I GIARDINI DI KOLYMBETHRA di Cinzia Terlizzi – Numero 8 – Luglio 2017

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 Così l’Abate di Saint Non nel 1778, di fronte alle meraviglie racchiuse nella Kolymbethra, giardino nell’incanto della Valle dei Templi 

ad Agrigento, fra il Tempio di Castore e Polluce 

e quello di Vulcano…


I suggestivi monumenti dell’era classica impreziosiscono questo angolo di terra che fra piante della macchia mediterranea, mandorli e gelsi presenta un prezioso agrumeto ricco di specie ormai rare che ancora oggi viene irrigato secondo le antiche tecniche arabe con acquedotti sotterranei da dove arrivava anche l’acqua che confluiva in un grande bacino: la Kolymbetra appunto, che serviva per approvvigionare l’antica città di Akragas….

 

Di Kolimbethra parla per primo Diodoro Siculo. Nella sua Bibliotheca Historica descrive la città giardino abbellita da una immensa vasca 

dove sboccavano gli acquedotti feaci e dove venivano 

allevati pesci in abbondanza e una grande varietà 

di specie botaniche.

 

La piscina veniva alimentata da un sistema complesso e sofisticato di gallerie e di cunicoli sotterranei, gli ipogei, che raccoglievano la preziosissima acqua permettendo alla vasca di conservare sempre lo stesso livello e al giardino di prosperare senza interruzioni o problemi dovuti alle crisi stagionali di siccità. Acque limpide e fresche dove i cittadini akragantini solevano immergersi e le donne lavare gli indumenti mentre l’ombra e i profumi dei giardini deliziavano i visitatori. C’è da restare sorpresi se si pensa che tutto questo avveniva, stando sempre a Diodoro Siculo, intorno al 480 a.C..    

 

Kolimbethra subì varie trasformazioni nel corso dei secoli.

 

La piscina venne interrata un secolo dopo la sua realizzazione,
ma l’ingegnoso sistema di cunicoli e di acquedotti non smise
di funzionare, consentendo a tutta l’area di diventare
un immenso orto-giardino dalle infinite potenzialità
agrarie e fruttifere:

 

limoni, aranci, carrubi, melograni, gelsi, pistacchi e perfino banani crescevano rigogliosi nel giardino delle meraviglie immersi in una cornice di essenze mediterranee dove erano prevalenti i lentischi, gli allori e i mirti. Nei secoli diciottesimo e diciannovesimo, Kolimbethra acquista l’aspetto di un gigantesco e straordinario agrumeto assecondando la tendenza dell’intera isola a favorire la coltivazione e il commercio delle arance e dei limoni, fino ad arrivare ai nostri giorni, quando, contrastando la rovina e l’oblio, la Regione, nel 1999, decide di affidare al Fondo Ambiente Italiano le sorti del sito.

 

Un gioiello archeologico e paesaggistico, un luogo tenuto per decenni 

in abbandono tornato all’originario splendore grazie al FAI, 

a cui è stato affidato nel 1999 dalla Regione Sicilia 

in concessione gratuita. 

 

Il Fondo Ambiente Italiano ha ora inaugurato un nuovo suggestivo percorso negli ipogei o “Acquedotti Feaci”, gli unici visitabili nella Valle dei Templi… 185 metri nel sottosuolo attraverso cunicoli che risalgono al 480 a.c.: scavati dagli schiavi fenici nella roccia tipica della zona, la calcarenite gialla, e utilizzati anche per conservare acqua e cibo e, durante la seconda guerra mondiale, come rifugio antiaereo. Si cammina così in un luogo dall’indiscutibile fascino e dal grande valore storico-archeologico e botanico-agrario…tra memorie del passato e profumi del presente.

 

Un’altra perla del Sud salvata dal degrado e dall’oblio e che torna a brillare per la gioia di tutti coloro che amano e difendono
l’eredità culturale del Bel Paese.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Giardino della Kolymbetra © Vincenzo Cammarata_ok
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I GIARDINI      DI KOLYMBETHRA

 

 

 

 

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CRONISTA D’ECCEZIONE: QUASIMODO ALL’AJA 1948 di Carlo Curti Gialdino – Numero 8 – Luglio 2017

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CRONISTA D’ECCEZIONE: QUASIMODO ALL’AJA 1948

 

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I fotografi di tutte le agenzie giornalistiche del mondo facevano scattare gli obiettivi delle loro macchine. Ero accanto a Churchill, all’uomo della guerra, io italiano. Non l’ho saputo ringraziare, io europeo, che sogna un’Europa veramente unita, senza discorsi preliminari, dove ad ogni parola, s’ode il rumore d’uno scoppio lontano, d’un nuovo scoppio che potrebbe bruciare perfino le acque della terra”[1].

 

 
Così Salvatore Quasimodo (Modica, 20 agosto 1901 – Napoli,
14 giugno 1968) chiude la breve, seppur intensa, testimonianza 
della sua partecipazione ad una iniziativa di tutto rilievo fra le
molteplici che hanno contribuito alla nascita della collaborazione
fra gli Stati europei, dopo il secondo conflitto mondiale 
e nel pieno della guerra fredda.
 
Ci si riferisce al Congresso dell’Europa, svoltosi a L’Aja dal 7 al 10 maggio 1948[2], presieduto da Winston Churchill ed ospitato nella sede del Parlamento olandese. Il congresso, che fu definito dal federalista francese Alexandre Marc gli États généraux de l’Europe, aveva l’obiettivo di dimostrare che esisteva una corrente di opinione favorevole all’unità dell’Europa, di discutere dei passi da compiere per realizzarla e di proporre ai governi delle realizzazioni concrete. La salvezza dell’Europa nel 1948, nelle intenzioni degli organizzatori, era vista nella creazione di una federazione degli Stati europei, possibile mediante la creazione d’un organismo internazionale capace di offrire un vasto mercato interno, base d’una solida prosperità; e questo con la ricostruzione tecnica, con la comunità delle risorse, con la divisione dei lavori tra i popoli. Ed in effetti quelle realizzazioni poi ci furono. Tra di esse possiamo ricordare, nell’immediato, la nascita del Consiglio d’Europa nel 1949, associazione di Stati con sede a Strasburgo, che oggi conta 47 membri e la firma a Roma il 4 novembre 1950 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. Agli inizi degli anni Cinquanta seguirono la Dichiarazione del Ministro degli esteri francese Robert Schuman (9 maggio 1950), la conseguente istituzione della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA, Parigi 18 aprile 1951), primo ente sovranazionale europeo, progenitore delle Comunità europee (CEE ed Euratom) istituite, come noto, dai Trattati firmati a Roma il 25 marzo 1957, dai quali è nata l’attuale Unione europea.
 
Al Congresso dell’Aja parteciparono circa 800 personalità: uomini di Stato, parlamentari, religiosi di tutte le confessioni, industriali, dirigenti sindacali, economisti, docenti universitari, scrittori, poeti e artisti.
 
Della delegazione italiana, presieduta da Nicolò Carandini, diplomatico e politico, e composta, tra gli altri, da Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi[3], Giuseppe Ungaretti e Ignazio Silone, fece parte, per l’appunto, Salvatore Quasimodo[4]. Il poeta ci ha lasciato una vivace e salace descrizione dell’incontro nel saggio Europa één, (Europa unita), pubblicato postumo nel volume A colpo omicida ed altri scritti, apparso nel 1977[5].
 
Con occhio tagliente di osservatore critico, Quasimodo inizia rilevando che “pare che tutte le delegazioni italiane ai congressi internazionali arrivino, per tradizione, nel luogo stabilito per gli incontri,
con ventiquattro ore di ritardo”.

 

Ed anche in questo caso gli italiani arrivarono all’Aja alla fine della prima giornata dei lavori quando le “questioni preliminari” erano state regolate, Churchill aveva pronunciato il suo discorso e le presidenze delle commissioni erano state decise. Per arrivare all’Aja, gli italiani, che viaggiavano in treno su una vettura speciale, avevano dovuto superare cinque frontiere (Svizzera, Francia, Lussemburgo, Belgio e Olanda), quelle stesse frontiere che, dalla fine degli anni Novanta, dopo gli accordi di Schengen, non prevedono più la visita doganale dei viaggiatori. Quasimodo, a beneficio del lettore, ricorda che L’Aja (Den Haag in olandese) deve il suo nome alla Haghe, l’antico terreno di caccia del conte Guglielmo II di Olanda che fece costruire in questi luoghi, nel 1280, il castello ‘s-Gravenhage (L’Aja dei Conti). Nella Sala dei Cavalieri (Ridderzaal) si svolsero le sedute plenarie del Congresso. Con molta ironia, se non sarcasmo, Quasimodo ricostruisce i primi incontri della delegazione italiana con gli altri congressisti: in un albergo di Scheveningen, che è la spiaggia dell’Aja, in cui gli olandesi si difendono dal forte vento “stando seduti sulla sabbia dentro un curioso riparo di vimini, rannicchiati in una specie di culla verticale” e dove ancora oggi il turista ammirato non può sottrarsi al richiamo sorprendente dei rosseggianti tramonti sul Mare del Nord. Ma quella sera l’attenzione degli ospiti riuniti presso il grande salone dell’albergo ristorante “Kurhaus” fu tutta per la delegazione italiana che, essendo anche in questa circostanza giunta in ritardo, “per ragioni di orientamento” (sic!) ed essendo tutti i tavoli occupati, fu fatta accomodare sul palco; il che provocò un lungo applauso dei congressisti, convinti che fossero entrati Churchill o l’Altezza Reale Giuliana… Nella cena offerta, in cui la pastasciutta o la bistecca ai ferri, annota Quasimodo, “erano lontane esattamente ventotto ore di ‘Express’” ed il calice di vino era a pagamento (250 lire di allora, che, rivalutate, corrispondono agli odierni 3,67 euro), le sigarette, confezionate per l’occasione, erano gratuite.

 

Quasimodo partecipò ai lavori della commissione culturale,
presieduta dallo spagnolo Salvador de Madariaga[6], che propose
un Centro europeo della cultura, poi istituito nel 1949 a Ginevra
ed un progetto 
di una università europea, che fu poi alla base
del Collège d’Europe di Bruges, una istituzione post-universitaria
pure creata nel 1949 e divenuta rapidamente un noto centro
di formazione per la futura classe dirigente europea.

 

Quasimodo stronca il discorso di de Madariaga in plenaria, definito “gonfio e retorico, degno di un collaboratore d’una di quelle riviste letterarie che vedono la luce in ogni provincia degli Stati europei”. Ricorda, pure, che l’unico emendamento che la delegazione italiana riuscì a far approvare fu “accessorio, di carattere linguistico: la sostituzione d’un ‘europeo’ al posto d’un ‘occidentale’” e commenta, con le parole del Petrarca, “Italia mia, benché il parlar sia indarno…”. La seduta finale del Congresso si svolse ad Amsterdam nel corso di una grande riunione pubblica sulla piazza antistante il Palazzo reale. Quasimodo ricorda il risuonare dell’inno per l’Europa Unita (Europe united, Europe Unie, Europe èèn), con testo del poeta olandese H. Joosteen e musica del Maestro Louis Noiret, anch’egli olandese e lo sventolio di bandiere bianche con la E di Europa in rosso (vessillo allora del Movimento europeo, disegnata da Duncan Sandys, genero di Churchill, che poi, dopo la riunione dell’Aja[7], pretese che la E fosse colorata di verde). “Addio Amsterdam: il ritorno fu una corsa verso la stazione”. Il bilancio è amaro. Le parole di Quasimodo, che siamo abituati a conoscere quale poeta del dolore umano, sembrano indicare un atteggiamento di sfiducia verso le troppe parole roboanti e le poche conclusioni interessanti. Avrebbe, il poeta, preferito una visita alla città della pinacoteca e dei quattrocento ponti, dei settanta musei e delle due università, piuttosto che restare imprigionato al calar del sole nella ricordata piazza prospiciente il palazzo reale per una cerimonia sfiancante nel susseguirsi di discorsi non sempre pregnanti. Forse troppo provati, alcuni intellettuali, dalle vicende belliche, per coltivare la speranza. L’unico che sembra aver lasciato un segno nell’animo dello scrittore è proprio Churchill, “l’uomo della guerra”, per quel senso di gratitudine e riconoscenza che ogni uomo dell’epoca, ancora intimorito dallo spettro di una pace non duratura, era incline a tributargli. Settant’anni sono passati. La bandiera e l’inno dell’Unione europea non sono più quelli del Congresso dell’Aja del 1948. Sono stati sostituiti, rispettivamente, dalle 12 stelle dorate in campo azzurro e dall’Inno alla gioia della Nona sinfonia di Beethoven[8]. 

 

E, tuttavia, pur tra molte difficoltà e crisi ricorrenti, l’unità dei governi e dei popoli europei ci ha assicurato, dal 1945 ad oggi, il periodo di pace più lungo di sempre nella storia della nostra Europa. Non è poco. Occorre non dimenticarlo mai e ricordarlo sempre
alle nuove generazioni.

 

 

 

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 [1] S. Quasimodo, Europa een, in “A colpo omicida” e altri scritti, a cura di G. Finzi, A. Mondadori, 1977, p.61. [2] A. Varsori, Il Congresso dell’Europa dell’Aia, 7-10 maggio 1948, in Storia contemporanea, rivista trimestrale di studi storici, 1990, n. 3, pp. 463-493; J-M- Guieu & C. Le Dréau (dir.), Le “Congrés de l’Europe” à La Haye (1948-2008), P.I.E. Peter Lang, Bruxelles, 2009. 

 

[3] A. Spinelli, E. Rossi, Per un’Europa libera ed unita progetto d’un manifesto, più noto come Manifesto di Ventotene, scritto nell’inverno 1941 e pubblicato in edizione clandestina nel 1944, con prefazione di E. Colorni con il titolo Problemi della Federazione europea. [4] S. Paoli, The Italian Delegation to the Hague “Congress of Europe”, in J-M- Guieu & C. Le Dréau (dir.), op. cit., pp. 211-222. [5] S. Quasimodo, op. cit., pp. 51-61.

 

[6] La presidenza era stata originariamente offerta a Benedetto Croce, che rinunciò adducendo motivi di salute (S. Paoli, op. cit., pp. 214-215). [7] Riferisce R. Harmignies, Le drapeau européen, in Vexilla Belgica, n. 7, p. 77 che “Malheuresement, lorsque la cérémonie s’ouvrit au Binnehof et n’y avait pas un souffle de vent, tous les drapeaux pendaient mollement le long des hampes, formant ainsi un véritable mer rouge. Le viex Churchill vit rouge égalemen et Mr Sandys fut instamment prié de choisir un autre couleur pour l’emblème de son Mouvement!”. [8] C. Curti Gialdino, I Simboli dell’Unione europea. BandieraInno – Motto – MonetaGiornata, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, Roma, 2005. 

 

 

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IL DIOMEDE RIAFFIORATO di Giorgio Salvatori – Numero 8 – Luglio 2017

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Diomede, eroe leggendario o veramente esistito? Tanta è la pletorica presenza di Ulisse nell’Iliade e, naturalmente, nell’Odissea, che i più stentano a ricordare la figura del suo valoroso sodale durante gli eventi di Troia. 

 

Eppure, Omero, nell’Iliade, gli dedica il quinto libro, dal titolo “Le gesta di Diomede”, descrivendo l’”aristia” – l’eccellenza dell’eroe – declinata in ripetuti episodi di valore. Valore che non incanta Dante che colloca, invece, Diomede, insieme con Ulisse, nella bolgia dei “male consiglieri” affermando: “E così insieme a la vendetta vanno come a l’ira’’ (Inf.XXVI,56,57). Dante non perdona infatti ai due eroi greci la predisposizione a coltivare sempre una smodata astuzia nel costruire inganni. Destini analoghi, insomma, perfino nelle perigliose avventure che entrambi affrontarono nei viaggi che li ricondussero a casa. Ed è questa la narrazione più tenace legata alla figura di Diomede, che ancora sopravvive nella memoria di quasi tutti gli odierni abitanti delle isole Tremiti. Il perché è strettamente collegato al mito della fondazione di queste isole dell’Adriatico. La storia narrata dagli isolani, estrapolata dai testi classici, rielaborata e riportata su varie pubblicazioni turistiche, ammette alcune varianti.  

 

La più suggestiva attribuisce al nostro eroe la creazione ex nihilo
delle Tremiti, o Diomedee, scaturite dagli abissi dopo il lancio in mare delle pietre che Egli aveva portato con sé da Troia.

 

La leggenda, comunque in tutte le sue versioni, narra sempre che Diomede, dopo essere tornato ad Argo, sentitosi tradito da una moglie infedele e da sudditi ostili, fu costretto a rimettersi in viaggio; ma, a causa di una terribile tempesta, fu spinto sulle acque del mare Adriatico approdando, infine, sulle coste settentrionali della odierna Puglia. Qui decise di fermarsi e fondò diverse città. Il destino riservò, a questo punto, anni di gloria a Diomede, acclamato nella nuova patria, prima, come eroe, poi, come re, dopo atti di ardimento e straordinarie imprese belliche. 

 

Dopo i fasti vissuti in terra dauna, giunse, infine, la morte.
Le spoglie dell’eroe furono sepolte sull’isola di San Nicola,
la più abitata tra le Tremiti, in un luogo mai realmente individuato nonostante una piccola grotta dell’isola venga citata
sulle guide turistiche come ‘’Tomba di Diomede’’.

 

Seguendo un collaudato modello mitopoietico, la leggenda racconta anche che i fedeli compagni dell’eroe greco furono trasformati in uccelli marini dalla dea Afrodite, forse per compassione o forse per vendetta – visto che la dea, durante la guerra di Troia, era stata ferita ad una mano da Diomede mentre tentava di soccorrere suo figlio Enea. Non è un caso che questi uccelli, le berte, vengano chiamati anche “diomedee’’. Il loro verso lamentoso, di notte, sembra a molti un pianto inconsolabile per la perdita della guida ardimentosa dell’amato capo.  

 

Fin qui, la leggenda. Affascinante, romantica, remota. Riscontri pochi
o nulli. Ecco però che, a distanza di oltre tre millenni dal periodo in cui si suppone si siano svolti gli eventi successivi alla guerra di Troia,
riaffiora dalla terra del Gargano un piccolo monile che fornisce
il primo, intrigante indizio della presenza dell’eroe omerico
nella terra dei Dauni.

 

Si tratta di un piccolo anello d’oro di epoca romana, probabilmente risalente al primo secolo dopo Cristo: molti secoli dopo, quindi, gli eventi mitopoietici narrati dalla leggenda omerica. L’anello risulta impreziosito da una gemma che reca la fine incisione di una figura maschile con le sembianze del nostro eroe. La scoperta, inaspettata, durante gli scavi intrapresi in una grande e dimenticata necropoli paleocristiana, individuata già sul finire del diciannovesimo secolo (Del Viscio,1887); poi abbandonata; quindi, riaperta parzialmente negli anni sessanta del secolo scorso e, poi, nuovamente abbandonata fino ad anni recenti, quando, con finanziamenti regionali, nell’antico luogo di sepoltura e alle pendici di un monte boscoso, si è tornato a scavare con nuova lena e mezzi adeguati. 

 

Nel libro che divulga questa scoperta (Biscotti, Giglio, La Rocca, 2016), Luigi La Rocca, Direttore presso la Soprintendenza per i Beni Archeologici della Puglia, afferma che l’anello, con castone in agata, costituisce la prima attestazione iconografica dell’eroe, la cui figura mitica è notoriamente connessa all’area garganica” e descrive l’incisione come inequivocabilmente raffigurante l’eroe greco Diomede che stringe in una mano il Palladio, cioè l’immagine sacra di Pallade Atena, venerata in Ilio e considerata dai Troiani e dai Greci come il più sicuro presidio per la difesa della città. 

 

E, infatti, la leggenda vuole che proprio Diomede, insieme con Ulisse (entrambi travestiti da mendicanti), riuscì a trafugare il prezioso simulacro da Troia e a portarlo via con sé nelle successive peregrinazioni. Un indizio, non una prova, ma, stando alle autorevoli affermazioni di La Rocca, la gemma dell’anello recuperato negli ipogei di Monte Pucci può essere considerata una traccia concreta 

della presenza di Diomede in Puglia. 

 

Qui ritorna la domanda: Diomede invenzione omerica o eroe approdato e vissuto sul Gargano? Rappresentazioni di Diomede, con o senza il Palladio, non sono rare: immagini emerse da tombe etrusche, raffigurate su reperti di epoca romana. Ma, quella riaffiorata dalle viscere del promontorio garganico, è l’unica, fino ad oggi, che fornisca un riscontro tangibile del possibile approdo del leggendario guerriero greco sulle spiagge della Puglia garganica. Pochi hanno dato rilievo alla notizia della scoperta: qualche riga vergata sul lancio di un’agenzia di stampa, brevi articoli di alcuni quotidiani regionali. Eppure, il rinvenimento meriterebbe maggiori approfondimenti, così come più spazio potrebbe essere dedicato alla eccezionale campagna di scavi che si sta conducendo nella necropoli di Monte Pucci, dove l’anello di Diomede è stato trovato. Si tratta infatti di un luogo la cui unicità è attestata da tutti i ricercatori, archeologi, antropologi, botanici, tecnici che stanno partecipando alla campagna di scavi con l’obiettivo di realizzare, sul posto, un museo archeologico e naturalistico ai piedi di una montagna che si affaccia su un mare dalle trasparenti sfumature di azzurro e di verde. 

 

Gli scavi hanno finora restituito ai ricercatori oltre 800 sepolture, 

tutte risalenti al periodo compreso tra il IV e il VII secolo d.C., 

rinvenute in 26 ipogei la cui insolita architettura ha sorpreso 

tutti quelli che hanno preso parte ai lavori.

 

Centinaia i reperti finora classificati tra lucerne, anfore, oggetti di ornamento, oltre ai tanti resti di individui inumati: adulti, bambini, intere famiglie. Una varietà di tombe a loculo, a baldacchino, a fossa semplice, ad “arcosolio” che, difficilmente, trova riscontro in altri siti di inumazione della penisola. Intorno alla necropoli, e sopra gli ipogei, il fortunato visitatore proverà stupore nell’immergersi in una natura rigogliosa dagli intensi colori e dai soavi profumi di flora mediterranea. Protagonisti dello spettacolo sono gli ulivi maestosi, i grandi caprifichi, le rare campanule garganiche. Una cornucopia di piante, di arbusti, di fiori odorosi. Un unicum da tutelare e offrire al pubblico quando saranno terminati i lavori di scavo e completate le opere di recinzione e di sentieristica guidata. Quali scoperte possa riservare ancora la necropoli ai ricercatori è difficile dirlo. Ciò che finora si è trovato, in ogni caso, dovrebbe indurre responsabili politici regionali e amministratori locali a impegnare il massimo delle risorse disponibili per rendere queste scoperte patrimonio diffuso e condiviso. Non sfugge a nessuno, infatti, che i benefici che ne potrebbero derivare per la cultura, l’economia, il turismo di qualità, sarebbero molteplici, vantaggiosi per tutti e, soprattutto, duraturi.

 

 

 

 

 

 

 

 

IL DIOMEDE RIAFFIORATO

 

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 Le foto sono di Valentino Piccolo, Direttore Gruppo Archeologico Garganico “S. Ferri”

 

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