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IL FIGLIO DEL SUD E LA CULTURA AL POTERE di Gianluca Anglana – Numero 19 – Dicembre 2020 gennaio 2021

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IL FIGLIO DEL SUD E LA CULTURA AL POTERE

 

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dell’incoronazione di Federico II di Svevia imperatore: la sua consacrazione avvenne a Roma, per mano di papa Onorio III, il 22 novembre 1220.

Sono passati ottocento anni da allora. Eppure,

il fascino e il carisma di questo monarca sembrano sopravvivere 

allo scorrere del tempo.


L’Italia contemporanea gli è per varie ragioni debitrice. Il patrimonio artistico, moltiplicatosi grazie ai poderosi investimenti di Federico nel settore dell’edilizia regia, è composto di una fitta rete di residenze e fortezze: di esse l’emblema più noto è senza dubbio Castel del Monte, simbolo della maestà che si autoproclama assoluta, gigantesco diadema ottagonale apposto dal sovrano sull’amata Puglia, a ratifica del proprio imperio e sigillo di un’unione quasi sponsale.

Lo sforzo finanziario nell’architettura e l’ideologia ghibellina della Corte sveva 

diedero impulso a un’insigne generazione di artisti


e linfa a una delle due correnti interpretative in cui, nel corso del Duecento, venne a declinarsi la scultura italiana: la riscoperta, tutta meridionale e in chiave filoimperiale, di linguaggi espressivi attinti alla romanità classica, in alternativa al naturalismo di matrice padana. In questo clima culturale eccelse Nichola de Apulia, passato alla storia come Nicola Pisano: acclamato dai contemporanei come le archistar dei giorni nostri, fu autore di capolavori che tuttora impreziosiscono chiese e piazze dell’Italia centrosettentrionale.

Per Federico, la cultura era un tramite con cui esercitare la propria autorità: 


il recupero della classicità era funzionale alla propaganda imperiale, l’istituzione a Napoli, nel 1224, della prima università statale d’Europa era finalizzata alla formazione e all’impiego di giuristi al servizio della Corona. Ma la cultura era anche uno spazio di dignità affiancato al potere: Federico implementò l’autorevolezza della scienza, potenziando la scuola di medicina di Salerno, e incoraggiò la produzione lirica della poesia volgare di cui Palermo divenne centro propulsore. 

Lui stesso compose versi. 

Il suo celeberrimo trattato, De arte venandi cum avibus, dedicato alla caccia praticata con l’utilizzo di rapaci, è tanto una delle maggiori testimonianze scientifiche del Medioevo quanto la spia della vivida curiosità dell’autore per le scienze naturali.

Il sapere, da cui Federico fu forgiato, era per definizione privo di confini; 

la sua Sicilia un microcosmo fertile di contaminazioni, un luogo insolito 

in cui convivevano greci, ebrei, musulmani e cristiani.


Egli crebbe all’insegna delle diversità: se dai cinque ai sette anni ebbe come tutore il frate Guglielmo Francesco che lo avviò all’apprendimento del latino e all’educazione cristiana, dai sette ai dodici anni fu affidato alla guida di un imam musulmano, venendo così in contatto con riti, costumi e religione islamici. Federico parlava arabo, greco, provenzale, siciliano e latino, tutti idiomi di latitudine meridionale: das Kind aus Apulien, il fanciullo di Puglia, seppur di stirpe autenticamente germanica, necessitava di un interprete per il tedesco[1].

Affascinato dall’Oriente, fece di Lucera una medina araba adorna di moschee 

ed echeggiante delle voci dei muezzin, 


concentrandovi i saraceni prelevati dalla Sicilia (costoro sarebbero divenuti un corpo scelto della guardia dell’imperatore, garantendogli una fedeltà incondizionata). 

Fu grazie alla sua formazione poliedrica e alla sua tolleranza che, in età matura, Federico poté intessere

 

scambi epistolari con dotti islamici


e che, in occasione della sesta crociata,

riuscì a riconquistare la Terrasanta con il solo ricorso alla diplomazia,


quando altri avrebbero di gran lunga preferito uno spargimento di sangue come si deve e lo sterminio degli infedeli.

Il sovrano svevo amò circondarsi di intellettuali, che ospitò a corte


(come nel caso di Michele Scoto, Teodoro di Antiochia, Ibn Sab’in, Jakob Ben Abamari) o da cui si recò in visita (come nel caso del matematico toscano Leonardo Fibonacci, che incontrò a Pisa nel 1226).

I giureconsulti furono spesso precettati


sia nella progettazione di riforme di rilevanza capitale (come le Costituzioni di Melfi del 1231) sia nella gestione sul territorio delle concessioni imperiali (se è vero che Federico fu incapace di comprendere le istanze delle autonomie comunali italiane, è altrettanto vero che, nelle province più settentrionali dell’impero, fece scelte che avrebbero avuto conseguenze a lungo termine: ad esempio, l’elevazione di Lubecca a “città di immediatezza imperiale” avrebbe creato un modello per altri centri urbani e posto le basi per l’affermazione, nei secoli successivi, della Lega Anseatica). Gli intellettuali dovevano essere quanto più possibile prossimi al baricentro del potere, cioè al trono.   

 

Federico fece largo uso della guerra per difendere il prestigio imperiale e si armò anche della cultura, ma

perse nella lotta con i papi che lo scomunicarono per ben tre volte


e gli lanciarono contro interdetti e una battente campagna di discredito, fino al punto di trasformare in Anticristo colui che tempo prima era ribattezzato Filius Ecclesiae o celebrato come Meraviglia del Mondo. 

Egli finì per soccombere, forse anche perché precorse i tempi, non ancora maturi per figure di prìncipi inclini alle arti o bulimici di erudizione.

Federico era persuaso che è sterile la vita di chi resti lontano 

dall’astro della conoscenza. 


Ottocento anni dopo, in un’era in cui le ragioni della cultura sono spesso sacrificate ad altre rivendicazioni, in cui si diffida delle scienze, in cui l’avversione al sapere può persino diventare un vessillo, è forse questo il lascito più significativo dell’imperatore che fu il Figlio del Sud.

 

 

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 [1] Teresa Sardella, Federico II tra impero, papato e aristocrazie, in Federico II e il suo tempo, Edizioni di storia e studi sociali, 2016, p. 16.