APULIA LANGOBARDURUM di Gianluca Anglana – Numero 7 – Aprile 2017

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L’epoca delle grandi migrazioni in Europa colmò un ampio arco di tempo, divaricatosi tra il III e il IX secolo. Fu come una slavina, appena annunciata da pochi grani di neve: dapprima si trattò di semplici razzie e scorribande, successivamente di vere e proprie trasmigrazioni di popoli. Con il progressivo indebolimento dell’Impero Romano in Occidente, queste ondate di oceani umani divennero sempre più frequenti e massicce fino a cristallizzarsi in apparati amministrativi e addirittura in regni associati1.

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APULIA LANGOBARDURUM

 

Dal caos liquido del Medioevo emerse una civiltà tuttora avvolta in una foschia di mistero e per questo affascinante: la civiltà dei Longobardi.

Nella sua Historia Langobardorum Paolo Diacono, monaco longobardo cui fu affidato il compito di narrare l’epopea della propria gente, ne dipinge in maniera plastica e protoromantica il momento del primo ingresso in Italia: “Quando dunque re Alboino giunse ai confini dell’Italia con tutto il suo esercito e con una moltitudine di popolo promiscuo, ascese un monte che si innalza in quei luoghi e lì contemplò quella parte d’Italia fin dove poté spingere lo sguardo”2.

Di certo, essi avvertirono il magnetismo esercitato sulla periferia europea dai fasti e dalla grandezza dei gangli centrali dell’Impero. Nel contempo, essi erano però divorati dall’ansia di distinguersi rispetto alle massime autorità del tempo, cioè rispetto al Papa di Roma e all’Imperatore di Costantinopoli4: lo fecero rivendicando a lungo il loro credo ariano e issando i vessilli del proprio indomito orgoglio germanico. Tra le loro icone più rappresentative scelsero San Michele, il milite per eccellenza, il vendicatore incaricato di punire il Diavolo che osò paragonarsi a Dio. La smania di tutelare il Simbolo e di aggiudicarsi il prestigio di uno dei più noti luoghi micaelici del mondo cristiano spinse il Duca longobardo Romualdo, nella seconda metà del settimo secolo, a muovere da Benevento verso il Gargano, per mettere il Santuario dell’Arcangelo al riparo dai frequenti saccheggi di profanatori provenienti da Est: fu allora che quei luoghi sacri volsero le spalle a Levante ed entrarono nella sfera di influenza germanica.

creature entrambe di natura divina e dal caratteristico equipaggiamento militare (la prima munita di una spada, la seconda di una lancia denominata Gungnir).Galvanizzati dai loro stessi successi militari, i nuovi conquistatori si avventurarono più a Sud, quasi seguendo la Linea di San Michele, quella retta immaginaria che l’Europa tatua su di sé tra punti talvolta equidistanti e sempre corrispondenti a Santuari dedicati al Monarca degli Angeli.

A testimonianza della presenza longobardica a Trani si citano oggi alcuni ritrovamenti funerari in pieno centro storico e l’antichissima Chiesetta di San Martino. La rapacità dei Duchi di Benevento ispirò, negli anni settanta del settimo secolo, un’altra difficile spedizione, destinata a culminare nella conquista del Salento settentrionale. Di queste turbolenze si trova cenno, ancora una volta, nell’Historia Langobardorum: “Romualdo, duca di Benevento, messo insieme un grande esercito, espugnò Taranto, e nello stesso modo conquistò Brindisi, sottomettendo al suo potere tutta la vastissima regione circostante”9. Si direbbe quasi che, col tempo, i Salentini abbiano rimosso il ricordo di Signori germanici e delle loro insaziabili truppe (forse perché la fede di costoro era in definitiva un’eresia e quindi una devianza rispetto all’ortodossia romana).

Il loro territorio fatica invece a scrollarsi di dosso il proprio passato.

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Ai Longobardi, figli bellicosi delle gelide lande del Nord, la Penisola, fertile e ricca di auree città, dovette forse apparire una sorta di Terra Promessa3.

Monte Sant’Angelo è un sito di notevolissima rilevanza di ordine storico-artistico, tanto da essere annoverato nella lista dell’Unesco.

La sua struttura colpisce per una peculiarità: nelle viscere del Santuario vero e proprio si apre una cavità rupestre, dove la fede attesta un’Apparitio dell’Arcangelo. È questo il dettaglio che desta maggiore interesse e che potrebbe avere agganciato la memoria genetica dei guerrieri dalle lunghe barbe; il tema della “grotta”, come luogo sacro, infatti, rinvia al prodigio di cui parla ilDiacono: “Negli estremi territori della Germania, verso nord-est, sulle rive dell’Oceano, sotto un’alta rupe si scorge un antro nel quale sette uomini, non si sa da quanto tempo, riposano assopiti in un lungo sonno, così integri non solo nei corpi ma anche nelle vesti, che (…) sono oggetto di venerazione per quelle genti incolte e barbare (…)”5.

Insomma, Monte Sant’Angelo era, in Italia, ildove in cui replicare l’ancestrale immaginario norreno6, sia per la sua morfologia sia per le analogie iconografiche tra l’Arcangelo Michele e il Dio germanico Wotan7,

L’antica Tarenum, il municipio romano oggi noto come Trani, fu strappata a Bisanzio dai Longobardi, che ne rinforzarono le strutture difensive e ne ampliarono il perimetro8.

Muovendosi ancora più in giù, lungo la Linea di San Michele, si arriva a Crepacòre, nel brindisino. Una terra la cui avvenenza si apprezza anche quando il sole latita e grossi nembi fluttuano bassi,

quando le nubi sembrano un battaglione lanciato all’attacco contro un nemico invisibile e si muovono minacciose, di quella rapidità con cui si compone e si disfa il mutevole cielo invernale di Puglia. Rotolano, rimbalzano, si avvinghiano l’una all’altra e si accalcano vorticosamente, gettando di quando in quando occhiate violente sull’erba e sulla terra bagnata. In simili giornate, bave di luce trafiggono le masse d’aria come lunghe spade, al punto da quasi poter vedere il braccio dell’Arcangelo fendere le nuvole come un missile, allungarsi sul mondo degli umani e puntargli contro lame incandescenti. Crepacòre ha già solo nel nome l’evocazione di una bellezza tagliente. Quella che un tempo fu la Messapia ha, qui, conservato il suo aspetto più selvaggio e autentico. Qui, la monotonia della sonnolenta pianura salentina si perde, il terreno si arriccia in declivi e si solleva in alture inaspettate, le coltivazioni fanno posto a piccole selve.

Nel notoriamente assetato Salento fa un certo effetto scorgere un rio, il cui timido serpeggiare tra le campagne è tradito dal nastro verde della vegetazione e dall’ondeggiare dei canneti. É il canale di Galesano.

Volendo prestare fede ad alcune teorie, questo rigagnolo, assieme ai terrazzamenti circostanti, potrebbe essere una delle prove dell’esistenza del Limitone dei Greci, ovvero il mitico Limes tra i territori bizantini e i possedimenti longobardi. L’ipotesi ottocentesca di un confine fisico tra i due domini in perenne e cangiante frizione tra loro è in verità di recente avversata, soprattutto a causa di un’endemica mancanza di riscontri oggettivi. Da più parti si sostiene ormai che il Limitone dei Greci, come enorme muro di confine, non sia mai realmente esistito: in caso contrario, esso avrebbe avuto la stessa imponenza del Vallo di Adriano. Non pare plausibile che il cosiddetto Paretone fosse un mastodontico sistema di muraglie. Per spiegarne la natura è forse opportuno ricorrere al concetto che i Romani avevano di Limes: un complesso sistema di mura e palizzate con scopi dichiaratamente difensivi. Si pensi ad esempio al Limes Germanico-Retico che era nulla più che una palizzata alta circa tre metri e che, con fortificazioni e torri, correva lungo un fossato per oltre cinquecento chilometri. Di questa struttura, in Germania, non resta quasi più nulla, ma nessuno si arrischia per questo a giurare che essa non sia mai esistita. A sostegno di questa tesi, taluni segnalano in particolare che“a proposito dei fondi militari romano-bizantini, si è studiato di dimostrare che nelle provincie greche dell’Italia meridionale persistette il sistema adottato dai primi tempi dell’Impero romano a difesa dei paesi di confine, ponendo fra l’altro in risalto che dove mancavano ripari naturali (fiumi, monti, clusurae), se ne costruivano di artificiali, indicati a preferenza con la parola limes”10. Altri propugnano che“in conclusione, la frontiera bizantino-longobarda pugliese appare come una zona di fluttuazione, di integrazione o di contiguità di influenze, che non sembrano arginate da frontiere stabili e durature”11.

Questa reciproca compenetrazione culturale ha dato i suoi frutti, come la splendida Chiesetta di San Pietro in Crepacòre, rarissimo punto di sintesi tra le due culture antagoniste: quella greca e quella longobarda.

Circondato da una natura più sensuale che mai e da una minuscola necropoli, il tempietto di San Pietro colpisce in primo luogo per le sue cupole in asse, caratteristica tipica delle costruzioni sacre di matrice longobardo-beneventana L’interno, un tempo completamente affrescato, conserva oggi solo una parte delle sue pregevoli raffigurazioni agiografiche. Ciò che ne resta è comunque di straordinaria fattura. Tra gli affreschi si legge, in greco, un’iscrizione votiva: “Questo tempio è stato edificato per la remissione dei peccati del servo di Dio … e della sua consorte Veneria e dei loro figli. Amen”. L’identità dell’agiato committente è rimasta a lungo ignota: grazie a recenti studi, si è potuto ipotizzare che il misterioso VIP fosse un certo Gaiderisio, principe beneventano e quindi di alto lignaggio longobardico, chiamato ad amministrare la città di Oria, “nodo strategico nei collegamenti via terra fra Jonio e Tirreno e “porta” del Salento per chi provenisse da Settentrione”12. Accedere in questi luoghi, farsi largo nella boscaglia, risalire o discendere queste alture seducenti è un po’ come varcare unoStargate aperto su una dimensione temporale semignota, gettarsi a capofitto nella cisterna del passato e naufragare sui lidi di altre ere, quando sentinelle di popoli in stato di costante belligeranza si scrutavano l’un l’altra sui terrapieni di confine e sul ciglio dei tempi.

 

1 Cfr. Federico Zeri, Dietro l’immagine, TEA (1987), p. 36.

2 Paolo Diacono, Storia dei Longobardi, BUR, p. 243. Questa evocazione, quasi cinematografica, è carica di atmosfere oniriche, come alcune opere del pittore tedesco Caspar David Friedrich, e tradisce il pulsare di alcune peculiarità della Germanitas, che in fondo non sono mai del tutto scomparse.

3 Bruno Luiselli, La Società longobardica del secolo VIII e Paolo Diacono storiografo tra romanizzazione e nazionalismo longobardico, BUR, p. 18.

4 Si ricordi che lo Scisma d’Oriente avvenne nel 1054. 

5 Paolo Diacono, Storia dei Longobardi, BUR, p. 151. 

I Longobardi, che in origine si sarebbero chiamati Vinnili, originerebbero dalla Scandinavia (v. UTET, 1967, XI – p. 445.). 

7 Wotan, alias Odino, è la divinità principale della mitologia germanica. 

8 Si tramanda che furono proprio i Longobardi a inglobare nel tessuto urbano di Trani la zona ebraica, prima di essi fuori le mura. 9 Paolo Diacono, Storia dei Longobardi, BUR, p. 485.

10 G. Antonucci, Note critiche di Japigia, a. IV, pp. 78-80.

11 G. Stranieri, Un Limes bizantino nel Salento? La frontiera bizantino-lomgobarda nella Puglia meridionale. Realtà e mito del Dzlimitone dei grecidz, p. 7. In questo interessante studio si assume che Dzperfino qualora la consistenza storica del limitone dei greci dovesse essere provata, in definitiva, esso dovrebbe essere visto piuttosto come una linea di delimitazione o di dissuasione che non come una muraglia confinariadz.

12 Dizionario biografico Treccani.it. 

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QUANDO LA TRECCANI NON CONOSCEVA LA MOZZARELLA di Francesco Festuccia – Numero 7 – Aprile 2017

QUANDO LA TRECCANI NON CONOSCEVA LA MOZZARELLA

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Scrivere una possibile o impossibile storia della mozzarella è come addentrarsi in una materia molle che ricorda proprio la consistenza della mozzarella stessa. Pochi i testi certi, come incerta è la “certezza” del nome, anche se “mozza” deriva sicuramente da mozzato, tagliato.

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     e ricerche, sia sui testi che nello sterminato mondo di Internet, danno risultati contraddittori e, a volte, sorprendenti. Basti mettere a confronto due totem del  passato e del presente.

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Andando a sfogliare le polverose pagine della Bibbia delle definizioni, cioè l’enciclopedia Treccani – che ha fatto bella mostra in tante case importanti, nel suo mobile dedicato – nell’edizione del 1934, alla voce Mozzarella, non si trova nulla. Incredibile a pensare: non esiste nella Treccani di quegli anni – summa di tutto lo scibile umano – la voce “mozzarella”. Insomma, la mozzarella proprio non sembrava aver cittadinanza: anzi, solo cercando più a fondo, alla voce “bufalo”si trova: “La femmina produce 1200/2000 litri di latte all’anno che viene trasformato in mozzarella”. Un po’ meglio se si va al dizionario enciclopedico della Treccani del 1958, nel quale testualmente si legge: “voce meridionale diminutivo di mozza, tipo di formaggio, latticino magro tipico della Campania, prodotto con latte di bufala. La cagliata viene cotta nel siero finché diventi filante poi è tirata in cordone e tagliata a pezzi di circa mezzo chilo da consumare fresca e cotta”. E aggiunge, come “figura regionale”: “essere una mozzarella, persona fiacca e lenta”.

Non solo la mozzarella viene citata poco o niente, ma più che altro passa, anche, come termine derisorio. Se ci pensiamo bene non a torto.

Chi non ha avuto un compagno di scuola o, magari, un parente a cui è stato affibbiato il termine “mozzarella”, perché era un tipo moscio, giusto come una mozzarella. Moscio, diremo morbido, che per una mozzarella vera è una bella cosa, perché si taglia facilmente e altrettanto morbidamente si scioglie in bocca; mentre, certo, per una persona, non è un granché di qualità. Così come si usa nello slang della pallavolo, sinonimo di tiro senza energia… e poi quante volte pensando al colorito di una persona in costume sulla spiaggia abbiamo detto: “è una mozzarella”. A dire il vero, questa ultima derisione sta passando di moda, visto che la tintarella ora è un po’ meno trendy, mentre, per la mozzarella stessa, il bianco è un bel complimento dal momento che se vira al giallastro non è un buon segno di conservazione e se vira al blu, addirittura, va a finire sui giornali come emblematico e, forse, fin troppo rumoroso caso di “avvelenamento”.

Secondo l’enciclopedia internettiana, le prime notizie si hanno in un documento longobardo. Secondo queste fonti, già nel XI secolo, la principessa Aloara, vedova del principe di Capua, Pandolfo Testadiferro, distribuiva una “mozza” – un pezzo di pane – ai monaci dell’abbazia di San Lorenzo ad Septimum, alle porte di Aversa. Secondo altri, la mozzarella l’avrebbero inventata i monaci stessi. Mentre le bufale si trovavano nelle vallate acquitrinose, i conventi erano invece sulle alture; per trasportare meno peso, il latte veniva lavorato con un procedimento veloce direttamente sui pascoli, concentrandolo in un latticino che poi veniva portato su in convento. Secondo altri, invece, gli inventori della mozzarella sarebbero stati i Normanni la cui contea-città era Aversa. Dell’uso della lavorazione e del consumo dei prodotti derivati dal latte di bufala (il casicaballus, il butyrus, la recocta, il provaturo) abbiamo attestazioni in documenti del XII secolo conservati presso l’archivio episcopale di Capua.

Ognuno sembra voler prendere una primogenitura e, allora, prima del famoso cuoco della corte papale Scappi, a cui si deve il primo uso ufficiale nel 1570, ecco ritrovata, nel 1481, una denominazione di “mozza” del fiorentino Paolo Rucellai.

E, allora, andiamo per altre doverose citazioni: prima di t
utte, a fare da
contraltare alla Treccani, quella su Internet di wikipedia che,
anche qui, poco ci
aiuta e, per approfondire, ci rimanda alla voce
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E qualche cenno sulla storia c’è, anche se la certezza manca.

 

Anche se le denominazioni (mozza-provatura) variano a seconda dell’epoca, in tutte le fonti citate, una sola cosa sembra certa: tutte queste denominazioni hanno voluto indicare sempre quella che oggi viene chiamata mozzarella. E allora, vista la varietà e anche la contraddittorietà delle fonti, andiamo a scomodare illustri dizionari. Dagli Accademici della crusca, che parlano di Mozza come “sorta di cacio fatto con il latte”, al vocabolario della lingua italiana di Scarabilli, secondo cui “così chiamavansi certi piccoli caci chiusi in una vescica e legati a mezzo. Usano massimamente nel napoletano dove la chiamano mozzarella”; dal dizionario Palazzi che, alla voce provatura, dà “formaggio molle fresco che si prepara nel napoletano con latte di bufala” al vocabolario Basilio Puoti napoletano-toscano, che la definisce “qualità che si fabbrica col latte di bufala”; al vocabolario napoletano-italiano di R. Andreoli, che dice “latticino che non usa in Toscana ed al quale dovrà mantenersi il nome di mozzarella derivato da mozza”. E qui, in questa complessa e fumosa storia di definizioni e primogeniture, ci vengono in aiuto le parole di un medico senese – autore di una monumentale opera di divulgazione più volte ripubblicata nel XVI secolo – che dice del latte di bufala “di cui si fanno quelle palle legate con giunchi che si chiamano mozze e a Roma provature” per far comprendere il rapporto mozza provola.

In qualsiasi dizionario della lingua italiana – recente o meno – provola viene fatto derivare da provatura, mentre, a definire il legame mozzarella/provatura, c’è un documento del 1873 – ancora un vocabolario napoletano-toscano domestico – che definisce la mozzarella “piccola forma poco più poco meno di un uovo di provatura fresca”.

A questo punto, vale la pena di citare lo storico Migliorini che descriveva cosa succedeva nella Piana del Sele intorno alla metà dell’800: “le mozzarelle non erano destinate al commercio, ma si confezionavano per uso familiare e il latte bufalino serviva per la lavorazione di provole affumicate per salvaguardare la crosta dal deterioramento”. E qui, continuiamo ad attingere ai pochi dati storici arrivati a noi. Se nel mercato di Capua sembra che fin dal 1500 ci siano tracce di mozzarelle accompagnate dalle provole, i dati archivistici sembrano dimostrare come, nella non lontana Castelvolturno, pervenissero solo provature, Le Assise di Napoli, poi, confermano, per quello stesso periodo, la presenza su quel mercato solo di provature affumicate e fresche; invece, la mozzarella, accompagnata da provole, sembra comparire solo dal 1720, per diventare più frequente dal 1780 in poi. Insomma, chi faceva mozzarella lo faceva ad uso e consumo privato: cibo non povero, ma poverissimo, tanto da non poter essere nemmeno commercializzato e che avrà una trasformazione in prelibatezza solo tanti anni dopo.

E, allora, andiamo per altre doverose citazioni: prima di tutte, a fare da contraltare alla Treccani, quella su Internet di wikipedia che, anche qui, poco ci aiuta e, per approfondire, ci rimanda alla voce “mozzarella di bufala campana”. E qualche cenno sulla storia c’è, anche se la certezza manca.

E, allora, andiamo per altre doverose citazioni: prima di t
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contraltare alla Treccani, quella su Internet di wikipedia che,
anche qui, poco ci
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E qualche cenno sulla storia c’è, anche se la certezza manca.

 

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A TRANI SI RESPIRA IL SUD CHE TI AMMALIA di Giorgio Salvatori – Numero 7 – Aprile 2017

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Ciò che, per brevi cenni, qui raccontiamo è la bellezza, il fascino intatto di una città che, per armonia architettonica del suo centro storico, giacimenti culturali ed artistici e ordine urbano, si presenta al visitatore come uno straordinario esempio di Sud da conservare ed imitare.

 

Non soltanto da quell’altro, opaco Meridione, urbanisticamente e socialmente degradato, che ci viene quotidianamente offerto in pasto da impietose cronache televisive e articoli di giornali, ma anche da molte città del più prospero e celebrato Nord italiano.

 

Abbiamo scoperto Trani, l’antica Turenum, grazie all’incontro, organizzato nel suo splendido polo museale, per presentare la sesta edizione del nostro trimestrale. 

 

Non vogliamo autoincensarci descrivendo nei dettagli la cronaca del successo di una manifestazione che ha avuto la regia, questo va detto, di un autorevole personaggio della terra che ci ospitava, il magistrato Giannicola Sinisi. 

 

Va ricordata con calore, invece, la lieta memoria che tutti custodiamo dell’apparire improvviso di una visione stupefacente: il porto incastonato in una cornice impeccabile, il mare luminoso che lo bagna, le mura e il castello federiciani, la chiara cattedrale, l’allegro sciamare di visitatori di ogni lingua e nazionalità, la disciplinata attesa dei pescatori, sul molo, intenti a sciorinare, senza fretta, la propria merce.

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Trascuriamo volontariamente le crude cifre che mostrano come anche Trani (perché è di lei che stiamo parlando) non sia stata risparmiata dalla recente crisi economica internazionale e dal più antico, lento declino del nostro Meridione. 

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L’UTOPIA POSSIBILE DI GIBELLINA di Nicolò Stabile – Numero 1 – Luglio 2015

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È un’opera che si sottrae a qualsiasi tentativo di catalogazione. Letteralmente costruita con le pietre e le cose che furono strade, piazze, case, stalle, negozi, laboratori, scuole, chiese, ma anche un teatro all’italiana, un castello chiaramontano del XIV secolo… è il sepolcro e la matrice perduta di un piccolo paese del Sud, ricostruisce percorsi ideali, spaziali e temporali tra la memoria e il presente, tra i vivi e i morti. La sua storia è complessa. Iniziata nel 1979, non è ancora conclusa. Ha avuto un deus ex-machina, Ludovico Corrao, sindaco di Gibellina dal 1970 al 1994, che come Fitzcarraldo sapeva che chi sogna può muovere le montagne. Siamo alla fine degli anni Settanta. Mentre stiamo scontando un surplus di pena che dura da un decennio in baracche gelide d’inverno e roventi d’estate, i nuovi centri urbani (alcuni, come Gibellina, lontani dai vecchi centri) cominciano a prendere forma. Sono stati disegnati a tavolino in un ufficio romano da un manipolo di urbanisti che pensavano (come hanno scritto nella relazione di progetto) di sradicare la mafia costruendo strade larghe per mettere distanza tra gli abitanti. Nessun ascolto delle istanze e delle esigenze delle comunità locali, anzi: per legge i Comuni vengono esautorati da qualsiasi potere decisionale.

Ludovico Corrao, impotente sulle scelte urbanistiche imposte dallo Stato, ma consapevole della loro bruttezza, e convinto che le case da sole non bastino a far rinascere il senso di comunità e di attaccamento, e che alla ricostruzione bisogna dare un senso alto in cui la bellezza sia motore e legante, chiama a raccolta artisti, intellettuali e uomini di cultura, per cercare di renderla più bella di prima.

La mattina del 23 maggio 1987 Burri vede per la prima e ultima volta il suo Cretto: sembra deluso, non dice quasi nulla. Gli manca probabilmente il punto di vista dall’alto a cui l’aveva abituato la maquette. Gli manca, malgrado le dimensioni, quel senso di grandiosità che aveva immaginato. La visita dura meno di un’ora, appena in tempo per immortalare in uno scatto l’incontro tra l’artista e la sua opera. 

Nell’89 si fermano i lavori, all’80% del totale, per mancanza di risorse. Corrao riesce a farsi finanziare dalla Regione il completamento, ancora una volta presentando il progetto non come opera d’arte, ma come sedicente «parco urbano». Ma non fa in tempo a far partire la macchina burocratica. Dopo più di vent’anni, la gente di Gibellina non lo vuole più sindaco, e nel 1994 Corrao non sarà rieletto. Chi verrà dopo di lui, scientemente, riuscirà a far perdere quel finanziamento e da allora per il Cretto inizia un lento abbandono. 

Passano gli anni e il bianco diventa grigio. I ferri sotto la superficie arruginiscono facendo staccare pezzi di cemento. Qualche piccolo crollo, distacchi, crepe. Nessuna manutenzione, a parte qualche pulitura dalla vegetazione che inizia a infestarlo. Ai Ruderi nessuno va quasi più, sempre meno le occasioni di riunirsi lì. Del Cretto quasi ci si dimentica. Anche Burri non ne parla volentieri. Come aveva previsto, morirà (nel 1997) senza averlo visto ultimato. 

Poi sulle corona di colline che lo circondano, laddove fino a qualche anno prima c’erano giovani boschi, appare una batteria di pale eoliche. Il Comune pensa bene ci sia bisogno di un parcheggio, e lo realizza, a ridosso dell’opera, dello stesso cemento bianco: da lontano sembra una metastasi del corpo quadrangolare del Cretto. Con lo stesso materiale si ripavimenta il pezzo di strada provinciale che ne lambisce un lato, slabbrandone la forma. Nessuna levata di scudi contro questi macroscopici interventi pubblici che violentano l’idea di Burri. Vandalismo istituzionale. 

L’idea di lanciare un appello in favore del Cretto, perché “si restaurasse e completasse e se ne assicurasse la conservazione a futura memoria”, mi venne un pomeriggio di inizio estate del 2010 parlando con Ludovico Corrao, già molto malato, ma non per questo rassegnato. Non poter vedere il Cretto finito era per lui motivo di grande tristezza. L’appello viene firmato da un centinaio di personalità dell’arte e della cultura e inviato al Ministro e all’Assessore regionale. Neanche due mesi dopo, in una nota congiunta del Ministero, il sottosegretario e l’assessore dichiarano che l’appello non rimarrà inascoltato. Il Ministero mette subito dopo a disposizione per il restauro 1.100.000 euro dei fondi del lotto. La Regione prende tempo per quanto riguarda il completamento, l’assessore insiste perché si ricorra ai privati. Non riesco a farlo ragionare. Comincio a pensare che bisognerà inventarsi qualcos’altro… 

Poi, il 7 agosto del 2011, Ludovico Corrao muore ucciso dal suo badante con un’esecuzione che sa di tragedia greca. Tre giorni dopo, sul sagrato della Chiesa Madre di Gibellina, mentre stiamo dando l’estremo saluto al Senatore, l’assessore Missineo mi prende sottobraccio e sull’onda dell’emozione mi dice che troverà i fondi necessari per il completamento, che lo deve anche a Corrao (e manterrà la promessa). 

L’ultima montagna il Senatore l’ha spostata con la propria morte. 

I lavori del Cretto sono stati completati qualche settimana fa. La parte nuova, del bianco candido voluto da Burri, evidenzia ancora di più il grigiore della parte vecchia, creando una stridente dissonanza. 

Cosa fare per assicurarne “la conservazione a futura memoria”? Come uniformare la parte vecchia con la nuova?

Della necessità che la manutenzione di quell’opera straordinaria avesse bisogno di un approccio altrettanto straordinario ne avevo parlato con Corrao. Per lui era 

chiaro che

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1 Stefano Zorzi, Parola di Burri, U. Allemandi & Co, 1995; p. 59.
2 idem
3 idem, pag 60

 

L’UTOPIA POSSIBILE DI GIBELLINA

 

Scrive Sciascia nel discorso che pronunciò a Gibellina il 15 gennaio 1988 per il ventennale del terremoto: «Lo Stato italiano – bisogna pur dirlo – non era pronto né incline ad accogliere un’istanza di ricostruzione che non fosse una ricostruzione della miseria: si sperava forse, appunto, nella fuga, nell’abbandono, “nell’aprir bottega altrove”; e ne è dimostrazione il fatto che la cosiddetta legge del due per cento, la legge che devolve il due per cento della spesa per le opere pubbliche agli abbellimenti artistici, sia stata sospesa e invalidata per la ricostruzione di questi paesi. Vietata l’arte, vietata la bellezza: quasi si volesse che tutto fosse più brutto di prima, che la gente non riconoscesse e non si riconoscesse. Intenzione o inconscio desiderio o semplicemente carenza, nella classe di potere, di una sia pur vaga idea di ciò che abbellisce la vita e la fortifica, che più volte, qui intorno, è andata a segno; ma che qui a Gibellina ha trovato un centro di resistenza. [Ludovico Corrao] ha dato insomma il senso che la vita non è altrove, ma che può essere anche qui».

Gli artisti rispondono all’appello di Corrao e la nuova Gibellina, che lo Stato voleva più brutta della vecchia, si anima d’arte. Negli anni Ottanta diventa un laboratorio permanente delle arti, un crocevia di artisti, e un museo a cielo aperto. Corrao riesce a convincere anche il non facile Burri a venire a Gibellina. Succede nell’estate del 1979.

L’idea gli viene la sera stessa: «Io farei così: compattiamo le macerie, che tanto sono un problema anche per voi, le armiamo per bene, e con il cemento facciamo un immenso cretto bianco, così che resti un perenne ricordo di questo avvenimento»2.

Per poter realizzare i lavori, Burri sogna la partecipazione attiva e fattiva dei gibellinesi (solo molto tempo dopo gli arriverà all’orecchio, e sarà motivo di grande tristezza, che a molti il Cretto non solo non piace, ma da più d’uno è vissuto come una violenza).

Per reperire fondi, materiali, forza lavoro, Corrao s’inventa mille stratagemmi. Coinvolge persino l’esercito che presta cinque ruspe e forza lavoro. Opera una sorta di geniale e benevola concussione ai «danni» dei costruttori che in quegli anni realizzano opere pubbliche a Gibellina Nuova: chiede loro di donare la costruzione di un po’ di Cretto. E accettano, contenti e orgogliosi di farlo. Allo Stato non può chiedere aiuto: e lui dà incarico ai tecnici del Comune di preparare un progetto in cui i lavori per il Cretto siano camuffati da «opere di sistemazione idrogeologica del vecchio sito urbano». Lo Stato ci casca e, raggirato dal genio di Corrao, diventa inconsapevole cofinanziatore del Cretto.

Nel 1985 la cosa inizia a prendere forma, a farsi spazio tra le macerie. Burri segue da lontano, attraverso l’amico Alberto Zanmatti. Zanmatti sarà il legame tra Burri e il Cretto di Gibellina. Ai tecnici e agli operai il compito di inventare soluzioni tecnologiche per tradurre quelle raccomandazioni in forma.

Qualche anno dopo, alla domanda se nel bozzetto fossero riportate anche le ondulazioni che caratterizzano le pareti del Cretto, Burri risponderà «no, quelle devono crearle di volta in volta con le tavole e le lamiere…. ma dico, devo insegnarglielo io il mestiere?»3.

Misura 270 per 310 metri. Ricopre come un sudario di cemento bianco le macerie del paese distrutto dal terremoto del 15 gennaio 1968. Al centro della Sicilia occidentale, in un territorio ad alta stratificazione culturale, sta a metà strada, in un ideale dialogo senza tempo di assoluta bellezza, tra le imponenti colonne della greca Selinunte, e la magnifica solitudine del tempio dell’elima Segesta. 

Burri arriva con tutti i suoi preconcetti sul Sud e i suoi abitanti. La nuova città non lo ispira, e non lo tenta l’idea di lasciare un’opera accanto a quelle di artisti che non ama: «Qui non ci faccio niente di sicuro»1. Ma poi visita i Ruderi – deve aver sentito quel silenzio rotto solo dal gracidare dei corvi, in quel paesaggio di colline che sconfinano fino al mare d’Africa – e quasi si commuove.

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il Cretto di Gibellina non era un’opera d’arte come le altre e che oltre l’idea c’è il dato oggettivo: è il sepolcro del vecchio paese, sotto la sua superficie di cemento realizzate non dalla mano del Maestro ma da muratori e carpentieri, ci sono i ricordi, la storia e le radici di tutta la comunità gibellinese.

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E’ un’opera attraversabile. Più che una scultura è architettura. Ed è stata pensata e voluta da Burri bianca, di un bianco talmente squillante da essere quasi disturbante. 

Burri, come già ricordato, avrebbe voluto che fosse la comunità di Gibellina a realizzarlo. D’altronde, la sua opera è stata donata alla cittadinanza, e la cittadinanza, sebbene espropriata del titolo di proprietà delle proprie case non più esistenti, ne è moralmente proprietaria e quindi custode. Anche su queste basi si ragionava con Corrao, e l’idea che il Cretto andasse ripulito e imbiancato periodicamente dalla comunità (con la calce, materiale povero che disinfetta e disinfesta, facile da usare, e che ci riporta a una tradizione di tutta l’aerea del Mediterraneo) ci sembrava l’unica strada percorribile. L’alternativa sarebbe un restauro conservativo di ispirazione brandiana, un modello giustamente diventato prassi nelle soprintendenze italiane, ma che ha i suoi limiti oggettivi e nessuna ragione valida che impedisca la sua revisione in presenza di opere contemporanee e inclassificabili qual’è il Cretto. Un modello che proprio partendo da una discussione sul caso specifico del Cretto potrebbe trovare validi e utili spunti per fare il punto, rinnovare, superare, anche attingendo da visioni e prassi diverse, prime fra tutte quelle di scuola anglosassone. 

Un’altra considerazione credo vada fatta, senza per questo volere piegare la filosofia che sta alla base di un intervento di questo tipo a ragioni puramente economiche. Non possiamo però far finta di non considerare i costi insostenibili di un restauro conservativo, e la necessità che esso venga ripetuto spesso. Chi dovrebbe sostenere tali costi? Il Cretto non deve morire, ma non può neanche trasformarsi in un buco nero di soldi pubblici. Anzi, dovrebbe diventare, grazie ad azioni mirate che ne assicurino la promozione e la visibilità, un bene culturale comune capace di attirare turisti e di conseguenza, se ben gestito, produrre economia. 

Ma il vero nodo da sciogliere per assicurare al Cretto un futuro sta nel rapporto tra il sito dei Ruderi e la sua gente. Il Cretto è stato vissuto all’inizio come un corpo estraneo, una violenza contro quelle macerie che nella loro povera fisicità erano però capaci di alimentare un rapporto fortemente sentimentale. L’iniziale rifiuto di quell’opera ha come aumentato la distanza fisica (18 km) tra la Nuova e la vecchia Gibellina, una distanza poi cresciuta per l’indifferenza verso un’opera lasciata a metà. 

La necessità di un restauro partecipato e attivato dalla Comunità parte prima di tutto come necessità di creare un nuovo rapporto con l’opera di Burri e con l’intero sito dei Ruderi. Ed è partendo da questa necessità che dovrebbe essere progettato e messo in atto. Dovrebbe prima di tutto essere un’opportunità per ritrovarsi in un momento di festa e rituale in cui la popolazione si riappropria del luogo e dei simboli a esso riconducibili. Dovrebbe essere non solo economicamente sostenibile, ma capace di produrre economia e quindi vantaggi diretti. E deve chiaramente servire a mantenere costantemente visibile l’idea di Burri, nella sua originale e fondamentale cromia.

Per la gente di Gibellina sarebbe un modo per rompere l’incantesimo dell’umana nostalgia di un passato mitizzato dall’evento tragico del terremoto e di quello che ne è seguito, per finalmente accettare il presente, e cominciare a investire nel futuro.

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Un restauro fatto in tale modo, coinvolgendo i molti artisti che hanno già dato disponibilità a partecipare, diventerebbe un evento perfetto per la comunicazione, uno strumento straordinario di promozione mediatica, estremamente efficace per attrarre volontari, pubblico, flussi turistici, e sponsor privati. 

Questi ultimi tre anni ho avuto modo di condividere quest’idea con restauratori, esperti di materiali del contemporaneo, storici dell’arte, curatori. Con artisti, musicisti, performer. Con le persone che più di tutte sono state vicine e hanno collaborato con il Maestro negli anni in cui si costruiva il Cretto. Con la gente di Gibellina. E con le istituzioni che devono decidere, Comune di Gibellina e Soprintendenza di Trapani. A parte queste ultime, legate all’idea di restauro conservativo, tutti hanno accolto con entusiamo l’idea e il suo senso profondo. 

Il progetto di Corrao incarnato da Gibellina, esemplarmente sintetizzato dal Cretto di Burri, fondato sull’idea mediterranea che la bellezza rigeneri in un approccio maieutico, sulla necessità di rivivere, riattivandoli, i miti fondanti della nostra civiltà, è stato finora, non a torto, considerato un’utopia.

Il restauro partecipato segnerebbe il passaggio tra l’utopia e il presente, e il Cretto, finalmente, diventerebbe l’opera d’arte totale che Burri sognava di realizzare.

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SANDRO RUOTOLO di Gaia Bay Rossi – Numero 1 – Luglio 2015

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e nella denuncia delle illegalità in Campania, sua terra d’origine.
Recentemente i suoi importanti servizi sulla terra dei fuochi hanno fatto infuriare il boss camorrista Michele Zagaria che è arrivato a minacciare di morte il giornalista. Per questo, dal mese di maggio 2015, il prefetto di Roma, Franco Gabrielli, ha deciso di assegnargli un servizio di scorta.

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Chiediamo a Sandro Ruotolo un punto di vista, dalla sua esperienza, sulla situazione di Napoli e del sud Italia.

Napoli mi ha trasmesso tutto, soprattutto dal punto di vista professionale: ho infatti iniziato lì la miacarriera e la cosa straordinaria è stata la cronaca, nel senso che tu potevi seguire l’efferato omicidio di camorra e poi avere il summit dei ministri della cultura europei. Quindi è stata una formazione che mi ha consentito di spaziare a 360 gradi. Mi ricordo quando ci fu il colpo di Stato in Libia, con gli americani che intervennero con la portaerei Nimitz, una delle imbarcazioni di guerra più imponenti mai costruite, e questa, dal Golfo della Sirte, passò poi per Napoli e noi ci occupammo dell’avvenimento. Napoli è una città che professionalmente ti dà tante occasioni. Abbiamo avuto l’opportunità di seguire la cronaca ma anche tutti i processi importanti, Enzo Tortora, Elena Massa, che era una giornalista del Mattino, e poi tutti i processi alla camorra. Però, differentemente da tutta quella generazione di giornalisti che oggi sono i “giornalisti per eccellenza”, come Luigi Ferrarella del Corriere della Sera o Peter Gomez che è diventato direttore del Fatto Quotidiano.it, noi abbiamo avuto una formazione più a 360 gradi, e questa è stata la scuola di Napoli.

Napoli certamente dà delle opportunità, anzi proprio in una realtà del genere il talento è piùvirtuoso, cioè emerge di più. Il problema di Napoli, ma non solo di Napoli, è che oggi le intelligenze espatriano, per cui hai ricercatori straordinari che girano il mondo, anche se questo è un problema che riguarda tutto il Paese Italia. Poi, certo, ci sono delle eccellenze: pensa al marchio Marinella nel settore della moda, ma anche all’importanza del settore industriale. Napoli ti dà la possibilità di emergere anche nella complicazione dello stato di fatto. Ricordo Luigi Compagnone, che era uno scrittore e giornalista napoletano, che dava questo quadro di Napoli: un grande arcipelago di isole, dove però non c’è la connessione. Quindi ci sono delle eccellenze che però o emigrano o restano isolate perché non c’è un tessuto industriale. Nel dopoguerra c’è stato al nord lo sviluppo industriale, poi negli anni ’60/’70 qui si è pensato di realizzare le famose cattedrali nel deserto senza valorizzare il territorio meridionale. Si pensava che l’industrializzazione portasse benessere e poi, invece, abbiamo visto i suoi effetti tipo l’acciaio a Taranto e a Bagnoli. Abbiamo visto anche che cosa significa l’industria pesante per l’ambiente, per lo sviluppo e l’ecologia. Oggi c’è una sensibilità completamente diversa anche nel sud Italia. Però, sicuramente, delle eccellenze ci sono e sono molto più diffuse di quello che non traspare dai mezzi di informazione.

Come si può descrivere Napoli senza rimanere intrappolati negli stereotipi?

Andando nella sua periferia. Perché sicuramente Napoli è Piazza Plebiscito, il Maschio Angioino,Mergellina e tutte le altre bellezze mozzafiato che costituiscono il patrimonio di Napoli. Però la bellezza vera di Napoli la devi avere risolvendo le problematiche che ci sono in periferia. Non dobbiamo più pensare che tutto si risolva nei vecchi centri urbani, oggi le città si sono allargate e nelle periferie vive quello che definiamo il ceto popolare, che una volta era anche il ceto operaio. Beh, anche quella è la vera Napoli e solo risolvendo i problemi di quelle persone puoi risolvere una città e farla progredire.

Chi e quali sono le eccellenze di Napoli e della Campania?

Sei nato a Napoli, cosa ti ha trasmesso questa città durante la tua crescita e formazione?

Braccio destro di Michele Santoro a “Servizio Pubblico”, Sandro Ruotolo è un giornalista napoletano di grande esperienza. Ha iniziato la sua professione nel 1974 per il quotidiano Il Manifesto, entrando poi alla RAI e passando successivamente a Mediaset e a La7. Ha collaborato con numerosi programmi televisivi d’inchiesta tra cui Samarcanda, Il rosso e il nero, Tempo reale, Moby Dick e Anno Zero. Giornalista vero a 360 gradi, è stato spesso impegnato in prima linea nelle indagini 

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Quindi Napoli dà delle possibilità ai giovani che vogliono in qualche modo emergere?

Cosa sta facendo Napoli per risolvere i problemi delle periferie?

Il punto è che noi stiamo vivendo la peggiore crisi del dopoguerra. Dalla crisi finanziaria americana del 2007 i segnali di crescita sono minimi e, quindi, sono necessari nuovi forti investimenti. Dopo la grande depressione del 1929 ci fu Roosevelt e il New Deal. Oggi abbiamo bisogno di un altro New Deal. Abbiamo bisogno di investire sul territorio. Si dice che l’edilizia sia il volano dell’economia: quindi ristrutturando i centri storici, ridisegnando l’assetto idrogeologico, potremmo creare lavoro e risolvere ancora altri problemi. Alla base del boom economico degli anni Sessanta ci fu proprio il settore edile. Oggi, come allora, potremmo programmare l’impiego del lavoratore edile per risanare il territorio e ridurre i costi e l’impatto delle emergenze.

Io un’eccellenza la vedo nella risposta dei cittadini al tema della salute e dell’ambiente, sia per quanto riguarda la terra dei fuochi sia per questo movimento Rifiuto Zero. Quella per me è un’eccellenza, con questa idea della salute, del ripristino dell’ambiente e della bonifica del territorio. Questa che protesta e si attiva è una vera eccellenza. In ogni caso, le industrie del nord che per risparmiare soldi hanno interrato i rifiuti nella mia terra, in Campania, lo hanno fatto in ben 19 regioni italiane. Ma noi abbiamo altre eccellenze, sia nei segmenti industriali, sia nelle intelligenze: pensiamo all’università di Napoli che è un polo straordinario. Poi abbiamo anche il settore aerospaziale e l’agricoltura. Esperienze di eccellenza le abbiamo noi, ma ci sono anche in Puglia, in Calabria, in Sicilia. Una nostra eccellenza è anche il turismo, con i territori strepitosi che abbiamo, perché dobbiamo finirla con questa idea malsana dell’industrializzazione e del PIL che deve aumentare a tutti i costi. Oggigiorno l’industria pesante ce l’hai in India piuttosto che in Indonesia: oggi non ha senso fare qui un’acciaieria con le materie prime che debbono arrivare da fuori per nave ecc.; ormai ci si deve specializzare nella qualità e nel recupero energetico.

Papa Francesco, andato a Scampia, ha detto: “La vita a Napoli non è mai stata facile ma non è mai stata triste. È questa la vostra grande risorsa: il cammino quotidiano in questa città produce una cultura di vita che aiuta sempre a rialzarsi dopo ogni caduta”. Quali valori insegna Napoli ai giovani?

La mia immagine di Napoli è Scampia: se io vinco la battaglia di Scampia, che è il famoso quartieredi Gomorra, allora avrò l’immagine vera di Napoli, perché solo lì vivono oltre 100 mila persone.Napoli è sempre stata una città che ha sofferto, dai bombardamenti della guerra al dopoguerra, però ha avuto sempre una grande risorsa, che io sto ritrovando ora: una sua straordinaria identità. Napoli si è ammalata poi con il terremoto – cioè l’identità della città è venuta meno – i napoletani sono cambiati. E’ stata traumatizzante quella scossa di terremoto il 23 novembre dell’80 anche se oggi ci sono stati due avvenimenti che invece hanno ridato a Napoli una certa identità. Che non è folkloristica, non è neo borbonica. Sono la morte di quel tifoso napoletano a Roma, Ciro Esposito, e anche la morte di Pino Daniele: sono stati due shock che hanno messo al centro non la “napoletanità”, ma questa idea di identità, di colleganza, di solidarietà, di stare insieme e di riscoprire questi valori.

Per te sempre ‘Forza Napoli’? Il calcio a Napoli aiuta a dimenticare i problemi che ci sono o è un motivo di orgoglio cittadino?

Il calcio è un motivo di divertimento. Il calcio non è l’oppio dei popoli, ma è un elemento di comunità, è divertente. Io in realtà non sono mai stato tifosissimo di calcio, ne capisco ad un livello minimo, ma devo dire che soprattutto per chi vive fuori, è un legame che hai con la tua città. Io ho i figli che purtroppo non parlano il napoletano, però sono tifosi del Napoli, per cui c’è un elemento che ci unisce. Non è che si recupera l’identità della città attraverso il calcio però è un elemento di coesione. L’identità si recupera attraverso la cultura che a Napoli c’è ed è molto forte. Che piaccia o no Napoli ha un posto importante nella storia d’Italia.

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LE RAGIONI DI UNA SCELTA. PRESENTAZIONE DEL DIRETTORE RESPONSABILE di Giorgio Salvatori – Numero 1 – Luglio 2015

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Perché mai, come oggi, si vedono giovani e meno giovani, studenti e imprenditori, affermare, apertamente, la volontà di affrancarsi dalla palude del fatalismo e dai luoghi comuni che essa ha generato. La strada è ancora piena di ostacoli, ma il traguardo non è mai stato così manifesto e condiviso. 
Non è una fuga dal passato – opprimente e, fino a ieri, vincente – è la riconquista di un primato: quello di uno stile ed un modello di vita che hanno attratto e affascinato, fino ad epoche non molto remote, i protagonisti del Grand Tour. E che in tempi recenti hanno fatto pronunciare, al protagonista di un film, la frase, poi diventata un biglietto da visita dell’orgoglio meridionale, “quando un forestiero 

LE RAGIONI DI UNA SCELTA. PRESENTAZIONE DEL DIRETTORE RESPONSABILE

 

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Depurata della triplice tenaglia – feroce – delle mafie, della disoccupazione e della rassegnazione, la vita, al sud, appare – ancora per molti, e sotto diversi aspetti – appetibile. 
È un “dono”, come recita il nostro sottotitolo, per la qualità e l’intensità dei rapporti umani, per ambienti naturali straordinari (e che vanno preservati dall’inesorabile accerchiamento del degrado e dell’abusivismo), per sapori, profumi, colori – che altrove è raro trovare, per i piaceri conviviali, il culto delle tradizioni popolari, religiose e gastronomiche, scomparse o rarefatte se si risale più a nord, lungo lo Stivale. 
A tutto ciò si aggiunge una voglia nuova di “fare impresa”, di riscoprire il sottile piacere della cultura e quello, altrettanto crescente, della tutela delle tradizioni e del paesaggio, con spirito di iniziativa e con coraggio degni di maggiore attenzione e, spesso, invece, trascurati dai media, patologicamente attratti da ciò che, al sud, fa facile cronaca, densa di logori pregiudizi. 
Myrrha intende rivolgere la sua attenzione verso l’altra faccia del Sud, quella che fa impresa, primato, eccellenza, in tutte le direzioni. Insieme, scopriremo che sono molte e, a volte, sorprendenti. 
Convinti, come siamo, che nel nostro Meridione e nel Mediterraneo si stia oggi giocando una partita che non ci può lasciare indifferenti né vedere distratti. Sta a noi comprendere e interpretare gli sviluppi di queste tendenze, perché è anche con questa partita che si gioca il nostro destino futuro di popolo mediterraneo nell’Europa del pianeta globale.

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viene al sud piange due volte: quando arriva e quando parte”.

 

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MYRRHA. PRESENTAZIONE DELL’EDITORE di Maurizio Conte – Numero 1 – Luglio 2015

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Troppo facile citare Goethe e il suo “Viaggio in Italia” per richiamare alla mente le immagini di bellezza idilliaca dei cedri che fioriscono. Troppo facile perché c’è molto di più sotto gli occhi di chiunque guardi, nonostante i molti tentativi, spesso riusciti, di piegare geografia e cultura alle esigenze miopi di interessi particolari.
Il Sud d’Italia e d’Europa è ancora molto di più dello stereotipo romantico goethiano.
Le sue bellezze naturalistiche, le sue città, l’operosità dei suoi abitanti, la ricchezza delle sue intelligenze, i sorrisi, in una sola parola, i suoi valori, rappresentano un tessuto sociale, economico e culturale che sostiene giustamente l’architrave di una delle porte d’Europa.

MYRRHA. PRESENTAZIONE DELL’EDITORE

 

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Geograficamente e tradizionalmente posta al centro dei traffici economici e culturali assume oggi, sempre di più, un’importanza cruciale nel contraddire l’assunto dello scontro di civiltà. Ecco dunque come si materializza l’esigenza di dar corpo, voce, visibilità agli esempi di eccellenza del nostro Sud che quotidianamente, spesso al di là dei clamori muovono risorse e illustrano l’Italia con meriti che il PIL non sa contare. Parliamo dell’Italia e dell’Europa del Sud; dimostriamo ai nostri vicini nel Mediterraneo quanto possiamo fare insieme e quante radici ci legano; per rappresentare un sentimento estetico; per sviluppare un nuovo senso di cittadinanza.
Nel Sud d’Italia abbiamo incontrato giovani imprenditori con il gusto della sfida, tradizioni secolari che si innestano su nuovi modi di essere, intellettuali europei che credono nelle potenzialità di una nuova regione, esempi intramontabili di arte antica e avanguardie culturali, angoli di natura incontaminati, bellezze fiere della propria mediterraneità.
Vogliamo raccontarli.

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L’ISTITUTO ITALIANO PER GLI STUDI FILOSOFICI UNA GRANDE RISORSA PER IL SUD di Francesco Serra di Cassano – Numero 1 – Luglio 2015

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per anni, un faro della cultura filosofica europea. Elena Croce, Enrico Cerulli, Pietro Piovani, Giovanni Pugliese Carratelli e Gerardo Marotta formano il leggendario comitato fondatore che, nel 1975, con una solenne cerimonia all’Accademia dei Lincei, ha dato vita a qualcosa di veramente inedito nel panorama culturale italiano, un’istituzione che da subito si è affermata quale luogo di alta elaborazione e condivisione del pensiero. Non è un caso che lo Stato, nel 1983, gli abbia assegnato come sede i nobili saloni del settecentesco Palazzo Serra di Cassano, da poco rilevato, luogo d’importanti memorie e simbolo della Rivoluzione napoletana del 1799.

L’ISTITUTO ITALIANO PER GLI STUDI FILOSOFICI UNA GRANDE RISORSA PER IL SUD

 

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In quarant’anni di vita, l’Istituto, grazie all’instancabile volontà dei suoi fondatori, ha animato corsi, seminari, congressi con la partecipazione di insigni studiosi, a Napoli, ma anche a Roma, Torino, Parigi, Londra, Poitiers, Tubinga, Monaco, Amburgo, Oxford, Francoforte, Wolfenbüttel, Austin, Rotterdam, Erlangen, praticando l’incontro fra giovani ricercatori e grandi maestri.
Sono approdati a Napoli, negli anni, importanti esponenti delle diverse discipline scientifiche. Vi hanno tenuto seminari e conferenze, tra gli altri, Musatti, Bergmann, Segré, Prigogine, Wheeler, Rubbia, seguendo un indirizzo e una programmazione che avevano, tra i principali obiettivi, l’avvicinamento delle scienze moderne e della filosofia, della teoria e della prassi, oltre che una sistematica ricognizione filosofica della realtà contemporanea. Questo indirizzo fu abbozzato e avviato da quel piccolo solidale gruppo di persone che era animato da una carica ideale senza pregiudizi e da una forte consapevolezza intellettuale e politica. In pochi decenni è stata messa in campo una produttività di gran lunga maggiore rispetto a quella di numerose istituzioni gonfiate e foraggiate dalla burocrazia e dirette svogliatamente.
L’Istituto, raccogliendo nel tempo contributi significativi e riuscendo a coagulare una grande quantità di lavori interdisciplinari, ha promosso anche un importante programma editoriale, che abbraccia secoli di storia e di filosofia (dalla raccolta dei frammenti della Scuola di Platone a un’edizione critica delle lezioni di Hegel), che sono un punto di riferimento per chiunque voglia accostarsi in modo analitico allo studio dei classici. L’attività didattica si è mescolata a quella editoriale, i corsi sono sfociati a volte in vere e proprie lectio magistralis, l’insegnamento ha fatto da guida a un numero sempre crescente di studiosi e di appassionati.

L’Istituto di Napoli ha inteso la promozione degli studi filosofici quale preparazione all’essere cittadini nel senso più alto. Il lavoro compiuto è, dunque, un lavoro per lo Stato in quanto il sapere filosofico occupa concettualmente il medesimo terreno dello Stato, condividendone l’essenza: universalità, oggettività, rifiuto del particolarismo.

In questo senso, può essere considerato una delle realtà più coraggiose e generose di cui la storia della cultura europea abbia saputo dotarsi nel secondo dopoguerra.
Il fattore che rende l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici ancor oggi di vitale importanza è proprio la sua fedeltà alla filosofia come vertice del sapere, da coltivare non con spirito specialistico e “disciplinare”, ma come lievito per la vita collettiva. Questa attività è insostituibile, in quanto rappresenta una barriera contro i pericoli della decadenza e uno stimolo per mantenere alta l’attenzione sulla formazione delle nuove generazioni. Non è un caso che l’Istituto sia stato definito da Giancarlo Rota, eminente matematico del Massachusetts Institute of Technology, un “baluardo di civiltà”.

L’Istituto, nonostante le gravi difficoltà finanziare che lo affliggono, non ha mai interrotto le sue attività né perso la sua autonomia, costruendo un “know-how” irripetibile ed insostituibile nello straordinario “crocevia della cultura mondiale” che è stato Palazzo Serra di Cassano. Un inauspicato arresto di questo patrimonio in continuo divenire si tradurrebbe in un grave colpo per Napoli, per il Mezzogiorno d’Italia e per il Paese.

È infatti un insieme di competenze, di saperi, di rapporti, di conoscenze personali e istituzionali che ha permesso all’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici di promuovere confronti speculativi e scientifici di livello mondiale,

di organizzare scuole di alta formazione, oltre che a Napoli, in centinaia di comuni dell’Italia meridionale, di pubblicare oltre tremila volumi in italiano, ma anche in francese, spagnolo, tedesco, inglese, russo, rumeno, cinese e in altre lingue occidentali e orientali. E tutto questo in quarant’anni di lavoro senza interruzioni, mantenendo sempre alto il livello delle iniziative che, con tale intensità, non trova alcun riscontro, né in Italia né in Europa.
Questa attività, punto di sbocco di un accumulo di competenze insostituibili, non è spiegabile se non si risale all’impegno etico e intellettuale del suo Presidente, Gerardo Marotta, nel quale lo spirito patriottico si è unito all’amore per la cultura e la filosofia e a una particolare attenzione alle sorti dei giovani.
L’opera di ricostruzione di una tradizione di pensiero interrotta poteva essere affrontata solo a partire dalla ripresa di tutti i momenti alti della tradizione filosofica europea. Proprio perché all’atto della sua fondazione l’Istituto ha riconosciuto la mancanza di categorie teoriche risolutive e il generale abbandono dei filoni più vitali del pensiero, esso si è aperto con la massima liberalità all’apporto di tutte le scuole, le 2 accademie, le università, le istituzioni non universitarie ed è riuscito a valorizzare forze intellettuali isolate, ignorate e a volte mortificate dalla cultura accademica.
La convinzione che le manifestazioni della razionalità umana fossero presenti anche nelle espressioni artistiche, nelle conquiste scientifiche, nelle confessioni religiose, nelle attività economiche, negli ordinamenti giuridici e che tali espressioni spesso “spontanee”, implicite, dovessero essere portate a piena consapevolezza riflessiva e quindi filosofica per diventare elementi dinamici di una nuova sintesi, ha portato l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici a sviluppare una quantità sorprendente di iniziative in tutti i settori d’avanguardia delle scienze, della storiografia, delle letterature e delle arti figurative, della vita delle grandi religioni, della civiltà del diritto, della teoria economica.
Se l’Istituto continuerà a vivere sarà un bene per Napoli e per l’intera Europa. L’auspicio è che le istituzioni manifestino la loro presenza con un segnale chiaro, pragmatico che non interrompa il cammino intrapreso in questi anni.

 

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IL RITORNO DELL’URBANISTICA, LE CITTÀ IDEALI SOSTENIBILI di Giusto Puri Purini – Numero 1 – Luglio 2015

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progettata da Le Corbusier, che ne disegna e costruisce i palazzi governativi in mattoni rossi, il centro universitario in c.a., i grandi viali e le immense strade, dando al tutto un sapore “Ville Radieuse”, suo progetto utopico degli anni 30/40. L.C. è attratto dal socialismo di Nehru, e dalla sua volontà di portare l’India, leader allora dei paesi non impegnati, verso un destino futuro di equità. Tamara d’improvviso mi dice: “per vivere città ideali, ci vogliono esseri ideali…”. Certo, l’idealità è un grande deterrente, per il miglioramento della “specie”, ma poi nella realtà delle cose vi si frappone quel “lato oscuro dell’Urbanistica”, il collante che tiene insieme la base sociale, fattore imprevedibile e non razionale, che non è fatto di numeri e di grafici ma da scenari eticamente non compromessi, sana espressione della qualità della vita.

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IL RITORNO DELL’URBANISTICA, LE CITTÀ IDEALI SOSTENIBILI

 

Principi che purtroppo nel mondo occidentale sono stati disattesi, costruendo solo grandi dormitori senza vita, considerati oggi dei fallimenti urbanistici, come nella sua “Unite d’Habitation” di Marsiglia, ispirata alla casbah, di Algeri, ed in altri casi, come Corviale a Roma, Secondigliano a Napoli, lo Zen a Palermo, solo per citarne alcuni, Senza infrastrutture sociali ed economiche e scelte di fondo coraggiose, proiettate nelle “nuove” utopie della sostenibilità, che ricostruiscono il tessuto sociale, impoverito da molte scelte sbagliate e da una marcata “assenza”, questi grandi mammuth urbanistici implodono.
Non sarà forse in mezzo a queste vie che nasce inevitabile, come gli eventi naturali che ci circondano, la “CITTÀ IDEALE SOSTENIBILE”, regina degli altrimondi e sobriamente felice? E, torno in Italia, dove nella sua storia, tanti architetti-urbanisti hanno profuso nella scienza prima delle città stato e poi delle città aperte, profondi elementi umanistici, estetici, funzionali.
Nelle città stato, il principe, il mercante, il banchiere, l’artista, l’orafo, l’artigiano, il contadino ed altri ancora, formavano un variegato ed attivo mondo operoso, che rendeva la propria città, grande e potente, in un rivaleggiare evolutivo, di cui fruivano tutti.
Oggi non ci sono più alternative e dobbiamo gioco-forza spingerci verso questa terza via senza scordare gli insegnamenti del passato: IDEALITÀ, SOSTENIBILITÀ, COMPETIVITÀ.
Ci troviamo di fronte, per la prima volta, a dover agire in profondità nel nostro pianeta; i cambiamenti climatici, l’inquinamento, prodotto dalle fonti di energia tradizionali, ci spingono verso una grande rivoluzione, fondamentalmente verde…”Going green!” Senza perdere di vista l’occasione creata dall’apertura di enormi mercati, basati sull’anti-inquinamento, ed il risparmio energetico, un’occasione unica per tutti, una nuova globalizzazione del pensiero.
Diventeremo da consumatori, produttori individuali di energia, rimettendo in rete il surplus dei nostri consumi.

L.C., nella casbah di Algeri, un’altra tipologia urbana, ha a lungo studiato interazioni sociali, trovando una profonda armonia tra quel brulicare di popolo, di botteghe artigiane, di mercanti che accrescevano in modo esponenziale un’offerta di beni, che è alla base dello sviluppo di ogni comunità.

Una trasformazione epocale che muterà il globo nei prossimi decenni.

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Tamara, mia moglie, mi ha chiamato l’altro giorno dall’India, stava fotografando Chandigar, capitale dell’Utar Pradesch, voluta dal Pandit Nehru, presidente dell’India negli anni cinquanta e 

Addirittura la Cina, oggi la più grande inquinatrice, sta producendo velocemente nuove tecnologie per ridurre gli effetti negativi del suo sviluppo, in un frenetico gioco del “costruire e distruggere”!Riappropriarci, nel nostro paese, dei “Centri Minori”, per avviare prima che nelle grandi città questa trasformazione, sembrerebbe uno dei primi passi da compiere.
Quindi si prevede che entro il 2040, il 60% della popolazione mondiale graviterà e cozzerà come un asteroide intorno alle grandi megalopoli, e già questo impone una rilettura immediata di tutti i dati urbanistici fino ad ora considerati. Si va inevitabilmente verso una “Urban evolution”.
L’Urbanismo totale coinvolgerà come un gigantesco magnete tutta la nuova ricerca scientifica ed umanista, dall’economia, alla riorganizzazione e distribuzione delle nuove fonti energetiche, al processo dei rifiuti urbani, all’architettura sociale, alla riqualificazione urbana, alla viabilità…campagna che entrerà in città e viceversa, un gigantesco dentro-fuori, che conserverà in parte la cultura contadina, con orti e campi coltivati, con espressioni individuali e collettive della grande capacità di Arte in questo paese.
Alcuni esempi: Daniel Libeskind, parla di “People’s Power”, per sottolineare che non si parla più solo di edifici; gli architetti delle nuove “Green Cities” concentrano le loro attenzioni su 4 punti chiave: energia, acqua, rifiuti e trasporti, “Averting crisis”, di come le città stanno affrontando il problema dei cambiamenti climatici.
(Inserto del Financial Times, “The Future of Cities” del 8/8/2010).
Queste ricerche e questi nuovi parametri, serviranno soprattutto nell’importantissima battaglia da condurre in Italia, alla salvaguardia delle “Città Minori”(15-30mila ab.), serbatoi di vita da non svuotare ma da conservare e fare evolvere come beni preziosi per il nostro futuro. Un’attenzione quindi particolare a questi luoghi, spesso magie urbanistiche, sentinelle del territorio altrimenti esautorato.

Tra le miriadi di queste micro città nel territorio italiano, ne emergono due, in Sicilia, contrapposte storicamente ed esplosivamente, una all’altra: la neo razionalista “Gibellina Nuova”, ad occidente, dove le esperienze moderne italiane, si riallacciano
ad una architettura del mezzogiorno,

 immagine di un Mediterraneo non rovinato da geometri ed architetti analfabeti, ma sulle orme piuttosto di una tradizione già “cantata” ed espressa, nelle città minori della bonifica pontina, nelle architetture del dodecanneso ed in genere nelle colonie italiane…

e la tardo barocca Noto, nella Sicilia orientale, la cui nuova impostazione urbanistica fu affidata, agli inizi del 700, ad un nobile “sapiente”, l’arch. Giuseppe Lanza, duca di Camastra, che
riunì dalle famose scuole di Napoli, pensatori, scienziati,
architetti, ingegneri, artisti,

per disegnare lontano dalla città originale distrutta da un terremoto, un asse viario da est ad ovest che per quasi 2km, allineato sempre sulla stessa quota a metà collina, separa a monte (nord), i maestosi edifici del clero e della nobiltà, ed a valle (sud), l’amministrazione pubblica, il teatro, l’habitat popolare.
La città è circondata da centinaia di ettari di mandorleto, di vigne, vi cresce il carrubo, si vive quel dentro-fuori tanto auspicato dalle filosofie contemporanee. Ma oltre al turismo e all’agricoltura, non c’è niente, la gente vende e fugge.
A Gibellina nuova è l’Arte che fa da traino, attraverso progetti suntuosi di tanti artisti contemporanei, dal cretto di Burri, all’aratro di Pomodoro, al teatro di Consagra, felicemente sposati alle architetture e alle piazze di Samonà, Venezia, Ungers, Purini e tanti altri, ma ora i completamenti si sono tragicamente interrotti.
Rivitalizzare questi centri, e non solo con il turismo usa e getta, ma renderli “desiderabili”, quindi sostenibili e autosufficienti, anche per chi ci vive, attraverso analisi scientifiche precise e rigorose, è il compito delle amministrazioni pubbliche, del settore privato con i loro investimenti, e di questa nuova generazione che incalza irrequieta ma che va dotata di consapevolezza e di nuovo sapere.

Il principio base deve diventare salvare il “Centro Minore”, per creare nei luoghi stessi quelle premesse di stabilità e benefici equamente ripartiti, armonie per fortuna già raggiunte nel nostro paese da tanti insediamenti, e insistere nel mezzogiorno, luogo già così felicemente “speziato” in ogni ordine di sapori che aggiungervi la parola “Urbanistica” non dovrebbe rappresentare
un problema insuperabile.

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Il Belice come narra la storia, una volta era la vita, e come dice Lorenzo Barbera, si chiamava “Il fiume caldo”: era navigabile e vi fiorivano città e villaggi, un ecosistema armonico che i romani furono i primi a distruggere trasformando i delicati equilibri vigenti in monoculture a base di grano.
Nei 2 millenni successivi il Belice s’inaridì seccandosi nel periodo estivo e nacque tra la popolazione il sogno della diga che avrebbe ridato al territorio, con un nuovo regime delle acque, l’antico splendore.
Ma insieme, sempre ai romani, questa volta sotto forma d’invadenza statalista (vedi Ministri ed affini) in Sicilia e nel Belice in particolare, altre forze potenti, portatrici malsane di interessi privati, si erano messe di traverso per bloccare l’evoluzione sociale del popolo, ed il suo ingresso nel mondo contemporaneo.
Quella ricchezza che poteva derivare dalla natura “armonizzata” e che grande il pensatore contemporaneo Paul Hawken ha reso affermando che “Il capitalismo naturale è alquanto differente dal capitalismo tradizionale che ha sempre trascurato il valore monetario delle risorse naturali e dei servizi forniti dagli ecosistemi, senza i quali non sarebbe possibile alcuna attività economica oltre la vita stessa.
Il capitalismo naturale al contrario capitalizza le risorse e punta all’efficienza per riuscire a produrre di più con meno.
Ridisegna le logiche industriali sulla base di un modello che esclude gli sprechi e la produzione di rifiuti; sposta l’economia verso un flusso continuo di valori e di servizi, investe nella protezione ed espansione del capitale naturale esistente”… Era ben lontana da venire. Poi ci fu quell’attimo del 15 gennaio 1968, come racconta Lorenzo Barbera: “…il boato urta contro la crosta della terra e tutti i fili della luce del Belice si spezzano e la luce si spegne, il comò si inginocchia e la casa è una barca in balia delle onde…” Il terremoto del Belice!Tutti i sogni, i pensieri, le lotte, si sbriciolarono in un attimo e per le genti delle valli, che sognavano un mitico ritorno ad un passato felice, il destino cambiò per sempre.
Gibellina verrà ricostruita molti anni dopo (17 anni) tra incongruità, incompetenze, e vere e proprie vessazioni contro la popolazione, ora separandola, ora aggregandola, diversamente spostando i nuovi centri urbani lontani dagli antichi luoghi, quasi tutti.
Vi trionferà la nuova Urbanistica (Samonà, Quaroni, Gregotti e altri), ispirata alle new towns inglesi.
Ma nel Belice avviene qualcosa di sorprendente, soprattutto a Gibellina, dove il Sindaco dell’epoca (Ludovico Corrao), si batte affinché la ricostruzione fosse anche l’occasione per un grande rilancio culturale.

Decine di architetti, urbanisti, artisti, volontari, (Nicolin, Venezia, Ungers, Pomodoro, Consagra, Burri, Paladino, Purini, Attardi, Thermes, Schifano) e tanti altri…, si succedono negli anni dando a Gibellina quella fisionomia attuale

che la rende frammentaria ed incompiuta al suo interno, ma che lascia intravedere nel suo degrado, nel non finito, opere architettoniche ed artistiche straordinarie, che la pongono automaticamente, sulla via della rinascita, tra le eccellenze dell’avanguardia, europea e mondiale. Risorgere dalle ceneri e riscattarsi con l’Arte!
É su questa speranza che le nuove generazioni devono fondare le loro forze, almeno due dal ‘68 ad oggi si sono succedute, nel portare avanti progetti impossibili, contestati e spesso fatti abortire, ora è il momento di ripartire.

Il valore oggettivo di questo Parco Artistico è incalcolabile, vanno riprese le fila dei molti interventi, dalla manutenzione ai completamenti architettonici, dai servizi, alle attività collaterali e alla promozione su scala mondiale. Come spetta ad un luogo che
non è più solo “memoria”, ma incredibile museo-habitat a cielo
aperto.

Guardare nel futuro, come avrebbero desiderato, per l’oggi, i tanti Dolci, Barbera, Corrao per fare pace con il passato e le sue incredibili sofferenze.

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LA LUNGA MARCIA VERSO LA SALVEZZA DEL PICCOLO CAPRIOLO DEL GARGANO di Giorgio Salvatori – Numero 1 – Luglio 2015

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boschi del Gargano, in quelli del Pollino e a

Castelporziano. Stiamo parlando del capriolo italico, un timido abitante dei boschi di latifoglie che si è mantenuto geneticamente integro, identico a se stesso, dai tempi remotissimi della nostra penisola.
Una perla che si aggiunge al grande patrimonio che il nostro Paese conserva grazie alla fortunata convergenza di doni della Provvidenza e di umani ingegni trascorsi.
Gemme naturali, tesori dell’arte, dell’architettura, della cultura, che resistono alla barbarie dell’oggi in virtù di caratteristiche climatiche e geografiche felici e per il tenace lavoro di uomini lungimiranti.

 

LA LUNGA MARCIA VERSO LA SALVEZZA DEL PICCOLO CAPRIOLO DEL GARGANO

 

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Come spiegare altrimenti quella grande emozione, quel tuffo al cuore che si prova, non importa se italiani o stranieri, quando ci troviamo di fronte alle armonie residue del Bel Paese?

Quello straordinario connubio tra uomo e paesaggio naturale che non ha pari nel resto del mondo.
Si pensa subito all’arte dei grandi maestri, ma non si riflette mai abbastanza sulla straordinaria eredità che i nostri antenati ci hanno lasciato non dissipando un patrimonio faunistico e paesaggistico che, seppure insidiato da mille minacce, è altrove ancora impensabile.
E non si tratta solo di vette sublimi, di foreste meravigliose, di superbi animali, come l’orso o il lupo, scomparsi da secoli, per responsabilità umana, in Paesi, come la Gran Bretagna.

In questo nostro trascurato e insidiato scrigno dell’abbondanza trova degnamente posto anche lui, il piccolo capriolo italico.

Sembrava prossimo all’estinzione, in Gargano come nellealtre storiche nicchie di sopravvivenza, perché minacciato da troppi nemici: bracconaggio, randagismo, eccessiva pressione di uomini e di allevamenti zootecnici.
Soprattutto si temeva per le sorti dei pochi individui superstiti nel Meridione dello Stivale: Gargano e Pollino.
La realizzazione dei Parchi Nazionali omonimi, negli anni novanta, insieme con la paziente e capillare opera di sorveglianza svolta dal corpo forestale dello Stato, ha prodotto un’inversione di tendenza.
Troppo presto per cantare vittoria, però i dati in possesso di Myrrha, in particolare per ciò che riguarda la Foresta Umbra, nucleo storicamente protetto del Parco Nazionale del Gargano, lasciano ben sperare.
I piani di censimento e di salvaguardia, finanziati negli ultimi anni dall’Ente Parco, hanno prodotto un primo, significativo risultato. La densità media del capriolo è risultata in sensibile crescita. Si è passati dalle 6-7 unità ogni cento ettari, censite nel 2008 dai ricercatori del dipartimento di scienze ambientali dell’Università di Siena, agli 8, 7 individui registrati, mediamente, in ognuno degli stessi scacchieri monitorati, nel 2013, da ricercatori del dipartimento di biologia dell’Università di Bari; un censimento che ha interessato, complessivamente, quasi tredicimila ettari situati nel cuore del parco. Gli esperti invitano alla cautela.

hanno la bellezza delle forme slanciate, il muso aggraziato, gli occhi grandi e vivaci, le lunghe zampe sottili, l’abilità acrobatica nel saltare gli ostacoli, il forte richiamo sonoro, in questo caso, assai sgraziato, simile al rauco latrare di un cane.

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che vive confinata, ormai, “in purezza”, soltanto nei 

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Gli episodi di bracconaggio non sono cessati, anche se la loro frequenza, recentemente, appare in diminuzione, i cani vaganti sono una piaga insanata e lontana dall’essere estirpata, la presenza, spesso abusiva, di bestiame domestico sui pascoli condivisi con il capriolo è ancora eccessiva, il disturbo provocato dal turismo sporcaccione e selvaggio è arduo da tenere sotto controllo.
Ma più di tutto è difficile vincere la stupita e irritata ironia dei molti che ritengono incomprensibile o irragionevole finanziare progetti di tutela per un animale che, altrove, è in progressivo aumento.
Si tratta però, in QUESTO CASO, del capriolo europeo, presente in varie regioni del vecchio continente e ormai abbondante anche da noi lungo la fascia alpina, nell’Appennino settentrionale e in Toscana.
Più grande e meno elusivo del nostro piccolo capriolo italico, è specie che non solo non rischia l’estinzione ma comincia a provocare anche danni alle coltivazioni e causa perfino problemi alla sicurezza stradale nelle aree di maggiore densità numerica. In comune i nostri due cugini

Non spaventatevi, però, se, camminando nel bosco, vi capiterà di ascoltare un improvviso e ignoto abbaiare nel folto della macchia mediterranea. Non si tratta di un cane randagio, ma del nostro piccolo acrobata che,

se vorrà proprio stupirvi, vi comparirà davanti, quando meno ve l’aspettate, compiendo un volo nel cielo degno di un consumato artista circense o di un campione olimpionico di salto in alto.

Un incontro molto meno improbabile diquanto si possa pensare per chi cominci a frequentare boschi e radure abitate dal nostro timido e capriccioso folletto.
Un dato empirico che spinge all’ottimismo è il moltiplicarsi degli episodi di avvistamento, recentemente segnalati a chi scrive, da parte di agenti forestaIi o semplici escursionisti.
I censimenti compiuti sul Gargano non indicano, con precisione, quale sia l’attuale consistenza numerica complessiva di questo prezioso dono del sud: cento esemplari, più di cento, meno di cento? Noi sappiamo, dagli studi di zoologia, che, per i mammiferi, è proprio cento la soglia minima al di sotto della quale una specie ha maggiori probabilità di estinguersi a causa del sommarsi, improvviso, di cause avverse: bracconaggio persistente, siccità, epidemie e infezioni contratte dal contagio con bestiame brado, inverni troppo rigidi, scarsità di risorse alimentari, abnorme prelievo di piccoli da parte di predatori come il lupo, la volpe, il gatto selvatico, e perfino il cinghiale, questi ultimi tutti presenti, sia in Gargano sia nel Pollino.
Questi pericoli possono ancora rendere difficile la sopravvivenza del nostro capriolo.
Il peggio, però sembra alle spalle. Difficile a credersi, ma la maggiore insidia per questo antichissimo inquilino della Foresta Umbra si profilò negli anni quaranta, durante l’occupazione alleata del promontorio pugliese.
I vecchi montanari raccontano che le esercitazioni di tiro, da parte dei mitraglieri britannici, avvenivano spesso sui velocissimi caprioli, allora numerosi e meno elusivi.
Verità o leggenda? Chissà. Il declino della specie, in ogni caso, cominciò in quegli anni. E senza la creazione del Parco essa sarebbe oggi, probabilmente, un ricordo del passato. Sicuramente la popolazione di capriolo del Gargano è ancora esigua, minacciata e quindi vulnerabile.
Gli sforzi della dirigenza del Parco, in particolare del suo Presidente, Stefano Pecorella, che ha preso particolarmente a cuore le sorti del capreolus italicus, per questo, vanno ancor più incoraggiati e lodati.

La consistenza numerica emersa dai recenti censimenti ci lascia sperare che la fatale soglia dell’estinzione non sia stata varcata in discesa ma, al contrario, superata in ascesa.

Se così fosse si tratterebbe di un successo esemplare, una conquista del Parco che va ben oltre i confini del Gargano, della regione che lo ospita, la Puglia, e perfino del nostro Paese. Un successo che tutti potremmo e dovremmo festeggiare. Basterà, a questo proposito, parafrasare quello che lo scrittore Dino Buzzati amava ripetere a proposito dell’orso bruno marsicano: “Il capriolo è anche avventura, favola e leggenda, la sua scomparsa ci renderebbe tutti più poveri e più tristi”.

 

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