PER UN RITRATTO DI GIANNI GASPARI di Simone Gambacorta – Numero 13 – Gennaio 2019

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PER UN RITRATTO DI GIANNI GASPARI

 

Dico Baggio perché ho iniziato a seguire il calcio con i mondiali di Italia 90 (avevo 12 anni) e da allora per me (che di calcio nulla so) dire Baggio significa dire che qualcuno riesce a fare benissimo e con uno stile suo qualcosa di difficile.

 

C’è chi parla di classe. La parola è abusatissima e però funziona: 

si dice un giocatore di classe, per esempio, e Baggio lo è. 


Lo associo alla grazia, alla morbidezza di movimento, all’armonia: nessun altro calciatore, nemmeno Maradona (che a Baggio sarà stato senz’altro superiore), mi ha dato un’idea così nitida di eleganza. Baggio per me significa vedere la bravura che accade, vederla succedere. Ma quando ho visto Baggio, Baggio non c’era. A dire il vero, Baggio non l’ho mai visto di persona e quel giorno ero a Teramo in una libreria e secondo me Baggio a Teramo nemmeno c’è mai stato. Non ho verificato, manco saprei a chi domandare, ma mi sa che la città in cui vivo neppure l’ha sfiorata. 

 

Quel giorno mi pare fosse un sabato del 2017. Si era lì a parlare di un libro ed ero fra coloro che lo presentavano. Quando si arrivò alla fine si chiese al pubblico se ci fossero domande. Ce ne furono. Una, un’altra, un’altra ancora: e l’una, l’altra e l’altra ancora ebbero risposte. Poi una mano si tirò su in un cenno rapido e duplice, un po’ qua e un po’ là, tac-tac tac-tac, sembrava un “ciao” e invece era un “posso?”. Era Gianni Gaspari.

Sapevo che era lì, ci consociamo da anni, lo considero un maestro, 

ma non pensavo intervenisse.


Intervenne: e io vidi Baggio. 

 

Ma adesso devo spiegare per sommi capi chi è Gaspari: è un giornalista, è stato per anni conduttore del Tg2 (edizione serale) e di quella testata è stato a lungo caporedattore della cultura (Antonio Ghirelli direttore) oltre che critico cinematografico. I suoi servizi da Cannes e da Venezia (eccetera) hanno fatto scuola. Per dire: in un articolo di «Repubblica» del 2002 (si legge pure in rete: Tg2 a sorpresa, c’è il cinecritico che fa sul serio) Sebastiano Messina plaudiva alla sua onestà di recensore e al suo lessico. Morando Morandini fece altrettanto nell’introduzione a un suo dizionario dei film. 

 

Insomma, i meriti riconosciuti al teramano Gaspari (null’altro che omonimo del corregionale pluriministro) sono parecchi e non pochi valgono da blasone.

Varrebbero da blasone, se solo fosse capace non dico d’ostentare alcunché, 

ma almeno di mettere a parte gli amici delle esperienze per lui più gratificanti.


Non avviene. L’aneddotica (sempre garbata) che rende la sua carriera un’antologia capace di racconti gustosissimi e inaspettati (corsi condensati di giornalismo e critica) non contempla lodi a se stesso e resoconti a lui favorevoli: per via di quel suo riserbo tutto meridionale, le cose che lo riguardano le vieni a sapere fortunosamente, per il sovrano capriccio della casualità, praticamente per sbaglio, come inciampandoci; e se non tutte, molte di esse possono essere riassunte in un orientamento che nella sua carriera l’ha sempre guidato: il giornalismo mal s’accorda con ruoli di potere.

 

Si può convenire o meno con una simile visione, ma Gaspari, galantuomo 

come pochi (discretissimo, mai invasivo), sempre l’ha pensata così e tuttora lo fa.


Sicché molte possibilità di ascesa per le quali altri avrebbero fatto (o hanno fatto) carte false, lui le ha scansate. Non le ha cercate, gli sono state proposte, e più volte: e però nulla, è rimasto fedele alla sua idea di fare giornalismo senz’altro per la testa che il giornalismo. E giornalismo tout court. Per capirci: s’incontra in rete un video che risale a metà anni Ottanta e che lo vede in veste di cronista puro: Le 48 ore più lunghe, sull’allarme terremoto in Garfagnana. «A Barga, a Castelnuovo di Garfagnana, a Bagni di Lucca, a Villa Collemandina e in altre località sconvolte dal rischio sismico, l’alba significa praticamente uscire da un incubo». Il tempo di arrivare al punto e il pezzo da antologia lo si tocca con mano sin dall’incipit esemplare. Quel servizio per il Tg2 lo si potrebbe prendere pari pari oggi, proiettarlo in una qualsiasi aula di una qualche più o meno grandeggiante Facoltà di Comunicazione e utilizzarne ogni singola virgola per spiegare com’è che un giornalista dovrebbe raccontare le cose.

Ma perché dico che quel giorno ho visto Baggio? 


Perché Gaspari il suo intervento lo fece come quando ai mondiali del Novanta Baggio prese palla a centrocampo in Italia-Cecoslovacchia. Giannini, Baggio, Giannini, Baggio: dopo la triangolazione il 15 azzurro partì filato dalla trequarti sinistra, saltò un avversario e tagliò il campo in diagonale avanzando verso il centro; poi, non appena in area, scartò un secondo difensore e con un tocco di destro che pareva dipinto mandò la palla alla sinistra del portiere, frattanto graziosamente messo assiso.

Idem Gaspari: non un’esitazione, non un’incertezza.


Presentavamo Tutti i racconti di Andrea Carraro, e lui, con la sua inconfondibile voce, partì dal Branco, il romanzo del 1994 da cui Marco Risi trasse il film omonimo (sceneggiato con lo scrittore). A quell’iniziale scatto dalla trequarti seguì il primo movimento a sorpresa (salto dell’avversario), con un parallelismo che in trenta secondi divenne una recensione doppia che rileggeva allo specchio film e romanzo. Dopo di che centralizzò con un flash sul realismo di Carraro per poi tirare fuori – a limite d’area varcato – un’altra mossa a sorpresa (bye bye al secondo difensore): un excursus sui romanzi dello scrittore, con una compattezza concettuale che rese tutto ancor più simile al gesto di un atleta. Il gol fu una parecchio rapinosa e non meno suadente stoccata: un compendio sui temi cardine della narrativa di Carraro e sui narratori a lui accostabili. 

 

Se ne potrebbero raccontare altri di episodi buoni per testimoniare la maestria di un uomo che, partito dal suo Abruzzo, è diventato un protagonista del giornalismo culturale e un gran nome della critica cinematografica.

Ma questa mezza fantasia con Baggio serve forse per dire che lo stile 

sempre possiede un che d’inesorabile e bello.

 

 

 

 

 

 

 

 

Una volta ho visto Roberto Baggio, solo che eravamo in una libreria e Baggio non c’era.

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