasone definito dagli esperti “di sobria eleganza geometrica, triangolato col capo alle tre stelle in fascia” assai raro nell’araldica italiana. Lo stemma è riportato su una formella lignea applicata nella parte bassa del vicino altare. Un terzo bell’esemplare del blasone si reperta su una parete esterna dell’antico seminario di Mormanno

Nel 1591, grazie ai buoni rapporti con papa Gregorio XIV, ottiene per la Diocesi 

di Cassano, alcune indulgenze perpetue conservate in una pergamena 

con sigillo datata 10 maggio 1591.


In quei giorni doveva trovarsi a Roma perché il papa stesso il 20 giugno gli comunica la nomina a Nunzio Pontificio in Svizzera. Il vescovo obbedisce ma senza nascondere una certa riluttanza perché, dichiara, era necessario seguire le iniziative del concilio tridentino felicemente avviate in Cassano: si nota ancora una volta quale peso abbiano avuto su di lui gli insegnamenti borromaici ai quali si ispirava la sua azione riformatrice. Ciononostante, parte per la nuova destinazione e a Bologna incontra il cardinale Ottavio Paravicini che era stato Nunzio in Svizzera negli ultimi quattro anni e gli presenta un fosco quadro della situazione in quel paese. Fa cenno soprattutto alla irrisolta questione del pagamento dei mercenari da parte della corte papale, ragion per cui gli svizzeri, se il debito non fosse stato saldato, avrebbero rifiutato di accogliere un altro Nunzio. Roma viene messa al corrente e ordina il rientro con grande sollievo di Owen come si evince da una lettera nella quale parlando della Svizzera, il paese che avrebbe dovuto accoglierlo, afferma che “l’aria freddissima, il brusco et barbaro proceder et la conversatione soldatesca di quella natione haveria bisogno di complessione di ferro, d’età manco di 60 anni, et di Nuntio che saperia fare il buon compagno et supportare il brindisi di molte hore, et d’esser quasi mezzo-soldato alle volte con loro”

 

Nel 1592 è ancora lontano da Cassano perché risulta al seguito di papa Aldobrandini, Clemente VIII, nella visita alle chiese di Roma con l’incarico di esaminare la preparazione teologica degli ecclesiastici. Avrà a fianco Ludovico de Torres, l’eminente e coltissimo arcivescovo di Monreale, in quei giorni impegnato nella liberazione di Torquato Tasso che, al presule, dedicherà due sonetti.

Secondo alcuni storici dopo queste nuove esperienze l’Owen non avrebbe più fatto ritorno nella sua diocesi calabra. Pare non sia così se dà corso ad un’altra iniziativa di profondo significato sociale, la fondazione, il 24 novembre 1593, 

del Monte di Pietà nel borgo di Papasidero


(dal greco “Papas Isidoros”, capo di una comunità basiliana), organismo dalla duplice finalità. Lo statuto del Monte e il relativo regolamento per il maritaggio delle ragazze povere sono contenuti in un manoscritto apografo, copia ottocentesca dell’originale. Sono 52 gli articoli che definiscono la costituzione dell’organismo caritativo-assistenziale, e 12 quelli del maritaggio. Dopo la morte di Owen, avvenuta a Roma il 14 ottobre 1595, la diocesi cassanese sarà gestita da altri personaggi eminenti e la sua storia ecclesiastica si misurerà con quella civile. Un’opera inedita conservata manoscritta nella Biblioteca nazionale di Vienna, opera di Francesco Cassiano de Silva datata 1693, ne racconta brevemente la storia così concludendo: “Fu Marchesato dei Signori Sanseverini, hoggi è della nobile Famiglia Serra Genovese, e co’ suoi Patrizj 284 Fuochi li ha’ numerati la Regia Corte”.

 

 

 

 

 

 

 

ameno paese dell’alto lago Maggiore in Diocesi di Milano, ad un tiro di schioppo dal confine elvetico, un parroco alla fine dell’Ottocento annotava di aver rinvenuto, durante lavori di restauro ad un altare dell’antica Canonica, un foglietto stinto e scarsamente leggibile attestante la consacrazione della mensa da parte di Ludovico Lewis Owen, “episcopus cassanensis”.

 

 

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