LA SCALINATA MONUMENTALE DI VIA GIUDECCA di Claudia Papasodaro numero 30 dicembre 2023 gennaio 2024 editore maurizio conte

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LA SCALINATA MONUMENTALE DI VIA GIUDECCA

 

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 L’eredità culturale è un insieme di risorse ereditate dal passato che le popolazioni identificano, indipendentemente da chi ne detenga la proprietà, come riflesso ed espressione dei loro valori, credenze, conoscenze e tradizioni, in continua evoluzione. Essa comprende tutti gli aspetti dell’ambiente che sono il risultato dell’interazione nel corso del tempo fra le popolazioni e i luoghi;   Una comunità di eredità è costituita da un insieme di persone che attribuisce valore ad aspetti specifici dell’eredità culturale, e che desidera, nel quadro di un’azione pubblica, sostenerli e trasmetterli alle generazioni future.

 

Convenzione di Faro, art. 2

La ratifica della Convenzione di Faro da parte dell’Italia, avvenuta nel 2020, ha rappresentato un momento significativo per il nostro ordinamento. Non solo perché tale Convenzione riconosce il patrimonio culturale come elemento fondamentale per lo sviluppo civile (questo principio era già sancito dalla nostra Costituzione), ma soprattutto perché introduce il “diritto al patrimonio culturale”, coinvolgendo i cittadini in nuove forme di tutela e valorizzazione. 

 

Ed è bello scoprire che 

proprio al Sud, ed in particolare in Calabria, questi principi abbiano trovato

spontanea attuazione, dando vita ad una straordinaria 

storia di cittadinanza attiva


cominciata ormai qualche anno fa, ma che vale la pena ancora oggi raccontare. 

 

Tutto nasce da un appello lanciato sui social il 31 marzo 2021 attraverso un gruppo facebook denominato “ILOVERC”. Un appello rivolto alla cittadinanza di Reggio Calabria per correre in soccorso di un luogo simbolo della città abbandonato da più di un decennio: la Scalinata Monumentale di via Giudecca. 

 

Questa storica scalinata è una delle opere di contenimento del dislivello di terreno fra il centro storico e la zona collinare sovrastante, costruita tra il 1916 e il 1930 per facilitare il collegamento pedonale tra la parte bassa e la parte alta della città. Il suo aspetto, nonostante l’inserimento delle ringhiere che hanno sostituito in molti tratti gli originari parapetti in mattoni alleggerendo la struttura, risulta davvero imponente: presenta una doppia rampa con terrazzamenti su ben 12 livelli e 23 scalinate di forma e dimensioni differenti. Il tutto crea  

uno scenografico effetto a cannocchiale che dall’alto attraversa la città sino a toccare

il mare. Un luogo davvero suggestivo e dall’alto valore storico e paesaggistico. 

Ma soprattutto un luogo identitario,

 

presente nelle memorie di tutta la comunità reggina. 

 

Grazie alla risonanza dei social, l’11 aprile 2021 un gruppo di sconosciuti si incontra ai piedi della scalinata. Sono persone giunte da ogni parte della città con un unico obiettivo comune: restituire dignità a quel luogo terribilmente offeso e reso inaccessibile da anni di incuria. 

 

I cittadini decidono dunque di unire le forze per la realizzazione di un interesse collettivo, in una nuova forma di libertà solidale e responsabile. Il 20 aprile 2021 il gruppo fb “ILOVERC” si trasforma in “Articolo118.RC” per richiamare il Principio di Sussidiarietà sancito dalla nostra Costituzione, in virtù del quale i partecipanti all’iniziativa stavano agendo. 

 

Nei tre mesi successivi tantissimi reggini si uniscono alla pulizia della scalinata. Ogni giorno, 

la bellezza di quei 180 gradini, che scandiscono il dislivello fra la Via Posidonea 

e la via Reggio Campi, veniva sempre più fuori, fino all’ultima rampa che, 

ripulita dalle sterpaglie altissime, ha restituito la meravigliosa vista 

sullo Stretto di Messina

 

Completata la fase di pulizia, i volontari non si fermano e decidono di occuparsi anche dell’abbellimento delle terrazze, arricchendo le aiuole con piante e fiori colorati. La Scalinata della Giudecca è finalmente pronta a vivere la sua rinascita: sui suoi gradini c’è di nuovo gente, artisti di ogni genere cominciano ad improvvisare performances ed arrivano anche i turisti. La scalinata non solo recupera la sua funzione di passaggio strategico per la città, ma torna ad essere luogo di ritrovo per la comunità e teatro di manifestazioni ed eventi culturali. 

 

Il progetto di riqualificazione e valorizzazione prosegue, si evolve e si fa sempre più articolato. Il 24 settembre 2022 i volontari costituiscono l’associazione “Scalinata Monumentale di via Giudecca APS”, che ottiene un importantissimo risultato entrando, poco dopo, a far parte della Rete delle Comunità Patrimoniali Italiane (CPI) presenti su “Faro Italia Platform”, un’iniziativa della Rete Faro Italia con il supporto finanziario del Consiglio d’Europa.   

 

Di luoghi come la Scalinata della Giudecca in Italia ne abbiamo molti. L’auspicio è che questa bellissima storia di cittadinanza attiva possa essere un esempio per tante altre comunità, affinché prendano coscienza della portata rivoluzionaria che il loro ruolo può avere nella tutela, nella valorizzazione e a volte, come in questo caso, nella rinascita del nostro straordinario patrimonio.

 

 

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LA SARDEGNA CHE NON TI ASPETTI di Gloria Salazar numero 29 agosto 2023 editore Maurizio Conte

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LA SARDEGNA 

CHE NON TI ASPETTI

 

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oltre che per lo straordinario eroismo – che valse numerose medaglie d’oro ai combattenti (detti sos dimonios ossia i demoni per la loro furia bellica) e alle bandiere -, erano famosi per il fogu a intru, il fuoco all’interno; che non era la fiamma interiore che li animava, bensì il modo di fumare i sigari in trincea. 

Si trattava, infatti, di introdurre il sigaro in bocca dalla parte incandescente per non far capire al nemico la propria posizione.

 

Quella del fuoco occulto è anche una caratteristica della cucina sarda.


In Sardegna sopravvive, ormai quasi esclusivamente come tradizione folcloristica, un sistema arcaico di cottura che prevede l’arrostimento dei cibi attraverso una combustione latente, ovvero senza fiamma: la cottura cosiddetta
a carraxiu

Il procedimento consiste nell’utilizzare come “recipiente” una buca scavata nella terra, nella quale è stato fatto un fuoco di legna; una volta rimaste le sole braci la buca viene foderata con rami frondosi – verdi – di arbusti aromatici (lentisco, mirto, rosmarino, ginepro), sui quali si adagia la carne da arrostire (di solito l’intero animale), ricoprendola poi ancora con gli arbusti odorosi e quindi di tizzoni ardenti.

La cottura avviene molto lentamente e le essenze profumate sprigionate 

grazie al calore conferiscono alla carne – che rimane tenerissima – 

un sapore  straordinario.


Questo è uno dei metodi usati per cucinare cinghiali (
sirboni), capretti, vitelli ed il famoso e succulento maialetto sardo, a seconda delle località chiamato: porceddu, proceddu, porcheddu, pulcheddu, ed altre numerose varianti.   Una ricetta a carraxiu ancor più caratteristica è quella denominata su malloru de su sabatteri, ossia “il toro del calzolaio”, tipica del nuorese -in particolare di Villagrande -; consistente nella gigantesca farcitura di un vitello, al cui interno vengono inseriti come matrioske russe: una capra, un maialino, una lepre, una pernice ed infine un altro piccolo volatile.  

 

Il nome deriva dal fatto che un tempo era il ciabattino del paese (sabatteri o calzolaio, dallo spagnolo zapatos, cioè scarpe) a provvedere alla cucitura dei vari animali.

Quello di utilizzare la terra è un sistema che i sardi usavano anche per nascondere, seppellendole, le bottiglie di acquavite,

  

anticamente oggetto di appalto (durante la dominazione spagnola detto arrendamento de l’aguardiente – “l’acqua ardente” perché sembra acqua, ma “brucia”- monopolio di privati in ambito locale). Per ritrovare le bottiglie così occultate le munivano di un filu ‘e ferru; filo di ferro che spuntava dal suolo, da cui deriva il nome della bevanda attuale.   

 

I sardi se la cavano bene anche con la graticola (sa cardiga) e soprattutto con lo spiedo (su schidoni o schironi).

Uno spettacolo le grigliate sarde.

 

Gli spiedi o meglio gli spiedoni – che sembrano piuttosto degli spadoni (possono essere lunghi anche più di un metro e mezzo) – vengono conficcati in circolo nel terreno con infilzata la bestia intera, intorno ad un imponente fuoco di braci, e ritmicamente girati per consentire una cottura uniforme. Con questo sistema vengono cucinati principalmente i famosi maialini da latte.

 

 Nel sassarese invece vi è l’usanza dello zimino

 

– anch’essa, analogamente alle metodologie precedenti, caratterizzata da una spiccata connotazione conviviale -, costituita da una grigliata di frattaglie, per la quale ci si avvale, come “barbeque”, di una vecchia carriola (ruota compresa), riempita per metà di sabbia e per il resto di carbone di legna.  

 

L’alternativa alla cottura arrosto è quella in umido, una cottura lunga effettuata con l’ausilio di aromi, che intenerisce la carne ed elimina il gusto di selvatico; come quella della pecora in cappotto o dell’ottima capra alla vernaccia, cotta, appunto, con la vernaccia di Oristano – tipico vino sardo- e le bacche di ginepro.  

 

La cucina sarda tradizionale, al contrario di ciò che si potrebbe pensare, 

non è una cucina “di mare”, ma è principalmente 

una cucina pastorale, “di terra”,


nella quale per secoli le pietanze a base di pesce sono rimaste circoscritte alle sole zone costiere. Anche la celeberrima bottarga, introdotta in Sardegna dai Fenici, che da alimento base nelle traversate e moneta di scambio di quei mercanti navigatori, divenne cibo pregiato per l’elite, ma non venne mai utilizzata nelle ricette tipiche della regione. 

 

Inside a traditional house
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  Foto da DEPOSITPHOTOS

 

PROCIDA. LA SPIAGGIA DI TROISI E PABLO NERUDA di Aurora Adorno numero 29 agosto 2023 editore maurizio conte

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PROCIDA. 

la SPIAGGIA DI TROISI 

E pABLO NERUDA

 

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a Pollara nella borgata marinara dell’isola di Salina a Malfa è possibile ammirare le Eolie e trascorrere qualche giorno di vacanza; bagnata dal cielo e circondata dal verde in quella che oggi viene chiamata “la locanda del Postino” vennero girate nei primi anni’ 90, tra genio e malinconia, le scene dell’omonimo film.

La pellicola, diretta dal regista Michael Radford e interpretata da Massimo Troisi, racconta dell’amicizia tra un postino di nome Mario Ruoppolo e il poeta Pablo Neruda; il viso dell’attore napoletano, malinconico giullare, è scavato dalla malattia, e gli occhi scuri resi ancora più espressivi dalla consapevolezza di una vita che sfugge tra le mani, proprio come la sabbia che il vento spazza via dalle spiagge di Salina. È il mare a fare da sfondo con le sue sfumature, tacito testimone della transitorietà della vita umana.

La semplice bellezza dei paesaggi marinari del Sud incornicia la storia 

del poeta Cileno che nell’isola venne esiliato nel 1948


con la consorte Matilde, e che per caso iniziò un postino, quasi analfabeta, alla bellezza della poesia e della lettura. «Mi sono innamorato di Beatrice» confessa Troisi al poeta che risponde a suon di Dante: «Le beatrici suscitano amori sconfinati, Mario. Che farai adesso?» chiede all’uomo intento a scarabocchiare qualcosa su un foglio; quando Neruda si rende conto che Mario non è capace di scrivere il nome dell’Alighieri lo aiuta. «Sono proprio innamorato» rincara il postino. 

«Ed io cosa ci posso fare» il poeta lo scruta perplesso.

«Se mi potete aiutare. La guardavo e non mi usciva neanche una parola. La guardavo e mi innamoravo.» Continua il dialogo tra i due amici, poi Mario prende coraggio: «Don Pablo, me la potete scrivere una poesia per Beatrice?»

Il film scorre tra le battute e gli scambi di vita, tra amore e amicizia, tra vita quotidiana e politica, fin quando Mario sempre più innamorato rincara la dose:

 

«Caro poeta e compagno lei mi ha messo in questo guaio e lei mi deve aiutare, perché mi ha regalato i libri, insegnato a usare la lingua non soltanto per mettere i francobolli. È colpa sua se mi sono innamorato.» 

«Ti ho regalato i miei libri, sì. Ma non ti ho autorizzato a usarli per il plagio. Se penso che hai regalato a Beatrice la poesia che avevo scritto per Matilde…» 

ribatte Neruda.

«La poesia non è di chi la scrive è di chi gli serve» si difende Mario, 

facendo intenerire il poeta.

E ancora oggi, rimanendo in silenzio, con i piedi ricoperti dai sassolini della spiaggia di Procida e l’orecchio teso tra il mare e i ricordi, è possibile udire la voce sommessa di Troisi che recita:   

 

Nuda sei semplice come una delle tue mani, 

liscia, terrestre, minima, rotonda, trasparente, 

hai linee di luna, strade di mela, 

nuda sei sottile come il grano nudo. 

Nuda sei azzurra come la notte a Cuba, 

hai rampicanti e stelle nei tuoi capelli, 

nuda sei enorme e gialla 

come l’estate in una chiesa d’oro.   

 

Nuda sei piccola come una delle tue unghie, 

curva, sottile, rosea finché nasce il giorno 

e t’addentri nel sotterraneo del mondo. 

come in una lunga galleria di vestiti e di lavori: 

la tua chiarezza si spegne, si veste, si sfoglia 

e di nuovo torna a essere una mano nuda.

 

Poesia nella poesia, le scene si intrecciano con la location del villaggio dei pescatori 

a Marina di Corricella il borgo caratteristico dall’architettura seicentesca 

dove le mura colorate sono sovrastate da archi,

 

e con la spiaggia di Pozzo Vecchio ribattezzata “la spiaggia del postino” in cui Mario incontra Beatrice per la prima volta; l’ufficio postale e la chiesa della Madonna delle Grazie finiscono per incorniciare l’intensità espressiva dei dialoghi e delle scene. Famose quelle in cui Mario pedala tra i monti costeggiando il golfo di Napoli; una delle banchine è stata appunto ribattezzata “Passeggiata Massimo Troisi” e vicino è conservata la bicicletta usata dall’attore durante le riprese del film.   

 

Sono tanti i lungometraggi girati sulle spiagge di Procida, set di “Il talento di Mr Ripley” interpretato da Matt Damon, e di “Francesco e Nunziata” con Sophia Loren e Giancarlo Giannini.

Nella parte più alta dell’isola si trova la Terra Murata, piccolo borgo sorto in posizione difensiva, mentre in quella più antica edifici storici e religiosi si affacciano sul mare:

 

ail Convento di Santa Margherita Nuova, l’Abbazia di San Michele Arcangelo patrono dell’isola  e  il Castello d’Avalos in cui è stato girato “il Detenuto” con Alberto Sordi. Tra Punta Serra e Punta del Cottimo la spiaggia di Pozzo Vecchio è ora nota come la “Spiaggia del Postino” in omaggio al testamento artistico di un attore che ha saputo mettere in risalto gli aspetti poetici e belli del Sud, e che tra quelle spiagge e le nostre memorie rimarrà impresso per sempre, come il vento che tocca le Eolie e incide le rocce.

 

 

Procida – Spiaggia del Postino a Cala del Pozzo Vecchio
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 Foto da DEPOSITPHOTOS

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SUD ITALIA ATTRAVERSO IL MEDITERRANEO di Federico Failla numero 28 maggio giugno 2023 Editore Maurizio Conte

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SUD ITALIA ATTRAVERSO IL MEDITERRANEO

 

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Val di Noto e gastronomia è un’associazione che viene naturale. La capacità di valorizzare pienamente, e spesso in maniera sorprendente, i magnifici prodotti del territorio ha reso questo scorcio di Sicilia una delle aree più interessanti da esplorare sotto il profilo culinario. In questa cornice si colloca una delle eccellenze della cucina del Val di Noto: il gelato.   

 

Cresciuto proprio in una cultura in cui le discussioni estive sul gelato possono protrarsi fino a tarda notte e creare tensioni non da poco su aspetti cruciali del prodotto (quale deve essere il colore del gelato al pistacchio? Funziona l’abbinamento cioccolato-limone? Il gelato di ricotta ha un suo perché?), ogni volta che ho affrontato una nuova esperienza all’estero sono andato sempre a scoprire le realtà locali del gelato. Per essere chiari, mai cercata la replica dei sapori siciliani, sarebbe un’ottica errata e perdente. Al contrario, l’obiettivo è stato quello di esplorare e sperimentare nuovi gusti e combinazioni, dal gelato viola di taro, al gusto di fagioli rossi, al gelato di riso, immancabile in Asia. 

 

Ma talvolta, oltre i gusti, le combinazioni e le tecniche che vengono utilizzate,

sono le storie delle gelaterie che diventano altrettanto gustose. 

E da qui parte la breve storia della gelateria “Ragusa” a Jakarta, 

aperta negli anni ’30 dello scorso secolo.


Storia dai contorni non chiari, contraddittori, avvolta da una nebbiolina che non permette di mettere a fuoco tutti i dettagli, dunque perfettamente in linea con le caratteristiche dell’Indonesia ed in particolare di Java. Nella continua scoperta di storie, cibi, persone e culture che popolano questo meraviglioso Paese, mi sono imbattuto quasi subito nella gelateria “Ragusa”, che naturalmente ha attirato la mia curiosità.   

 

Le informazioni raccolte durante e dopo la mia permanenza in Indonesia non sono state univoche: dal nome, che secondo alcuni indica il luogo di provenienza dei proprietari originari della gelateria e secondo invece la versione che ha riscontri più concreti il cognome degli stessi, al motivo stesso per cui i nostri connazionali si trovassero a Jakarta negli anni ’30.

 

La versione che presenta elementi riscontrabili in maniera più solida, anche grazie 

al materiale raccolto dal nostro Console Onorario a Bali, è che i fratelli Ragusa provenissero da Grottaglie in Puglia e che fossero arrivati a Batavia 

(il nome che aveva l’attuale Jakarta durante il periodo coloniale olandese) 

alla fine degli anni ’20.

Qui i contorni della storia iniziano a diventare meno chiari e netti: sembra che i Ragusa, di professione sarti, stessero viaggiando in nave per l’Australia e fossero stati convinti a fare una sosta a Batavia da alcuni passeggeri a bordo della loro imbarcazione. Alcune testimonianze invece asseriscono che i Ragusa fossero arrivati a Batavia per frequentare una scuola di cucito, una tesi che appare ardita e poco verosimile: perché da Grottaglie negli anni ’20 ci si sarebbe dovuti dirigere a Batavia per imparare il cucito o altre arti sartoriali?

 

All’interno della gelateria si trovano invero le foto dei quattro fratelli Ragusa, Luigi, Vincenzo, Pasquale e Francesco, foto color seppia che aggiungono autenticità alla narrazione prevalente. Stando a quanto si tramanda, Luigi e Vincenzo erano venuti in contatto con una signora olandese residente a Bandung proprietaria di una fattoria, disposta a fornire il latte per la nuova avventura commerciale dei Ragusa. La tesi che fossero pugliesi viene ulteriormente avvalorata dal fatto che i fratelli Ragusa lasciarono l’Indonesia nel 1972 e si stabilirono a Taranto. La gelateria venne ereditata dal cognato di Francesco, che si era sposato con Liliana Yo, una cinese indonesiana.

Riconosciuta nel 2012 come la più antica gelateria in Indonesia ancora in attività, 


ha avuto nei decenni alterne fortune ed ha anche offerto prodotti che sono cambiati nel tempo, dai gusti tradizionali fino ad arrivare al gelato agli spaghetti, ottenuti dalla polpa del cocco.

 

In conclusione, 

l’arrivo e la permanenza di una famiglia di sarti pugliesi in Indonesia ha lasciato un’impronta duratura nel panorama gastronomico di Jakarta, 

visto che ancora oggi la gelateria “Ragusa” 

è attiva ed operante.


Questa vicenda mi ha affascinato da sempre, perché trovare storie di italiani nei paesi con una forte presenza di nostre comunità è semplice, ma lo è meno trovarle in Indonesia, dove la nostra presenza è stata storicamente sporadica. Anche se, in verità, in Indonesia è morto Nino Bixio e Pigafetta ha fatto tappa con la nave Trinidad nella spedizione della circumnavigazione del globo nella quale rimase ucciso Magellano, senza dimenticare, inoltre, le missionarie e i missionari italiani (il primo sinologo europeo è stato padre Ruggeri, pugliese di Spinazzola), gli esploratori e gli etnologi ed etnologi come Modigliani.

 

Sono storie quelle degli italiani nell’Asia orientale e sud-orientale, molti dei quali provenienti dal Meridione, che meritano di essere meglio conosciute, 

perché testimoniano del coraggio e dell’intraprendenza 

di molti nostri connazionali

 

a costruirsi il proprio futuro anche in terre lontane e nelle quali non erano già presenti comunità di compatrioti. E mi piace pensare che il grande successo dello stile di vita italiano, del made in Italy e dell’Italia in generale in questa parte di mondo sia anche dovuto a quanto seminato dai vari fratelli Ragusa che vi hanno abitato.

 

 

 

 

 

 

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IL SALOTTINO DI PORCELLANA A CAPODIMONTE Gemme del Sud numero 27 gennaio febbraio 2023 ed. maurizio conte

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IL SALOTTINO DI PORCELLANA  A CAPODIMONTE

 

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                         Napoli

 

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Originariamente creato per gli appartamenti privati della regina di Napoli Maria Amalia di Sassonia nella Reggia di Portici, questo capolavoro della Real Fabbrica di Porcellana di Capodimonte fu realizzato tra il 1757 e il 1759. Nel 1866, quando il Palazzo Reale di Portici divenne proprietà demaniale, fu smontato e riposizionato in una sala della Reggia di Capodimonte, dove si trova tuttora.

 

Il salottino, progettato da Giovan Battista Natali, è in stile rococò ed è composto 

da pannelli in porcellana a sfondo bianco decorati ad altorilievo, posizionati 

alle pareti ed alternati a sei ampi specchi racchiusi da cornici 

di festoni floreali e candelieri a tre bracci 

sempre in porcellana.

 

Nella colorata decorazione compaiono frutti, animali, scene di genere con uomini e donne nei caratteristici abiti tradizionali cinesi e cartigli scritti in mandarino, temi che si rifanno alla moda cinese e alle cineserie in gran voga nell’Europa del XVIII secolo. 

 

Anche il soffitto richiama la stessa tipologia decorativa delle pareti, ma è in stucco con decorazione a rocailles, mentre è in porcellana il mirabile lampadario che pende al centro della sala nel quale, tra i dodici bracci avvolti da tralci di fiori, il fusto raffigura una palma, una scimmia e un cinese con ventaglio. 

 

Fantasie e suggestioni dell’Estremo Oriente andarono ad alimentare un gusto per paesi lontani creando un misto di stili in cui accanto ad elementi esotici tradizionali si aggiunsero capricci ed invenzioni che diedero origine ad un linguaggio tipicamente europeo espresso in una porcellana di qualità e di una raffinatezza unica.

 

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“LA POESIA” E’ UNA SORGENTE di Lorenzo Salazar numero 27 gennaio febbraio 2023 Ed. Maurizio Conte

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LA “POESIA” e’ UNA SORGENTE

 

 

Dal novembre dello scorso anno il già ampio panorama dei ristoranti italiani a Parigi si è arricchito con l’inaugurazione di un nuovo locale, dotato però di un interesse affatto peculiare.

 

L’indirizzo in rue de la Fidelité, nel 10° arrondissement, a pochi passi dalla Gare de l’Est, sembra giocare con il nome del locale, “La Poesia”.

 

Che non deriva però dalla più eterea delle sette arti bensì dal sostantivo greco πόσις (“bere”), da cui trae origine il nome di un fascinoso luogo sulla costa del Salento che si trova nelle immediate adiacenze dell’area archeologica di Roca Vecchia, poco a sud di Lecce. Una profonda sorgente naturale dà vita a una piscina naturale di acqua dolce che si trova proprio in riva al mare, arroccata su un promontorio e circondata da scogliere calcaree. A questa fonte, fin dal II millennio a.C., dapprima i marinai messapi e quindi quelli greci usavano accostarsi per rifornirsi di acqua e invocare la protezione delle rispettive divinità sulla navigazione. Un nome capace, da solo, di evocare tutta la bellezza della natura, della storia e della cultura del nostro Sud. 

 

Al di là del nome, i piatti preparati dallo chef Giuseppe Fiore, originario di Praiano, si ispirano alla migliore tradizione della cucina meridionale e utilizzano prodotti e materie prime (molti dei quali biologici, come pasta, lenticchie, pomodori secchi…) provenienti in massima parte dal catalogo di Libera Terra, l’associazione che riunisce cooperative sociali guidate dall’associazione Libera di Don Ciotti. 

 

Dietro di esse vi sono decine di strutture produttive e centinaia di ettari di terreno sottratti alle mafie in Sicilia, Puglia, Calabria e Campania grazie all’istituto del riutilizzo sociale dei beni confiscati alle mafie introdotto in Italia dalla legge n. 109 del 1996 

in materia di gestione e destinazione di beni sequestrati o confiscati.

 

Su quei terreni e in quelle aziende – non di rado dopo aver resistito a ulteriori atti di intimidazione o violenza posti in essere anche dopo la definitività dei provvedimenti di confisca, quale disperato ultimo tentativo delle organizzazioni criminali di opporsi agli stessi – si producono pasta, olio, vino e altri generi alimentari che rendono omaggio, sin dal nome posto sull’etichetta, alla lotta alle mafie e alle vittime della loro violenza. 

 

Così un vino Primitivo del Salento è dedicato ad Antonio Montinaro, giovane poliziotto pugliese capo scorta del giudice Giovanni Falcone, caduto a 29 anni nell’attentato di Capaci, opera del più sanguinario dei boss, Totò Riina, o un Negroamaro della stessa regione ricorda la storia di Renata Fonte, assessora alla cultura e alla pubblica istruzione del comune di Nardò, assassinata il 31 marzo 1984 per la sua lotta contro la speculazione immobiliare nel Leccese. O ancora i vini Centopassi, tanti quanti quelli che separavano a Cinisi la casa del giovane giornalista e attivista Peppino Impastato da quella di Tano Badalamenti, mandante del suo assassinio avvenuto il 9 maggio 1978; era lo stesso giorno del ritrovamento del corpo di Aldo Moro in via Caetani, coincidenza questa che contribuì a confondere la percezione iniziale dell’evento (che gli autori cercarono anche di mascherare sotto le sembianze di un suicidio, ponendo una carica di tritolo sotto il corpo del povero giornalista, adagiato sui binari della ferrovia Palermo-Trapani) in tal modo oscurandolo in parte all’attenzione dell’opinione pubblica. 

 

Noi italiani, già da molti anni abituati a vedere beni oggetto di confisca destinati a finalità di pubblica utilità (tra i più recenti esempi quello della sede romana della Scuola Superiore della Magistratura, con strepitoso affaccio sulla Fontana di Trevi, già residenza di lusso di un boss della banda della Magliana) 

 

abbiamo difficoltà a comprendere quanto e come esperienze simili possano risultare invece innovative e dirompenti agli occhi dei cugini d’oltralpe.

 

Nonostante l’adozione, nell’aprile 2021, di una legge ispirata a quella italiana, pratiche simili appaiono ancora marginali e poco conosciute in Francia, dove i servizi statali sono spesso apparsi riluttanti a riconoscere la crescente presenza della crimine organizzato e solo di recente hanno cominciato a mobilizzare l’Agence de gestion et de recouvrement des avoirs saisis et confisqués (Agrasc) creata sul modello della nostra Agenzia Nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni Sequestrati e Confiscati alla criminalità organizzata.

A una tale presa di coscienza intende a suo modo contribuire anche l’équipe 

de La Poesia, ispirata tra l’altro da un magistrato francese che ha a lungo lavorato 

nella nostra penisola, proponendosi di promuovere e diffondere l’esperienza italiana 

in materia di contrasto alle organizzazioni criminali.

Il locale viene infatti animato non solo attraverso l’esposizione sui suoi muri di opere di pittori italiani legati al meridione ma anche con eventi e incontri sul tema (il più recente dei quali dedicato proprio al trentennale degli attentati a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino). Sono state anche avviate iniziative di partenariato con associazioni francesi impegnate nel reinserimento sociale dei più debolì, partecipando in tal modo, anche attraverso l’assunzione di personale di sala tratto dalle stesse, a un percorso di solidarietà concreta. 

 

Quanta distanza appare separare l’esperienza de La Poesia da quella, così diversa e di breve durata, del ristorante aperto nel 2017, in un diverso quartiere della capitale francese, proprio dalla figlia del boss di Corleone giudicato principale responsabile della strage di Capaci, che faceva esplicito riferimento, già a partire dalla scelta del nome, all’evocativa immagine del paese del Padrino. Le differenze non si misurano solo sulla base degli ingredienti delle pietanze e delle voci dei menù… 

 

 

 

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CORALLIUM RUBRUM. JAN FABRE E L’AURA PARTENOPEA di Francesca Romana De Paolis numero 27 gennaio febbraio 2023 Ed Maurizio Conte

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Corallium Rubrum. Jan Fabre e l’aura Partenopea

 

Al centro di una doppia trasmutazione alchemica, per così dire – che consta della devitalizzazione dell’organico e quindi della vitalizzazione dell’inorganico, a garanzia di uno splendore imperituro, nodo di remoti commerci tra Mediterraneo e Oriente, legame tra il folklore del passato e il lusso folklorico del presente – risiede

uno dei più pregiati doni del Sud: il corallo.


È risaputo che dal 3500 a. C. l’uomo appendesse corni animali sull’uscio delle proprie caverne, gesto apotropaico. Noto che dagli scavi di Pompei ed Ercolano siano affiorati, tra i molteplici reperti, anche enigmatici cornicelli

Dall’antica Roma Plinio il Vecchio, nell’enciclopedica Naturalis Historia, descrive le spade dei Galli come decorate in oro rosso. 

E nel Medioevo pillole coralline rappresentarono un portentoso farmaco contro crisi epilettiche, incubi e malattie infantili. 

Tutti sanno infine che nel Meridione il corno di corallo è simbolo di buona sorte. Lungi da interpretazioni freudiane esso rappresenterebbe, nella forma, il fallo di Priapo, antica divinità simbolo della forza generativa maschile e della fecondità della natura.

E benché dal diario di Marco Polo – che raccontò dei corallini ornamenti indiani 

e degli amuleti nepalesi, degli utensili tibetani e degli elmi e dei copricapi mongoli 

o ottomani – affiori in sottoparlato il profilo di una via del corallo, accanto 

alla via delle spezie e a quella della seta; benché percorrendo 

la vesuviana cittadella di Torre del Greco o i vicoli partenopei, 

possiamo ancora scorgere il profilo di questa via, 

ci accorgiamo lo stesso di un rischio imminente.


Non possiamo non constatare – in questo ventunesimo secolo di humana historia – una crisi auratica dilagante, un dissolvimento cultuale della materia dalla quale perfino il sacro corallo sembra non avere scampo. Qualsivoglia oggetto di pregio, quando non davvero rituale, per non soccombere alla scadenza effimerica dell’oggi, abbisogna di un gesto salvifico in controtendenza. 

Soffermiamoci su quel sublime olio su tavola rinascimentale che è La Madonna di Senigallia di Piero della Francesca, laddove il bambino Gesù indossa un ciondolo di corallo, monito del futuro sacrificio. Soffermiamoci sulle Sette Opere di Misericordia dell’ultimo Caravaggio, che al corallo si lega non per iconografia, ma per significazione, poiché nulla di più misericordioso e caritatevole esiste del sangue versato per l’Altro. Corallium sanguinis imago. E scopriamo come un modo vi sia – offerto proprio da Napoli, città sirenica, partenopea, feconda di risorse – per ritrovare alfine l’aura del Corallium Rubrum, sopravvissuta in resilienza.

Entro la napoletana chiesa ottagonale del Pio Monte della Misericordia, 

in via dei Tribunali – fondata nel 1602 grazie a sette nobili caritatevoli 

che offrivano assistenza ogni venerdì presso l’ospedale degli Incurabili – 

si trovano, in forma permanente, dal 2019, quattro sculture realizzate 

dall’artista contemporaneo Jan Fabre (Anversa, 1958). 

In dialogo con i dipinti seicenteschi delle sette cappelle d’intorno 

e con l’opera del Merisi, posta sull’altare: si tratta di una tetragonia 

di sculture fatte interamente di corallo.


L’artista belga, amante di Caravaggio e di Napoli, che non a caso ha dato a suo figlio il nome Gennaro, è legato al concetto di Caritas e ha scelto il corallo per risvegliarne la storia a partire dalla tradizione culturale e pittorica barocca. Il filo rosso – più rosso non potrebbe dirsi – che lega le sculture fiamminghe è la presenza, in ciascuna, di grossi, guizzanti cuori anatomici. Di volta in volta associati a simbologie cristologiche. 

Nella Purezza della Misericordia, ispirata alla tela del Merisi, ove Sansone eroe biblico, beve dalla mascella di un asino, questa è la base ossea su cui si regge il cuore umano, dal quale sbocciano magnifici gigli, simbolo della purezza della Vergine Maria, cui la chiesa è dedicata. La colomba con ramo d’ulivo è il soggetto corallino de La Libertà della Compassione, dove il cuore umano è stretto fra catene. E lo stesso cuore è circondato di edere nella Rinascita della Vita, a omaggiare il ciclo di vita, morte e resurrezione. Mentre nella Liberazione della Passione il cuore di corallo si fa serratura ed accoglie le chiavi del Paradiso di San Pietro.

Perché adempia al suo compito di portare fortuna il corallo dev’essere ricevuto 

in dono, non acquistato, infatti le opere fabriane sono state donate dal fiammingo 

al Pio Monte della Misericordia, grazie al sostegno di Gianfranco D’Amato 

e Vincenzo Liverino in ricordo dei Cavalieri del Lavoro 

Salvatore D’Amato e Basilio Liverino


Questo fa del Pio Monte non soltanto un celebre luogo di culto cristiano e il custode partenopeo di una delle più complesse opere di Caravaggio, ma anche un tempio della Buona Sorte. 

Varcando la soglia della chiesa tutto ciò che il corallo taceva torna a galla. Quella storia raccontata da Ovidio, che vuole la rossa viscera splendente generarsi dalle stille di sangue della Medusa decollata da Perseo. La sollecita corsa quattrocentesca all’acquisto di gioielli corallini di Alfonso d’Aragona per soddisfare la vanitas della sua Lucrezia d’Alagno.

La fascinazione che ebbe per il corallo la moglie del re di Napoli Gioacchino Murat, Carolina Bonaparte, che regalò al fratello Napoleone una spada imperiale ornata 

di cammei torresi, una scacchiera corallina ed altri gioielli vermigli.


La moda per il Rubrum Corallium che di qui si espanse alla corte di Francia. 

Il racconto di qualche viaggiatore d’oggi, che forse si è udito senza troppa cura. Che descrive alcune casupole Polinesiane sull’isola di Huahine, povere e disadorne viste da fuori, ma che all’interno custodiscono ancora pavimenti rivestiti di corallo. E ancora, le colonie degli artigiani di Torre del Greco generatesi in Giappone quando si scoprirono risorse coralline nel Pacifico. 

I mercanti ebrei di Livorno e Genova che sovraneggiavano sul mercato corallino, messi in riga dall’ordine giuridico di Ferdinando IV di Borbone. La diaspora quattrocentesca dei fini corallari siciliani che si insediarono in Campania portando le proprie tecniche di lavorazione tra Napoli, San Giorgio a Cremano, amalgamandosi agli artigiani napoletani del corallo. 

Questo fa Napoli, città pulsante di segreti. Mischia le carte e sovrappone le storie. Dal mito alla religione, dal lusso d’Oriente, alla moda cortese fino all’arte contemporanea. E lo fa anche attraverso la storia infinita dei rami di corallo.  

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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 Foto di Francesca Romana de Paolis

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JOE DI MAGGIO di Gaia Bay Rossi e Luigi Vignali numero 27 gennaio febbraio 2023 Ed. Maurizio Conte

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JOE DI MAGGIO

 

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quando delineò il dovere del Filosofo nel secondo libro de La Scienza della Legislazione, che “Se i lumi che egli sparge non sono utili pel suo secolo e per la sua patria, lo saranno sicuramente per un altro secolo e per un altro paese. 

Dopo un lungo viaggio la coppia si stabilì a Martinez, cittadina vicino a San Francisco, ebbe nove figli e fra i loro, il 25 novembre 1914, nacque Joe.

Sin da piccolo appassionato di baseball


(come i fratelli Dom e Vince, che diventeranno anch’essi giocatori professionisti), esordì a soli diciassette anni nella “minor league”, con la squadra dei San Francisco Seals. Dopo quattro stagioni venne ceduto ai New York Yankees, in cui costruirà la sua straordinaria carriera sportiva e in cui rimase fino al 1951, quando a trentasette anni si ritirò dallo sport agonistico.   

 

Joe Di Maggio fu uno dei più grandi giocatori di baseball di tutti i tempi. Vinse per tre volte il titolo di miglior giocatore dell’American League e fu chiamato nella selezione dei più forti giocatori per ben 13 volte.

 

Tifosi e giornalisti lo chiamavano Joltin’ Joe (“Joe che fa sobbalzare”) 

per la forza con cui colpiva la palla. Nell’arco della carriera Joe 

totalizzerà l’incredibile risultato di 2.214 “battute valide”.


Il giorno prima della vittoria degli Yankees contro i Red Sox, partita che chiudeva il campionato del 1949, il Corriere della Sera scrisse: il campione 
“è stato festeggiato non solo dai propri tifosi, ma anche dai giocatori e dai tifosi della squadra avversaria. Una folla di 80.000 persone lo ha acclamato per un’ora intera prima che la partita potesse cominciare: Joe è stato letteralmente coperto di doni, che andavano da un chilo di gelato alla crema ad un motoscafo da corsa di gran lusso. Quest’ultimo però non è stato portato in campo. Il sindaco di Nuova York è sceso per congratularsi con lui e per consegnargli una bicicletta per il suo figliuolo. Joe Di Maggio, il bel ragazzo sorridente ed espansivo di origine italiana […] ha consegnato al sindaco tutti i doni in denaro che aveva ricevuto perché venissero divisi tra due fondazioni: quella per ammalati di cuore e quella per le ricerche sul cancro”. 

 

Un grande sportivo, un grande italiano. Nella sua vita Joe non dimenticò mai l’Italia 

e Isola delle Femmine. Nel 1955, giunto a Roma decise di far visita al paese 

dei genitori, dove una volta arrivato fu accolto dall’allora sindaco 

suo omonimo, Francesco Di Maggio.


Tornò a Roma una seconda volta, nel 1993, come rappresentante della Federazione Italia-America, con l’intenzione di recarsi a Isola delle Femmine per ritirare la cittadinanza onoraria. A causa di un malore non poté partire: fu dunque il sindaco a venire a Roma, alla Farnesina, per la consegna della cittadinanza. Oggi a Isola delle Femmine, è possibile visitare la casa Museo Joe Di Maggio, per ricordare un campione straordinario, uno dei personaggi più amati nella storia dello sport americano. Si sposò una prima volta con l’attrice Dorothy Arnold e dal matrimonio nacque Joe Di Maggio Jr., ma i due divorziarono nel 1943, mentre Joe prestava servizio militare alle Hawaii.

 

Dopo una serie di storielle senza importanza, arrivò finalmente

il grande amore, Marilyn Monroe.


Joe perse completamente la testa, nonostante l’opposizione del fratello Dom che e soprattutto del vescovo di New York, che gli negò il divorzio dalla prima moglie e poi la possibilità di ricevere i sacramenti. 

Durante la celebrazione del matrimonio con Marilyn, di fronte a 400 persone, il giudice Peery dichiarò: “Ho dimenticato di baciare la sposa, come vuole la tradizione e, credetemi, mi dispiace”. Gli sposi partirono per il Giappone, dove Joe era stato invitato a lanciare la nuova stagione di baseball; Marilyn doveva invece esibirsi per le truppe americane di stanza in Corea: in tre giorni di tour incontrò 13.000 soldati e in ogni base militare fu accolta da enormi ovazioni.

 

Di Maggio era certo che, una volta sposati, Marilyn avrebbe lasciato la carriera 

per dedicarsi alla famiglia (al giornalista che le chiese se aveva intenzione 

di avere bambini, aveva risposto: “Certo, almeno sei”). 

 

Ma così non fu, 


la sua popolarità negli Stati Uniti era al culmine e la sua fama mondiale. Dopo un primo periodo di felicità, arrivarono discussioni e violente liti, anche se non erano note al grande pubblico. Joe seguiva le condizioni contrattuali di Marilyn con le case cinematografiche, riuscendo a ottenere migliori compensi, ma era esacerbato dalla gelosia per una donna che rappresentava il desiderio proibito per antonomasia. Forse il punto di non ritorno fu la gonna svolazzante del film
“Quando la moglie è in vacanza”, per Joe fu devastante vedere l’intera troupe a bocca aperta davanti alla scena – poi trasmessa nei cinema di tutto il mondo. Sicuramente fu l’ultima volta che i coniugi apparvero insieme in pubblico. 

Il 5 ottobre 1954, a solo nove mesi dal matrimonio, Marilyn Monroe, annunciò la decisione di separarsi dal marito. Dopo poco seguirà l’annuncio del divorzio. La causa di divorzio fu molto dura. Di Maggio si fece addirittura accompagnare da Frank Sinatra (peraltro già amante di Marilyn) a un’”imboscata” alla diva – con il risultato di una porta sfondata a una sconosciuta, cui i due dovettero risarcire 7000 $. Dopo vari anni, in cui Marilyn si era risposata una terza volta (con Arthur Miller), aveva sofferto per alcuni aborti, era diventata dipendente da farmaci e psicofarmaci, la donna si riavvicinò a Joe Di Maggio. 

 

Lui, nonostante tutto, continuava a esserne innamorato. Addirittura nel 1961 

i giornali parlavano di un secondo matrimonio tra i due.

 

Poi il 5 agosto del 1962 lei morì improvvisamente, in circostanze mai del tutto chiarite, nella sua casa di Los Angeles.   

 

Di Maggio si occupò del funerale e delle spese. Invitò solo gli amici più intimi, escludendo sia le star hollywoodiane, sia le note personalità politiche che pure Marilyn frequentava. Con il figlio Joe Jr. accanto, seguì il feretro fino alla sepoltura nel cimitero di Brentwood. Prima della chiusura Joe baciò per tre volte la cassa e per tre volte le disse “Ti amo”. E ordinò di deporre un mazzo di 6 rose rosse due volte a settimana sulla sua tomba, per sempre. Quando giunse la sua ora, nel 1999 per un tumore ai polmoni, le ultime parole furono: “Finalmente riuscirò a vedere Marilyn”.  

 

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ENRICO CARUSO UN NAPOLETANO IN AMERICA di Luigi Vignali e Gaia Bay Rossi numero 26 ottobre navembre 2022 Ed. Maurizio Conte

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ENRICO CARUSO UN NAPOLETANO IN AMERICA

 

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Enrico Caruso è stato uno dei più grandi tenori di sempre e ha fatto conoscere e amare in tutto il mondo la lirica e la musica napoletana. La sua vicenda è narrata nel bel documentario “Enrico Caruso, the greatest singer in the world”, girato per i cento anni dalla morte dell’artista e prodotto dalla Direzione Generale per gli italiani all’Estero della Farnesina.

 

Caruso era di umili origini, ma sin da bambino maturò notevoli capacità musicali, tanto da suscitare l’attenzione di alcuni “maestri” dai quali prese lezioni, per quanto ancora di livello amatoriale. La dedizione che mise nello studio gli permise, nel tempo libero dal lavoro alla fonderia in cui il padre era operaio, di esibirsi presto in piccoli teatri e caffè fuori Napoli, cantando canzoni napoletane e arie d’opera. In una di queste occasioni venne notato dal baritono Edoardo Missiano che lo presentò al maestro Guglielmo Vergine, uno dei migliori maestri di canto della città. Quest’ultimo, intuendone il potenziale, accettò di dargli lezioni in cambio del 25% dei proventi che il tenore avrebbe guadagnato nei successivi cinque anni. Per il giovane venne poi la chiamata alle armi, ma la fortuna volle che un suo ufficiale, maggiore Nagliati, lo ascoltasse cantare in caserma. Rimanendo colpito dalla sua voce, non solo gli propose di andare a lezione dal suo amico barone Costa, ma fece anche in modo che il fratello di Enrico, Giovanni, lo sostituisse sotto le armi (la legge allora lo permetteva)!

 

Talento, professionalità e dedizione permisero a Caruso di debuttare nel marzo 

del 1895, di farsi conoscere in Italia e di iniziare ad apparire sui giornali


Riuscì anche ad avere un’esperienza all’estero, percependo 600 lire per un mese di lavoro al Cairo. In quel periodo Caruso ebbe modo di conoscere direttamente il Maestro Puccini, che lo invitò nella sua casa di Torre del Lago. Il compositore stesso accompagnò Caruso al pianoforte e durante la romanza di Rodolfo, esclamò la famosa frase: “Chi t’ha mandato, Dio?”. 

Fu proprio in quegli anni che iniziò una relazione con il soprano fiorentino Ada Botti Giachetti, per quanto già sposata e madre di un bambino, dalla quale ebbe poi due figli, Enrico jr. e Rodolfo. Per lei più avanti comprò Villa Bellosguardo a Lastra a Signa (presso Firenze, tuttora sede di un museo a lui dedicato). La loro unione finì undici anni dopo in tribunale, perché Ada lo lasciò per fuggire con l’autista. La coppia cercò anche di estorcere denaro al tenore.

 

Oltre all’Italia, Caruso iniziò a esibirsi all’estero con tournée in Russia, 

a Lisbona, a Londra e a Buenos Aires. Aveva preso quota,

 

erano finiti i tempi dei localini di un tempo, ora in Italia cantava alla Scala di Milano, all’Opera di Roma, al Massimo di Palermo e al San Carlo di Napoli. Fu proprio qui, secondo la leggenda, che durante l’interpretazione de L’elisir d’amore nel dicembre 1901 si fosse così emozionato da aver subito delle incertezze canore; la protesta eccessivamente severa dei suoi concittadini e le critiche sui giornali gli fecero giurare di non cantare più nella sua città: sarebbe tornato solo per “vedere la mia cara mamma e mangiare i vermicelli alle vongole”. E così fu: un giuramento che Caruso manterrà per tutta la vita. Era pronto invece a cogliere il grande successo che lo attendeva oltreoceano. 

Nel marzo del 1903, grazie al banchiere italiano residente a New York Claudio Simonelli, Caruso riuscì ad ottenere un eccezionale contratto con il Metropolitan Opera House. Simonelli, dopo lunghe trattative con il nuovo direttore Henrich Conried, era infatti riuscito a fargli accettare tutte le condizioni richieste dal tenore.

 

Il 23 novembre Caruso debuttò in un Metropolitan sfarzoso e brillante di luci. 

In cartellone la sua opera preferita, Rigoletto.

 

Il pubblico era composto da alta società e giornalisti, Caruso era pronto e perfettamente all’altezza, ma la grande emozione lo fece muovere in maniera maldestra, tanto che ruppe il ventaglio del soprano Helen Mapleson. La serata non raggiunse picchi particolari di ammirazione, ma neanche di critica e risultò una serata “media”, come tante altre. La stampa comunque fu benevola, il New York Times mise in rilievo l’espressione e la flessibilità della sua voce, così come l’intelligenza e la passione sia nel canto che nella gestualità, mentre il Sun si rallegrava di come il nuovo tenore non mostrasse traccia del “tipico belato italiano” e faceva notare che Caruso era oltretutto un uomo piacente!

 

Al Rigoletto seguirono AidaToscaBohemePagliacciLuciaTraviataElisir d’amore, per complessive 29 recite in cui Caruso era sempre intento a reggere 

e superare il confronto con Jean de Reszke, il tenore stabile del Metropolitan.


Era oltretutto un uomo affascinante e il pubblico femminile ne rimaneva ammaliato. Queste 29 serate furono le prime delle 607 realizzate per il Metropolitan, in ben diciassette stagioni. 

Le rappresentazioni divennero sempre più veri e propri trionfi, la sua voce era considerata straordinaria. Durante un’esibizione il 5 dicembre lo straordinario successo fu sottolineato anche dall’inusuale gesto del soprano Marcella Sembrich, che raccolse uno dei fiori presenti sul palco e lo porse a Caruso. 

Il tenore fu il primo ad incidere dei dischi sin dal 1902, e fu proprio questo supporto a contribuire alla divulgazione del mito. Oltretutto riuscì a vendere un milione di copie, diffondendo musica napoletana e operistica in tutti i continenti. E questo senza tralasciare l’impulso che le incisioni diedero all’aumento di ingaggi e cachet…

 

Nel 1910, diretto da Arturo Toscanini, Caruso cantò nella prima mondiale della Fanciulla del West di Giacomo Puccini. Era ormai diventato 

il tenore più importante e famoso al mondo.

 

L’organizzazione di stampo mafioso La Mano Nera, con ramificazioni in Sicilia, tentò di estorcergli del denaro, sotto minaccia di morte. Caruso non cedette al ricatto e si affidò al poliziotto Joe Petrosino, che riuscì a far arrestare due dei tre delinquenti (e, grazie alle indagini, qualche anno dopo, anche due importanti capi della mafia newyorkese). Il tenore, alle estorsioni preferiva la beneficenza, soprattutto se riguardava gli immigrati italiani. Diede un concerto di beneficenza anche dopo l’affondamento del Titanic, a metà aprile 1912, e durante la I Guerra mondiale tenne concerti per i soldati.

 

Fino al 1920 la vita di Caruso era organizzata in base alle stagioni al Metropolitan, 

alle incisioni discografiche, e ogni anno dalla primavera all’inizio dell’autunno 

era in Europa (almeno fino allo scoppio della guerra), 

ritagliandosi un mese estivo di vacanza italiana.

 

Durante le prove del Sansone e Dalila al Metropolitan crollò una scenografia in cartapesta, colpendo il tenore ad un fianco e fratturandogli le costole. Rimase sempre il dubbio se fosse un disgraziato evento del destino o un atto criminale. Le conseguenze dell’infortunio gli procurarono poi un’emorragia durante una rappresentazione che venne interrotta. Il 25 dicembre del 1920, mentre si trovava a Sorrento, il cantante lamentò forti dolori, che furono diagnosticati dai medici come pleurite infetta. Fu operato il giorno prima di capodanno.   

 

Tornato in America, Caruso abbandonò le scene perché le sue condizioni erano particolarmente gravi. Decise poi di voler terminare i propri giorni a Napoli e con la moglie Dorothy (sposata nell’agosto del 1918), la figlioletta Gloria e il fratello Giovanni fece rientro in Italia. 

Morì nella sua città, al Grand Hotel Vesuvio, il 2 agosto 1921.In occasione del centenario della morte, nell’abitazione dove nacque il cantante, è stato inaugurato il Museo Casa Natale Enrico Caruso.

 

Il tenore era estremamente legato a Napoli, la napoletanità rimase impressa 

nella sua indole, nel suo carattere e temperamento fino alla morte.

 

Gli piaceva avere intorno napoletani, sia che fossero amici, collaboratori o colleghi. E questo perché lui stesso si sentì sempre profondamente napoletano, anche se il rapporto con la città fu caratterizzato da un’ambivalenza di struggimento e scetticismo. 

Alcune delle canzoni napoletane incise da Caruso furono ideate e realizzate a New York, all’interno della comunità italiana, non a Napoli, come Core ‘Ngrato (scritta e musicata appositamente per lui), Tarantella sincera, Scordame, Sultanto a te, I’m’ arricordo ‘e Napule, ultima canzone incisa da Caruso nel 1920. Il 20 marzo 1916 aveva invece inciso la canzone Tiempo antico, scritta e musicata da lui stesso, una sorta di sfogo, di liberazione del suo amore per Ada perduto nel tempo. 

Caruso fu in tutto e per tutto un italiano d’America, negli atteggiamenti, nell’allegria, nella passione, che lo portarono ad essere in tutto il mondo un vero, grande mito italiano.

 

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LECCE UNA MATTINA DI AGOSTO di Gianluca Anglana numero 26 ottobre novembre 2022 Ed. Maurizio Conte

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LECCE UNA MATTINA DI AGOSTO

 

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Palazzo Giaconia

 

«Mangiami»: mi implora il pasticciotto dalla teca in cui è imprigionato. Con lui altri galeotti, nell’attesa che qualcuno li scelga e si decida a liberarli. E a divorarli. Il piccolo bar, a pochi passi dalla Chiesa Greca, brilla all’esterno di un bagliore accecante: la sua unica sala interna è fresca e buia, come l’antro di una sibilla. Il cameriere napoletano scivola svelto sulla strada, così scintillante e linda che non lo crederesti.

 

Nel caleidoscopio della vacanza, anche i luoghi familiari si ammantano di novità, si illuminano di un inedito riverbero.

La luce che piove dal cielo blu aragonite accende la pietra leccese: vicoli stretti 

come budelli, in cui sciamano turisti e lavoratori in pause furtive.


In lontananza, un violoncello e un contrabbasso piangono lacrime di musica argentina.
Pouilles, Italie: qualche sedia più in là, alle ultime propaggini del dehors, due francesi consultano la loro Lonely Planet con una pensosità così grave da sembrare assorti nella lettura di un trattato sulla pietra filosofale.   

 

Dal mio tavolino, su cui il pasticciotto evaso e un caffè salentino pazientano come una natura morta, osservo la mia bicicletta appoggiata al muro di fronte. Sarà il mio ronzino, alla scoperta di nuovi quartieri in apparenza trascurabili, sciatti, sopra i quali si distende l’ombra lunga delle sedi del potere: gli uffici giudiziari sono a portata di lancia, mulini a vento da cui guardarsi e tenersi a distanza. Il Comando provinciale della Guardia di Finanza sorveglia la piazzetta dove ho scelto di arrivare: 

 

qui è la chiesa che avrei voluto visitare. E che invece resterà chiusa 

per tutto il mese di agosto,

 

sentenzia uno sbrigativo cartiglio incollato al portale come un qualunque avviso a una bacheca comunale. Disappunto. Un nulla di fatto in cui inciampo dopo avere accolto il suggerimento di

 

una signora gentile, dai capelli rosa e da un altrettanto inatteso accento barese: 

«vada a vedere la chiesa di San Francesco da Paola, 

dentro è bella quanto Santa Croce» mi esorta, 


sorprendendomi nel ventre tortuoso del centro storico, con il naso all’insù a osservare la facciata austera di un antico monastero benedettino, e sfoggiando un sorriso complice. Un incontro casuale, un dialogo cordiale e foriero di buonumore. Dopotutto, cos’altro è la vita se non un dedalo di giravolte di un’antica città dalle radici messapiche, grani di sale che ci nevicano addosso sotto forma di imprevisti?

 

Se le porte della casa del Signore sono sbarrate, 

sono aperte quelle di Palazzo Giaconìa

 

La sua facciata sonnecchia sobria di fronte alla caserma e guarda con noncuranza al viavai dei finanzieri sulla piazza. Ha il nome di Angelo Giaconìa, vescovo di Castro, che nel 1546 iniziò a erigere per sé una dimora signorile approfittando delle nuove possibilità dischiusesi con la revisione urbanistica di Lecce nella prima metà del sedicesimo secolo.

E sì che il palazzo eredita il suo nome da un presule, ma deve i suoi fastosi giardini 

a un sindaco, Vincenzo Prioli, che lo acquistò alla fine del Cinquecento:


sua l’idea di un parco privato, che volle ingentilire con elementi decorativi, impluvi e reperti strappati alla terra negli scavi aperti a Lecce e Rudiae. Dopo la sua morte, la residenza passò di mano in mano: ai Carignani duchi di Novoli, prima; ai Lopez y Royo duchi di Taurisano, poi. Una catena interrotta solo all’alba del ventesimo secolo, quando un decreto prefettizio assegnò l’edificio a un istituto assistenziale. Della primitiva vastità del giardino, limitato dalle mura urbiche, così come della vegetazione originaria resta poco, ma quanto basta per lasciarsi accarezzare dalla brezza dei sogni.

 

Il profilo alto delle palme, che svettano come comari curiose di vedere cosa accade 

al di là della cinta muraria, dona alla villa un aspetto vagamente moresco, 

un’allure pressoché mediorientale.

 

Pareti inghiottite da rigogliosi rampicanti, cipressi, cespugli, un’antica pianta di alloro: tutti si lasciano ammirare da un camminamento rialzato, abbellito da un pergolato e da colonne seicentesche. Lungo questo breve tragitto sul ciglio delle mura, mi disfaccio della fretta, l’espressione di distaccato sospetto propria delle sentinelle e di chi diffida degli inganni della contemporaneità. Dall’alto si vede la città pulsare: il rumore del traffico si sfarina in un ronzio lontano, gli affanni si stemperano, le accuse al presente di tradimento e al futuro di latitanza precipitano giù, dall’orlo dei bastioni. Nel caleidoscopio della vacanza, quando si è più vicini al cielo di qui, i nodi si allentano, le voci di troppo tacciono.   

 

È ora di andare.

 

Uno sguardo ancora al bassorilievo che è accanto all’ingresso e che si attribuisce 

a Gabriele Riccardi, tra i massimi architetti del rinascimento salentino: 

il Trionfo di David. C’è bisogno di trionfi, dell’alloro che li celebri, 

di palme giganti da scalare per rimpicciolire il mondo, 

di segnali di ottimismo, per lo meno dall’arte, 

in un periodo come il nostro che ne è avaro.

 

Mentre sorrido a una turista americana e alla sua gioia di trovarsi lì, vado a recuperare il mio ronzino. È ora di andare. Alla scoperta di altri luoghi dimenticati, di altre fantasie da nutrire, di altre emozioni da cui lasciarsi cullare

 

 

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