LE DUE SICILIE DI FEDERICO II di Fabio De Paolis – Numero 11 – Luglio 2018

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LE DUE SICILIE DI FEDERICO II

 

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la Sicilia con una monarchia caratterizzata da idee assolutistiche, una burocrazia articolata, forzieri ragionevolmente pingui, una eredità culturale composita, che si rifletteva nella presenza a corte di Greci, Ebrei, Arabi

Una Sicilia il cui reggitore si considerava inviato dal Cielo sulla terra per proteggere il popolo dagli attacchi dei rapaci nemici del regno: la Sicilia di Ruggero II, creata da quel grande monarca con volontà indomabile. Di fronte, l’altra Sicilia: un regno squassato dalla ribellione delle etnie sottomesse, soprattutto musulmani del lato occidentale, un regno dissanguato dalle feroci imposizioni fiscali necessarie a finanziare le guerre contro i cattivi annidati a Roma o nel resto dell’Italia. Una minaccia non più che occasionale per i Siciliani veri o propri. Un regno la cui burocrazia serviva gli interessi della Corona molto più che quelli dei sudditi, gravati di tasse, interferenze nei diritti ereditari, obblighi di leva.

Al cuore di molte delle mire sul Regno di Sicilia nel XII secolo, vi era la convinzione che essa fosse una terra baciata dalla fortuna. Un regno la cui fama di ricchezza, 

vera o presunta, lusingava avventurieri in cerca di un trono.


Lo spagnolo Ibn Jubayr, trovatosi qui nel 1184-85, così la descrisse: “La prosperità dell’isola supera ogni descrizione. Sia sufficiente dire che è figlia della Spagna nella misura delle sue coltivazioni, nell’esuberanza dei raccolti, e nel benessere, avendo dovizia di prodotti selvatici, e frutti d’ogni sorta e specie. Invero l’intera isola per fertilità e abbondanza è una delle più mirabili nella creazione di Dio.”

All’epoca di Federico II arrivare a Palermo era sicuramente una emozione straordinaria. Varcate le mura si entrava dentro una città incantata 

e cosmopolita. Enorme era la ricchezza della capitale del Regno.


Si rimaneva colpiti soprattutto dai traffici e dalla vita del porto, grandi spazi dove erano aperti i numerosi fondachi per accatastare le mercanzie e dove erano di base i quartieri amalfitani, pisani e veneziani. Nelle sue strade si amalgamavano razze e costumi diversi. Ovunque si stendevano mercati. Dentro e fuori le mura della città mercanti di ogni paese e provenienza avevano le loro botteghe artigiane, esponevano tappeti di Siria, argenti e pellami egiziani o tunisini, vasi greci, stoffe e profumi orientali. Nelle vie si ascoltavano linguaggi diversi: greco, latino, arabo, germanico, egiziano, toscano, veneto, pugliese e lombardo.

Per rendersi conto della sua ricchezza, basti pensare che sul finire del XII secolo 

gli introiti della sola Palermo pareggiavano quelli affluiti nelle casse dei re d’Inghilterra dall’intero loro regno. Mentre l’Albione era ricca d’argento e doveva il suo benessere alla lana, la Sicilia doveva la sua straordinaria ricchezza all’abbondanza di cereali 

e di materie prime, tra l’altro pelli e cotone.


Possedeva una terra che, se ben sfruttata, non ne aveva di uguali per bontà, feracità e ampiezza. Con queste qualità, la Sicilia rappresentava di per se stessa la principale fonte di grano. Il frumento siciliano era in prevalenza di qualità dura, adatto all’immagazzinamento, ed era oggetto di forte esportazione allora come nell’antichità. Questo veniva coltivato sui pendii nelle zone occidentali e sudorientali dell’isola. 

 

I sovrani siciliani erano i proprietari fondiari di maggior peso.

Un’ampia estensione del territorio siciliano nel XII aveva carattere demaniale, 

non concessa ai feudatari, bensì sottoposta al diretto controllo del governo centrale.


Soltanto una parte dell’isola di Sicilia era nelle mani dei baroni Normanni. Per il resto i proprietari erano ecclesiastici: in primis l’Abbazia di S. Salvatore, il potente monastero greco basiliano a Messina, e poi l’Abbazia di Monreale, di fondazione latina, che ebbe in concessione nella Sicilia occidentale le terre a larga componente musulmana. La produzione destinata alla vendita era abbondante, tanto più che le rese erano eccezionalmente elevate: dieci chicchi almeno per ciascun seminato, senza contare che le produzioni annuali erano in costante aumento, grazie anche all’assenza di carestie, fenomeni assai rari per tutto il corso del XIII secolo. E per giunta i prezzi erano bassi.

La grande espansione demografica del XII e XIII secolo comportò un aumento 

della richiesta di derrate alimentari. Quale occasione migliore per la Sicilia 

che produceva un grano versatile e conservabile. Il grano siciliano divenne 

allora un prodotto richiesto da un capo all’altro del Mediterraneo. 


Un grano usato per le gallette ad uso dei marinai, un grano usato per produrre la pasta che iniziava a comparire sulle tavole dell’Italia del nord, un grano usato in tutto il Nord Africa per produrre il cuscus. Ovviamente la Corona era il maggior beneficiario dello smercio di grano all’estero, il controllo della produzione le faceva ricavare grandi guadagni dalle vendite e dalle relative gabelle. Era, questa, una realtà da cui Federico II seppe trarre grande vantaggio: egli ne controllava personalmente le coltivazioni, ne favoriva il commercio con imposte ridotte e prestava il massimo impegno per cercare di migliorare gli standard di rendimento (lo dimostrano anche le sue lettere colme di apprensione durante una infestazione di bruchi tra le spighe siciliane).

Ma la forte economia siciliana si basava anche su altro: soprattutto sul sale, 

sul ferro, sulla coltivazione dei gelsi e sulla produzione della seta grezza.


I re di Sicilia mantenevano al loro servizio un gruppo di setaioli specializzati. Erano istallati nei palazzi reali, artigiani che erano arabi, o ebrei greci. Setaioli destinati a conservare il segreto della lavorazione e tramandarlo alle nuove leve di corte. Sono molti i ritrovamenti di seta siciliana nelle tombe di principi e vescovi nordeuropei, come numerose sono le lettere che attestano di come la seta siciliana venisse esportata in Egitto e nello Yemen.

Ma Federico aveva occhio anche all’industria locale. Per questo diede forte impulso anche alle piantagioni di indaco e non trascurò gli zuccherifici. Non pago, 

incoraggiò anche la fiorente industria ceramica, e si sforzò molto 

per reintrodurre specialità orientali come l’hennè. 


Nel 1231 Federico II promulgò le
Costituzioni di Melfi, un’ordinata raccolta di leggi ispirata alla dottrina giuridica romana e alle esperienze di governo normanne, compilata grazie al contributo del gran giustiziere Taddeo da Sessa e dal gran cancelliere Pier delle Vigne.

Le Costituzioni rappresentano il maggior monumento legislativo del Medioevo 

con il quale l’Imperatore intendeva combattere la frammentazione feudale, 

eliminando i poteri intermedie e attribuendo a sé ogni prerogativa.


Le Costituzioni sancivano: consolidamento e ampliamento del potere regio; divieto di vendere feudi in quanto proprietà statali; assoggettamento degli ecclesiastici ai tribunali comunali; obbligatorietà per i sudditi di pagare tributi; eguaglianza per i cittadini davanti alla legge e difesa dei deboli contro le prepotenze dei baroni; funzioni giuridiche e amministrative nelle mani del re. Vennero introdotti monopoli sul sale, sulla seta, sul grano, ma furono abolite le dogane interne per facilitare i commerci tra le province; vennero unificati pesi e misure, coniate monete d’oro, dette “Imperiali “e “Augustali”; fu ricostruita una flotta e nel settore agricolo vennero introdotte nuove colture e allo stesso tempo costruite imponenti masserie. Fu una grande innovazione. Ma questa è un’altra storia

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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