“LA NOSTALGIA DEL BELLO” di Marta Rizzo – Numero 8 – Luglio 2017

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“LA NOSTALGIA DEL BELLO”

 

La Calabria è stata la patria di Pitagora e tutto, qui, ricorda che la Magna Grecia c’è: “La gente di questi paesi è di un tatto e di una cortesia che hanno una sola spiegazione: qui, una volta, la civiltà era greca” – scrive Cesare Pavese

 
in una lettera alla sorella Maria, durante il confino impostogli dal regime fascista, tra il 1935 e il ’36, a Brancaleone (RC). Ed è stata raggiunta anche da latini, normanni, popolazioni baltiche (sempre meno, ma esistono ancora piccole comunità che parlano il greco-albanese). I coloni achei che giunsero qui dalla Grecia chiamavano Vituli gli abitanti del luogo, il cui etimo è da riferirsi a quello di toro (molti nomi di paesi, parlano di tori: Bova, Bovalino, Taurianova, Gioia Tauro). Il nome ha origine dal greco Kalon-brion: “faccio sorgere il bene”, ma potrebbe anche derivare da Calabri: “abitanti delle zone rocciose”. Tori rocciosi, i calabresi: oltre ogni semplificazione, sono davvero così.
 
Ci sono stati passaggi importanti, in Calabria, da parte
del grande cinema italiano e non solo.

 
È l’inaspettata meraviglia di questo posto ad aver incantato grandi registi. Il cinema, in Calabria, ha raccontato cose preziose, in uno spazio prezioso: Mario Camerini (Il brigante Musolino, 1950), Pier Paolo Pasolini (Il Vangelo secondo Matteo, 1964 e Comizi d’amore, 1965), Mario Monicelli (L’armata Brancaleone, 1966), Luigi Comencini (Un ragazzo di Calabria, 1987). Tutti sono rimasti folgorati dalla violenta bellezza antica di questi spazi. Eppure, a parte questi grandi, i film girati in Calabria hanno uno sfondo piuttosto stereotipato: dai briganti di Camerini ai mafiosi, o comunque svogliati e tendenzialmente delinquenziali personaggi del Meridione di Ficarra e Picone (Il 7 e l’8, 2007), Antonio Albanese (Qualunquemente, di Giulio Manfredonia, 2011), Checco Zalone (Quo Vado?, 2016).  Da qualche tempo, però, nella regione si percepisce una cauta ma positiva rinascita, dovuta anche al nuovo assetto della Fondazione Calabria Film Commission, oggi gemellata con quella della Lucania. La Film Commission calabrese nasce nel 2006, ma, in seguito ai debiti accumulati, processi e il commissariamento, non realizza nulla di buono nei suoi primi anni di vita. 
 
La nuova generazione del cinema calabrese e la nuova, attiva,
Calabria Film Commission

 
Intanto, qui, si formano registi di grande interesse, come Fabio Mollo, di Reggio Calabria. Pur dichiarando di sentirsi profondamente calabrese, ora è cittadino del mondo e regista affermato; ma, i sui primi documentari e il suo esordio, Il sud è niente (2013), hanno espliciti riferimenti al reggino; così come Il padre d’Italia (2017), candidato ai Globi d’Oro per gli attori Isabella Ragonese e Luca Mainetti, è girato tra Rosarno, Gioia Tauro e Reggio Calabria. È un altro film, realizzato nel 2014, a segnare una nuova fase del cinema di questa regione: Anime Nere è girato in Aspromonte, con lo stile del western (che in Italia ha avuto grandi maestri e successi internazionali). Si parla di ’ndrangheta, sì, ma lo si fa fuori dagli schemi, con coraggio e forza. Il film di Francesco Munzi vince 9 David di Donatello, 2 Ciak d’Oro e altri prestigiosi premi cinematografici. Nell’agosto del 2016 si procede ancora nella messa a punto delle attività audiovisive regionali, con la nomina del nuovo presidente della Calabria Film Commission, Giuseppe Ciprigno, esercente e membro della commissione ministeriale MIBACT, e del direttore pro tempore, Paride Leporace, già direttore della Lucania Film Commission: le 2 regioni danno vita a un nuovo e positivo progetto di collaborazione, piuttosto innovativo e fecondo, il progetto Lu.Ca.    
 
Oggi, la Fondazione Calabria Film Commission dispone di 500.000 euro l’anno e adotta una linea di intervento per il sostegno di produzioni cinematografiche nazionali e internazionali che scelgono di ambientare le nuove produzioni cinematografiche sul territorio. La Film Commission calabrese partecipa ai festival di Venezia, Cannes e a tutti i principali festival nazionali ed europei, promuovendo la regione e le sue attività. Parallelamente, offre formazione professionale e sostegno per nuove produzioni, promozioni e diffusioni di film realizzati da calabresi. Come recentissimo successo territoriale e divulgativo, la Regione e la Calabria Film Commission hanno finanziato uno sceneggiato televisivo, le cui riprese sono iniziate in giugno, sulla figura di Mimmo Lucano, sindaco di Riace (RC), e sulle sue innovative politiche di accoglienza dei migranti che, con un lavoro quotidiano e per lo più sconosciuto,  testimoniano lo spirito d’ospitalità dei calabresi (il calabrese è così: lavoratore, accogliente, talmente orgoglioso da non chiedere il riconoscimento della propria fatica). Lo sceneggiato andrà in onda nel febbraio 2018, su RaiUno. È con questa mentalità positiva, che si è arrivati a vedere il bel A Ciambra: una storia struggente di incontri tra ultimi sullo sfondo della frazione di Palmi, che si chiama Ciambra appunto, nel Golfo di Gioia Tauro. Il film di Jonas Carpignano, newyorkese-romano che da 7 anni vive a Gioia Tauro, ha entusiasmato critica e pubblico alla Quinzaine di Cannes nel maggio scorso, infondendo maggiore fiducia a una terra sulla quale trionfano i luoghi comuni, ma che si rivela vitale e priva di pregiudizi.
 
I registi nati qui, come molti calabresi, sono anche cittadini del mondo
 
Poi, ci sono i registi calabresi, che sono legatissimi, come rocce, alla Calabria e contemporaneamente riescono a integrarsi ovunque. La comunità dei calabresi nel mondo (www.calabresi.net) è una tra le più grandi. Emigranti, per necessità, ma forse anche curiosi, i calabresi. I registi nati qui, sono davvero cittadini del mondo: Carlo Carlei, per esempio, ha lasciato la sua Nicastro (CZ), prima per Roma, poi per gli Usa, dove ha avuto una nomination ai Golden Globe con La corsa dell’innocente (1994), fino al più grande successo internazionale di Romeo and Juliette (2013). E poi, Massimo Scaglione, formatosi a Los Angeles, e Andrea Frezza, regista e documentarista di Laureana di Borrello (RC), che ha vissuto in California. Ultimo nome, esemplare, è quello di Gianni Amelio: raffinato, colto, penetrante. Osservatore silenzioso, attentissimo alle pieghe intime dell’individuo, alle crisi del mondo, ai dolori della società. Riservato e gentile, Gianni Amelio, calabrese di Magisano (CZ), ha sconvolto, incantato, commosso il mondo con film come Porte Aperte (1990) tratto da Leonardo Sciascia, Il ladro di bambini (1992), Lamerica (1994), La stella che non c’è (2006), Felice chi è diverso (2014), fino all’incantevole, ultimo, La tenerezza (2017).
 
Intervista a Mimmo Calopresti: Come si può essere calabresi?
 
A un regista, sceneggiatore, attore, produttore calabrese nel mondo, si è scelto di fare alcune domande riguardo il suo rapporto con la Calabria. Parafrasando Leonardo Sciascia, che iniziava la raccolta di saggi Fatti diversi di storia letteraria e civile (1989) con il capitolo intitolato: “Come si può essere siciliani?”, e anche Gian Maria Volonté, interprete del grande film del calabrese Gianni Amelio, Porte aperte (tratto anch’esso da Sciascia), che nell’evocativa scena di viaggio sul traghetto sullo Stretto di Messina, concludeva il suo intenso monologo, allo stesso modo, con la domanda: “Come si può essere siciliani?”, a Mimmo Calopresti abbiamo chiesto: “Come si può essere calabresi”?
 
Cosa ricordi della Calabria, da bambino?
 
Ho lasciato Polistena (RC), dove sono nato, a soli 2 anni: ci siamo trasferiti a Torino, come tanti migranti, mio padre faceva l’operaio. La famiglia Calopresti appartiene a quella grande parte d’Italia che è partita, amando il proprio Paese, per sopravvivere in giro nel mondo; c’è un Domenico Calopresti, mio antenato e omonimo, che è arrivato a New York come migrante, nei primi del ’900. Ma per me, la vita calabrese è stata, ed è, decisiva. L’infanzia calabrese era estiva, soprattutto, e di sole donne: donne e bambini, perché gli uomini lavoravano al nord. Come in guerra… Estati intere senza maschi adulti. Vivevamo quelle giornate bollenti tra anziani, donne e bambini. Curioso e indimenticabile, formativo e utilissimo, quel tempo. Io stavo bene.
 
Che immagine associ alla Calabria?
 
L’immagine della mia Calabria è quella di un Eden. L’ho anche criticata molto, nel tempo, ma l’idea che ne ho è quella di un Paradiso. Sono nato nella Calabria dello Stretto, tra la parte più estrema del continente e la Sicilia. La Calabria dello Stretto di Messina è profondamente greca: sente tutta la nostalgia della fine del continente Europa, si apre al Mediterraneo e ricorda la propria storia: la civiltà greca, dalla quale è nata. Parlo di Calabria dello Stretto perché esistono varie “Calabrie”, per gli stessi calabresi: i cosentini, per esempio, sono e si sentono molto diversi dai crotonesi e viceversa; come chi è nato in Sila, si sente, ed è, più parte delle montagne che del mare – Anche se la giornata, estiva intendo, del calabrese si svolge svegliandosi tra i boschi di castagni, e poi giù, soltanto un’ora di macchina per fare un tuffo al mare, mangiare cibo squisito e andare alle feste, nelle piazze – Viaggio parecchio per la Calabria, la conosco (anche se nasconde dei posti che mi stupiscono e scopro sempre qualcosa di nuovo). Soprattutto da qualche anno, ci sono molte iniziative culturali, musicali, cinematografiche, retrospettive e rassegne, festival. Un altro tratto della Calabria è la vitalità, cosa che appare inaspettata a chi non è calabrese.
 
Come sono i calabresi?
 
Non lo so, se ne sono andati tutti… Ho parlato delle estati femminili della mia infanzia perché davvero penso che sia una regione disgregata, scissa: intendo dire che la miseria e l’inquietudine qui sono così presenti e tangibili, che il calabrese è destinato ad andare via, quasi per principio, oltre che per necessità. Penso che i calabresi siano particolarmente adattabili e più accomodanti di quanto non si dica: l’orgoglio e la nostalgia  della terra, al di là di ogni retorica, spesso ci hanno difeso (e parlo anche per me) dalla diffidenza, dalle umiliazioni, dalle discriminazioni. I calabresi, in Germania, Svizzera o a Milano, sono stati fortemente discriminati, sin dall’immediato dopoguerra. E dico Milano perché lì è stata davvero dura la vita dei migranti del sud, mentre a Torino ho sentito sulla mia pelle una maggiore fiducia verso di noi, forse perché c’era un’identità collettiva più forte. Fondamentalmente, non penso che i calabresi fuori dalla Calabria abbiano meritato e meritino ancora la circospezione, a volte il sarcasmo, che invece vivono.
 
Quanto il tuo essere calabrese ha influenzato il tuo cinema?
 
C’è sempre, nei miei film, l’idea del Sud: un grande Sud, con grandi potenzialità. Non racconto solo la Calabria, ma l’intero Sud, che è il luogo dell’uomo per eccellenza. A Torino, c’era una comunità calabrese forte, ben integrata. E io stesso mi sento torinese. Ma il mio essere un uomo del Sud è più forte: è il richiamo dell’antropos, della polis, della civiltà greca. Nel mio cinema ritrovo sempre la nostalgia del bello, dell’essere del Sud, non soltanto calabrese.
 
Come racconti la Calabria nei tuoi film?
 
La racconto con parsimonia, nel senso che c’è, ma cerco di non abusare di quel richiamo, di quella nostalgia, che rischia di diventare retorica. Cerco di inserirla in un contesto generale, in racconti altri, che non riguardino esclusivamente quei posti. Perché, se i calabresi sono davvero cittadini del mondo, è la Calabria, come luogo e come idea del luogo, che stenta a diventare parte del mondo. Resta chiusa nei luoghi comuni, nella diffidenza da parte di chi non è calabrese, e questo è confermato dal fatto che chi va in Calabria per la prima volta, regolarmente, si stupisce della sua unicità, bellezza, accoglienza, allegria. Quando ho raccontato la Calabria, in Preferisco il rumore del mare o L’Abbuffata, ho cercato di aprirla ai fatti, alle storie di altri posti, di altre persone, non solo della Calabria...
 
Come vedi la Calabria, oggi?
 
Sono stato ovunque nel mondo e ho trovato calabresi ovunque nel mondo: dal Brasile, alla Russia, all’Europa tutta, all’America. E così, ho capito che dappertutto c’è la presenza dell’uomo, del luogo dell’uomo, del Sud. Nel mondo, cioè, circola ancora l’idea della Magna Grecia, della civiltà, di qualcosa di profondamente strutturato e forte, che arriva da lontano. E quest’idea è portata anche dai calabresi. Il punto è che la Calabria si deve aprire. Come ho detto, tutti quelli che scoprono la Calabria la amano e ci ritornano, perché è selvaggia, richiama l’ancestrale, i luoghi della memoria nascosta. Attualmente, poi, succedono cose nuove, positive, culturalmente parlando. Recentemente, ho letto sul New York Times che tra i primi 7 posti dove si mangia meglio al mondo, c’è la Calabria. E non è scritto su un giornale locale, ma su uno dei più importanti quotidiani del pianeta e si parla dei primi 7 posti al mondo dove gustare cibo: bello, no? I sapori calabresi, forti, delicati e potenti, sorprendono molto e sono radicati nella cultura calabrese. Ma c’è dell’altro, in Calabria. Forse, anche grazie a chi arriva qui scappando da guerre, fame, morte, la Calabria sta trovando, paradossalmente, nuova vita. Questi nuovi cittadini vengono accolti e spesso ripopolano interi paesi che erano quasi abbandonati; credo che questa nuova vita porti con sé un nuovo fermento. La parte sana e attiva della Calabria sta raccontando le storie di nuove persone e tutto questo fa nascere un nuovo punto d’osservazione, una riflessione superiore anche sulla propria cultura, che non può che arricchirsi e maturare insieme a quella altrui. Ecco, ora credo che la Calabria stia trovando la strada per essere davvero parte del mondo, in modo positivo e tangibile. 
 
Recentemente, per la Calabria, hai realizzato un progetto: Bella come un film. Di cosa si tratta?
 
È una specie di documentario, lo abbiamo fatto pochi mesi fa. Sono convinto che i calabresi, per far conoscere la Calabria migliore, debbano auto-raccontarsi. Così, da un’idea nata nell’Associazione Calabresi Creativi, con la Regione e la Calabria Film Commission, abbiamo lanciato un’iniziativa sui social networks – uso i social e ci lavoro: sono i nuovi luoghi dell’immagine in movimento, ma non ne abuso – Abbiamo chiesto ai calabresi di inviare su Instagram filmati girati da loro stessi, su quello che succede in Calabria: il mare, la montagna, i riti religiosi, le feste paesane, il cibo, la musica… Ne abbiamo ricevuti moltissimi, tutti interessanti e ne abbiamo premiati 5-6. Poi, ci è venuto in mente di montarli e farne un unico lavoro, sulla Calabria, fatto da calabresi. Mi è stato chiesto che lo montassi io ed è nato Bella come un film. Il presidente della Regione era entusiasta: è successo qualcosa di comunicativamente importante con quella cosa, in modo naturale. Lì ho davvero capito che, per aprirsi al mondo, la Calabria deve auto-raccontarsi, lo ripeto: è la migliore promozione che possa fare per se stessa. 
 
Per concludere, come vive tua figlia la Calabria?
 
Mia figlia ha 8 anni ed è curiosissima della Calabria. Io ci tengo molto che la conosca. Le racconto fatti, luoghi, storie di persone e lei vuole sapere tutto, mi fa un sacco di domande. Ma soprattutto, Clio nuota moltissimo, in Calabria.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

 

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Fabbricare, fabbricare, fabbricare
preferisco il rumore del mare
che dice fabbricare fare e disfare.
Fare e disfare è tutto un lavorare.
Ecco quello che so fare.
(Dino Campana)

 

la sua spettacolare natura sta lì per l’uomo. C’è tutto in Calabria: il mare, i laghi, la Sila e l’Aspromonte; cibo sorprendente nella sua complessa povertà gustativa; c’è odore di mare, di sole, argilla e finocchio selvatico; di castagni, querce, ulivi, funghi; ci sono feste paesane e riti pagani, religiosi, di grande valore antropologico, come ha insegnato Luigi Lombardi Satriani.

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NAPOLI “SPAGNOLA” di Sergio Lambiase – Numero 8 – Luglio 2017

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Che è un paradosso, o una boutade, ma con un fondo irriducibile di verità, soprattutto alla luce della impetuosa “barcellonizzazione” che ha investito Napoli negli ultimissimi anni, nel senso della iridescenza turistica e dello spettacolo insolito delle strade colme di viaggiatori incantati e qualche volta turbati. 

Come la Napoli di trenta o quaranta anni fa, Barcellona una volta era una città grigia, perfino triste, e chi vi capitava, per lavoro o per diporto, a stento si accorgeva del fascino del Paseo de Gracia con i capolavori del modernismo catalano o del fulgore del barrio gotico intorno alla cattedrale sontuosa dedicata a Sant’Eulalia. Poi vennero le Olimpiadi del ‘92 e la città mutò pelle, non più la vita sonnolenta, le strade vuote, la tristeza ereditata dal passato, ma nuove prospettive architettoniche, alberghi eleganti e musei rimessi a nuovo, e via, manco a dirlo, le ciminiere, la caligine, le vecchie fabbriche, i palazzi slabbrati, il grigiore del porto.

 

I tempi nuovi entravano a vele spiegate nella città cara a Gaudí, suscitando il malumore dei vecchi catalani, ma esaltando lo spirito giovanile in chi vedeva nella palingenesi turistica (e sportiva)

della città il motore di una invocata modernità.

 

Nel 2004, il Forum delle Culture, che invano si sarebbe tentato di replicare a Napoli, e con scarsa fortuna, una decina d’anni più tardi, rappresentò un’altra tappa avventurosa della modernizzazione di Barcellona, anche se nel sostituire il nuovo all’antico, qualcosa andava irrimediabilmente perduto. Chi scrive è stato testimone, sia pure occasionale, delle metamorfosi della città delle ramblas ai tempi del Forum. La metropoli aveva la febbre. Il quartiere di Poble Nou, roccaforte della classe operaia barcellonese (quella che aveva impugnato le armi contro i franchisti ai tempi della Guerra Civile) entrava nel mirino degli urbanisti o degli urbanisti-speculatori. La rambla di Poble Nou da ritiro accogliente degli operai delle industrie conserviere si mutava in una strada modaiola, votata alle lusinghe della cucina spagnola e alle ebbrezze della movida. Il piccone demolitore. cominciò a cancellare, nell’antico quartiere, aggraziati edifici di fine Ottocento per sostituirli con arditi, ma allo stesso tempo, anonimi volumi architettonici. Vanamente gli abitanti cercarono di opporvisi, con le “lenzuolate”, i volantinaggi, i piccoli cortei improvvisati che la polizia puntualmente rintuzzava. “Oggi Barcellona è una città trasparente, colorata, vivace, dinamica che piace ai giovani!” disse a commento Joan Clos, in quegli anni applaudito sindaco della metropoli catalana, ignorando malumori e proteste.     

 

La “barcellonizzazione”, nel senso della rigenerazione urbana, in sé, comunque, non è un crimine. Va al più governata, “decelerata”, semmai ricollocata in orbita, se per un eccesso di energia o di spavalderia amministrativa debordasse dai confini che la metamorfosi turistica impone al tessuto e alle forme di vita proprie di una città storica.

 

 Ma come sta vivendo Napoli la sua tardiva “barcellonizzazione”,
e a quali mutamenti la costringe?

 

Napoli è da sempre una città “disfunzionale”, per definizione bella e impossibile, sregolata, orgogliosa della sua “diversità” e irriducibilità, quasi nazione nella nazione, con le sue “leggi”, i suoi capricci, le sua tentazioni di eterna ribelle. Sono cose che sappiamo tutti; ma la “barcellonizzazione”, qualsiasi forma finisca per assumere, invocherebbe anche una misura d’ordine, una “normalizzazione”, un adeguamento agli standard che la modernità, e in particolare la modernità turistica suggerisce nell’epoca dei tour operator, dei voli a basso costo, della sharing economy (nei trasporti, nella pratica delle case vacanza, ecc.). Partenope è in grado di farvi fronte?     

 

Certo è che la città, o per lo meno il paesaggio urbano sta mutando. Sia ben chiaro: a Napoli non è in atto alcuna trasformazione radicale, come è accaduto a Barcellona a tempi delle Olimpiadi. Vedi il caso di Bagnoli in qualche modo la Poble Nou napoletana che non è mai stata investita dalla rigenerazione urbanistica (buona o cattiva che sia), né diventata un Parco tematico come è accaduto nella zona della Ruhr, con il Landschaftspark, all’indomani della dismissione delle acciaierie Thyssen. Stessa musica per la zona di San Giovanni a Teduccio, sul confine orientale della città, rimasta un cimitero di vecchie fabbriche slabbrate, anche se di recente vi si sono insediati i padiglioni dell’Academy Apple. I mutamenti, se vi sono, riguardano per il momento soprattutto la street scene, la buccia della metropoli, con le vie e le piazze principali della città, al Vomero, a Toledo, sui Decumani, nel quartiere di Chiaia, trasformate in veri e propri distretti gastronomici, dove domina il cibo di strada, con le pizze fritte vendute dovunque e le lusinghe del finger food che attrae soprattutto i turisti. Tutto qui? 

 

Per fortuna Napoli, ancor più di Barcellona, è una città di grandi risorse artistiche e di straordinari giacimenti culturali che fanno da nobile contraltare ai fumi molesti delle friggitorie.

 

Mai come in questi ultimi tempi il centro storico è punteggiato di avvenimenti culturali, o di riscoperta di tesori per troppo tempo nascosti alla vista, grazie anche all’impegno di associazioni di volontariato. Qui valgano un paio di esempi.  Quello dei volontari del Touring Club Italiano per il Patrimonio Culturale che hanno messo in luce, con il loro impegno disinteressato, i gioielli artistici della Basilica dei Santi Severino e Sossio o di San Giorgio Maggiore e quello del gruppo “Respiriamo Arte” che ha ridato voce all’antica arte dei setaioli napoletani, guidando i turisti negli ambulacri misconosciuti della chiesa dei SS. Filippo e Giacomo sul Decumano inferiore di Napoli. Certo, ancora molto resta da fare per articolare una coerente narrazione del patrimonio monumentale della città. Basti pensare alla trama magnifica degli ipogei e delle catacombe del quartiere Sanità-Vergini, non sufficientemente valorizzati, a cominciare dall’ipogeo greco-romano dei Cristallini con le struggenti epigrafi greche delle tombe, come quella per Aristagora, sacerdotessa di Leucatea.

 

Uno degli aspetti più interessanti della rinascita turistica di Napoli
è indubbiamente l’attenzione per le arti figurative contemporanee.

 

Risalire la stazione del metrò di Piazza Dante passando in rassegna le opere e le istallazioni di Jannis Kounellis o di Joseph Kosuth è ancora oggi una straordinaria esperienza estetica. Il museo MADRE (il Museo d’arte contemporanea Donnaregina) dopo un periodo in ombra è ritornato a brillare con importanti esposizioni di artisti internazionali. Si deve a Peppe Morra la creazione recente di nuovo museo dedicato all’arte contemporanea, con una vasta collezione di opere sistemate nelle stanze dell’antico Palazzo Cassano Ayerbo d’Aragona, proprio a due passi dalla stazione “Materdei” del metrò progettata da Alessandro Mendini. È merito di Morra anche la nascita, qualche anno fa, del piccolo museo dedicato all’arte “globale” del pittore austriaco Hermann Nitsch. 

 

I tesori artistici di Napoli fanno del centro storico della città e dei quartieri a ridosso dell’antico tracciato delle mura aragonesi un unicum
nel panorama artistico italiano.

 

Resta il problema della sua tutela, nell’assedio della modernità turistica che il processo di “barcellonizzazione” determina col suo luccichio. Troppi negozi nuovi che sostituiscono vecchie botteghe artigianali, troppi micro-abusi nelle facciate e nei cortili di palazzi, troppi vandalismi che fanno a cazzotti col decoro urbano (basti guardare alle scritte che imbrattano mura medievali e reperti romani lungo i decumani), troppi bar, troppi gazebo, troppe pizzerie e friggitorie. Nel lungomare “liberato”, all’odore del mare si è sostituito da tempo quello delle carni alla brace e degli spiedini di pesce.      

 

Negli ultimi tempi è accaduto che il processo di “barcellonizzazione”, che ora investe, o contamina, Napoli, proprio nella metropoli catalana sia improvvisamente arrivata al capolinea. “Non vogliamo essere come Venezia” si è gridato nella città delle ramblas. “Via i turisti, meglio i rifugiati!”. Sono avvisaglie, o per il momento semplici sintomi d’un malessere, nel tentativo di far argine al “nemico alle porte”, leggi il turista, il barbaro moderno che mette i piedi nelle fontane o improvvisa picnic tra le rovine antiche. Ma il turismo di massa è anche un potente, e prepotente, motore economico, tanto più necessario, dopo la deindustrializzazione e la terziarizzazione che hanno investito, a cominciare dagli anni Ottanta-Novanta, Napoli come Barcellona. Che fare, allora? 

 

Chi amministra una metropoli attraente come Napoli (o Barcellona,
o Madrid, o Amsterdam) è come un funambolo
in equilibrio su un filo teso.

 

Basta un momento di distrazione per precipitare nel vuoto – un vuoto di idee e di politiche urbane – con la città abbandonata alle scorribande del turista “mordi e fuggi”. Non sarebbe auspicabile, per una delle più antiche e nobili città del mondo, che il numero delle friggitorie superasse quello degli ipogei o dei musei d’arte, lasciando i Decumani o Toledo preda delle “molestie olfattive”, così definite da una recente sentenza della Cassazione.   

 

 

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NAPOLI “SPagnola”

 

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