IL PIL DEL SUD – Redazionale – Numero 5 – Luglio 2016

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Redazionale

Da anni le proposte per un “cambio di passo” sollevate da più osservatori si concentrano sugli investimenti pubblici, da realizzare in alcune grandi aree (Gioia Tauro, Taranto, Napoli, Palermo e Bari) e la risposta del Governo è sembrata in linea, visto che oltre 11 miliardi di spesa per investimenti legati al piano Juncker sono destinati alle regioni del Sud. Logistica, porti, aree economiche speciali sono le direttrici più citate nelle analisi di policy per gli interventi strutturali, analisi accompagnate negli ultimi quattro anni dalle cronache sul commissariamento dell’Ilva (15mila addetti di cui 12mila a Taranto), che a fine anno dovrebbe passare di mano a una delle cordate in campo (Arcelor Mittal con Marcegaglia o Cdp con Arvedi e Del Vecchio), per non parlare delle più recenti cronache sul piano di rilancio del polo di Bagnoli.

 

IL PIL

DEL SUD

 

Le impressioni suscitate da analisi, proposte e cronache sono diverse e tutte accomunate da un senso di incertezza sulle dinamiche reali e profonde di territori e popolazioni che sembrano intrappolate in una sorta di mito di Sisifo, in una fatica che non costruisce, esposti a una vulnerabilità resa più forte dalle sfide della globalizzazione e da un’Unione europea più fragile.

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Cercare però cause esterne ai ritardi strutturali del Mezzogiorno è sbagliato: un dualismo Nord-Sud come quello italiano ha pochi paragoni nell’Eurozona ed espone il Paese a rischi di marginalità maggiori. Serve un salto quantico di mentalità e senso civico per ripartire. Un anno di ri-crescita congiunturale dell’1,0% dopo sette anni di recessione non cambia di una virgola il quadro ma invita tutti a guardare a questa realtà con un coraggio diverso e la consapevolezza che il distacco di produttività di un’area territoriale non si colma per magia.

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La crescita più importante, dal punto di vista delle risorse, arriva dall’agricoltura, con un +7,3% del valore aggiunto, ma incrementi di un certo rilievo statistico si sono registrati anche nel commercio, nei trasporti, negli esercizi pubblici e telecomunicazioni (+1,4%), mentre l’industria è rimasta al palo e i servizi finanziari hanno subito un calo dello 0,6%. In miglioramento, sempre secondo l’Istat, anche il mercato del lavoro, con un’occupazione in recupero grazie al traino dell’agricoltura (+1,5%): misurata in termini di numero di occupati è la variazione maggiore rispetto alle altre grandi aree del Paese.

Come dobbiamo leggere questi segnali statistici? Con estrema cautela.

Partiamo dal dato sull’occupazione: nel Centro Nord la variazione dello 0,6% del 2015 è inferiore solo perché lì la ripresa era già iniziata nel 2014, anno ancora di piena recessione per il Sud. La crescita del prodotto interno è stata più intensa al Centro Nord, con il risultato che il divario è cresciuto e non diminuito. Rispetto ai valori massimi di occupazione raggiunti nel 2008, il Centro Nord l’anno scorso ha recuperato quasi per intero i posti andati perduti nonostante il Pil resti inferiore del 6% rispetto ai livelli pre-crisi, mentre nel Mezzogiorno a fronte di un calo delle attività dell’11% l’occupazione è rimasta più bassa del 7%. Significa che nel Sud la correlazione tra occupati e economia reale è più stretta e senza un’espansione strutturale di quest’ultima il lavoro non riparte. Sono ripartiti, invece, i flussi migratori, verso il Nord e l’estero. I numeri dell’Istat disponibili in questo caso si fermano al 2014 ma confermano che le regioni del Sud (-31mila) e le Isole (-10mila) restano i territorio da cui si parte di più in cerca di lavoro. Secondo Adriano Giannola, presidente dello Svimez, le persistenti partenze di cittadini meridionali avrebbero compensato il divario del Pil-procapite, che al Sud è di circa il 40% inferiore a quello del Nord, un dato confermato anche dalle indagini della Banca d’Italia sui bilanci delle famiglie italiane, secondo cui il divario dei redditi medi equivalenti dei capifamiglia si sarebbe sempre più allargato dagli anni Novanta fino a oggi, raggiungendo nel 2015 un livello medio inferiore ai 14mila euro al Sud e attorno ai 21mila euro al Nord (calcolati ai prezzi del 2014).

Il rosario delle cifre che fotografano la distanza tra Nord e Sud potrebbe proseguire per pagine e pagine: è noto il gap infrastrutturale e il differenziale dei costi del credito all’economia, è noto che nel Mezzogiorno le condizioni sociali sono peggiori (il 12% delle famiglie vive sotto la soglia di povertà), è nota la diffusione in questi territori dell’economia sommersa (come il caporalato che non produce né ricchezza né benessere ma distorce il mercato e abbatte la produttività) ed è noto il radicamento della criminalità organizzata.

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dopo sette anni di calo ininterrotto, il prodotto interno nel Mezzogiorno ha registrato un primo recupero (+1,0% a fronte di un +0,8% registrato a livello nazionale). 

 

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