CRONISTA D’ECCEZIONE: QUASIMODO ALL’AJA 1948 di Carlo Curti Gialdino – Numero 8 – Luglio 2017

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CRONISTA D’ECCEZIONE: QUASIMODO ALL’AJA 1948

 

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I fotografi di tutte le agenzie giornalistiche del mondo facevano scattare gli obiettivi delle loro macchine. Ero accanto a Churchill, all’uomo della guerra, io italiano. Non l’ho saputo ringraziare, io europeo, che sogna un’Europa veramente unita, senza discorsi preliminari, dove ad ogni parola, s’ode il rumore d’uno scoppio lontano, d’un nuovo scoppio che potrebbe bruciare perfino le acque della terra”[1].

 

 
Così Salvatore Quasimodo (Modica, 20 agosto 1901 – Napoli,
14 giugno 1968) chiude la breve, seppur intensa, testimonianza 
della sua partecipazione ad una iniziativa di tutto rilievo fra le
molteplici che hanno contribuito alla nascita della collaborazione
fra gli Stati europei, dopo il secondo conflitto mondiale 
e nel pieno della guerra fredda.
 
Ci si riferisce al Congresso dell’Europa, svoltosi a L’Aja dal 7 al 10 maggio 1948[2], presieduto da Winston Churchill ed ospitato nella sede del Parlamento olandese. Il congresso, che fu definito dal federalista francese Alexandre Marc gli États généraux de l’Europe, aveva l’obiettivo di dimostrare che esisteva una corrente di opinione favorevole all’unità dell’Europa, di discutere dei passi da compiere per realizzarla e di proporre ai governi delle realizzazioni concrete. La salvezza dell’Europa nel 1948, nelle intenzioni degli organizzatori, era vista nella creazione di una federazione degli Stati europei, possibile mediante la creazione d’un organismo internazionale capace di offrire un vasto mercato interno, base d’una solida prosperità; e questo con la ricostruzione tecnica, con la comunità delle risorse, con la divisione dei lavori tra i popoli. Ed in effetti quelle realizzazioni poi ci furono. Tra di esse possiamo ricordare, nell’immediato, la nascita del Consiglio d’Europa nel 1949, associazione di Stati con sede a Strasburgo, che oggi conta 47 membri e la firma a Roma il 4 novembre 1950 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. Agli inizi degli anni Cinquanta seguirono la Dichiarazione del Ministro degli esteri francese Robert Schuman (9 maggio 1950), la conseguente istituzione della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA, Parigi 18 aprile 1951), primo ente sovranazionale europeo, progenitore delle Comunità europee (CEE ed Euratom) istituite, come noto, dai Trattati firmati a Roma il 25 marzo 1957, dai quali è nata l’attuale Unione europea.
 
Al Congresso dell’Aja parteciparono circa 800 personalità: uomini di Stato, parlamentari, religiosi di tutte le confessioni, industriali, dirigenti sindacali, economisti, docenti universitari, scrittori, poeti e artisti.
 
Della delegazione italiana, presieduta da Nicolò Carandini, diplomatico e politico, e composta, tra gli altri, da Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi[3], Giuseppe Ungaretti e Ignazio Silone, fece parte, per l’appunto, Salvatore Quasimodo[4]. Il poeta ci ha lasciato una vivace e salace descrizione dell’incontro nel saggio Europa één, (Europa unita), pubblicato postumo nel volume A colpo omicida ed altri scritti, apparso nel 1977[5].
 
Con occhio tagliente di osservatore critico, Quasimodo inizia rilevando che “pare che tutte le delegazioni italiane ai congressi internazionali arrivino, per tradizione, nel luogo stabilito per gli incontri,
con ventiquattro ore di ritardo”.

 

Ed anche in questo caso gli italiani arrivarono all’Aja alla fine della prima giornata dei lavori quando le “questioni preliminari” erano state regolate, Churchill aveva pronunciato il suo discorso e le presidenze delle commissioni erano state decise. Per arrivare all’Aja, gli italiani, che viaggiavano in treno su una vettura speciale, avevano dovuto superare cinque frontiere (Svizzera, Francia, Lussemburgo, Belgio e Olanda), quelle stesse frontiere che, dalla fine degli anni Novanta, dopo gli accordi di Schengen, non prevedono più la visita doganale dei viaggiatori. Quasimodo, a beneficio del lettore, ricorda che L’Aja (Den Haag in olandese) deve il suo nome alla Haghe, l’antico terreno di caccia del conte Guglielmo II di Olanda che fece costruire in questi luoghi, nel 1280, il castello ‘s-Gravenhage (L’Aja dei Conti). Nella Sala dei Cavalieri (Ridderzaal) si svolsero le sedute plenarie del Congresso. Con molta ironia, se non sarcasmo, Quasimodo ricostruisce i primi incontri della delegazione italiana con gli altri congressisti: in un albergo di Scheveningen, che è la spiaggia dell’Aja, in cui gli olandesi si difendono dal forte vento “stando seduti sulla sabbia dentro un curioso riparo di vimini, rannicchiati in una specie di culla verticale” e dove ancora oggi il turista ammirato non può sottrarsi al richiamo sorprendente dei rosseggianti tramonti sul Mare del Nord. Ma quella sera l’attenzione degli ospiti riuniti presso il grande salone dell’albergo ristorante “Kurhaus” fu tutta per la delegazione italiana che, essendo anche in questa circostanza giunta in ritardo, “per ragioni di orientamento” (sic!) ed essendo tutti i tavoli occupati, fu fatta accomodare sul palco; il che provocò un lungo applauso dei congressisti, convinti che fossero entrati Churchill o l’Altezza Reale Giuliana… Nella cena offerta, in cui la pastasciutta o la bistecca ai ferri, annota Quasimodo, “erano lontane esattamente ventotto ore di ‘Express’” ed il calice di vino era a pagamento (250 lire di allora, che, rivalutate, corrispondono agli odierni 3,67 euro), le sigarette, confezionate per l’occasione, erano gratuite.

 

Quasimodo partecipò ai lavori della commissione culturale,
presieduta dallo spagnolo Salvador de Madariaga[6], che propose
un Centro europeo della cultura, poi istituito nel 1949 a Ginevra
ed un progetto 
di una università europea, che fu poi alla base
del Collège d’Europe di Bruges, una istituzione post-universitaria
pure creata nel 1949 e divenuta rapidamente un noto centro
di formazione per la futura classe dirigente europea.

 

Quasimodo stronca il discorso di de Madariaga in plenaria, definito “gonfio e retorico, degno di un collaboratore d’una di quelle riviste letterarie che vedono la luce in ogni provincia degli Stati europei”. Ricorda, pure, che l’unico emendamento che la delegazione italiana riuscì a far approvare fu “accessorio, di carattere linguistico: la sostituzione d’un ‘europeo’ al posto d’un ‘occidentale’” e commenta, con le parole del Petrarca, “Italia mia, benché il parlar sia indarno…”. La seduta finale del Congresso si svolse ad Amsterdam nel corso di una grande riunione pubblica sulla piazza antistante il Palazzo reale. Quasimodo ricorda il risuonare dell’inno per l’Europa Unita (Europe united, Europe Unie, Europe èèn), con testo del poeta olandese H. Joosteen e musica del Maestro Louis Noiret, anch’egli olandese e lo sventolio di bandiere bianche con la E di Europa in rosso (vessillo allora del Movimento europeo, disegnata da Duncan Sandys, genero di Churchill, che poi, dopo la riunione dell’Aja[7], pretese che la E fosse colorata di verde). “Addio Amsterdam: il ritorno fu una corsa verso la stazione”. Il bilancio è amaro. Le parole di Quasimodo, che siamo abituati a conoscere quale poeta del dolore umano, sembrano indicare un atteggiamento di sfiducia verso le troppe parole roboanti e le poche conclusioni interessanti. Avrebbe, il poeta, preferito una visita alla città della pinacoteca e dei quattrocento ponti, dei settanta musei e delle due università, piuttosto che restare imprigionato al calar del sole nella ricordata piazza prospiciente il palazzo reale per una cerimonia sfiancante nel susseguirsi di discorsi non sempre pregnanti. Forse troppo provati, alcuni intellettuali, dalle vicende belliche, per coltivare la speranza. L’unico che sembra aver lasciato un segno nell’animo dello scrittore è proprio Churchill, “l’uomo della guerra”, per quel senso di gratitudine e riconoscenza che ogni uomo dell’epoca, ancora intimorito dallo spettro di una pace non duratura, era incline a tributargli. Settant’anni sono passati. La bandiera e l’inno dell’Unione europea non sono più quelli del Congresso dell’Aja del 1948. Sono stati sostituiti, rispettivamente, dalle 12 stelle dorate in campo azzurro e dall’Inno alla gioia della Nona sinfonia di Beethoven[8]. 

 

E, tuttavia, pur tra molte difficoltà e crisi ricorrenti, l’unità dei governi e dei popoli europei ci ha assicurato, dal 1945 ad oggi, il periodo di pace più lungo di sempre nella storia della nostra Europa. Non è poco. Occorre non dimenticarlo mai e ricordarlo sempre
alle nuove generazioni.

 

 

 

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 [1] S. Quasimodo, Europa een, in “A colpo omicida” e altri scritti, a cura di G. Finzi, A. Mondadori, 1977, p.61. [2] A. Varsori, Il Congresso dell’Europa dell’Aia, 7-10 maggio 1948, in Storia contemporanea, rivista trimestrale di studi storici, 1990, n. 3, pp. 463-493; J-M- Guieu & C. Le Dréau (dir.), Le “Congrés de l’Europe” à La Haye (1948-2008), P.I.E. Peter Lang, Bruxelles, 2009. 

 

[3] A. Spinelli, E. Rossi, Per un’Europa libera ed unita progetto d’un manifesto, più noto come Manifesto di Ventotene, scritto nell’inverno 1941 e pubblicato in edizione clandestina nel 1944, con prefazione di E. Colorni con il titolo Problemi della Federazione europea. [4] S. Paoli, The Italian Delegation to the Hague “Congress of Europe”, in J-M- Guieu & C. Le Dréau (dir.), op. cit., pp. 211-222. [5] S. Quasimodo, op. cit., pp. 51-61.

 

[6] La presidenza era stata originariamente offerta a Benedetto Croce, che rinunciò adducendo motivi di salute (S. Paoli, op. cit., pp. 214-215). [7] Riferisce R. Harmignies, Le drapeau européen, in Vexilla Belgica, n. 7, p. 77 che “Malheuresement, lorsque la cérémonie s’ouvrit au Binnehof et n’y avait pas un souffle de vent, tous les drapeaux pendaient mollement le long des hampes, formant ainsi un véritable mer rouge. Le viex Churchill vit rouge égalemen et Mr Sandys fut instamment prié de choisir un autre couleur pour l’emblème de son Mouvement!”. [8] C. Curti Gialdino, I Simboli dell’Unione europea. BandieraInno – Motto – MonetaGiornata, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, Roma, 2005. 

 

 

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