SUD ITALIA ATTRAVERSO IL MEDITERRANEO di Federico Failla numero 28 maggio giugno 2023 Editore Maurizio Conte

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SUD ITALIA ATTRAVERSO IL MEDITERRANEO

 

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Val di Noto e gastronomia è un’associazione che viene naturale. La capacità di valorizzare pienamente, e spesso in maniera sorprendente, i magnifici prodotti del territorio ha reso questo scorcio di Sicilia una delle aree più interessanti da esplorare sotto il profilo culinario. In questa cornice si colloca una delle eccellenze della cucina del Val di Noto: il gelato.   

 

Cresciuto proprio in una cultura in cui le discussioni estive sul gelato possono protrarsi fino a tarda notte e creare tensioni non da poco su aspetti cruciali del prodotto (quale deve essere il colore del gelato al pistacchio? Funziona l’abbinamento cioccolato-limone? Il gelato di ricotta ha un suo perché?), ogni volta che ho affrontato una nuova esperienza all’estero sono andato sempre a scoprire le realtà locali del gelato. Per essere chiari, mai cercata la replica dei sapori siciliani, sarebbe un’ottica errata e perdente. Al contrario, l’obiettivo è stato quello di esplorare e sperimentare nuovi gusti e combinazioni, dal gelato viola di taro, al gusto di fagioli rossi, al gelato di riso, immancabile in Asia. 

 

Ma talvolta, oltre i gusti, le combinazioni e le tecniche che vengono utilizzate,

sono le storie delle gelaterie che diventano altrettanto gustose. 

E da qui parte la breve storia della gelateria “Ragusa” a Jakarta, 

aperta negli anni ’30 dello scorso secolo.


Storia dai contorni non chiari, contraddittori, avvolta da una nebbiolina che non permette di mettere a fuoco tutti i dettagli, dunque perfettamente in linea con le caratteristiche dell’Indonesia ed in particolare di Java. Nella continua scoperta di storie, cibi, persone e culture che popolano questo meraviglioso Paese, mi sono imbattuto quasi subito nella gelateria “Ragusa”, che naturalmente ha attirato la mia curiosità.   

 

Le informazioni raccolte durante e dopo la mia permanenza in Indonesia non sono state univoche: dal nome, che secondo alcuni indica il luogo di provenienza dei proprietari originari della gelateria e secondo invece la versione che ha riscontri più concreti il cognome degli stessi, al motivo stesso per cui i nostri connazionali si trovassero a Jakarta negli anni ’30.

 

La versione che presenta elementi riscontrabili in maniera più solida, anche grazie 

al materiale raccolto dal nostro Console Onorario a Bali, è che i fratelli Ragusa provenissero da Grottaglie in Puglia e che fossero arrivati a Batavia 

(il nome che aveva l’attuale Jakarta durante il periodo coloniale olandese) 

alla fine degli anni ’20.

Qui i contorni della storia iniziano a diventare meno chiari e netti: sembra che i Ragusa, di professione sarti, stessero viaggiando in nave per l’Australia e fossero stati convinti a fare una sosta a Batavia da alcuni passeggeri a bordo della loro imbarcazione. Alcune testimonianze invece asseriscono che i Ragusa fossero arrivati a Batavia per frequentare una scuola di cucito, una tesi che appare ardita e poco verosimile: perché da Grottaglie negli anni ’20 ci si sarebbe dovuti dirigere a Batavia per imparare il cucito o altre arti sartoriali?

 

All’interno della gelateria si trovano invero le foto dei quattro fratelli Ragusa, Luigi, Vincenzo, Pasquale e Francesco, foto color seppia che aggiungono autenticità alla narrazione prevalente. Stando a quanto si tramanda, Luigi e Vincenzo erano venuti in contatto con una signora olandese residente a Bandung proprietaria di una fattoria, disposta a fornire il latte per la nuova avventura commerciale dei Ragusa. La tesi che fossero pugliesi viene ulteriormente avvalorata dal fatto che i fratelli Ragusa lasciarono l’Indonesia nel 1972 e si stabilirono a Taranto. La gelateria venne ereditata dal cognato di Francesco, che si era sposato con Liliana Yo, una cinese indonesiana.

Riconosciuta nel 2012 come la più antica gelateria in Indonesia ancora in attività, 


ha avuto nei decenni alterne fortune ed ha anche offerto prodotti che sono cambiati nel tempo, dai gusti tradizionali fino ad arrivare al gelato agli spaghetti, ottenuti dalla polpa del cocco.

 

In conclusione, 

l’arrivo e la permanenza di una famiglia di sarti pugliesi in Indonesia ha lasciato un’impronta duratura nel panorama gastronomico di Jakarta, 

visto che ancora oggi la gelateria “Ragusa” 

è attiva ed operante.


Questa vicenda mi ha affascinato da sempre, perché trovare storie di italiani nei paesi con una forte presenza di nostre comunità è semplice, ma lo è meno trovarle in Indonesia, dove la nostra presenza è stata storicamente sporadica. Anche se, in verità, in Indonesia è morto Nino Bixio e Pigafetta ha fatto tappa con la nave Trinidad nella spedizione della circumnavigazione del globo nella quale rimase ucciso Magellano, senza dimenticare, inoltre, le missionarie e i missionari italiani (il primo sinologo europeo è stato padre Ruggeri, pugliese di Spinazzola), gli esploratori e gli etnologi ed etnologi come Modigliani.

 

Sono storie quelle degli italiani nell’Asia orientale e sud-orientale, molti dei quali provenienti dal Meridione, che meritano di essere meglio conosciute, 

perché testimoniano del coraggio e dell’intraprendenza 

di molti nostri connazionali

 

a costruirsi il proprio futuro anche in terre lontane e nelle quali non erano già presenti comunità di compatrioti. E mi piace pensare che il grande successo dello stile di vita italiano, del made in Italy e dell’Italia in generale in questa parte di mondo sia anche dovuto a quanto seminato dai vari fratelli Ragusa che vi hanno abitato.

 

 

 

 

 

 

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I MURALES DI CAMPOMARINO E LA COMUNITA’ ARBERESHE Gemme del Sud numero 27 gennaio febbraio 2023 Ed. Maurizio Conte

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I MURALES DI CAMPOMARINO E LA COMUNITA’ ARBERESHE

 

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               Campomarino (CB)

 

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Nel borgo di Campomarino, centro storico dell’omonima cittadina che sorge nei pressi della costa adriatica in provincia di Campobasso, la pres­­­enza dell’antica comunità arbëreshë, ovvero gli Albanesi d’Italia, è raccontata dagli originali e colorati murales disegnati sulle facciate delle case dall’artista contemporanea campomarinese Liliana Corfiati.   

 

Composta da immigrati provenienti dall’Albania che a partire dalla fine del XV secolo si insediarono in territorio molisano per sfuggire all’invasione ottomana di Maometto II, e a seguito della morte dell’eroe della resistenza albanese Giorgio Kastrioti Skanderbeg, la comunità arbëreshë di Campomarino ha saputo integrarsi con la popolazione locale, pur conservando nei secoli i caratteri originari della propria cultura e la lingua che sopravvive ancora oggi nella segnaletica bilingue delle vie del Comune. 

 

Passeggiando per i vicoli del borgo 

 

Passeggiando per i vicoli del borgo si scoprono murales che raccontano 

antichi mestieri e la vita quotidiana di una società 

di origine agro-pastorale: 

 

un uomo ed una donna che raccolgono le olive, donne sedute sull’uscio di casa a ricamare, una donna che inforna il pane, un ciabattino intento al suo lavoro, uomini e donne in abiti tradizionali che sembrano danzare al ritmo di una musica antica. 

 

L’origine cristiano ortodossa della comunità italo-albanese si rivela nel bel Mural degli Sposi in cui, sullo sfondo di un mare azzurro, il sacerdote officiante, vestito nel tradizionale abito nero, “incorona” gli sposi secondo l’antico rituale bizantino Akoluthìa tu Stefanòmatos, espressione di una identità culturale ancora orgogliosamente sentita dalle odierne generazioni arbëreshë.

 

 

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“LA POESIA” E’ UNA SORGENTE di Lorenzo Salazar numero 27 gennaio febbraio 2023 Ed. Maurizio Conte

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LA “POESIA” e’ UNA SORGENTE

 

 

Dal novembre dello scorso anno il già ampio panorama dei ristoranti italiani a Parigi si è arricchito con l’inaugurazione di un nuovo locale, dotato però di un interesse affatto peculiare.

 

L’indirizzo in rue de la Fidelité, nel 10° arrondissement, a pochi passi dalla Gare de l’Est, sembra giocare con il nome del locale, “La Poesia”.

 

Che non deriva però dalla più eterea delle sette arti bensì dal sostantivo greco πόσις (“bere”), da cui trae origine il nome di un fascinoso luogo sulla costa del Salento che si trova nelle immediate adiacenze dell’area archeologica di Roca Vecchia, poco a sud di Lecce. Una profonda sorgente naturale dà vita a una piscina naturale di acqua dolce che si trova proprio in riva al mare, arroccata su un promontorio e circondata da scogliere calcaree. A questa fonte, fin dal II millennio a.C., dapprima i marinai messapi e quindi quelli greci usavano accostarsi per rifornirsi di acqua e invocare la protezione delle rispettive divinità sulla navigazione. Un nome capace, da solo, di evocare tutta la bellezza della natura, della storia e della cultura del nostro Sud. 

 

Al di là del nome, i piatti preparati dallo chef Giuseppe Fiore, originario di Praiano, si ispirano alla migliore tradizione della cucina meridionale e utilizzano prodotti e materie prime (molti dei quali biologici, come pasta, lenticchie, pomodori secchi…) provenienti in massima parte dal catalogo di Libera Terra, l’associazione che riunisce cooperative sociali guidate dall’associazione Libera di Don Ciotti. 

 

Dietro di esse vi sono decine di strutture produttive e centinaia di ettari di terreno sottratti alle mafie in Sicilia, Puglia, Calabria e Campania grazie all’istituto del riutilizzo sociale dei beni confiscati alle mafie introdotto in Italia dalla legge n. 109 del 1996 

in materia di gestione e destinazione di beni sequestrati o confiscati.

 

Su quei terreni e in quelle aziende – non di rado dopo aver resistito a ulteriori atti di intimidazione o violenza posti in essere anche dopo la definitività dei provvedimenti di confisca, quale disperato ultimo tentativo delle organizzazioni criminali di opporsi agli stessi – si producono pasta, olio, vino e altri generi alimentari che rendono omaggio, sin dal nome posto sull’etichetta, alla lotta alle mafie e alle vittime della loro violenza. 

 

Così un vino Primitivo del Salento è dedicato ad Antonio Montinaro, giovane poliziotto pugliese capo scorta del giudice Giovanni Falcone, caduto a 29 anni nell’attentato di Capaci, opera del più sanguinario dei boss, Totò Riina, o un Negroamaro della stessa regione ricorda la storia di Renata Fonte, assessora alla cultura e alla pubblica istruzione del comune di Nardò, assassinata il 31 marzo 1984 per la sua lotta contro la speculazione immobiliare nel Leccese. O ancora i vini Centopassi, tanti quanti quelli che separavano a Cinisi la casa del giovane giornalista e attivista Peppino Impastato da quella di Tano Badalamenti, mandante del suo assassinio avvenuto il 9 maggio 1978; era lo stesso giorno del ritrovamento del corpo di Aldo Moro in via Caetani, coincidenza questa che contribuì a confondere la percezione iniziale dell’evento (che gli autori cercarono anche di mascherare sotto le sembianze di un suicidio, ponendo una carica di tritolo sotto il corpo del povero giornalista, adagiato sui binari della ferrovia Palermo-Trapani) in tal modo oscurandolo in parte all’attenzione dell’opinione pubblica. 

 

Noi italiani, già da molti anni abituati a vedere beni oggetto di confisca destinati a finalità di pubblica utilità (tra i più recenti esempi quello della sede romana della Scuola Superiore della Magistratura, con strepitoso affaccio sulla Fontana di Trevi, già residenza di lusso di un boss della banda della Magliana) 

 

abbiamo difficoltà a comprendere quanto e come esperienze simili possano risultare invece innovative e dirompenti agli occhi dei cugini d’oltralpe.

 

Nonostante l’adozione, nell’aprile 2021, di una legge ispirata a quella italiana, pratiche simili appaiono ancora marginali e poco conosciute in Francia, dove i servizi statali sono spesso apparsi riluttanti a riconoscere la crescente presenza della crimine organizzato e solo di recente hanno cominciato a mobilizzare l’Agence de gestion et de recouvrement des avoirs saisis et confisqués (Agrasc) creata sul modello della nostra Agenzia Nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni Sequestrati e Confiscati alla criminalità organizzata.

A una tale presa di coscienza intende a suo modo contribuire anche l’équipe 

de La Poesia, ispirata tra l’altro da un magistrato francese che ha a lungo lavorato 

nella nostra penisola, proponendosi di promuovere e diffondere l’esperienza italiana 

in materia di contrasto alle organizzazioni criminali.

Il locale viene infatti animato non solo attraverso l’esposizione sui suoi muri di opere di pittori italiani legati al meridione ma anche con eventi e incontri sul tema (il più recente dei quali dedicato proprio al trentennale degli attentati a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino). Sono state anche avviate iniziative di partenariato con associazioni francesi impegnate nel reinserimento sociale dei più debolì, partecipando in tal modo, anche attraverso l’assunzione di personale di sala tratto dalle stesse, a un percorso di solidarietà concreta. 

 

Quanta distanza appare separare l’esperienza de La Poesia da quella, così diversa e di breve durata, del ristorante aperto nel 2017, in un diverso quartiere della capitale francese, proprio dalla figlia del boss di Corleone giudicato principale responsabile della strage di Capaci, che faceva esplicito riferimento, già a partire dalla scelta del nome, all’evocativa immagine del paese del Padrino. Le differenze non si misurano solo sulla base degli ingredienti delle pietanze e delle voci dei menù… 

 

 

 

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JOE DI MAGGIO di Gaia Bay Rossi e Luigi Vignali numero 27 gennaio febbraio 2023 Ed. Maurizio Conte

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JOE DI MAGGIO

 

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quando delineò il dovere del Filosofo nel secondo libro de La Scienza della Legislazione, che “Se i lumi che egli sparge non sono utili pel suo secolo e per la sua patria, lo saranno sicuramente per un altro secolo e per un altro paese. 

Dopo un lungo viaggio la coppia si stabilì a Martinez, cittadina vicino a San Francisco, ebbe nove figli e fra i loro, il 25 novembre 1914, nacque Joe.

Sin da piccolo appassionato di baseball


(come i fratelli Dom e Vince, che diventeranno anch’essi giocatori professionisti), esordì a soli diciassette anni nella “minor league”, con la squadra dei San Francisco Seals. Dopo quattro stagioni venne ceduto ai New York Yankees, in cui costruirà la sua straordinaria carriera sportiva e in cui rimase fino al 1951, quando a trentasette anni si ritirò dallo sport agonistico.   

 

Joe Di Maggio fu uno dei più grandi giocatori di baseball di tutti i tempi. Vinse per tre volte il titolo di miglior giocatore dell’American League e fu chiamato nella selezione dei più forti giocatori per ben 13 volte.

 

Tifosi e giornalisti lo chiamavano Joltin’ Joe (“Joe che fa sobbalzare”) 

per la forza con cui colpiva la palla. Nell’arco della carriera Joe 

totalizzerà l’incredibile risultato di 2.214 “battute valide”.


Il giorno prima della vittoria degli Yankees contro i Red Sox, partita che chiudeva il campionato del 1949, il Corriere della Sera scrisse: il campione 
“è stato festeggiato non solo dai propri tifosi, ma anche dai giocatori e dai tifosi della squadra avversaria. Una folla di 80.000 persone lo ha acclamato per un’ora intera prima che la partita potesse cominciare: Joe è stato letteralmente coperto di doni, che andavano da un chilo di gelato alla crema ad un motoscafo da corsa di gran lusso. Quest’ultimo però non è stato portato in campo. Il sindaco di Nuova York è sceso per congratularsi con lui e per consegnargli una bicicletta per il suo figliuolo. Joe Di Maggio, il bel ragazzo sorridente ed espansivo di origine italiana […] ha consegnato al sindaco tutti i doni in denaro che aveva ricevuto perché venissero divisi tra due fondazioni: quella per ammalati di cuore e quella per le ricerche sul cancro”. 

 

Un grande sportivo, un grande italiano. Nella sua vita Joe non dimenticò mai l’Italia 

e Isola delle Femmine. Nel 1955, giunto a Roma decise di far visita al paese 

dei genitori, dove una volta arrivato fu accolto dall’allora sindaco 

suo omonimo, Francesco Di Maggio.


Tornò a Roma una seconda volta, nel 1993, come rappresentante della Federazione Italia-America, con l’intenzione di recarsi a Isola delle Femmine per ritirare la cittadinanza onoraria. A causa di un malore non poté partire: fu dunque il sindaco a venire a Roma, alla Farnesina, per la consegna della cittadinanza. Oggi a Isola delle Femmine, è possibile visitare la casa Museo Joe Di Maggio, per ricordare un campione straordinario, uno dei personaggi più amati nella storia dello sport americano. Si sposò una prima volta con l’attrice Dorothy Arnold e dal matrimonio nacque Joe Di Maggio Jr., ma i due divorziarono nel 1943, mentre Joe prestava servizio militare alle Hawaii.

 

Dopo una serie di storielle senza importanza, arrivò finalmente

il grande amore, Marilyn Monroe.


Joe perse completamente la testa, nonostante l’opposizione del fratello Dom che e soprattutto del vescovo di New York, che gli negò il divorzio dalla prima moglie e poi la possibilità di ricevere i sacramenti. 

Durante la celebrazione del matrimonio con Marilyn, di fronte a 400 persone, il giudice Peery dichiarò: “Ho dimenticato di baciare la sposa, come vuole la tradizione e, credetemi, mi dispiace”. Gli sposi partirono per il Giappone, dove Joe era stato invitato a lanciare la nuova stagione di baseball; Marilyn doveva invece esibirsi per le truppe americane di stanza in Corea: in tre giorni di tour incontrò 13.000 soldati e in ogni base militare fu accolta da enormi ovazioni.

 

Di Maggio era certo che, una volta sposati, Marilyn avrebbe lasciato la carriera 

per dedicarsi alla famiglia (al giornalista che le chiese se aveva intenzione 

di avere bambini, aveva risposto: “Certo, almeno sei”). 

 

Ma così non fu, 


la sua popolarità negli Stati Uniti era al culmine e la sua fama mondiale. Dopo un primo periodo di felicità, arrivarono discussioni e violente liti, anche se non erano note al grande pubblico. Joe seguiva le condizioni contrattuali di Marilyn con le case cinematografiche, riuscendo a ottenere migliori compensi, ma era esacerbato dalla gelosia per una donna che rappresentava il desiderio proibito per antonomasia. Forse il punto di non ritorno fu la gonna svolazzante del film
“Quando la moglie è in vacanza”, per Joe fu devastante vedere l’intera troupe a bocca aperta davanti alla scena – poi trasmessa nei cinema di tutto il mondo. Sicuramente fu l’ultima volta che i coniugi apparvero insieme in pubblico. 

Il 5 ottobre 1954, a solo nove mesi dal matrimonio, Marilyn Monroe, annunciò la decisione di separarsi dal marito. Dopo poco seguirà l’annuncio del divorzio. La causa di divorzio fu molto dura. Di Maggio si fece addirittura accompagnare da Frank Sinatra (peraltro già amante di Marilyn) a un’”imboscata” alla diva – con il risultato di una porta sfondata a una sconosciuta, cui i due dovettero risarcire 7000 $. Dopo vari anni, in cui Marilyn si era risposata una terza volta (con Arthur Miller), aveva sofferto per alcuni aborti, era diventata dipendente da farmaci e psicofarmaci, la donna si riavvicinò a Joe Di Maggio. 

 

Lui, nonostante tutto, continuava a esserne innamorato. Addirittura nel 1961 

i giornali parlavano di un secondo matrimonio tra i due.

 

Poi il 5 agosto del 1962 lei morì improvvisamente, in circostanze mai del tutto chiarite, nella sua casa di Los Angeles.   

 

Di Maggio si occupò del funerale e delle spese. Invitò solo gli amici più intimi, escludendo sia le star hollywoodiane, sia le note personalità politiche che pure Marilyn frequentava. Con il figlio Joe Jr. accanto, seguì il feretro fino alla sepoltura nel cimitero di Brentwood. Prima della chiusura Joe baciò per tre volte la cassa e per tre volte le disse “Ti amo”. E ordinò di deporre un mazzo di 6 rose rosse due volte a settimana sulla sua tomba, per sempre. Quando giunse la sua ora, nel 1999 per un tumore ai polmoni, le ultime parole furono: “Finalmente riuscirò a vedere Marilyn”.  

 

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L’INCENDIO DEL CASTELLO SVEVO DI TERMOLI Gemme del Sud numro 26 ottobre novembre 2022 ed. Maurizio Conte

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L’INCENDIO DEL CASTELLO SVEVO DI TERMOLI

 

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                    Termoli (CB)

 

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Il Castello Svevo di Termoli, situato nel Borgo Antico, è il simbolo di questa bella cittadina molisana in provincia di Campobasso affacciata sul mare. Costruito probabilmente in epoca normanna, ristrutturato nel 1247 da Federico II (da qui l’appellativo di “Svevo”),

 

ogni anno, la notte del 15 di agosto, diventa il protagonista di una manifestazione davvero unica e suggestiva: l’Incendio del Castello 

 

Si tratta di una rappresentazione storico-popolare che rievoca l’assalto da parte delle truppe di Pialj Pascià: sbarcati con circa 200 galee, il 2 agosto 1566, gli Ottomani strinsero d’assedio il vecchio borgo marinaro distruggendo abitazioni e appiccando incendi. Ma un’eroica resistenza fu opposta dalla popolazione nelle campagne tra Termoli e Guglionesi dove, grazie alla tenacia ed al coraggio, si riuscì ad arrestare l’invasione nemica. E proprio da quelle parti, già dal 1545, sorgeva un santuario dedicato alla Madonna della Vittoria, oggi nota come Madonna a Lungo. Qui per anni fu ricordato l’episodio con rappresentazioni popolari eseguite dalla gente comune che orgogliosa tramandava la vittoria storica dei propri avi.
Dal 2001 la decisione di rievocare l’avvenimento storico attraverso una grande manifestazione che negli anni è diventata, insieme alla festa del patrono San Basso, l’evento più atteso della città. Si comincia già dal pomeriggio con una sfilata di giovani del posto travestiti da saraceni. In serata,

 

alcune Paranze si avvicinano in mare verso le mura del Borgo Antico 

rievocando l’ingresso degli invasori e con suggestivi combattimenti 

danno inizio all’Incendio del Castello, uno spettacolo mozzafiato,

 

una vera e propria esplosione di luci e fuochi pirotecnici che infiamma i cieli di Termoli e lascia a bocca aperta i tantissimi visitatori che ogni anno si recano nella cittadina per partecipare a questo emozionante evento.

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LA TARGA FLORIO di Gaia Bay Rossi – Numero 25 – luglio agosto 2022 Ed. Maurizio Conte

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LA targa florio

 

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allineate sulla linea di partenza. La tensione era alta da giorni, tutti si rendevano conto che quella competizione, la Targa Florio, sarebbe entrata nella storia. 

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Era il 1906 e quella era una delle prime gare automobilistiche al mondo, basti pensare che la Mille Miglia sarebbe nata circa vent’anni dopo, nel 1927.   

 

La cosa più incredibile è che si disputò nella Sicilia di quegli anni, e lì si svolse anche in tutte le 60 edizioni successive. 

Ancora una volta la Sicilia, nonostante l’arretratezza dovuta ai molti fattori 

che non stiamo qui ad indagare, era in testa al mondo,


stavolta non per la ricchezza della sua arte, per la sua cultura multiforme, per la sua storia millenaria, per la sua incredibile biodiversità, ma per uno sport e per l’organizzazione di un evento che, così strutturato, in Italia non si era ancora mai visto.

Il luogo esatto erano le Madonie, una piccola catena montuosa nella parte Nord Occidentale della Sicilia che, come tutti i luoghi montani, aveva strade strette e tortuose, adatte più ai carretti che non a rombanti automobili. Solo un grande siciliano appartenente ad una famiglia fuori dal comune avrebbe potuto ideare e organizzare una simile competizione. Lui era Vincenzo Florio junior, figlio del senatore Ignazio Florio e di Giovanna d’Ondes Trigona, nonché cognato della “regina di Palermo” Franca Florio, moglie di suo fratello Ignazio jr. Ma facciamo un passo indietro e vediamo cosa stava succedendo in quegli anni a Palermo. 

La famiglia Florio, che ormai molti di voi hanno conosciuto anche grazie 

agli apprezzatissimi romanzi della trapanese Stefania Auci 

era, tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento, 

una delle famiglie più ricche dell’Italia 

della Belle Époque,


famosa in tutta Europa e molto oltre. Tra i loro amici vi erano capi di Stato e reali, politici di vario genere e grado, banchieri internazionali, e poi anche i rappresentanti più importanti della vita culturale dell’epoca, con pittori, artisti, musicisti, scrittori che entravano e uscivano dalle loro meravigliose case e dalle loro vite, lasciando sempre traccia di sé. 

Ad un certo punto, in mezzo all’immenso impero dei Florio,


che andava dalla Navigazione Generale Italiana (seconda più grande compagnia di navigazione del Mediterraneo), alle tonnare (con loro si ebbe per la prima volta la conservazione del tonno sott’olio con relativo inscatolamento), dalle cantine di Marsala, a Villa Igiea a Palermo (capolavoro dell’hôtellerie di lusso), dal Cantiere Navale di Palermo, nato per supportare l’attività della loro acciaieria, alle banche,

 

arrivarono anche le gare automobilistiche, che si affiancarono al resto.


Vincenzo Florio jr. poco più che adolescente, percorse la strada che tanto lo appassionava e iniziò a guidare auto sportive, partecipando a qualche piccola gara amatoriale. Nel 1905, ideò il nome di “Coppa Florio” per una gara automobilistica da lui organizzata e finanziata, che si svolgeva già dal 1900 a Brescia ma che assunse la denominazione di “Coppa” perché Vincenzo aveva deciso di istituire, oltre al premio di 50 mila lire, anche una coppa d’argento, opera di un suo amico orafo francese, alla Casa costruttrice che avesse vinto più volte nel corso di sette edizioni. Questa avventura lo catapultò definitivamente nell’idea delle gare sportive, dedicandosi con entusiasmo alla creazione di una nuova competizione da svolgersi sulle Madonie.   

 

Vincenzo disegnò il percorso a Parigi, aiutato da Henri Desgrange, direttore della famosa rivista francese “L’Auto”. Il percorso, come dicevamo, era molto complesso e difficile, poiché si snodava in quelle strade montane piene di curve che collegavano i vari Comuni della dorsale per 146 km e 900 metri. Vincenzo.

Florio stava dando vita ad una competizione che, proprio per queste difficoltà 

di tracciato, era destinata ad entrare nell’immaginario collettivo 

e a divenire leggenda.

Torniamo quindi a quel 6 maggio del 1906 con le automobili rombanti sul nastro di partenza di un circuito che avrebbero dovuto ripetere tre volte. Gli equipaggi erano: cinque Itala, una Fiat, due Bayard-Clement, una Berliet e una Hotchkiss. Di queste riuscirono a tagliare il traguardo solamente sette, tenendo conto che le auto dei due francesi furono bloccate da un incredibile errore della loro squadra: al rifornimento, il pieno fatto fu d’acqua e non di carburante. 

Vinse il torinese Alessandro Cagno su una Itala e, per coprire l’intero percorso, impiegò circa 9 ore e mezza ad una media di 46,8 km orari, distaccando di oltre mezz’ora il secondo classificato. Il premio in palio fu, oltre alla cifra di trentamila franchi in oro, una targa in oro massiccio in stile Liberty, creata per la gara da René Lalique e consegnata al vincitore direttamente dalle mani di donna Franca, la cui presenza all’evento, già da sola catturava l’attenzione degli spettatori e di tutto il bel mondo presente. 

Lalique firmò anche la targa dell’anno successivo e poi altri artisti firmarono 

i premi di successive edizioni: come Duilio Cambellotti, autore della targa del 1908 

e poi anche le illustrazioni di Terzi, Dudovich, Marinetti, De Maria, Gregorietti.


Il quartier generale della manifestazione era a Termini Imerese al Grand Hotel delle Terme, costruito a fine Ottocento in stile neoclassico dal noto architetto Giuseppe Damiani Almejda, che aveva appena terminato il teatro Politeama di Palermo. Lì vi alloggiavano sia i piloti con le Case costruttrici, sia la Palermo bene, e tutti insieme prima della gara impegnavano il tempo organizzando lussuose feste.

Migliaia di persone raggiungevano Termini Imerese con ogni mezzo a disposizione, dalle automobili alle carrozze, dai carretti siciliani ai numerosissimi treni speciali 

che partivano dalla stazione di Palermo.


Una delle gare automobilistiche più antiche del mondo era nata in Sicilia e il successo che seguì fu un successo per entrambi, per Vincenzo Florio e per la Sicilia stessa e la sua promozione turistica. Inoltre, 

grazie all’idea del giovane Florio venne fondato l’Automobile Club di Sicilia, 

il Giro d’Italia decise di includere nelle sue tappe anche la Sicilia, 

e a Palermo fu inaugurato il primo cinema.


Vincenzo morì il 6 gennaio del 1959, senza figli nonostante avesse avuto due mogli. La sua unica vera “figlia” riconosciuta fu così la Targa Florio, di cui disse: “Continuate la mia opera, perché l’ho creata per sfidare il tempo”. La Targa Florio classica si disputò dal 1906 al 1977 come gara automobilistica di durata, divenendo in seguito una gara rallistica con il nome di “Rally Targa Florio”, ma questa è un’altra storia.

Nel 1955 e nel lasso di tempo dal ‘58 al ’73, ha fatto parte del gruppo 

di gare titolate ai fini dei “Campionati Internazionali o Mondiali riservati 

alle vetture Sport o Gran Turismo”, ottenendo sempre maggior popolarità 

e ospitando piloti di fama e importanti Case costruttrici.

Incontriamo Giuseppe Calvaruso, un’appassionato ed entusiasta spettatore della Targa Florio dal 1970 al 1977, che ci racconta cosa volesse dire in quegli anni “vivere” questo evento: 

“I miei primi ricordi della Targa Florio risalgono al 1970 quando, quattordicenne con gli zii andammo a vedere la mitica competizione, e poi ci tornai ogni anno fino alla definitiva chiusura. Gli occhi del nostro narratore brillano, mentre mi racconta delle centinaia e centinaia di curve che le automobili dovevano affrontare in “un circuito di circa 72 Km. da fare 11 volte, che toccava vari paesi nel pieno della campagna siciliana, sfiancante per i piloti e stressante per i bolidi da corsa, e il più delle volte solo la metà dei partecipanti riusciva a tagliare il traguardo”.  Con l’entusiasmo di chi si sente un privilegiato, ci spiega che 

“la corsa, anzi “a cursa” come veniva chiamata dai siciliani, era valida 

per il Campionato Mondiale Marche che annoverava gare come 

la 24 Ore di Le Mans o la 12 Ore di Daytona e richiamava 

oltre 500.000 spettatori che arrivavano da ogni dove.


Il Campionato Mondiale Marche era importante come la Formula 1. Immaginatevi per noi Siciliani il piacere e l’orgoglio di vedere correre sulle nostre strade piloti famosi come Hill, Rodriquez, Bandini, Siffert, Redman, Elford, Stommelen, ecc. e ancora negli anni piloti mitici come Nuvolari, Achille Varzi, Taruffi, lo stesso Enzo Ferrari, Giunti, Merzario, De Adamich. Il giorno della gara ti rendevi conto dell’interesse che suscitava, centinaia di auto dell’epoca (le fiat 127, le Cinquecento, le 850) sparse lungo i bordi del percorso. E poi le storie e gli aneddoti che venivano raccontate da chi c’era già stato negli anni precedenti, e noi a bocca aperta ad ascoltare le storie e le gesta dei piloti più famosi. Che festa in quelle campagne, quanta gente con tanta passione per quei prototipi che, dal rumore in lontananza, già avvertivano chi stava arrivando:
“Chista (questa) è la Ferrari di Vaccarella, no è una Alfa Romeo 33, no è la Porsche di Siffert. Negli anni ’70 la Targa Florio mi vide sempre presente fino al 1977, per l’ultima volta.” 

Infatti, Nonostante fosse una gara abbastanza sicura, tanto che, per questo, 

Vincenzo Florio ai suoi tempi l’aveva definita “la gara più lenta del mondo”, 

anch’essa vide presentarsi il conto di morti e feriti, 

sia tra i piloti che tra il pubblico.


E, dopo alcuni incidenti più o meno gravi, nel 1977 durante la 61esima edizione, si replicò l’incidente avvenuto venti anni prima nella Mille Miglia.   

 

In un tratto subito successivo ad un rettilineo, gli spettatori furono travolti dalla macchina di Gabriele Ciuti, uscita di pista: due morti e tre feriti gravi. La gara fu sospesa e il risultato conteggiato al termine del quarto giro, sugli otto totali. Così finiva la Targa Florio.

 

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TRICARICO UNA STORIA MILLENARIA di Pietro Dell’Aquila – Numero 25 – luglio agosto 2022 Ed. Maurizio Conte

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TRICARICO UNA STORIA MILLENARIA

 

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C’è un paese che conosce “baldorie di venti”, come dice un poeta, un borgo che somiglia ad un treno con la sua Torre Normanna per ciminiera. È una cittadina arroccata sulle colline dell’alto materano. Non si sa bene quando abbia avuto origine. Qualcuno l’ha chiamata Torregreca, qualcun altro Torregrupata. Tricarico, il suo nome vero, e non si sa da che cosa derivi. Ipotesi fantasiose la vogliono fondata addirittura dagli Ausoni dopo il diluvio universale da un nipote di Noè; altre leggende ne attribuiscono l’origine ai popoli di Trica ed Argo – dai quali la sua denominazione – scampati all’eccidio di Troia e guidati da Diomede. Nel suo antico stemma un bue su tre colli; allora è possibile, piuttosto, che sia la città dei tre monti. 

 

A poca distanza dall’attuale sito, da una parte sotto il monte della Serra, i resti di un villaggio indigeno con resti di fornaci, scoperto durante i lavori di adduzione del gas, e dall’altra ad una decina di chilometri in località Fonti, su di un’ampia radura, la Civita, rovine di un castro romano fortificato del IV secolo avanti Cristo a difesa di masserie sparse sul territorio che rifornivano di derrate agricole l’Urbe.

Il primo documento che certifica l’esistenza della cittadina 

è una Convenzione dell’anno 849 tra Schinolfo, principe di Salerno, 

e Redalgiso duca di Benevento.


Il paese è incluso nel gastaldato di Salerno che gravitava nell’orbita longobarda. Di seguito Liutprando da Cremona ci dice della decisione del patriarca Poliedro di Costantinopoli nel 968 di autorizzare l’arcivescovo di Otranto a consacrare i vescovi suffraganei tra i quali quello di Tricarico. Il vescovo Santonio (Visita pastorale del 1585) riferisce che Arnoldo Godano, vescovo di Acerenza, nel 1060, in una sua controversa “Bulla” indirizzata al suo omologo tricaricese Arnaldo, descrive la diocesi di Tricarico, ne indica i confini, i privilegi e ne certifica il passaggio dal rito greco a quello latino. 

 

Insomma,

una millenaria storia di vescovi e di clero che hanno segnato le vicende 

della cittadina attorno alla curia, alla cattedrale, al seminario fondato 

ai primordi del Seicento ed alla miriade di chiese 

e conventi tuttora esistenti.


Accanto ad essi, e lungo le vie “processionali”, una serie di palazzi nobiliari di ricchi agrari e facoltosi borghesi (notai, giudici e avvocati), circondati dagli stambugi dei “cafoni” (braccianti e contadini poveri più o meno addetti al servizio dei potenti) che si addensavano anche nei rioni sottostanti della Rabata e della Saracena, come risulta da una bella stampa del Cinquecento edita ad Amsterdam da Johannes Blaeu. In quel periodo Tarquinio Ronchi, professore di Diritto Canonico, fondò il Monte Frumentario con cui si prestava il grano per la semina ai contadini bisognosi e i terreni di proprietà del Capitolo venivano loro concessi in enfiteusi a prezzi particolarmente modici. Ughelli, nella sua Storia Sacra, annota che al quinto Concilio Lateranense promosso da Giulio II nel 1512 “Qualcuno era pure noto per le capacità culturali, tale fu il veronese Lodovico Canossa, erudito presule di Tricarico”. Ma, in seguito, non mancarono voci dissonanti che si collocavano nell’ambito della riforma protestante come quella del “minore osservante Angelo Castellana da Tricarico, accusato di adesione al luteranesimo e lungamente detenuto, persistendo nei suoi errori, fu poi degradato il 15 agosto 1584 e rilasciato al braccio secolare”.

Per dire dell’importanza e della vivacità culturale della cittadina, 

lo storico napoletano Camillo Ranieri Riccio riporta che nel 1613 

venne stampato a Tricarico il primo libro edito in Basilicata ad opera 

di Giovan Giacomo Carlino su commissione di Monsignor Roberti.


L’opera era stata scritta dallo stesso vescovo per celebrare le virtù di Suor Francesca Vacchini della quale era il confessore. Nel corso del Seicento i pittori Pietro Antonio Ferro e Cesare Sciarra produssero i loro affreschi nella cappella del Crocifisso del convento di Santa Chiara, nella chiesa del Carmine e nel chiostro del convento di Sant’Antonio.

La lunga fase di cristianizzazione e la connessa ininterrotta presenza clericale, 

a parere di illustri antropologi che hanno studiato persistenze 

e cesure degli elementi pagani nei costumi 

e nelle espressioni locali,


hanno evidenziato una maggiore attenuazione degli elementi orgiastici originali nelle tradizioni popolari dei centri curiali rispetto ai luoghi più distanti e periferici. Tali manifestazioni si rivelano con maggiore evidenza nelle festività carnevalesche, più morigerate o dissimulate nei paesi con sedi vescovili dove, pur conservando la matrice primigenia, si sono contaminate ed impregnate di contenuti religiosi depurandosi dalle antiche volgarità fescennine. Ad esempio le maschere di Tricarico che, imitando la transumanza di vacche e tori con annesse simulazioni di monta al suono assordante dei loro campanacci, avviano il loro percorso per le vie dell’abitato dopo aver reso omaggio a Sant’Antuono Abate, patrono dei suini, realizzando tre giri intorno alla sua chiesetta posta ai margini del borgo. 

 

Nella lunga sequela dei vescovi che hanno guidato il gregge pastorale tricaricese emergono, oltre ai già citati, i Carafa, Zavarrone, De Plato, Pinto, Spilotros, Onorati, Pecci e Fiorentini.

Agli inizi del Novecento, ad opera del Reverendo Giovanni Daraio, 

si costituiva l’Opera Pia “Confraternita di Sant’Antonio di Padova” 

che si prefiggeva l’obiettivo di aiutare e sostenere 

i meno fortunati ed i poveri della comunità.


Si devono a questo sacerdote diverse pubblicazioni sulla storia del paese e della diocesi pubblicate nel New Jersey, dove si era recato per assistere i nostri emigranti. Ne continuò l’azione pastorale Don Pancrazio Toscano che, sempre accanto alla chiesa di Sant’Antonio, fondò l’ospizio per l’assistenza ai poveri, ai vecchi e ai derelitti. 

In tempi a noi più vicini, hanno operato il vescovo Raffaello Delle Nocche (1922-1960) – di cui ci ha lasciato una bella biografia Monsignor Pancrazio Perrone – che, pur nell’aspro confronto ideologico del periodo postbellico, seppe trovare il modo di collaborare col sindaco socialista Rocco Scotellaro per l’istituzione dell’ospedale civile realizzato col concorso morale e materiale della popolazione. Inoltre fondò l’ordine delle “Discepole di Gesù Eucaristico”. Queste suore hanno dato il loro apporto per l’assistenza degli anziani nell’ospizio di Sant’Antonio, agli ammalati presso l’ospedale civile e soprattutto, mediante la gestione dell’Istituto Magistrale, hanno contribuito all’istruzione e l’elevazione culturale delle fanciulle loro affidate. Alla sua morte fu sostituito da Bruno Pelaia, insigne studioso dei testi biblici, ma rigido assertore della prassi dottrinale tanto che nella sua prima lettera pastorale affermava che “Una raffica violenta di materialismo ateo si appresta, con malcelata baldanza, ad avvelenare le nostre popolazioni semplici e laboriose con orpelli di progresso, di scienza e di benessere”. Non meraviglia, quindi, che con tali impostazioni ideologiche non riuscisse a recepire i nuovi orientamenti che stavano maturando all’interno del dibattito suscitato dal Concilio Vaticano II. Probabilmente era rimasto legato al clima di tensione che aveva visto la contrapposizione del 18 aprile 1948 tra i partiti della sinistra e la vincente Democrazia Cristiana. In quella vicenda si distinse Monsignor Angelo Mazzarone che intratteneva da tempo un forte legame con Padre Agostino Gemelli e faceva parte della redazione del giornale L’Ordine.  

 

Ormai, però, la situazione era mutata con l’avvio della collaborazione tra cattolici e socialisti nei governi di centro-sinistra e la crescente sensibilità religiosa che si manifestava tanto nel clero, quanto tra i laici. Le chiusure dottrinali produssero, sul piano locale, la perdita di due sacerdoti che avvertivano con maggiore responsabilità ed impegno i segni dei tempi nuovi. Il reverendo Nicola Calbi, che si era laureato brillantemente presso la Pontificia Università Lateranense con una tesi sulla Diocesi di Tricarico dalle origini al 1500 e che insegnava presso il locale Liceo Scientifico, dava alle stampe nel 1968 un libro dal titolo significativo: La scoperta del Vangelo e il nuovo socialismo. Nel volume si prendeva atto che il periodo della contiguità della Chiesa con la Democrazia Cristiana era agli sgoccioli e che il cristianesimo non poteva continuare ad essere rinchiuso entro lo spazio angusto di una delimitazione politica ormai datata e che bisognava dunque ricercare altri spazi ed altri orizzonti pastorali. La pubblicazione fece scalpore ed il suo autore si auto confinò a Roma per sfuggire alla malevolenza paesana. 

 

Identica sorte toccò a Nunzio Campagna, parroco della borgata agricola di Calle, reo di aver autorizzato i suoi contadini a stoccare il grano, la cui produzione per quell’anno era stata più abbondante, nei locali della nuova chiesa peraltro non ancora consacrata. L’iniziativa non piacque al vescovo Pelaia che ancor meno bene sopportò il ritardo con cui i piccoli cresimandi della zona ed i loro familiari, dopo aver accudito gli animali, si presentarono alla funzione religiosa da lui fissata. Non dissimulò il suo disappunto, con un prolungato atteggiamento d’incomprensione, nei confronti del sacerdote Campagna che con spirito evangelico si prodigava per l’elevazione culturale dei giovani ed il miglioramento delle condizioni di vita dei suoi parrocchiani. Anche lui si allontanò dal paese per andare ad insegnare Filosofia presso una scuola romana. Qui si dedicò allo studio ed all’approfondimento degli autori e dei testi del pensiero speculativo pubblicando volumi di grande pregio: per Marzorati Un ideologo Italiano, Francesco Lomonaco, successivamente per Aracne Metamorfosi dell’etica da Cartesio ai nostri giorni e per le edizioni dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici Le parole dei filosofi. Ha, inoltre, pubblicato quattro romanzi di rilevante interesse: Socialmente pericoloso e di pubblico scandalo, Il violino di San Pietroburgo, Do Minore e Torregrupata, che ne testimoniano la straordinaria sensibilità.

 

Ma ormai altri tempi avanzano e il paese, in caduta demografica come tanti altri del Sud, continua la sua storia “sotto il cielo stellato a foglia a foglia”.

 

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“Storta va deritta vene”… La Fortuna di Valeria Parrella di Giuditta Casale – Numero 25 Luglio Agosto 2022 Ed. Maurizio Conte

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“Storta va deritta vene”… La Fortuna di Valeria Parrella

 

intervista a valeria parrella

 

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Non credo si debbano leggere i classici. Ognuno deve leggersi ciò che vuole. Però se hai la fortuna di trovarti davanti i classici, quelli poi entrano, permeano tutto e dopo interpreti la realtà alla luce loro. 

 

Si è conclusa così la chiacchierata con Valeria Parrella sul nuovo libro La Fortuna, pubblicato da Feltrinelli.


La storia del giovane Lucio, rampollo di una nota ed agiata famiglia campana, destinato ad una luminosa carriera senatoriale, in contrasto con i desideri più profondi del suo sé: andare per mare, prendendo il largo. Lucio nasce durante una scossa di terremoto, la più forte mai sentita delle tante che non facevano più paura tanto erano considerate normali. Il giorno che rischiò di annegare, scoprendo finalmente di essere cieco da un occhio, fu quello in cui capì che l’unica Parca con cui voleva avere a che fare delle tre che tessono la nascita, la vita e la morte di ciascuno, è quella di mezzo:   

 

Ma a me interessava avere a che fare con la Parca di mezzo, quella che tesseva per mio conto il filo. E c’è stato un momento in cui io ho capito che non la si poteva lasciar fare e che bisognava adoperarsi.   

 

Per questo atteggiamento attivo e propositivo, Lucio realizzerà il suo desiderio di navigare, e si troverà sulla nave dell’ammiraglio Plinio il Vecchio, durante l’eruzione del Vesuvio del 79 d.C. da dove guarderà la sua città Pompei e i dintorni annichilirsi sotto un fenomeno che appare inspiegabile. 

Il titolo La Fortuna introduce il legame vibrante e perspicace che Valeria Parrella sa creare tra il mondo classico, di cui Lucio il protagonista del nuovo romanzo è un rappresentante, e noi posteri che abbiamo ridotto il termine fortuna ad un significato più scarno e meno essenziale

 

Cos’è la Fortuna per Lucio, e cos’è per Valeria Parrella? – ho chiesto alla scrittrice.


Per me è quello che è per Lucio. Gli ho regalato la voglia di essere elastici nei confronti del destino, di vedere come va, assumendo sull’occorrenza fortuna la traduzione napoletana del modo di dire “Storta va deritta vene”, va in un modo e torna in un altro.


Per Lucio la Fortuna è una dea, che gli regalerà un bacio se tutto va bene. E lui più che le imprese, vuole il bacio, perché è un ragazzino. 

 

A me, però, più che la questione delle imprese, che certo doveva avere una sua importanza nella vita degli adulti, mi interessava quel bacio. Quel bacio effimero, dato a mille e mille ancora, quel bacio adultero, senza possibilità per me, piccolo uomo, di resistere ad una dea che di notte entrava dalla finestra, proprio quella che Ascla si curava di chiudere bene d’inverno e di velare appena d’estate. Mi chiedevo: “Saprò riconoscerla quando verrà? Saprò tenerla con me? Saprò farla felice?”. 

 

Erano domande stupide perché la Fortuna è felice di suo e non ha certo bisogno del contributo di un uomo per goderne, piuttosto noi uomini siamo un mezzo affinché lei possa manifestarsi. Facciamo o non facciamo, siamo o non siamo: è lei che sceglie, entra dalla finestrella che la nutrice o lo schiavo o la moglie o il prefetto del comparto presso cui rendi servizio si sono premurati di sprangare, e ti fa ridere. 

 

Una risata dentro cui esplodono tutte le promesse.

 

Comunque io la Fortuna la aspettavo e, se non mi addormentavo prima, me ne uscivo veloce dal letto e le andavo ad allentare, quelle imposte.

 

Ognuno di noi dentro di sé sa cosa vuole, sempre, anche quando si professa disorientato. Ma quando si è molto giovani le possibilità della vita si partono da noi come raggi da una stella: sono tutti ugualmente splendenti, e per me quel bacio significava che uno di quei raggi sarebbe stato mio.

 

E infatti La Fortuna è anche un romanzo sul desiderio di essere sé stessi, di afferrare quel raggio che dalle stelle raggiunge ciascuno per essere fatto proprio. De sidera, dalle stelle appunto.

 

Sorprende solo fino ad un certo punto la capacità di Valeria Parrella di raccontare l’adolescenza e le mutevoli forme con cui si rapprende nell’animo umano per far sbocciare la persona che saremo. L’aveva già fatto con Almarina, il romanzo pubblicato con Einaudi nel 2019, finalista nella Cinquina del Premio Strega e che per me è il libro vincitore dell’edizione, anche senza affidare alla giovane Almarina la prima persona come a Lucio. Di Lucio seguiamo la parabola che lo porta definitivamente a crescere, davanti allo spettacolo orrido di una Natura che ruggisce la sua potenza, attraverso un prodigio mai visto e che cambierà il mondo quale Lucio lo ha fino a quel momento conosciuto, dentro e fuori di sé. L’eruzione del vulcano, vista da un punto strategico qual è il mare, richiederà a Lucio di non farsi annichilire dalla paura, ma di attraversarla, come un rito di passaggio dalla giovinezza alla vita adulta.

 

C’era la statua d’oro di Iside a cui mi ero votato. Perduto quello: tutto sarebbe stato perduto. Così mi sono poggiato all’albero con quel gesto per cui i marinai mi chiamano matto: che appoggio l’orecchio ai nodi del legno e chiudo gli occhi. La nave, come sempre, mi ha parlato, e io ho riferito al nocchiere: 

 

“Seguiamo la corrente”. 

 

Poi ho avvisato l’ammiraglia, l’ho fatto di persona perché temo che la paura degli altri mi inganni come Nerone temeva il cibo e il vino.

 

“Del resto la Fortuna aiuta chi le si affida,” mi ha risposto Plinio, e siamo andati, la corrente ci portava verso Stabia.

 

… e poi Plinio scende dalla nave, e con l’autorità e la preveggenza dei Maestri intima a Lucio di rimanere a bordo, come se il rimanere fosse l’eredità ed il lascito del maestro.

Chi è Plinio per Lucio? E chi omaggia Valeria Parrella dietro la figura dell’intellettuale latino?


Omaggio i miei maestri: Ermanno Rea, che è stato il mio maestro politico e dello sguardo su Napoli, ma anche i maestri viventi. Per riportare un aneddoto che ho già raccontato, a un certo punto ero incerta se fosse per me un azzardo un romanzo come La Fortuna, e ho chiesto aiuto a Domenico Starnone, che mi legge. Il suo responso fu: meglio rischiare, che ripetersi. Starnone è stato la prima persona che ha letto il romanzo e per me è un riferimento. Ma soprattutto io penso che i ragazzi hanno sempre bisogno di riferimenti. Penso che sia un nostro dovere: se possiamo, prenderci cura dei ragazzi. Nel romanzo non ho inserito solo Plinio, ma anche Marziale. Sono figure che riconoscono in Lucio qualcosa. Se non altro una volontà. Plinio, poi, per Lucio è una possibilità buffa. A Napoli è facile studiare Plinio, come ho fatto per disegnarlo nel romanzo: trovi la piccola biblioteca universitaria che fa la mini-mostra su Plinio, vai lì e la bibliotecaria sa tutto, e si è letta tutte le quattrocentine. Da lei scopri che Plinio nella sua epoca come scienziato non era molto considerato. Naturalis historia è un’opera curiosa perché Plinio inserisce storie di ogni tipo. È un’opera molto polposa, ma poco attendibile scientificamente. Plinio, ad esempio, credeva ai draghi. Quindi era considerato un fanfarone. Anche come navarca non era credibile, perché lui per mare non stava mai. È una figura buffa. Ma Lucio vedendo che Plinio grazie agli studi costanti che lo caratterizzano è riuscito a fare quello che lui stesso vorrebbe, arguisce che vale la pena studiare, perché lo studio da qualche parte lo porterà.  
 

 

Lo aveva già fatto con Tempo di imparare: innestare il mondo classico nell’introspezione e nelle reazioni emotive della protagonista. In La Fortuna Valeria Parrella capovolge le carte: è l’introspezione dei personaggi che si innesta nel mondo classico, in un momento catastrofico di quella stessa civiltà che miracolosamente ha lasciato un’impronta indelebile.

 

Perché sei voluta tornare – parlo di ritorno vista la tua formazione classica – a quel funesto 79 d.C?

 

È vero, ho invertito le carte. Secondo me è una questione linguistica, in base alla quale cambia la situazione. Poi, però, alla fine il punto è sempre lo stesso: i classici sono dappertutto e bisogna solo scovarli. Non solo, i classici sono sempre con noi. Pompei è un esempio di questo essere sempre con noi. Ci sono tornata dopo la pandemia e mi è sembrato chiaro. Era vuota, e quando sono entrata, l’ufficio stampa ha affermato: “Non vedo l’ora di rivederla vivere”. Questa frase mi è sembrata incredibile per una città in cui erano morti tutti. La cosa più bella che mi ha detto un lettore – un lettore campano – è stata che dopo aver letto questo libro, per la prima volta ha pensato di portare un fiore quando tornerà a Ercolano e Pompei, perché non ci aveva mai pensato che lì erano morte delle persone. Perché dico che è il commento più bello? Perché vuol dire che li ho fatti vivere.   

 

I classici sono dappertutto, e la gratitudine per Valeria Parrella che lo mostra in ogni romanzo, ma in La Fortuna un po’ di più, è immensa.

 

Se in pieno isolamento con Quel tipo di donna (Harper Collins Italia) ci aveva permesso di viaggiare quando non si poteva. Con La Fortuna, davanti all’eruzione del Vesuvio, all’incredulità che prende Lucio dinnanzi da uno spettacolo di inaudita ed inedita potenza, Valeria Parrella scandaglia l’attualità con una forza che solo la Letteratura possiede

 

C’è anche la pandemia in La Fortuna? Facendo ri-vivere la città di Pompei, ricordandoci i suoi morti e la sua distruzione, è il modo di Valeria Parrella di raccontare “a parole sue” ciò che ha sommerso il mondo nel XXI secolo?

 

La pandemia, certo, ma non soltanto quella. Ci sta la guerra, una ciclicità di cataclismi naturali, 40 gradi a maggio. Ci sono tante cose che c’entrano con l’inspiegabile o con lo spiegabile, che quando ci arrivi però sei in ritardo. Quando Lucio si trova a metà dell’eruzione, dal mare, si accorge che a terra sta succedendo qualcosa. Vede che la nube fa ricadere detriti dietro di loro, verso Napoli. Loro stanno in mezzo a due fronti e non capiscono che cosa succede. Allora Plinio scende a terra e loro pensano che sia finita. Ma si sbagliavano, perché dopo arriverà la lava, arriverà il maremoto, arriverà tutto.   

 

Era facile identificare Valeria Parrella con le protagoniste dei romanzi precedenti, pur sapendo che non bisogna mai confondere autrice e voce narrante, ed ancora di meno autrice e protagonista del romanzo.

 

Essere donna nei suoi romanzi ha sempre giocato un ruolo importante e ha dato spessore alla sua voce. Non perché esista una letteratura di genere, maschile o femminile, lungi da me pensarlo e ancor meno affermarlo, ma perché ha dato voce alle donne, finalmente, con profonda autenticità. Lucio è un protagonista più sfuggente rispetto alle precedenti. Sarà per l’età scivolosa della giovinezza in cui l’incontriamo; sarà per quel suo limite visivo che nel romanzo è trasformato in un talento; sarà per la sua relazione incostante con Aulo; sarà per il suo desiderio di prendere il largo, mentre le protagoniste dei precedenti romanzi sono radicate nelle situazioni e nei momenti.

Eppure in un video per la casa editrice Feltrinelli Valeria Parrella afferma che non c’è libro più autobiografico di La Fortuna.

 

In cosa Lucio ti appartiene o il senso autobiografico a cui fai riferimento va cercato altrove?

 

Io in questo libro sono tutti. Sono Lucio. Sono Aulo, in certe relazioni che ha con Lucio. Tranne Plinio il Vecchio, direi che sono tutti personaggi. Mi piacerebbe essere Marziale… Ecco non sono l’imperatore e non sono Plinio. Ma tutti gli altri li posso ben capire. Sono una parte di tutto. Questo è bello, di quando si scrive un romanzo come La Fortuna. Il prossimo lo scrivo direttamente in terza persona. Mi sto staccando. E questo è vitale per me. Io sentivo che se non cambiavo, artisticamente morivo e quindi ho cambiato.

 

 

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Conoscenza, Innovazione e Impresa: una prospettiva per Napoli di Antonio Lopes – Speciale Napoli – Aprile maggio 2022 Ed. Maurizio Conte

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CONOSCENZA, INNOVAZIONE E IMPRESA: UNA PROSPETTIVA PER NAPOLI 

 

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è stata interessata dal declino di interi comparti produttivi (soprattutto nei settori di base quali siderurgia, chimica, ecc.) che ha inaugurato la stagione della dismissione e, conseguentemente, della formazione di quelli che i geografi chiamano “vuoti urbani”. Infatti, il ridimensionamento delle attività produttive e le politiche di delocalizzazione e decentramento produttivo hanno stravolto gli assetti territoriali, per l’abbandono di molte aree un tempo occupate da imprese che, in molti casi, sono rimasti inutilizzate.

Tuttavia, questo processo non ha interessato solo le strutture industriali, 

ma anche numerosi complessi del terziario che hanno visto perdere 

progressivamente la propria funzionalità per la ridistribuzione 

nello spazio urbano di molte attività economiche.


Tutto ciò è avvenuto in contesto di un’economia di per sé debole; in particolare, ad essere interessate da questi fenomeni, sono state soprattutto le periferie orientale e occidentale di Napoli le quali, sin dall’età borbonica, per le favorevoli condizioni territoriali – morfologiche e di accessibilità – hanno rappresentato le aree preferenziali per la localizzazione di impianti industriali che, nei decenni successivi, sono state affiancate da molti altri stabilimenti di diversi comparti produttivi progressivamente dismessi. In assenza di una pianificazione illuminata ed innovativa, queste aree hanno finito col trasformarsi in spazi degradati, avulsi dai loro contesti territoriali, abbandonati e motivo di rischio per l’uomo e per l’ambiente

Al vuoto ed al degrado occorre reagire e, sebbene in modo stentato e talvolta contraddittorio, si sta faticosamente facendo strada la tendenza a considerare strategico, per il recupero di queste aree, puntare su settori produttivi 

caratterizzati da un maggiore contenuto di conoscenza. 

 

In altri termini, l’innovazione scientifica e tecnologica assume rilievo cruciale, così come la capacità delle imprese più dinamiche ed innovative di inserirsi in un contesto territoriale favorevole, caratterizzato dalla presenza di centri di ricerca ed università. 

 

In questa dimensione si rivalutano anche le città nelle scelte di insediamento delle imprese e si accentuano i processi di concentrazione dell’attività economica anche all’interno delle stesse regioni. Nel 2025, secondo una ricerca McKinsey, in 600 città globali il 66% della popolazione del mondo produrrà due terzi del Pil mondiale e la competizione vedrà sempre più coinvolte le grandi aree metropolitane ricche di connessioni.

Una certa narrazione vede in Napoli la città del Teatro, della Musica e delle bellezze naturali, si dimentica però che il capoluogo campano è sede della più antica università pubblica d’Europa istituita dall’Imperatore Federico II nel 1224 e che vanta una prestigiosissima tradizione nel campo della ricerca scientifica, si pensi soltanto all’istituzione della prima cattedra di genetica in Italia.


La presenza di un forte polo universitario – ben cinque atenei – in campo scientifico è condizione necessaria per consentire anche la nascita ed il rafforzamento di imprese ad alta tecnologia.

 

In questi ultimi anni si possono segnalare varie iniziative

che vedono il coinvolgimento – faticoso – di soggetti pubblici e privati che si muovono in questa direzione tanto nella periferia ovest che in quella ad est della città partenopea. Sul versante occidentale, nel quartiere di Bagnoli, ai margini dell’area ex-industriale dell’Italsider, due consorzi di imprese sono impegnati nella realizzazione di un Polo Tecnologico per ospitare uffici e laboratori di ricerca e sviluppo, sia per le proprie aziende, sia per le altre che gradualmente vorranno insediarsi in un comprensorio con grandi potenzialità.

 

Si prevede di costruire Laboratori ed uffici per ospitare fino a 3000 tecnici e ricercatori. Oltre ad uffici e laboratori sono previsti parcheggi interrati ed esterni, ampi spazi verdi ed aree per ospitare eventi, show-room, sale riunioni, servizi di ristorazione, commerciali, ricettivi e per la logistica.

 

La realizzazione di un luogo fisico per aggregare le competenze risulta strategico e consentirà di sviluppare collaborazioni tra le imprese e con enti di ricerca. La condivisione delle conoscenze e delle esperienze realizzative sarà caratterizzata da un elevato livello di innovazione già con gli impianti previsti con la costruzione del Polo Tecnologico. 

 

Con più di 30 imprese ed enti di ricerca, il progetto si presenta con un rilevante programma di investimenti che si svilupperà costituendo un aggregato di personale con alta qualificazione professionale. Il Polo accoglierà centinaia di persone anche dall’estero, che troveranno a Bagnoli uno spazio dove lavorare, soggiornare e trascorrere il tempo libero tra le tante attività ricreative disponibili. Verrà a crearsi così un indotto economico e sociale con ricadute positive sull’intero territorio circostante.

Nel Polo Tecnologico saranno applicate le migliori tecnologie e realizzati servizi innovativi, alcuni in forma sperimentale ed altri già industrializzati,


che potranno essere mostrati e valutati fisicamente, come una grande show-area con possibili ed auspicate estensioni nella circostante e riqualificata area ex-industriale di Bagnoli. 

 

L’intero progetto, come si diceva, nasce dalla collaborazione di due consorzi di aziende, chiamati rispettivamente Polo Tecnologico Ambiente (PTA) e Polo Tecnologico di Bagnoli (PTBagnoli). Questi consorzi riuniscono numerose aziende attive nel campo dell’innovazione, decise a valorizzare insieme il territorio locale attraverso l’eccellenza che dimostrano nelle più avanzate tecnologie. Tra queste Bit4id, Gematica, Graded, IBI, IDI, IPmotive, Itatech, Protom, Sea Costruzioni, e molte altre.

 

Le competenze delle imprese del Polo Tecnologico sono 

di assoluto valore anche a livello internazionale

 

ed includono, tra l’altro: Valutazione e riduzione dell’impatto dei rischi ambientali da cause naturali e antropiche, Sistemi e servizi di sicurezza informatica, Smart-City: gestione ambiente e infrastrutture, Bonifica di siti contaminati, Tecnologie e materiali ecocompatibili, Energie alternative e gestione integrata dei rifiuti. 

 

Ogni azienda darà vita ad un centro di eccellenza tecnologica, detto anche “TEC – Tecnology Excellence Center”, in cui portare avanti le proprie attività di ricerca applicata e sviluppo. La presenza di tante diverse realtà all’interno del Polo Tecnologico porterà ad un fruttuoso scambio di competenze e know-how. 

 

Il Polo Tecnologico avrà un ruolo fondamentale nei processi di sviluppo economico e sociale del territorio.

 

Per raggiungere questo importante obiettivo si ispira all’eccellenza già raggiunta 

a livello locale in tre diversi ambiti, dove tutti i fattori cooperano, 

si influenzano e si arricchiscono vicendevolmente.


A Napoli Est si annovera già la presenza di importanti multinazionali quali la Apple, Cisco, Deloitte, Merck, Accenture, IBM, NTT Data, che operano in collaborazione con le università Federico II e Parthenope in percorsi di formazione ed Academy per giovani e laureati. In particolare, il Digital Innovation Hub promosso da Confindustria opera per facilitare le relazioni tra Industrie, Centri di Ricerca ed altri attori istituzionali. Il Polo Tecnologico di Bagnoli offrirà nuovi spazi per ampliare le presenze qualificate nell’area di Napoli con nuovi centri di eccellenza tecnologica.

 

Tutto questo si inserisce in un territorio rinomato in tutto il mondo per la sua varietà 

e per la sua ricchezza, ed il patrimonio ambientale, culturale e monumentale 

di Napoli e dell’intera regione non smette mai di stupire.

Oltre ad essere una continua fonte di ispirazione, la bellezza del territorio è un solido pilastro dell’economia locale che può fungere anche da attrattore turistico. 

 

Spostiamoci ora verso la periferia orientale, dove è stato inaugurato, nel Polo Tecnologico Aerospaziale di via Gianturco a Napoli, il laboratorio “Fabbrica dell’Innovazione” per le attività di ricerca in condizioni di microgravità: una struttura di oltre 1000 mq. E’ stato sottoscritto il contratto tra l’Agenzia Spaziale Italiana (Asi) e la società Ali (Aerospace Laboratory for Innovative Components) per la realizzazione di due Space Box contenenti altrettanti esperimenti di life science che saranno inviati sulla Stazione Spaziale Internazionale (ISS). Gli Space Box sono laboratori miniaturizzati realizzati dalla società Ali e già qualificati per le attività nello Spazio lo scorso agosto 2021 che consentiranno la totale automatizzazione degli esperimenti.

 

All’interno del Polo tecnologico Aerospaziale è stato sviluppato 

il progetto READI-FP, finanziato dalla Regione Campania,

 

che nell’ultimo anno ha conseguito risultati davvero significativi con la certificazione del Mini Lab, strumento innovativo per “incubare” esperimenti al servizio della ricerca aerospaziale. 

 

Una fabbrica dell’innovazione in una struttura che in passato ha ospitato una grande fabbrica metalmeccanica, la Mecfond, segna una continuità che è paradigmatica delle potenzialità che questa storica area della città può ancora esprimere al servizio della rinascita di Napoli.

 

Va anche detto che l’apertura dei nuovi spazi della Fabbrica dell’Innovazione costituiscono un ulteriore elemento di rafforzamento 

del Distretto Aerospaziale della Campania.

Quest’ultimo rappresenta ormai una realtà consolidata che si occupa della cura e gestione delle collaborazioni e dello scambio di know-how in ambito internazionale, nonché della promozione di partnership tra mondo imprenditoriale, istituzioni, università e centri di ricerca che favoriscano processi di cross-fertilization a supporto della creazione di nuove tecnologie, della loro diffusione e del loro trasferimento nel settore aerospaziale.

 

Il modello del distretto si è rivelato a 10 anni dalla sua costituzione una struttura efficiente poiché supera la logica della relazione occasionale tra il mondo della ricerca ed il mondo delle imprese e favorisce una relazione costante fatta di sinergie per condividere le visioni di medio e lungo termine. In Campania siamo forti più nel settore della ricerca che in quello industriale.

 

Tra i nuovi progetti vanno segnalati la Urban Air Mobility, cioè la possibilità 

di alleggerire il traffico e contrastare l’inquinamento

 

mettendo a disposizione degli aerotaxi che si muoveranno ad esempio tra gli aeroporti principali della Campania, come Capodichino e Pontecagnano, raggiungendo le mete senza intasare il traffico della città. Vi è poi il forte contributo alla svolta green nella ricerca della limitazione dell’inquinamento, soprattutto quello acustico, non solo le emissioni di carbonio, utilizzando materiali e processi di lavorazione riciclabili che richiedano poca energia. 

 

In Campania la Tecnam ha avanzato un progetto di un aereo a propulsione elettrica, ma c’è anche grande interesse per il volo ipersonico, che coprirebbe la tratta Napoli – New York in un’ora e mezza.

 

Il distretto costituisce un luogo di discussione e di condivisione 

che produce conoscenza di elevato impatto.


Purtroppo una parte troppo piccola di questa conoscenza si trasforma in innovazione a favore delle imprese e genera lavoro in maniera ampia a causa della ridotta dimensione delle imprese potenziali destinatarie. Si ritorna così al punto da cui si era partiti: la conoscenza è condizione necessaria per la crescita aziendale, ma non è sufficiente se non è integrata da un intervento pubblico efficiente e da una politica industriale attenta alle ragioni dello sviluppo di un territorio dalle notevoli potenzialità.

 

 

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IL PRESEPE VIVENTE DI PANETTIERI – Gemme del Sud – Numero 23 – Dicembre 2021 gennaio 2022 Ed. Maurizio Conte

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IL PRESEPE VIVENTE DI PANETTIERI

 

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Panettieri (CS)

 

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Panettieri, in provincia di Cosenza, è un piccolo borgo di circa 300 abitanti, incastonato nel magnifico scenario della Sila. Nel 2000 un gruppo di giovani amministratori comunali, mossi dal desiderio di un rinnovamento del paese e dall’orgoglio per le proprie radici, decide di trascinare tutti i concittadini in un progetto con cui recuperare, conservare e tramandare le tradizioni del luogo e rivitalizzarne le prospettive di sviluppo. Nasce così il Presepe vivente di Panettieri che, 

grazie al forte senso di comunità ed all’appassionata partecipazione dei suoi abitanti, col trascorrere degli anni è diventato un evento di rilevanza regionale, 

che ormai richiama migliaia di visitatori.


A partire dai primi di novembre fino al 24 dicembre, nel paese di Panettieri fervono i preparativi per questa manifestazione davvero speciale, per la quale, dalla Vigilia all’Epifania, tutto il paese si trasforma in un teatro ed i suoi abitanti diventano teatranti. 

In una scenografia incantata che rievoca la Betlemme della nascita di Gesù, accompagnati dallo scintillio delle fiaccole e dal suono delle zampogne, i visitatori percorrono le stradine del paese in cui sono allineate le varie postazioni che riproducono i luoghi e gli avvenimenti della Natività, dalla casa di Erode, alla Locanda, alla Grotta. 

E poi ci sono gli artigiani all’opera: il panettiere, il lattaio, il fabbro, il cestaio, le filatrici, la saponaia, le ricamatrici, le tessitrici, il liutaio, il maniscalco, i pastori, il calzolaio, i taglialegna, il falegname… insomma, un vero e proprio museo temporaneo degli antichi mestieri del Borgo!   

Con il suo presepe vivente, i suoi profumi, i sapori, le sue tradizioni, Panettieri offre un suggestivo tuffo nel passato, un’esperienza davvero unica per vivere la magica atmosfera del Natale e riscoprirne i suoi valori più veri ed autentici.

 

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