IL CERVO SARDO. UN’ECCELLENZA ITALIANA di Giuliano Milana numero 33 luglio agosto 2025 editore maurizio conte

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IL CERVO SARDO. UN’ECCELLENZA ITALIANA

 

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Questo animale, con la sua eleganza e maestosità, rappresenta un’eccellenza italiana, testimonianza di una natura selvaggia e incontaminata che merita di essere conservata e valorizzata.

Nel suo libro L’ultimo cervo, Augusto Murgia scriveva:

 

«[…] l’ultimo l’abbiamo ucciso nel ‘38, Congera Piga ed io; esattamente quel giovedì…».[…] «Turchineddu» nel suo inconfondibile latrato, annuncia che la bestia c’è. Non si tratta di cinghiale, che il suo abbaiare sarebbe ben più rabbioso; e neppure di muflone, perché i suoi guaiti sarebbero molto più staccati, in quanto la velocità delle bestie lo impegnerebbe troppo. Evidentemente il cagnetto abbaia ad un animale fermo e col quale deve avere poca familiarità, a giudicare dai suoi ululati sordi e nervosi. 

[…] Ed ecco che un secco «colpo» di polvere «bianca» rintrona nell’aria, diffondendo nel bosco una sinistra eco di morte e nel cuore dei battitori la speranza di un buon bottino. 

Ma Turchineddu, dopo aver taciuto per un po’, si riode dalla svolta di una collina e pare che la sua voce venga da una zona fuori battuta. […] Ma un boato cupo e prolungato di polvere «nera» si ode in quel mentre a ridare a tutti la fiducia perduta. Non v’era dubbio: zio Loriga aveva chiuso la partita!

 

Così il Cervo sardo scompariva dai monti della Barbagia e, probabilmente, da molte altre aree della Sardegna. Negli anni ’50 e ’60 del ‘900 infatti, sull’isola, la popolazione di questo ungulato toccò i minimi storici, ne sopravvivevano circa 200, mentre in Corsica, nel 1969, la specie veniva dichiarata definitivamente estinta.   

 

Ma qual è la storia di questa specie (o sottospecie) e quali sono le sue vere origini? Descritto originariamente come un endemita sardo/corso (Cervus corsicanus) successivamente viene “declassato” a sottospecie del cervo europeo (C. e. corsicanus). 

Da allora il Cervo sardo è stato quindi considerato come un taxon introdotto in “tempi storici” (parautoctono), sia in Sardegna che in Corsica, presumibilmente già dall’inizio del Neolitico circa 8000 anni fa.

 

Il suo arrivo sulle due isole verrebbe giustificato dall’interesse che, da sempre, 

questa specie carismatica ed iconica ha suscitato nell’uomo, 

sia dal punto di vista strettamente utilitaristico, 

sia dal punto di vista sacro-rituale.


Va anche sottolineato come non sia l’unica specie ad aver vissuto queste vicissitudini. Di fatto tutta la mammalofauna terrestre attualmente presente in Sardegna è frutto di introduzioni in tempi storici. In merito all’origine dei cervi le teorie, nel corso del tempo, sono state diverse ma, recentemente, grazie a studi di genetica (mtDNA) condotti su campioni di tessuti subfossili comparati con campioni attuali, si è giunti a nuove ed importati conclusioni. I risultati delle indagini molecolari stabiliscono che C. e. corsicanus era, con molta probabilità, originariamente presente nella penisola italiana. Questo dimostra quindi che esistevano due popolazioni di cervi autoctone e geneticamente distinte nell’Italia continentale: una che abitava la regione settentrionale, il cervo della Mesola (C. e. italicus), l’altra la regione centro-meridionale, per l’appunto C. e.
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Cervo di taglia più piccola rispetto ai “continentali”, con un’altezza alla spalla di 75–90 cm per le femmine e 80-110 cm per maschi; di aspetto robusto e con gambe più corte; mediamente la lunghezza è di 175-185 cm per i maschi e 160 cm per le femmine, mentre il peso degli adulti va dai 70/80 kg nelle femmine ai 105-120 kg nei maschi.

Sebbene i cervidi possano cambiare le loro dimensioni corporee rapidamente 

come risposta all’insularità, confrontando le antiche rappresentazioni 

dell’arte sarda si intuisce che tali caratteristiche morfologiche 

erano già presenti durante l’età del bronzo.

 

I palchi sono più piccoli rispetto a Cervus elaphus, sono lunghi mediamente 65 cm e pesano circa 550 g nei maschi adulti. Le stanghe hanno in genere solo 3 punte, sebbene siano noti palchi con 12 punte, lunghi fino a 77 cm e con un peso di 1,1 Kg; le ramificazioni risultano più semplici, si hanno generalmente 4 o 6 punte contro le 16 – 24 del cervo europeo. L’ago e la corona sono generalmente assenti, mentre la parte terminale della stanga presenta una formazione allargata e tendente ad appiattirsi, fino a conferire una forma finale a forcella. Altra peculiarità che caratterizza la specie è il manto scuro, soprattutto durante l’inverno. Il Cervo sardo è dai più considerato una sottospecie del cervo nobile, ma diversi tassonomi seguono la revisione di Groves e Grubb del 2011 che ritiene più idoneo considerarlo una specie a se stante.   

 

Quali sono state le cause che hanno portato alla rarefazione della specie sulle due isole? 

I motivi del declino sono da ricondursi principalmente alla drastica diminuzione delle aree forestali, alla frammentazione del territorio, all’aumento del numero degli incendi, ad una caccia non pianificata ed alla competizione nell’utilizzo delle risorse naturali con l’agricoltura e l’allevamento. Alla fine degli anni Sessanta fu quindi inserito nella Lista rossa IUCN

 

L’estinzione della specie dalla Corsica risvegliò le coscienze e, per merito 

di campagne di conservazione portate avanti dall’Ente Foreste Sardegna 

(oggi Forestas) e dal WWF, la popolazione isolana 

tornò a crescere costantemente


Nel 2015 venivano stimati oltre 8000 individui, saliti nel 2018 (ultimo dato attualmente disponibile) ad un numero compreso tra i 10.000 e gli 11.000 individui. Successivamente, grazie ad individui provenienti dalla Sardegna, i cervi sono tornati anche in Corsica. Attualmente, proprio in virtù degli sforzi fatti e del nuovo contesto ambientale, favorevole agli ungulati, venutosi a creare, le popolazioni presenti sulle due isole sono in costante crescita ma, nei fatti, non è stato stabilito o teorizzato alcun limite massimo a tale crescita. 

 

(Continua)

 

 

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La fauna italiana vanta una biodiversità straordinaria, con specie uniche come il cervo sardo, simbolo di un patrimonio naturale di inestimabile valore. .

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Tex Willer abitava in Sardegna di Gloria Salazar numero 33 luglio agosto 2025 editore maurizio conte

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TEX WILLER ABITAVA IN SARDEGNA

 

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Questo “lontano ovest” è il Sulcis Iglesiente, subregione sarda che è la propaggine occidentale della Nazione più distante dallo Stivale..

È una parte dell’isola non di passaggio, dove non si capita per caso.


Una Sardegna “segreta” che, sebbene sia dotata di immense e magnifiche spiagge sabbiose, è rimasta fuori dalle rotte balneari sarde e quindi al riparo dal turismo di massa. 

 

Fulco Pratesi molti anni fa nella sua Guida alla natura della Sardegna definì la costa iglesiente “forse la più bella delle seppur bellissime coste italiane”. 

 

Fortunatamente questa considerazione, malgrado sia passato mezzo secolo, può essere valida, ed a maggior ragione, ancora ai giorni nostri. 

 

L’isolamento ha fatto sì, infatti, che al contrario di molte altre splendide aree costiere, sia sarde che peninsulari, questo tratto di territorio sia stato totalmente preservato dalla speculazione edilizia e sia tuttora 

 

uno dei luoghi naturalisticamente intatti, più estesi e spettacolari del nostro Paese. 

Un “paradiso terrestre”, come lo videro e descrissero alla fine del XIX secolo 

D’Annunzio e Scarfoglio

 

in un articolo a doppia firma apparso sulla rivista Cronaca bizantina.  

 

È stato l’illustratore Aurelio Galleppini (in arte Galep) a creare un legame ideale tra il Sud Ovest degli Stati Uniti ed il Sud Ovest della Sardegna.  

 

Galleppini, che apparteneva ad una famiglia originaria della zona e quindi la conosceva bene, se ne avvalse, e non a caso, come fonte di ispirazione per creare l’ambientazione texana di uno dei fumetti italiani più famosi e longevi: Tex Willer. 

 

L’inviolato paesaggio iglesiente con la varietà dei suoi panorami infatti ben si presta: addentrandosi nell’interno lo sguardo vaga a perdita d’occhio su distese disabitate ed incontaminate.

 

Praterie e montagne, guglie rocciose, profondi canyon, brulli altipiani colonizzati dalla macchia mediterranea, strade sterrate, piccoli deserti e altissime dune sabbiose 

che appaiono all’improvviso in mezzo a foreste di sughere e pinete. 


Un continuo e mutevole susseguirsi di vedute da Old Wild West, e non mancano i fichi d’india. 

 

D’altronde anche il paese di San Salvatore di Sinis, più a nord, nell’oristanese, fu scelto negli anni ‘60 come set di uno “spaghetti western” – Giarrettiera Colt – amato perfino da Quentin Tarantino. 

 

Oggi questi contesti ricordano ancor più ciò che nell’immaginario collettivo è il “West” cinematografico, per i resti dei siti minerari di quello che fino a pochi anni fa fu uno dei poli estrattivi più vasti ed importanti d’Italia. Un’altra analogia con l’America Nord-occidentale, che negli stessi anni del XIX secolo visse l’epopea della “corsa all’oro”. 

 

Le miniere del Sulcis Iglesiente attualmente fruibili, e spesso trasformate in complessi museali, sono innumerevoli ed assicurano scorci sempre diversi e sorprendenti; come lo scenografico Porto Flavia, un approdo minerario “sospeso nel vuoto”, a metà di un costone strapiombante sul mare. Località che fanno parte del Parco Geominerario Storico e Ambientale della Sardegna, di grande interesse per gli appassionati di archeologia industriale, speleologia (nell’area mineraria di San Giovanni si trova la grotta di Santa Barbara, la più antica d’Italia) e non solo; con scenari che evocano, appunto, atmosfere pionieristiche.  

 

Lungo la statale 130 che da Iglesias porta al mare, una montagna di terra rossa, residuo di una delle tante miniere dismesse del circondario, la miniera di Monteponi, fa pensare all’Arizona. Suggestioni da Mezzogiorno di fuoco sono anche quelle offerte dal villaggio minerario Asproni, un piccolo e sperduto borgo “fantasma”, come se ne incontrano vari nei dintorni. 

 

Sembra un 

 

deserto da film western, poco più a settentrione nel Medio Campidano, 

quello in cui si trovano i ruderi delle suggestive architetture minerarie 

di Ingurtosu e Piscinas, immerse in un silenzio irreale, 


dove ci si imbatte in antichi carrelli ferroviari di carico abbandonati nella sabbia sollevata dal vento. 

 

Visioni, queste, che trasportano il visitatore in una dimensione onirica, ma che invece è reale, e senza bisogno di andare oltreoceano. È il nostro Far West. Ed in più sullo sfondo c’è il mare.

 

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e precisamente in Sardegna, che è geograficamente, ma non solo, il nostro “Far West”. 

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 Foto di Gloria Salazar

 

Gli abeti bianchi del Pollino tra i riti arborei e il cinema di Saverio De Marco Numero 33 luglio agosto 2025 editore Maurizio Conte

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In località Piano di San Francesco, un tratto di sentiero porta ad un affaccio 

su alcuni abeti monumentali, alti e colossali, tra cui un esemplare 

con una circonferenza di 7 metri a terra e stimato 500 anni di età.

 

Più sotto, davanti ad una fontana è presente una piccola statuina di San Francesco di Paola, santo legato indirettamente a questa specie arborea.

 

Cosa c’entra San Francesco? L’abete bianco è legato anche ad una dimensione sacraleed etno-antropologica. L’abete entra a far parte infatti dei riti arborei del Pollino, tipiche feste pagane di primavera, originariamente volte alla celebrazione della fecondità e della fertilità della terra e legate perciò ad una sorta di simbologia del matrimonio degli alberi, dove l’abete bianco rappresenta l’elemento femminile sempreverde e il faggio l’elemento maschile. Tali rituali pagani sono associati alle feste dei santi.

La Chiesa cattolica, non riuscendo a sradicarli, per controllarli vi sovrapponeva 

la festività cattolica: ne deriva pertanto una festività sincretica, dove tuttavia

 l’elemento pagano precristiano e quello cristiano 

si giustappongono senza fondersi.


Tali rituali comportano un “dramma cerimoniale” in cuitrovano spazio canti, musiche, esultanza, soste dei cortei, accompagnati da “allegri conviti” con abbondanza di cibo e grandi bevute di vino. Con “l’albero della cuccagna” eretto nella piazza e abbellito di doni, subentra una grande festa di popolo, caratterizzata anche da prove di destrezza acrobatica. Lo stesso “viaggio” dei tronchi dalla montagna al paese diventa una sorta di dramma per la difficoltà del trasporto e il rischio di incidenti, a volte accorsi (V. Lanternari 1977).

I riti arborei del Pollino sono momenti fondamentali per l’identità delle comunità locali 

e vi partecipano tutt’oggi anche numerosi giovani.

 

Molti sono gli emigrati che tornano in paeseper partecipare alla festa. Possiamo prendere come esempio la festa di Sant’Antonio diPadova a Rotonda, una delle più rappresentative del territorio del Pollino. In questo ritualelapitaè il faggio e l’abete larocca.Una volta anche il maschio era un abete, di cui vieneconservato il nome (la pita appunto). Il compito di tagliare e trasportare a valle i due alberiè affidato a due squadre diverse. Nella notte dell’8e del 9 giugno, i roccaioli raggiungono i boschi di Terranova di Pollino, tagliando una pianta di modeste dimensioni di abete, che rappresenterà appunto la cima. Nella stessa notte i pitaioli raggiungono la zona di Piano Pedarreto, nel comune di Rotonda, per abbattere un faggio prescelto di grandi dimensioni,che viene poi squadrato e lavorato con l’ascia. L’11giugno la pita viene trainata da una decina di coppie di buoi (paricchi). A Pedarreto, dalla foresta di faggio e abete bianco giunge anche la rocca e insieme, sebbene trasportati da gruppi separati iniziano il breve viaggio che li porterà nella piazza del paese, dove verrà innalzato il grande “albero della cuccagna”, frutto dell’unione “artificiale” tra il faggio e l’abete.

 

A Viggianello la sagra dell’abete è legata a San Francesco di Paola, a Terranova di Pollino a Sant’Antonio. Nel Pollino calabrese va menzionato poi il rito arboreo di Alessandria del Carretto, che il grande regista Vittorio De Seta filmò nel 1959. De Seta ne parla come una”sagra antica e meravigliosa”, con cui il paese celebra l’inizio della bella stagione

 

Nel documentario, all’alba un gruppo di uomini si dirige verso la montagna 

e i “maestri d’ascia” abbattono un alto esemplare di abete, 

che successivamente verrà trascinato a valle 

da alessandrini giovani e meno giovani,


accompagnati dalla musica di zampogne e totarelle.Verso l’entrata del paese le donne portano cesti pieni di prodotti tipici per il pranzo. Sempre nel film, giorni dopo viene così celebrata la festa di Sant’Alessandro, patrono del paese e allestito l'”incanto”, dove prodotti tipici e oggetti vari vengono messi all’asta: il ricavato sarà usato per pagare le spese della festa. L’abete viene poi innalzato nel pomeriggio nella piazza del paese, con la cima addobbata di doni come dolci, collane di fichi secchi ecc. Un atletico giovane riesce ad arrampicarsi fino in alto e si appende con le gambe ai rami della cima, a testa in giù, con le braccia aperte, ondeggiando e senza nessuna paura di cadere.

Dopo la conclusione della festa la gente si appresta a tornare verso casa, 

lasciandosi alle spalle i momenti di spensieratezza e allegria.

 

Lo stesso rito di Alessandria del Carretto, che è rimasto quasi intatto nei secoli, è stato filmato da un altro grande regista, Michelangelo Frammartino nel suo capolavoro “Le quattro volte”, premiato a Cannes nel 2010. Iprotagonisti di questo film non sono solo contadini e pastori, ma anche animali, alberi, natura inanimata, ovvero la terra stessa. Come suggerisce la testimonianza di Pitagora nel film, l’uomo è egli stesso tutte queste cose. La “terza volta” del film è rappresentata proprio dalle vicissitudini di un abete bianco, colto nel mutare delle stagioni, il cui destino è legato alla cultura della civiltà agropastorale. Il “senso del sacro” è espresso in questo film soprattutto nella venerazione della natura che caratterizza gli antichi riti arborei.

Ogni essere è legato all’altro, anzi, ogni essere entra a far parte di un altro 

e della sua rispettiva sfera di vita, per poi ritornare alla sua origine: 

efficace ad esempio la scena dell’albero che entra nel camino 

delle abitazioni e ne esce come fumo, espandendosi nell’aria


Quando, dopo che la festa èfinita, l’abete verrà venduto ai carbonai, essi erigeranno una catasta verticale con i suo iceppi, posta al centro della loro arena circolare di legna accatastata. Al centro del cerchio, nell’interstizio della catasta, verrà appiccato il fuoco, con un gesto augurale che vuole in qualche modo “benedire” il risultato del duro e delicato lavoro dei carbonai e “ringraziare” allo stesso tempo il “tutto cosmico”. E alla fine il fumo della legna ritornerà tra gli alberi,confondendosi con la nebbia che aleggia sulla foresta..

 

 

 

 

 

 

 

 

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L’abete bianco, Abies alba, è un’eccellenza botanica caratteristica delle foreste del versante nordorientale del Massiccio del Pollino, dove vive associato al faggio. L’areale di questa specie va dai 1400–ai 1850 metri circa di quota, altitudine oltre la quale dominano il faggio e poi il pino loricato (Pinus leucodermis)

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Il Pianto Romano di Gaia Bay Rossi numero 32 febbraio marzo 2025 editore maurizio conte

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il pianto romano

 

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Salgo su per la collina senza sapere esattamente cosa mi si presenterà davanti.    I cartelli con scritto “Pianto Romano” mi dicono poco e non so neanche il punto esatto in cui mi trovo, se non che sono nella statale 113 della bella ed assolata campagna della provincia di Trapani.

 

Arrivata in cima alla strada di congiunzione con la statale, vedo un imponente obelisco che scopro essere un monumento garibaldino. Fu costruito nel 1885 da Ernesto Basile sulla sommità della collina che fu teatro della battaglia di Calatafimi 

(a poca distanza dal paese stesso), battaglia decisiva 

per le sorti dell’Unità d’Italia.


Questo combattimento fu il primo, avvenuto nel corso della spedizione dei Mille il 15 maggio 1860, nel luogo individuato nelle carte storiche come Pianto Romano, “Chianti di Rumano” (le piante dei Romano) in siciliano. Il nome si trova in antichi documenti del XVII secolo ed indicava i terreni lavorati a vigneti della famiglia dei Romano, di origine ebraica, proveniente da Salemi.   

 

Dalla cima del colle si può osservare molto bene tutto il campo di battaglia. Le parti erano rappresentate da un lato dai garibaldini, con i volontari arrivati da sud dopo aver lasciato Salemi, dove Garibaldi si era proclamato dittatore della Sicilia, dall’altro dai militari dell’esercito delle Due Sicilie, comandati dal generale Francesco Landi, che arrivavano da Alcamo. Garibaldi aveva bisogno di una vittoria per convincere la popolazione locale ad unirsi alla sua truppa, composta principalmente da bergamaschi e genovesi, ma anche da tanti giovani siciliani, denominati “picciotti”. In quel momento in Sicilia c’era un forte malcontento nei confronti dei Borbone, che infatti presidiavano l’isola con 30000 soldati. Il generale decise di inviare i suoi reparti in perlustrazione del territorio. Un distaccamento si era accampato a Calatafimi, per bloccare la strada a Garibaldi
   

La mattina del 15 maggio l’Ottavo Battaglione Cacciatori del maggiore Michele Sforza, una delle migliori unità dell’esercito borbonico, avanzò verso sud in missione esplorativa. I garibaldini erano circa 1500 comandati dal generale Giuseppe Garibaldi, 

mentre i borbonici circa 2000 con al comando il maggiore Sforza.

 

Alle dodici i borbonici si erano sistemati sulla collina del Pianto Romano. I garibaldini sull’altura di fronte. Li separava una profonda vallata. Il maggiore Sforza osservava i garibaldini e decise di fare la prima mossa. L’Ottavo Cacciatori avanzò nella valle, ma qui intervenne il fuoco inaspettato dei carabinieri genovesi. I Cacciatori vacillarono e poi batterono in ritirata, inseguiti dai garibaldini. A quel punto però erano proprio questi a dover scavallare la collina costantemente bersagliati dai nemici. All’una e trenta i garibaldini erano a metà del colle, il momento era particolarmente difficile, al centro un gruppo di soldati borbonici strappò il tricolore ai soldati garibaldini. Si trattava di una bandiera donata a Garibaldi dalle donne uruguaiane durante la sua campagna in quel Paese e che, nello scontro, fu portata via dai nemici. Garibaldi si mise a discutere con i suoi, il luogotenente Nino Bixio suggerì la ritirata. Ma Garibaldi rispose senza incertezze: “Qui si fa l’Italia o si muore”. La battaglia avrebbe deciso il successo o il fallimento della spedizione. A metà pomeriggio i garibaldini arrivarono in cima alla collina e Garibaldi, per incitare i suoi, si schierò con gli altri in prima linea: i suoi uomini avevano bisogno della sua imponente personalità.

 

I borbonici, dopo ore di battaglia, si diedero alla fuga, dirigendosi 
verso Alcamo, e i Mille entrarono a Calatafimi.

 

I corpi dei caduti, inizialmente lasciati sul campo di battaglia, furono poi seppelliti in una fossa comune. Il 27 maggio successivo Garibaldi si sarebbe recato a Palermo dove, dopo tre giorni, il 30 maggio, avrebbe firmato l’armistizio e allontanato i borbonici dalle fortezze.

 

Allora la Sicilia fu finalmente libera, anche se forse 

non lo sarebbe mai stata veramente.  

 

Ma torniamo al Museo di Pianto Romano. Un comitato di abitanti di Calatafimi il 9 settembre dello stesso anno richiese a gran voce la costruzione di un monumento che contenesse i resti dei caduti e fosse anche in memoria della battaglia. Il Basile lo progettò nel 1885, facendo in modo che la facciata dell’ingresso principale assomigliasse al frontone del tempio di Segesta, che si trova a pochi chilometri di distanza. All’interno appare 

 

appare il primo modello plastico storico in Sicilia che rappresenta la battaglia 

di Calatafimi, realizzato dall’artista Gianvito Gassirà. Costruito seguendo 

la tecnica del modellismo di scenari realistici riprodotti in scala, 

lascia stupefatti ed è straordinario vedere la collina

 e la vallata con il percorso dei soldati in miniatura, 

con le loro divise, gli abiti, le loro bandiere 

e con l’aggiunta di tanti particolari 

come vigneti e campi di grano, 

il tutto in circa 4 metri quadri

 

I materiali utilizzati sono gesso, polistirolo, segatura e materiali comuni, come le setole degli spazzoloni per riprodurre i canneti. Per finire, a dare vita all’intera ambientazione, circa 2800 soldatini dipinti a mano. Oltre all’assemblaggio e alla pittura, è stato molto importante il lavoro di ricerca per rendere storicamente accurata la ricostruzione della battaglia. All’interno del monumento di progettazione neoclassica inaugurato nel 1892 sono anche conservati i corpi di parte dei caduti di entrambi gli schieramenti, gli abiti e numerosi quadri e fotografie attinenti a Garibaldi e al suo periodo.   

 

A lato del mausoleo si trova il Viale delle Rimembranze, fiancheggiato da cipressi. Percorriamo tutto il viale e ci troviamo di fronte al campo di battaglia, dove è stata posta una stele nel 1960, in occasione del centenario della battaglia, sulla quale sono scritte le famose parole dette, secondo quanto riporta Cesare Abba, da Garibaldi a Nino Bixio a Calatafimi: “Qui si fa l’Italia o si muore”. 

 

Ferma accanto alla stele, sento arrivare delle biciclette. Sono tre, si fermano 

e uno di loro legge “Qui si fa l’Italia o si muore” e prosegue sarcastico: 

“Era meglio chi muria” (era meglio se moriva).

 

 

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UN UOMO IN PIEDI di Marina Alberghini numero 31 ottobre novembre 2024 Editore Maurizio Conte

Benedisse l’unione la Dea lunare Diana, della natura gioiosa regina delle selve e dei boschi, di quella Natura incomparabile che splendeva nel luogo dove era nata quella magia musicale. Luogo incantato che fu chiamato Partenope, dal nome della Sirena suicida per amore, perché anche l’amore era indispensabile a quell’ alchimia, ne era anzi una componente essenziale, inscindibile

Quel luogo, dove cantavano Mare, Bellezza, Musica e Amore si chiamò in seguito Napoli, ed essendo un dono degli Dei, ammaliò per secoli 

i viaggiatori di ogni Paese,

 

che non potevano sapere che quella bellezza, quel fascino che apparivano nuovi ai loro occhi, erano anche misteriosamente antichi. Perché Napoli è il più sontuoso palinsesto di grandi culture stratificate. 

Di quell’antica bellezza, delle sue fortune poi declinate, tanti hanno parlato, ma alcuni sono stati glorificati in eccesso, altri, con meriti spesso maggiori, sono stati tenuti nell’ombra. Molti i nomi celebrati tra chi parla a sproposito di Napoli, ma quanti conoscono, ad esempio, quello di Giuseppe Marotta, scrittore tra i pochi che compresero pienamente la straordinaria poesia e umanità napoletane? E infatti il suo nome è caduto nel dimenticatoio. Per fortuna, nonostante le scopiazzature, fra gli storici emerge ancora un gigante: Luciano Salera.   

 

Sapevo della lotta del Sud per restare indipendente, il mio nonno napoletano, figlio di un ufficiale borbonico, mi raccontava quello che, secondo lui, aveva combinato Garibaldi, e in seguito anche mio marito, benché fosse bolognese, mi diceva sempre che Garibaldi e compagni avevano, consapevolmente o no, distrutto la più grande civiltà italiana dell’epoca. Poi otto anni a Napoli, dove mio marito era stato chiamato a fondare l’Aeritalia, mi riconfermarono nell’amore per una città incomparabile.

Ma mai avrei pensato di conoscere, incarnato, uno dei maggiori conoscitori 

di quella lotta dimenticata che raccontava nei suoi libri e il cui stile 

non era piatto e noioso come quello degli storici ufficiali, 

ma vivo, splendente e carnale.  


Come conobbi quell’uomo che era fatto di mare e come il mare poteva essere tempestoso e ferire, ma essere anche sereno e brillante delle mille luci del sole?     

 

L’incontro ebbe qualcosa di misteriosamente già previsto e d’altronde io non credo nelle coincidenze ma che tutto abbia un fine nella nostra vita perché guidato da un filo misterioso. Era una sera di ottobre del 2009. Mio marito Giordano, dopo 40 anni di matrimonio felice, da un anno era volato in Cielo e io avevo preferito restare sola nella nostra casa rifiutando di trasferirmi dai parenti. Lavoravo ai miei libri, ma a volte ero molto triste. Specialmente con l’arrivo dell’autunno, in quella sera fiesolana del 29 ottobre, sentivo il vuoto attorno a me.

Ma quella sera si rivelò speciale… Sul grande tavolo antico del salone 

era aperto il quotidiano Il Giornale. Stavo preparando la cena 

e buttai un occhio sulle Lettere dei Lettori. Una mi colpì. 

C’era una tale forza in quella lettera che rivendicava 

le ingiustizie passate di un popolo che era stato 

depredato e colonizzato!


Una forza tale che sentii l’impulso di dire a quella persona che aveva ragione, che la pensavo uguale! Che aveva ragione da vendere! Che io avevo scritto della grande civiltà dei Borboni nel mio libro sul Presepio Napoletano! Una cosa davvero inusitata, perché non sono mai stata propensa a scrivere a sconosciuti. Mai.

Vidi la firma: Luciano Salera, Napoli. Anche qui agì il destino perché, 

se avesse firmato la mail con uno pseudonimo, tutto sarebbe finito lì.


Cercai il telefono nell’elenco abbonati e lo chiamai. La sensazione immediata fu che fossimo due vecchi amici che si erano ritrovati, una sensazione reciproca di felicità. Che iniziò con uno scambio di libri e con lui che mi mandava ricette di cucina napoletana insieme con i ricordi dei nostri cari sposi defunti. Andò avanti per più di dieci anni. Parlavamo di tutto e tutti i giorni in un rapporto fatto di mail e di telefonate che arricchirono la nostra vita.   

 

Da quel primo incontro, non pensate che io stia esagerando, egli mi apparve come un antico Cavaliere senza Macchia e senza Paura, fedele per sempre alla sua “Patria napolitana”, come la chiamava, ai suoi colori che erano quelli dei Borboni. E l’arma di quel Cavaliere era la penna. Ho letto tanti libri di storia: alcuni leggeri e a volte umoristici oppure aneddotici, come quelli di Cervi e Montanelli, altri molto documentati, come Declino e caduta dell’Impero Romano, di Edoardo Gibbon, troppo austero per i miei gusti. Invece Luciano coniugava un filo di finissimo humour alla serietà delle sue documentazioni, spesso vere scoperte.

Dopo la morte della moglie adorata, anche lui come me aveva deciso di vivere solo nella dimora che aveva visto crescere una famiglia unita e felice. 

Si dedicava totalmente ai suoi libri. Amici pochi, ma buoni,

come Giorgio Salvatori che lo intervistò al tg2, il magistrato Edoardo Vitale, e l’editore Pietro Golia, che curò per Controcorrente due sue pubblicazioni “Garibaldi, Fauché e i predatori del Regno del Sud” (2006) e “La Storia Manipolata 1860-1861- Documenti e Testimonianze” (2009). Inoltre era circondato dell’affetto delle due figlie, Giorgia e Antonella, e delle nipoti che amava teneramente.

 

Ma  quando  lo  conobbi  io  aveva già  problemi  di  salute ed era diventato un misantropo. Col tempo si aperse con me completamente. Ma sempre da lontano, io a Fiesole, lui a Napoli. Forse lui, che era molto orgoglioso, non  avrebbe  voluto  farsi  vedere  nell’avanzare di un rapido declino, fisicamente diverso da come era stato. Era  un  uomo  molto  sensibile ma di una sensibilità maschia, mai l’ho sentito piangersi addosso. Anzi, se gli dicevo  di curarsi si  arrabbiava. Gli  scocciava  anche  sentirsi chiedere come stava. Era capace di momenti d’ira pensando al destino della sua  Patria Napolitana, e allora faceva paura. Ma a volte  poteva  tramutarsi  in un  umorista  divertentissimo che  mi faceva  piangere dal  ridere facendomi sentire una quindicenne. Posso dire che da quando non c’è più io non ho più riso come allora?
Si è portato via la mia allegria e sono improvvisamente invecchiata.

 

Era un vulcano, un uomo luminoso, i suoi momenti burrascosi 

erano nuvole che coprono il sole e che poi sparivano.


Io mi abbeveravo alla sua sterminata cultura, al punto tale che, grazie a lui, ritengo di essere cresciuta anche spiritualmente. Diceva spesso che Napoli non è una città, ma una nazione. Intuizione felicissima, infatti Napoli non ha niente a che fare con le altre città della Campania e del Sud perché è una stratificazione di molte e grandi civiltà, a cominciare dalla greca. Il suo orgoglio lo portava addirittura a non promuovere i suoi libri o a cercare editori. Fui io a fargli conoscere l’editore Solfanelli e a portare il suo
“La fuga di Garibaldi e il giallo della morte di Anita” (edizione Solfanelli, 2016), alla giuria del Premio Firenze. Ne scaturì un premio e una menzione d’onore. Ogni suo successo lo sentivo come mio. Inoltre mi affiancai a lui, inviando lettere ai giornali, nella sua lotta per ristabilire la verità sul Sud depredato e mistificato. 

Era geniale. Una personalità multiforme sempre determinata a chiedere il massimo a se stesso. Difficile definirlo. tenebroso, insondabile, ironico, focoso, gelido, romantico, scontroso, spiritoso, ma affettuoso, passionale, folle, cupo, iroso, fascinoso, misterioso, indomabile, incomprensibile, sboccato, raffinato… cambiava sempre, pur restando se stesso. 

Con gli editori non fu mai un uomo facile. Delegava tutto a me. Solo con Golia aveva un rapporto fraterno ma anche con lui una volta qualcosa si spezzò. Perché Luciano sapeva anche essere verbalmente violento, e riuscì a volte a farmi piangere, ma poi tornava il sereno e le volte che mi fece ridere o sorridere furono molte di più! 

Tenerissimo quando parlava delle figlie e in particolare delle nipoti. Ma si preoccupava di quando sarebbero cresciute in un mondo così corrotto e io lo consolavo dicendogli che tutto dipende sempre dalla base ricevuta in famiglia. Questo contava. E ho potuto averne la conferma oggi, constatando i successi accademici e professionali delle nipoti.

 

Quando cominciava un libro me ne parlava a lungo. Poi me lo mandava 

per sapere che ne pensassi e perché gli correggessi le bozze.


Perché  lui  scriveva di getto e non rileggeva. C’erano  momenti  in  cui  era  amareggiato al pensiero dei troppi arrivisti: scrittori  da  quattro soldi, spesso  solo  giornalisti, pseudo  scrittori che saccheggiavano i suoi  libri e che, mediante vantaggiose  amicizie,  balzavano agli  onori di citazioni su giornali e in TV con libri troppo spesso scritti male. Gli  dispiaceva  non  per  sé,  perché  rifuggiva da onori  e  successo,  ma perché il suo pensiero, le sue ricerche, andavano in giro storpiati. Un altro suo dispiacere era di non aver fatto Lettere, come gli sarebbe piaciuto (e come sarebbe stato giusto) ma Economia e Commercio, per volere del padre.

 

Io gli mandavo via via i miei libri a ogni uscita, e un divertente diario 

dove lui vestiva i panni di un greco antico protagonista di mille avventure. 

Per lui scrissi anche una poesia,

 

“Uomo solitario’’, che gli piacque molto: Uomo solitario e racchiuso / nella torre del tuo orgoglio.              / Sale invano la voce del mare / a ricordarti il rigoglio / della stagione carnale. / Nella tua casa silente / vuoi respirare soltanto / la polvere antica / di libri vissuti / Amaramente scrivendo / di cupe ingiustizie 

/ Di anni perduti.   

 

Negli ultimi anni era molto peggiorato, quasi paralizzato nelle gambe, e si disperava temendo di sopravvivere a sé stesso e di essere di peso alle figlie. Poi è arrivato il Covid e credo lo avrà accolto come un amico.   

 

Perché le aquile non sono fatte per restare in gabbia.

 

UN UOMO IN PIEDI

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RICORDO DI LUCIANO SALERA

   UNO STORICO DEL SUD DA NON DIMENTICARE 

 

 

IL VENTRE DI NAPOLI NASCONDE UN FANTASMATICO MONACO BAMBINO di Francesca Romana De Paolis numero 31 ottobre novembre 2024 Ed. Maurizio Conte

 

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IL VENTRE DI NAPOLI NASCONDE UN.FANTASMATICO MONACO BAMBINO

 

Soffia nelle orecchie di chi dorme, arraffa oggetti nelle case dei malvisti, accetta di buon grado le monete, spesso è foriero di buona sorte e si diverte a corteggiare le belle donne. 

Si tratta del 

 

Munaciello, il più stimato e temuto, il più antico e rispettato spirito 

del folklore partenopeo.


lMatilde Serao, celebre giornalista e scrittrice napoletana, racconta che le origini di questo piccolo monaco dispettoso, potrebbero essere legate a una vicenda accaduta intorno alla metà del Quattrocento a Napoli, durante il regno di Alfonso V d’Aragona.   

 

All’epoca, si consumava in gran segreto una storia d’amore tra Caterina Frezza, figlia di un ricco mercante di stoffe e il garzone Stefano Mariconda. Per raggiungere nottetempo la sua amata, sembra che Stefano, non gradito dalla famiglia di Caterina, dovesse arrampicarsi e camminare sui tetti della città. Una sera sventurata egli cadde e morì. 

Poco dopo, la sua Catarinella fu rinchiusa in un convento e diede alla luce un bambino malformato. Le suore, allora, accorsero in aiuto vestendolo con abiti monacali, per nascondere le sue deformità.

 

Quando fu in grado di camminare, questi se ne andava in giro 

per il quartiere Porto con saio e cappuccio alla francescana. 

Si guadagnò così il soprannome di “Munaciello” (piccolo monaco). 


Secondo la leggenda egli scomparve prematuramente e da allora si iniziò a credere che la sua anima girasse per Napoli e avesse misteriosi poteri magici.   

 

È possibile che un rifugio del monaco bambino si trovi a Marina del Cantone e più precisamente nella Torre di Montalto, presso Sant’Agata sui Due Golfi a Massa Lubrense. Altre voci raccontano che il Munaciello abiti le vecchie abbazie e i monasteri del centro di Napoli oppure le ville partenopee.

All’origine rinascimentale dello spiritello esoterico se ne aggiunge un’altra, 

legata al Sette-Ottocento.


E, in particolare, alla figura dei pozzari. Uomini minuti, abbigliati con mantello ed elmetto, dunque simili a piccoli monaci, che si occupavano della manutenzione e la pulizia delle cisterne in tufo che costellano la Napoli sotterranea. Le cisterne avevano cunicoli verticali scavati nella roccia, collegati direttamente ai soprastanti palazzi nobiliari.

 

Si racconta che, grazie alla facilità con cui i pozzari avevano accesso alle case, 

essi di tanto in tanto – specie quando non venivano retribuiti – vi sostassero 

per fare uno spuntino, conquistare la donna del focolare e rubacchiare. 

Ancora oggi se qualche oggetto domestico scompare, 

a Napoli si dice che è stato il Munaciello.


Insomma, tutto porta a credere che si tratti di una presenza bizzarra e un po’ canaglia. Però le sue apparizioni, sia reali che in sogno, sono descritte come miracolose, poiché il monaco indica a chi lo vede i numeri fortunati da giocare al Lotto e realizza i desideri. Questo a patto che nessuno riveli la sua presenza, poiché farlo porterebbe invece la cattiva sorte. 

La duplice e ambigua natura dello spiritello – generosa e molesta, irriverente, ma anche sacra, disturbante e sorprendente – lo rende simile ad una sorta di allegoria del destino. Non a caso un antico proverbio napoletano recita così: “O Munaciello: a chi arricchisce, a chi appezzentisce”.

La città che sorge all’ombra del Vesuvio è ancora fervidamente traboccante 

di segnali che fanno pensare all’esistenza del piccolo monaco.

La chiesa di Sant’Eframo Vecchio, il quartiere di Secondigliano, Piazza Garibaldi in centro, una casa in via dei Tribunali sono solo alcuni dei luoghi protagonisti di apparizioni, improvvisi arricchimenti, tranelli e fortune. 

E, a Castellammare di Stabia, tra il vulcano e la costiera sorrentina, nei pressi dell’antico terziero di Scanzano, c’è una strada rivolta a monte, proprio intitolata al Munaciello.

E anzi, a un particolare Munaciello, che da pizzichi 

e fa sgambetti a chiunque passi per di lì.


Secondo Carl Gustav Jung alcune figure del mondo favolistico soprannaturale rappresentano le forze sotterranee dell’inconscio. Risorse psichiche di cui gli esseri umani non sono consapevoli e che hanno a che fare con l’istinto e l’intuizione. Le figure cui si riferiva Jung sono i nani e gli gnomi, appartenenti alla cultura nordica, ai quali tuttavia, il piccolo monaco partenopeo sembra accostarsi per tipologia.

Ad ogni buon conto, il Munaciello resta ad oggi il fantasma più pop 

del nostro meridione. È stato protagonista di opere teatrali, 

cinematografiche e di canzoni.


Compare anzitutto nella famosa commedia di Eduardo de Filippo “Questi fantasmi”, in cui il personaggio dell’amante è vestito come un monaco. Fa capolino nella canzone “O’ Munaciello” (1891) di Roberto Bracco. E arriva fino agli anni Duemila, poiché “Munaciello” è il soprannome dato a uno dei boss nella serie tv “Gomorra” (2014-2021). Ma soprattutto il monaco bambino, compare nell’incipit del film “E’ stata la mano di Dio” (2021) di Paolo Sorrentino, dove la zia del protagonista gli da un bacio sulla nuca, su invito di San Gennaro, come gesto propiziatorio per la propria fertilità. 

  

 

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SUD ITALIA ATTRAVERSO IL MEDITERRANEO di Federico Failla numero 28 maggio giugno 2023 Editore Maurizio Conte

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SUD ITALIA ATTRAVERSO IL MEDITERRANEO

 

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Val di Noto e gastronomia è un’associazione che viene naturale. La capacità di valorizzare pienamente, e spesso in maniera sorprendente, i magnifici prodotti del territorio ha reso questo scorcio di Sicilia una delle aree più interessanti da esplorare sotto il profilo culinario. In questa cornice si colloca una delle eccellenze della cucina del Val di Noto: il gelato.   

 

Cresciuto proprio in una cultura in cui le discussioni estive sul gelato possono protrarsi fino a tarda notte e creare tensioni non da poco su aspetti cruciali del prodotto (quale deve essere il colore del gelato al pistacchio? Funziona l’abbinamento cioccolato-limone? Il gelato di ricotta ha un suo perché?), ogni volta che ho affrontato una nuova esperienza all’estero sono andato sempre a scoprire le realtà locali del gelato. Per essere chiari, mai cercata la replica dei sapori siciliani, sarebbe un’ottica errata e perdente. Al contrario, l’obiettivo è stato quello di esplorare e sperimentare nuovi gusti e combinazioni, dal gelato viola di taro, al gusto di fagioli rossi, al gelato di riso, immancabile in Asia. 

 

Ma talvolta, oltre i gusti, le combinazioni e le tecniche che vengono utilizzate,

sono le storie delle gelaterie che diventano altrettanto gustose. 

E da qui parte la breve storia della gelateria “Ragusa” a Jakarta, 

aperta negli anni ’30 dello scorso secolo.


Storia dai contorni non chiari, contraddittori, avvolta da una nebbiolina che non permette di mettere a fuoco tutti i dettagli, dunque perfettamente in linea con le caratteristiche dell’Indonesia ed in particolare di Java. Nella continua scoperta di storie, cibi, persone e culture che popolano questo meraviglioso Paese, mi sono imbattuto quasi subito nella gelateria “Ragusa”, che naturalmente ha attirato la mia curiosità.   

 

Le informazioni raccolte durante e dopo la mia permanenza in Indonesia non sono state univoche: dal nome, che secondo alcuni indica il luogo di provenienza dei proprietari originari della gelateria e secondo invece la versione che ha riscontri più concreti il cognome degli stessi, al motivo stesso per cui i nostri connazionali si trovassero a Jakarta negli anni ’30.

 

La versione che presenta elementi riscontrabili in maniera più solida, anche grazie 

al materiale raccolto dal nostro Console Onorario a Bali, è che i fratelli Ragusa provenissero da Grottaglie in Puglia e che fossero arrivati a Batavia 

(il nome che aveva l’attuale Jakarta durante il periodo coloniale olandese) 

alla fine degli anni ’20.

Qui i contorni della storia iniziano a diventare meno chiari e netti: sembra che i Ragusa, di professione sarti, stessero viaggiando in nave per l’Australia e fossero stati convinti a fare una sosta a Batavia da alcuni passeggeri a bordo della loro imbarcazione. Alcune testimonianze invece asseriscono che i Ragusa fossero arrivati a Batavia per frequentare una scuola di cucito, una tesi che appare ardita e poco verosimile: perché da Grottaglie negli anni ’20 ci si sarebbe dovuti dirigere a Batavia per imparare il cucito o altre arti sartoriali?

 

All’interno della gelateria si trovano invero le foto dei quattro fratelli Ragusa, Luigi, Vincenzo, Pasquale e Francesco, foto color seppia che aggiungono autenticità alla narrazione prevalente. Stando a quanto si tramanda, Luigi e Vincenzo erano venuti in contatto con una signora olandese residente a Bandung proprietaria di una fattoria, disposta a fornire il latte per la nuova avventura commerciale dei Ragusa. La tesi che fossero pugliesi viene ulteriormente avvalorata dal fatto che i fratelli Ragusa lasciarono l’Indonesia nel 1972 e si stabilirono a Taranto. La gelateria venne ereditata dal cognato di Francesco, che si era sposato con Liliana Yo, una cinese indonesiana.

Riconosciuta nel 2012 come la più antica gelateria in Indonesia ancora in attività, 


ha avuto nei decenni alterne fortune ed ha anche offerto prodotti che sono cambiati nel tempo, dai gusti tradizionali fino ad arrivare al gelato agli spaghetti, ottenuti dalla polpa del cocco.

 

In conclusione, 

l’arrivo e la permanenza di una famiglia di sarti pugliesi in Indonesia ha lasciato un’impronta duratura nel panorama gastronomico di Jakarta, 

visto che ancora oggi la gelateria “Ragusa” 

è attiva ed operante.


Questa vicenda mi ha affascinato da sempre, perché trovare storie di italiani nei paesi con una forte presenza di nostre comunità è semplice, ma lo è meno trovarle in Indonesia, dove la nostra presenza è stata storicamente sporadica. Anche se, in verità, in Indonesia è morto Nino Bixio e Pigafetta ha fatto tappa con la nave Trinidad nella spedizione della circumnavigazione del globo nella quale rimase ucciso Magellano, senza dimenticare, inoltre, le missionarie e i missionari italiani (il primo sinologo europeo è stato padre Ruggeri, pugliese di Spinazzola), gli esploratori e gli etnologi ed etnologi come Modigliani.

 

Sono storie quelle degli italiani nell’Asia orientale e sud-orientale, molti dei quali provenienti dal Meridione, che meritano di essere meglio conosciute, 

perché testimoniano del coraggio e dell’intraprendenza 

di molti nostri connazionali

 

a costruirsi il proprio futuro anche in terre lontane e nelle quali non erano già presenti comunità di compatrioti. E mi piace pensare che il grande successo dello stile di vita italiano, del made in Italy e dell’Italia in generale in questa parte di mondo sia anche dovuto a quanto seminato dai vari fratelli Ragusa che vi hanno abitato.

 

 

 

 

 

 

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I MURALES DI CAMPOMARINO E LA COMUNITA’ ARBERESHE Gemme del Sud numero 27 gennaio febbraio 2023 Ed. Maurizio Conte

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I MURALES DI CAMPOMARINO E LA COMUNITA’ ARBERESHE

 

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               Campomarino (CB)

 

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Nel borgo di Campomarino, centro storico dell’omonima cittadina che sorge nei pressi della costa adriatica in provincia di Campobasso, la pres­­­enza dell’antica comunità arbëreshë, ovvero gli Albanesi d’Italia, è raccontata dagli originali e colorati murales disegnati sulle facciate delle case dall’artista contemporanea campomarinese Liliana Corfiati.   

 

Composta da immigrati provenienti dall’Albania che a partire dalla fine del XV secolo si insediarono in territorio molisano per sfuggire all’invasione ottomana di Maometto II, e a seguito della morte dell’eroe della resistenza albanese Giorgio Kastrioti Skanderbeg, la comunità arbëreshë di Campomarino ha saputo integrarsi con la popolazione locale, pur conservando nei secoli i caratteri originari della propria cultura e la lingua che sopravvive ancora oggi nella segnaletica bilingue delle vie del Comune. 

 

Passeggiando per i vicoli del borgo 

 

Passeggiando per i vicoli del borgo si scoprono murales che raccontano 

antichi mestieri e la vita quotidiana di una società 

di origine agro-pastorale: 

 

un uomo ed una donna che raccolgono le olive, donne sedute sull’uscio di casa a ricamare, una donna che inforna il pane, un ciabattino intento al suo lavoro, uomini e donne in abiti tradizionali che sembrano danzare al ritmo di una musica antica. 

 

L’origine cristiano ortodossa della comunità italo-albanese si rivela nel bel Mural degli Sposi in cui, sullo sfondo di un mare azzurro, il sacerdote officiante, vestito nel tradizionale abito nero, “incorona” gli sposi secondo l’antico rituale bizantino Akoluthìa tu Stefanòmatos, espressione di una identità culturale ancora orgogliosamente sentita dalle odierne generazioni arbëreshë.

 

 

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“LA POESIA” E’ UNA SORGENTE di Lorenzo Salazar numero 27 gennaio febbraio 2023 Ed. Maurizio Conte

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LA “POESIA” e’ UNA SORGENTE

 

 

Dal novembre dello scorso anno il già ampio panorama dei ristoranti italiani a Parigi si è arricchito con l’inaugurazione di un nuovo locale, dotato però di un interesse affatto peculiare.

 

L’indirizzo in rue de la Fidelité, nel 10° arrondissement, a pochi passi dalla Gare de l’Est, sembra giocare con il nome del locale, “La Poesia”.

 

Che non deriva però dalla più eterea delle sette arti bensì dal sostantivo greco πόσις (“bere”), da cui trae origine il nome di un fascinoso luogo sulla costa del Salento che si trova nelle immediate adiacenze dell’area archeologica di Roca Vecchia, poco a sud di Lecce. Una profonda sorgente naturale dà vita a una piscina naturale di acqua dolce che si trova proprio in riva al mare, arroccata su un promontorio e circondata da scogliere calcaree. A questa fonte, fin dal II millennio a.C., dapprima i marinai messapi e quindi quelli greci usavano accostarsi per rifornirsi di acqua e invocare la protezione delle rispettive divinità sulla navigazione. Un nome capace, da solo, di evocare tutta la bellezza della natura, della storia e della cultura del nostro Sud. 

 

Al di là del nome, i piatti preparati dallo chef Giuseppe Fiore, originario di Praiano, si ispirano alla migliore tradizione della cucina meridionale e utilizzano prodotti e materie prime (molti dei quali biologici, come pasta, lenticchie, pomodori secchi…) provenienti in massima parte dal catalogo di Libera Terra, l’associazione che riunisce cooperative sociali guidate dall’associazione Libera di Don Ciotti. 

 

Dietro di esse vi sono decine di strutture produttive e centinaia di ettari di terreno sottratti alle mafie in Sicilia, Puglia, Calabria e Campania grazie all’istituto del riutilizzo sociale dei beni confiscati alle mafie introdotto in Italia dalla legge n. 109 del 1996 

in materia di gestione e destinazione di beni sequestrati o confiscati.

 

Su quei terreni e in quelle aziende – non di rado dopo aver resistito a ulteriori atti di intimidazione o violenza posti in essere anche dopo la definitività dei provvedimenti di confisca, quale disperato ultimo tentativo delle organizzazioni criminali di opporsi agli stessi – si producono pasta, olio, vino e altri generi alimentari che rendono omaggio, sin dal nome posto sull’etichetta, alla lotta alle mafie e alle vittime della loro violenza. 

 

Così un vino Primitivo del Salento è dedicato ad Antonio Montinaro, giovane poliziotto pugliese capo scorta del giudice Giovanni Falcone, caduto a 29 anni nell’attentato di Capaci, opera del più sanguinario dei boss, Totò Riina, o un Negroamaro della stessa regione ricorda la storia di Renata Fonte, assessora alla cultura e alla pubblica istruzione del comune di Nardò, assassinata il 31 marzo 1984 per la sua lotta contro la speculazione immobiliare nel Leccese. O ancora i vini Centopassi, tanti quanti quelli che separavano a Cinisi la casa del giovane giornalista e attivista Peppino Impastato da quella di Tano Badalamenti, mandante del suo assassinio avvenuto il 9 maggio 1978; era lo stesso giorno del ritrovamento del corpo di Aldo Moro in via Caetani, coincidenza questa che contribuì a confondere la percezione iniziale dell’evento (che gli autori cercarono anche di mascherare sotto le sembianze di un suicidio, ponendo una carica di tritolo sotto il corpo del povero giornalista, adagiato sui binari della ferrovia Palermo-Trapani) in tal modo oscurandolo in parte all’attenzione dell’opinione pubblica. 

 

Noi italiani, già da molti anni abituati a vedere beni oggetto di confisca destinati a finalità di pubblica utilità (tra i più recenti esempi quello della sede romana della Scuola Superiore della Magistratura, con strepitoso affaccio sulla Fontana di Trevi, già residenza di lusso di un boss della banda della Magliana) 

 

abbiamo difficoltà a comprendere quanto e come esperienze simili possano risultare invece innovative e dirompenti agli occhi dei cugini d’oltralpe.

 

Nonostante l’adozione, nell’aprile 2021, di una legge ispirata a quella italiana, pratiche simili appaiono ancora marginali e poco conosciute in Francia, dove i servizi statali sono spesso apparsi riluttanti a riconoscere la crescente presenza della crimine organizzato e solo di recente hanno cominciato a mobilizzare l’Agence de gestion et de recouvrement des avoirs saisis et confisqués (Agrasc) creata sul modello della nostra Agenzia Nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni Sequestrati e Confiscati alla criminalità organizzata.

A una tale presa di coscienza intende a suo modo contribuire anche l’équipe 

de La Poesia, ispirata tra l’altro da un magistrato francese che ha a lungo lavorato 

nella nostra penisola, proponendosi di promuovere e diffondere l’esperienza italiana 

in materia di contrasto alle organizzazioni criminali.

Il locale viene infatti animato non solo attraverso l’esposizione sui suoi muri di opere di pittori italiani legati al meridione ma anche con eventi e incontri sul tema (il più recente dei quali dedicato proprio al trentennale degli attentati a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino). Sono state anche avviate iniziative di partenariato con associazioni francesi impegnate nel reinserimento sociale dei più debolì, partecipando in tal modo, anche attraverso l’assunzione di personale di sala tratto dalle stesse, a un percorso di solidarietà concreta. 

 

Quanta distanza appare separare l’esperienza de La Poesia da quella, così diversa e di breve durata, del ristorante aperto nel 2017, in un diverso quartiere della capitale francese, proprio dalla figlia del boss di Corleone giudicato principale responsabile della strage di Capaci, che faceva esplicito riferimento, già a partire dalla scelta del nome, all’evocativa immagine del paese del Padrino. Le differenze non si misurano solo sulla base degli ingredienti delle pietanze e delle voci dei menù… 

 

 

 

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JOE DI MAGGIO di Gaia Bay Rossi e Luigi Vignali numero 27 gennaio febbraio 2023 Ed. Maurizio Conte

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JOE DI MAGGIO

 

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quando delineò il dovere del Filosofo nel secondo libro de La Scienza della Legislazione, che “Se i lumi che egli sparge non sono utili pel suo secolo e per la sua patria, lo saranno sicuramente per un altro secolo e per un altro paese. 

Dopo un lungo viaggio la coppia si stabilì a Martinez, cittadina vicino a San Francisco, ebbe nove figli e fra i loro, il 25 novembre 1914, nacque Joe.

Sin da piccolo appassionato di baseball


(come i fratelli Dom e Vince, che diventeranno anch’essi giocatori professionisti), esordì a soli diciassette anni nella “minor league”, con la squadra dei San Francisco Seals. Dopo quattro stagioni venne ceduto ai New York Yankees, in cui costruirà la sua straordinaria carriera sportiva e in cui rimase fino al 1951, quando a trentasette anni si ritirò dallo sport agonistico.   

 

Joe Di Maggio fu uno dei più grandi giocatori di baseball di tutti i tempi. Vinse per tre volte il titolo di miglior giocatore dell’American League e fu chiamato nella selezione dei più forti giocatori per ben 13 volte.

 

Tifosi e giornalisti lo chiamavano Joltin’ Joe (“Joe che fa sobbalzare”) 

per la forza con cui colpiva la palla. Nell’arco della carriera Joe 

totalizzerà l’incredibile risultato di 2.214 “battute valide”.


Il giorno prima della vittoria degli Yankees contro i Red Sox, partita che chiudeva il campionato del 1949, il Corriere della Sera scrisse: il campione 
“è stato festeggiato non solo dai propri tifosi, ma anche dai giocatori e dai tifosi della squadra avversaria. Una folla di 80.000 persone lo ha acclamato per un’ora intera prima che la partita potesse cominciare: Joe è stato letteralmente coperto di doni, che andavano da un chilo di gelato alla crema ad un motoscafo da corsa di gran lusso. Quest’ultimo però non è stato portato in campo. Il sindaco di Nuova York è sceso per congratularsi con lui e per consegnargli una bicicletta per il suo figliuolo. Joe Di Maggio, il bel ragazzo sorridente ed espansivo di origine italiana […] ha consegnato al sindaco tutti i doni in denaro che aveva ricevuto perché venissero divisi tra due fondazioni: quella per ammalati di cuore e quella per le ricerche sul cancro”. 

 

Un grande sportivo, un grande italiano. Nella sua vita Joe non dimenticò mai l’Italia 

e Isola delle Femmine. Nel 1955, giunto a Roma decise di far visita al paese 

dei genitori, dove una volta arrivato fu accolto dall’allora sindaco 

suo omonimo, Francesco Di Maggio.


Tornò a Roma una seconda volta, nel 1993, come rappresentante della Federazione Italia-America, con l’intenzione di recarsi a Isola delle Femmine per ritirare la cittadinanza onoraria. A causa di un malore non poté partire: fu dunque il sindaco a venire a Roma, alla Farnesina, per la consegna della cittadinanza. Oggi a Isola delle Femmine, è possibile visitare la casa Museo Joe Di Maggio, per ricordare un campione straordinario, uno dei personaggi più amati nella storia dello sport americano. Si sposò una prima volta con l’attrice Dorothy Arnold e dal matrimonio nacque Joe Di Maggio Jr., ma i due divorziarono nel 1943, mentre Joe prestava servizio militare alle Hawaii.

 

Dopo una serie di storielle senza importanza, arrivò finalmente

il grande amore, Marilyn Monroe.


Joe perse completamente la testa, nonostante l’opposizione del fratello Dom che e soprattutto del vescovo di New York, che gli negò il divorzio dalla prima moglie e poi la possibilità di ricevere i sacramenti. 

Durante la celebrazione del matrimonio con Marilyn, di fronte a 400 persone, il giudice Peery dichiarò: “Ho dimenticato di baciare la sposa, come vuole la tradizione e, credetemi, mi dispiace”. Gli sposi partirono per il Giappone, dove Joe era stato invitato a lanciare la nuova stagione di baseball; Marilyn doveva invece esibirsi per le truppe americane di stanza in Corea: in tre giorni di tour incontrò 13.000 soldati e in ogni base militare fu accolta da enormi ovazioni.

 

Di Maggio era certo che, una volta sposati, Marilyn avrebbe lasciato la carriera 

per dedicarsi alla famiglia (al giornalista che le chiese se aveva intenzione 

di avere bambini, aveva risposto: “Certo, almeno sei”). 

 

Ma così non fu, 


la sua popolarità negli Stati Uniti era al culmine e la sua fama mondiale. Dopo un primo periodo di felicità, arrivarono discussioni e violente liti, anche se non erano note al grande pubblico. Joe seguiva le condizioni contrattuali di Marilyn con le case cinematografiche, riuscendo a ottenere migliori compensi, ma era esacerbato dalla gelosia per una donna che rappresentava il desiderio proibito per antonomasia. Forse il punto di non ritorno fu la gonna svolazzante del film
“Quando la moglie è in vacanza”, per Joe fu devastante vedere l’intera troupe a bocca aperta davanti alla scena – poi trasmessa nei cinema di tutto il mondo. Sicuramente fu l’ultima volta che i coniugi apparvero insieme in pubblico. 

Il 5 ottobre 1954, a solo nove mesi dal matrimonio, Marilyn Monroe, annunciò la decisione di separarsi dal marito. Dopo poco seguirà l’annuncio del divorzio. La causa di divorzio fu molto dura. Di Maggio si fece addirittura accompagnare da Frank Sinatra (peraltro già amante di Marilyn) a un’”imboscata” alla diva – con il risultato di una porta sfondata a una sconosciuta, cui i due dovettero risarcire 7000 $. Dopo vari anni, in cui Marilyn si era risposata una terza volta (con Arthur Miller), aveva sofferto per alcuni aborti, era diventata dipendente da farmaci e psicofarmaci, la donna si riavvicinò a Joe Di Maggio. 

 

Lui, nonostante tutto, continuava a esserne innamorato. Addirittura nel 1961 

i giornali parlavano di un secondo matrimonio tra i due.

 

Poi il 5 agosto del 1962 lei morì improvvisamente, in circostanze mai del tutto chiarite, nella sua casa di Los Angeles.   

 

Di Maggio si occupò del funerale e delle spese. Invitò solo gli amici più intimi, escludendo sia le star hollywoodiane, sia le note personalità politiche che pure Marilyn frequentava. Con il figlio Joe Jr. accanto, seguì il feretro fino alla sepoltura nel cimitero di Brentwood. Prima della chiusura Joe baciò per tre volte la cassa e per tre volte le disse “Ti amo”. E ordinò di deporre un mazzo di 6 rose rosse due volte a settimana sulla sua tomba, per sempre. Quando giunse la sua ora, nel 1999 per un tumore ai polmoni, le ultime parole furono: “Finalmente riuscirò a vedere Marilyn”.  

 

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