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IL SAPORE DELL’INCOSTITUITO, OVVERO LA SULFARA TULUMELLO di Alessandro Gaudio – Numero 2 – Ottobre 2015

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È mediante uno strumento naturale di osservazione che si può connettere l’opera di un pittore, di un poeta, di un romanziere o anche di un filosofo, di un fotografo, di un musicista o di un artigiano a un luogo geografico, sempre che sia individuato con la massima precisione storica, oltre che geografica. Tale spazio particolare non è necessariamente quello in cui l’artista in questione è nato o nel quale svolge la propria attività, ma è a questa che si riannoda per un qualche rispetto ed è, ovviamente, situato a Sud. Muovendosi lungo il nesso tra arte e realtà a essa contingente, impugnando la storia, la geografia e la scienza della cultura occidentale e dei suoi limiti più estremi (quelle meridionali),

IL SAPORE DELL’INCOSTITUITO, OVVERO LA SULFARA TULUMELLO

 

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partecipa alla costruzione della realtà, anticipando gli approdi delle scienze umane o, magari, contribuendo a un loro assetto più funzionale.

È questa la via difficile di un moderno umanesimo che si snoda oltre i margini d’espansione della civiltà tardocapitalistica e che consente, al contempo, di sviluppare la coscienza di una nuova dimensione mediterranea; ovvero, di delineare una nuova mappa del Meridione che serva a guidare i lettori di «Myrrha» lungo un itinerario (intellettuale, ma non soltanto d’arte) mai percorso prima, un nuovissimo compendio dell’inattualità meridiana, nel cuore della cultura europea. Per far ciò, si riproduce un lavoro dell’artista scelto, accompagnato da una ricognizione critica che ne delinei sinteticamente le peculiarità ed, eventualmente, le connessioni con il luogo corrispondente.
Inizio con Agostino Tulumello, un artista nato nel 1959 a Montedoro, borgo situato a circa venti chilometri a ovest di Caltanissetta, vicino a Racalmuto, a Canicattì, a Serradifalco, in Sicilia.

I fili dell’opera intessuta da Tulumello − allo stesso modo − restituiscono l’estensione singhiozzante della realtà e del modo in cui essa viene percepita, avviluppata dai sensi come tra le spire brulicanti e ammaliatrici di un serpente d’acqua

Nelle sue opere egli è solito individuare un elemento visuale primigenio che, scelto per la sua elementarità, possa rinviare al processo (anche psicologico) della creazione, all’interno del quale si preparano le relazioni tra gli elementi, le gradazioni pittoriche e la prospettiva.

 

1 A. Pizarnik, Árbol de Diana [L’albero di Diana, 1962], in Ead., La figlia dell’insonnia, Milano, Crocetti, 2015, p. 38. Si riporta la traduzione di Claudio Cinti, curatore dell’unica raccolta antologica della poetessa argentina pubblicata in Italia: «Questi fili imprigionano le ombre / e le obbligano a render conto del silenzio / questi fili uniscono lo sguardo al singhiozzo» (ivi, p. 39). 
2 Sulla dimensione frattale esibita nell’opera di Agostino Tulumello e sullo schema iterativo e omotetico tipico del suo tratto si rimanda a A. Gaudio, Consistenza e caso. Idea e confini del neodadaismo da Cage a Pleynet e oltre, «Diacritica», a. I, fasc. 1, 25 febbraio 2015, pp. 49-60, in particolare pp. 52-54; ma si veda anche Id., Al di qua del linguaggio. La concezione scritturale dell’opera di Agostino Tulumello, «Rivista di Studi Italiani», a. XXXIII, n. 1, giugno 2015, pp. 793-796.

 

Nelle tele della serie di cui fa parte l’opera qui riprodotta, denominata Scrittura come cibo, egli tenta − come è sua consuetudine − di congelare alcuni degli elementi che poi precipiteranno nella figurazione e, pertanto, nella determinazione del gusto. Cosa accade nel processo di figurazione di un’opera d’arte prima che il gusto si orienti? Sembra che l’interesse di Tulumello verta intorno a tale questione; tuttavia, ci troviamo ben al di qua rispetto alla poesia gastronomica di Franco Verdi, esperimento ironico e irriverente nei confronti dell’atto creativo disimpegnato, precostituito e inscatolato; eppure, si può guardare a quell’operazione portata avanti dal poeta visivo veneto nel 1969 per comprendere meglio il valore del godimento per l’incostituito, proposto dal pittore siciliano. A questo stadio (quando ancora non ha fame), il processo sensoriale non va alla ricerca delle sottigliezze della modulazione del gusto, del sapore; mira, invece, a un concentrato di senso, inodore e insapore appunto, a un’immagine persistente o consecutiva che non segni il verso di una definizione; ricompone una totalità integrale, una grandezza sensoriale intera, colta nella sua indivisibilità non ancora orientata.
Guardando i segni grafici di Tulumello e facendo un ulteriore passo all’indietro, torna alla mente ciò che, nel 1962, sosteneva la poetessa di Buenos Aires Alejandra Pizarnik a proposito di un disegno di Wols, pseudonimo di Alfred Otto Wolfgang Schulze, pittore informale berlinese: «Estos silos aprisionan a las sombras / y las obligan a rendir cuenta del silenzio / estos silos unen la mirada al sollazzo».1

(della biddrina, magari, l’animale mitologico ferocissimo che vive nelle campagne di Caltanissetta), allorché il significato di quella realtà non ha ancora raggiunto un’estensione riconosciuta, un spazio di quiete. Lo spazio dell’opera di Tulumello coincide con l’inferno fisico fatto del dedaleo e folto andirivieni delle volute e dei nodi del serpente o, anche, delle esalazioni dello zolfo di Sicilia: esso è ridondante come l’eco dei colpi di piccone che, sino alla fine degli anni Cinquanta, risuonavano nelle miniere di Montedoro, nel cuore dell’altopiano gessoso-solfifero dell’isola; esso è opprimente così come l’alternarsi dei pieni e dei vuoti nell’attesa che il linguaggio dia forma ai versi della Pizarnik.
Il senso del progetto artistico di Tulumello è da includere, così, nella tradizione non figurativa e neodadaista che, muovendo dalle scritture bianche del pittore americano Mark Tobey, passa dai lavori poetico-visuali dell’artista belga Paul De Vree e, magari, arriva alle figure, geometriche o no, e agli ideogrammi dell’uruguaiano Clemente Padin e ad alcune espressioni della transavanguardia italiana (quella del già citato Verdi, ad esempio); esso non deve essere ricercato al di fuori di questa significazione originaria perché è proprio a partire da essa che ogni pensiero razionalizzato si dispiega: mostrando lo stato nascente dell’idea, l’artista di Montedoro riflette sulla funzione dell’immaginazione, sulla facoltà del possibile e, dunque, sull’efficacia stessa dell’immaginario. È in questo luogo che il tratto significante della scrittura si coniuga strutturalmente con il suo elemento figurativo, pur non essendo ancora decifrabile.2