LECCE UNA MATTINA DI AGOSTO di Gianluca Anglana numero 26 ottobre novembre 2022 Ed. Maurizio Conte

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LECCE UNA MATTINA DI AGOSTO

 

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Palazzo Giaconia

 

«Mangiami»: mi implora il pasticciotto dalla teca in cui è imprigionato. Con lui altri galeotti, nell’attesa che qualcuno li scelga e si decida a liberarli. E a divorarli. Il piccolo bar, a pochi passi dalla Chiesa Greca, brilla all’esterno di un bagliore accecante: la sua unica sala interna è fresca e buia, come l’antro di una sibilla. Il cameriere napoletano scivola svelto sulla strada, così scintillante e linda che non lo crederesti.

 

Nel caleidoscopio della vacanza, anche i luoghi familiari si ammantano di novità, si illuminano di un inedito riverbero.

La luce che piove dal cielo blu aragonite accende la pietra leccese: vicoli stretti 

come budelli, in cui sciamano turisti e lavoratori in pause furtive.


In lontananza, un violoncello e un contrabbasso piangono lacrime di musica argentina.
Pouilles, Italie: qualche sedia più in là, alle ultime propaggini del dehors, due francesi consultano la loro Lonely Planet con una pensosità così grave da sembrare assorti nella lettura di un trattato sulla pietra filosofale.   

 

Dal mio tavolino, su cui il pasticciotto evaso e un caffè salentino pazientano come una natura morta, osservo la mia bicicletta appoggiata al muro di fronte. Sarà il mio ronzino, alla scoperta di nuovi quartieri in apparenza trascurabili, sciatti, sopra i quali si distende l’ombra lunga delle sedi del potere: gli uffici giudiziari sono a portata di lancia, mulini a vento da cui guardarsi e tenersi a distanza. Il Comando provinciale della Guardia di Finanza sorveglia la piazzetta dove ho scelto di arrivare: 

 

qui è la chiesa che avrei voluto visitare. E che invece resterà chiusa 

per tutto il mese di agosto,

 

sentenzia uno sbrigativo cartiglio incollato al portale come un qualunque avviso a una bacheca comunale. Disappunto. Un nulla di fatto in cui inciampo dopo avere accolto il suggerimento di

 

una signora gentile, dai capelli rosa e da un altrettanto inatteso accento barese: 

«vada a vedere la chiesa di San Francesco da Paola, 

dentro è bella quanto Santa Croce» mi esorta, 


sorprendendomi nel ventre tortuoso del centro storico, con il naso all’insù a osservare la facciata austera di un antico monastero benedettino, e sfoggiando un sorriso complice. Un incontro casuale, un dialogo cordiale e foriero di buonumore. Dopotutto, cos’altro è la vita se non un dedalo di giravolte di un’antica città dalle radici messapiche, grani di sale che ci nevicano addosso sotto forma di imprevisti?

 

Se le porte della casa del Signore sono sbarrate, 

sono aperte quelle di Palazzo Giaconìa

 

La sua facciata sonnecchia sobria di fronte alla caserma e guarda con noncuranza al viavai dei finanzieri sulla piazza. Ha il nome di Angelo Giaconìa, vescovo di Castro, che nel 1546 iniziò a erigere per sé una dimora signorile approfittando delle nuove possibilità dischiusesi con la revisione urbanistica di Lecce nella prima metà del sedicesimo secolo.

E sì che il palazzo eredita il suo nome da un presule, ma deve i suoi fastosi giardini 

a un sindaco, Vincenzo Prioli, che lo acquistò alla fine del Cinquecento:


sua l’idea di un parco privato, che volle ingentilire con elementi decorativi, impluvi e reperti strappati alla terra negli scavi aperti a Lecce e Rudiae. Dopo la sua morte, la residenza passò di mano in mano: ai Carignani duchi di Novoli, prima; ai Lopez y Royo duchi di Taurisano, poi. Una catena interrotta solo all’alba del ventesimo secolo, quando un decreto prefettizio assegnò l’edificio a un istituto assistenziale. Della primitiva vastità del giardino, limitato dalle mura urbiche, così come della vegetazione originaria resta poco, ma quanto basta per lasciarsi accarezzare dalla brezza dei sogni.

 

Il profilo alto delle palme, che svettano come comari curiose di vedere cosa accade 

al di là della cinta muraria, dona alla villa un aspetto vagamente moresco, 

un’allure pressoché mediorientale.

 

Pareti inghiottite da rigogliosi rampicanti, cipressi, cespugli, un’antica pianta di alloro: tutti si lasciano ammirare da un camminamento rialzato, abbellito da un pergolato e da colonne seicentesche. Lungo questo breve tragitto sul ciglio delle mura, mi disfaccio della fretta, l’espressione di distaccato sospetto propria delle sentinelle e di chi diffida degli inganni della contemporaneità. Dall’alto si vede la città pulsare: il rumore del traffico si sfarina in un ronzio lontano, gli affanni si stemperano, le accuse al presente di tradimento e al futuro di latitanza precipitano giù, dall’orlo dei bastioni. Nel caleidoscopio della vacanza, quando si è più vicini al cielo di qui, i nodi si allentano, le voci di troppo tacciono.   

 

È ora di andare.

 

Uno sguardo ancora al bassorilievo che è accanto all’ingresso e che si attribuisce 

a Gabriele Riccardi, tra i massimi architetti del rinascimento salentino: 

il Trionfo di David. C’è bisogno di trionfi, dell’alloro che li celebri, 

di palme giganti da scalare per rimpicciolire il mondo, 

di segnali di ottimismo, per lo meno dall’arte, 

in un periodo come il nostro che ne è avaro.

 

Mentre sorrido a una turista americana e alla sua gioia di trovarsi lì, vado a recuperare il mio ronzino. È ora di andare. Alla scoperta di altri luoghi dimenticati, di altre fantasie da nutrire, di altre emozioni da cui lasciarsi cullare

 

 

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