IL CUORE DEL VULTURE: LA BADIA DI SAN MICHELE di Sergio Spatola numero 22 settembre ottobre 2021 ed. Maurizio Conte

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affidandosi alle sapienti mani di colui che non solo li vive ma li ama, senza porsi domande e senza consultare guide – insomma, ponendosi favorevolmente nei confronti dell’ignoto – è già un’avventura. Naturalmente la qualità umana dell’ospite gioca un ruolo essenziale e, nel caso di chi scrive, è una certezza.

Se il “dove” è la Basilicata, poi, ci si può ubriacare da tanta bellezza e sentirsi così “persi” nei boschi, nelle alture, nei punti panoramici, nei castelli, da provare quella fugace emozione chiamata felicità.

In questo caso specifico, il crescente stupore, culminato in meraviglia,


ha avuto inizio sul Monte Carmine ad Avigliano, ove è adagiato l’omonimo santuario. È un luogo per tutti: religiosi e non. Mentre il primo potrebbe fare anche una sosta mariana, entrambi potrebbero godere di un panorama che comprende tutta la Basilicata, dal confine campano a quello pugliese, che, con il suo tavoliere, si para all’orizzonte orientale.

E poi c’è il Nord, verso il quale solitario, maestoso, cromaticamente riconoscibile 

per via dei boschi che non sono stati strappati in favore dell’agricoltura, 

si erge lui, il vulcano ormai spento: il Vulture.

Lungo il percorso che da Monte Carmine porta nel cuore del cratere, ci si imbatte nel castello federiciano di Lagopesole. Tra non molto sarà possibile rivederlo. Nel frattempo, il noto calore umano meridionale di qualche operatore del Nucleo di Tutela della biodiversità ve ne parlerà e vi racconterà dei lavori che lo stanno portando all’antico splendore.   

 

Superata la zona dell’Aglianico, per chi non volesse e non potesse fermarsi a gustarlo lentamente, accompagnato magari da strascinati con cacio ricotta e peperone crusco, lo attendono i boschi di querce che sussurrano una promessa: entra nel vulcano e vedrai! 

Hanno ragione. 

Cos’è questa meraviglia? Non sono i due laghi (il maggiore e il minore) di Monticchio con un grado di biodiversità tale da avere il diritto a un documentario tutto loro e che costituiscono uno spettacolo di rara bellezza, ma quello che incastonano insieme alle pareti del cratere. 

Mi riferisco al luogo che custodiscono:

l’Abbazia di San Michele Arcangelo, che la devozione, già precedente all’anno mille, 

e il tempo hanno connotato di una tale stratificazione architettonica 

da essere tuttora studiata.


Quel luogo era destinato: già in epoca pre-cristiana vi si venerava una dea femminile, per poi, dall’epoca bizantina in poi, essere dedicato a San Michele Arcangelo. 

E la santificazione della forza e del coraggio, tipicamente attribuite all’apice della schiera angelica, non poteva che trovare luogo più adatto per essere celebrata, pur non facendo parte della cosiddetta Linea Sacra. 

La stessa storia della lunga, incessante e perigliosa costruzione della Badia lo testimonia.

Tutto ha avuto inizio con i Benedettini che fino al XVI secolo hanno gestito sia il luogo che le risorse patrimoniali, compresa la fonte che ancora oggi 

concede la sua acqua ricca di sali minerali.

Ma la storia architettonica del luogo che oggi vediamo ha a che fare con un evento fin troppo familiare: un terremoto. La catastrofe del 1456 ha spinto i monaci del monastero di Sant’Ippolito, posto in basso tra i due laghi, a portare il culto micaelico sulla rupe in cui sono custodite le tracce più antiche del sito. Da quel momento, i frati Agostiniani prima e i Cappuccini poi hanno completato l’opera che oggi può essere ammirata, o meglio percepita.   

 

La Badia è visibile nella sua interezza dal lago maggiore, perché quando ci si trova dentro è talmente ripida la facciata che la prospettiva non può essere interamente colta, a testimoniare quanto scoscesa sia la base di roccia a cui letteralmente è stata appesa.

Un luogo di preghiera innanzitutto, e soprattutto, per un religioso 

e un luogo di introspezione per chi non lo è.

Affacciarsi dalle vetrate della chiesa o scorgere dalla finestra di una stanzetta che era una delle celle dei monaci – perfettamente conservata, compresi gli arredi – offre una tale visione del creato che doveva necessariamente avvicinare lo spettatore a qualcosa di supremo. Ciò che l’uomo ha voluto fare a Monticchio non è venerare, ma avvicinarsi a Dio, cercando di cogliere un angolino della sua immensa bellezza, a prezzo di appendere un’opera d’arte su una scarpata della creatura più temibile in natura, un vulcano.

 

 

 

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