UN GIGANTE DI PIETRA – IL CASTELLO DI CORIGLIANO D’OTRANTO di Gianluca Anglana – Numero 8 – Luglio 2017

Castello di Corigliano
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UN GIGANTE DI PIETRA

 

Gianluca-Anglana
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«È il vento», disse Matilda, «che sibila tra i merli della torre lassù: l’hai udito migliaia di volte»

Quando, nel 1764, consegnò alle stampe Il Castello di Otranto, dando così avvio alla fortunata stagione letteraria del romanzo gotico, Horace Walpole immaginò anche sulle residenze fortificate del Meridione italiano la coltre di oscure atmosfere tipica dei manieri inglesi.

 

In realtà, i numerosi castelli piantati qua e là come enormi bulloni sulle pianure salentine hanno assai poco a che fare con l’estetica un po’ dark dei territori di Sua Maestà. Essi sono giganti di pietra, immersi nella luce del Mezzogiorno, piuttosto che trappole di sassi, ove vagano gli spettri di vegliardi o di monache sanguinolente[1]. Tra tutte queste fortezze, spicca, per fascino e grandiosità, una in particolare: quella di Corigliano d’Otranto. Le origini di questo borgo sono molto antiche e tuttora dibattute. Di certo Corigliano, forse messapica di nascita, fu risucchiata nell’orbita della Magna Grecia, per non uscirne di fatto mai più:

 

Corigliano è tuttora grika. È parte della cosiddetta Grecìa Salentina ovvero di un territorio il cui linguaggio tradisce una inequivocabile connotazione ellenofona.

 

Lo stesso toponimo sembra derivare dal vocabolo “χωρίον”, che significa podere. E in effetti, nel corso del Medioevo, Corigliano fu un casale. Nel suo passato remoto, il Salento era un coacervo di casali, cioè gruppi isolati di case rurali sparpagliati un po’ ovunque. Solo più tardi questi aggregati abitativi mutarono pelle, irrobustendosi in paesi e centri più o meno grandi e, in alcuni casi, incastellandosi[2]. Le cause, che innescarono il processo storico di mutazione del tessuto socio-urbanistico, furono molteplici e di variegata natura, in particolare strategico-militare, economica e soprattutto politica. Ad una prima epoca, basata sul sistema della proprietà fondiaria o della curtis (unità produttiva fondata su un intreccio di rapporti sociali e politico-giuridici, facenti capo alla nobiltà laica o alla gerarchia ecclesiastica), ne seguì una seconda, denominata signorile. La cerniera tra queste due fasi si situerebbe intorno all’Anno Mille[3].

 
 La signoria feudale «raggruppa in castelli e villaggi una popolazione il cui capo – il Signore – riunisce nella sua persona funzioni di direzione economica dei contadini (…) e poteri di comando»[4]

Con il concentramento delle popolazioni in villaggi e paesi, i Signori – che si erano gradatamente impossessati di territori più o meno vasti – avrebbero avuto maggiore facilità vuoi nel controllo dei laboratores vuoi nell’esercizio del loro potere sul contado. Dal X secolo in avanti, l’Occidente europeo conobbe una stagione d’impetuosa fioritura economica, soprattutto in ambito rurale[5]. Questa lunga fase di congiuntura favorevole vide in Corellianum un indubbio protagonista, in grado non solo di imporre la propria leadership su tutta l’area circostante, ma persino di rivaleggiare con la stessa Otranto nella competizione per il ruolo di traino economico locale. Nel 1465 l’intero feudo coriglianese venne ceduto alla Famiglia dei Monti. Proveniente da Capua, il clan dei Monti giunse in Italia al seguito degli Angiò: anch’esso seppe esprimere, com’era d’uso allora tra le dinastie più blasonate, i suoi capitani coraggiosi, illustri uomini d’arme messi a servizio di questa o quella signoria italiana e spediti a combattere sui campi di battaglia di mezza Europa. Francesco de’ Monti, come diremmo noi oggi, seppe farsi notare: divenne uno dei condottieri più fidati della corona aragonese «che lo utilizzò come ambasciatore in Ungheria (…), in Germania (…) e presso la corte pontificia»[6].   Francesco fu anche ospite nel celebre castello milanese di Ludovico Sforza, presso il quale era stato inviato nel 1498 nel quadro di una complessa missione diplomatica[7]. Si distinse per ardimento durante gli scontri con la potenza turca. Nel 1480, Otranto era stata espugnata dalle forze di Maometto II. La città era così divenuta un nido di vipere, un avamposto da cui scatenare razzie e terrore nell’entroterra: nel Febbraio del 1481, assieme a Galatina e a Soleto, anche Corigliano fu saccheggiata dagli invasori. Fu proprio durante una di queste aspre battaglie che Francesco venne fatto prigioniero e ridotto in schiavitù, per poi riscattarsi tempo dopo[8].

 

Si devono proprio a lui la risistemazione e l’ammodernamento del castello medievale, «il più bel monumento di architettura militare

e feudale in Terra d’Otranto ed (…) il modello più compiuto
del trapasso dalle torri quadre a quelle rotonde»[9].


Le torri, a base scarpata e a tre livelli di fuoco, sono dedicate a quattro Santi e ingentilite dalla raffigurazione allegorica delle virtù cardinali: Michele Arcangelo e la Fortezza; Antonio Abate e la Temperanza; Giorgio e la Prudenza; Giovanni Battista e la Giustizia. Il cortile interno è semplice e austero. Il fossato è ancora esistente. Il corpo centrale e più antico è riconoscibile per la presenza di beccatelli e merlature. Del parco marchesale, un tempo assai esteso, non restano che poche tracce: la sua vegetazione doveva però apparire lussureggiante se, nel 1525, stregò l’umanista bolognese Leandro Alberti. Nella sua Descrittione di tutta l’Italia[10], costui annota che, durante la sua visita a Corigliano, fu condotto da Giovanbattista de’ Monti, figlio di Francesco, nel «giardino, molto vago e bello, pieno di cedroni, aranci e d’altri alberi fruttevoli»[11]: ad accogliere lui e il suo compagno di viaggio, con il loro Signore, «molti nobili huomini a cavallo molto ben vestiti»[12] e i suoi due figliuoli «altrimenti addobbati, et parimente i cavalli, da quel che avanti erano».

 

Quando la famiglia de’ Monti si estinse, Corigliano divenne proprietà di un’altra casata, cioè i Trani, signori di Tutino (oggi un rione di Tricase). Costoro decisero di trasformare la rocca in dimora gentilizia e di intervenire soprattutto in facciata. Realizzata nel 1667 sotto
la direzione del mastro coriglianese Francesco Manuli[13],

 

essa riporta un balcone con decorazioni barocche: doveva essere una sorta di manifesto, una dichiarazione di fedeltà alla corona spagnola. Così venne abbellita da una rassegna di busti dedicati a personalità che contribuirono a fare grande la Spagna (tra loro si ammira anche un ritratto di Cristoforo Colombo).

 

Nei giorni nostri, Corigliano si è riappropriata del posto che le spetta e che dopo tutto ha sempre avuto: quello di riferimento cui guardare in un’ottica, a lunga gittata, di sviluppo del territorio.

 

Oggi il Castello, che è scrigno e tesoro al tempo stesso, è un luogo di aggregazione e sperimentazione. È un centro propulsore del sapere: oltre a custodire una biblioteca, ospita manifestazioni
culturali, mostre, concerti e spettacoli teatrali.


Ma è quando si abbassano le luci, quando le stelle tornano a spiare la terra dal davanzale dell’universo e la notte stende il suo manto di velluto sopra i sogni degli uomini, è solo allora che, nel buio, il gigante sospira e riaccende le sue pietre pallide al chiarore degli astri. E quando la luna soffia il suo lucore tra i rami degli alberi, tramutandoli in ricami neri; quando l’eco delle ultime voci si è ormai sbriciolata come uno sciame di scintille e si ode solo il ronzio degli insetti, è solo allora che, nel giardino muto vecchio di secoli, le sagome scure delle piante tornano a mormorare nel vento come fantasmi e a reclamare ancora il ruolo di testimoni di questa storia antica. 

 

E nell’aria lieve della sera, sotto la cupola delle costellazioni, si può indovinare appena, nel silenzio, il fulgore di quelle ricchezze
che tanto abbagliarono i visitatori venuti da lontano.


«In the hanging garden please don’t speak. In the hanging garden no one sleeps»[14]

 

 

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 [1] Gli spiriti di Alfonso ne Il Castello di Otranto di Horace Walpole e di Beatrice de las Cisternas, la Monaca Sanguinante, ne Il Monaco di Matthew G. Lewis.

[2] Cfr. Raffaele Licinio, Castelli medievali, Ed. Dedalo (1994), p. 30 e, sul web, http://www.perieghesis.it/casali.htm.

[3] Jacques Le Goff, Il Medioevo, Ed. Laterza (1996), p. 27.

[4] Jacques Le Goff, Il Medioevo, Ed. Laterza (1996), p. 28.

[5] Jacques Le Goff, Il Medioevo, Ed. Laterza (1996), p. 59.

[6] Mario Cazzato, Guida ai Castelli Pugliesi – 1. La provincia di Lecce, Congedo Editore (1997), p. 58.

[7] Dizionario biografico Treccani, www.treccani.it.

[8] Mario Cazzato, Guida ai Castelli Pugliesi – 1. La provincia di Lecce, Congedo Editore (1997), p. 58 (il Cazzato lascia intendere che, proprio a seguito di questi eventi, Francesco si accattivò i favori dei Sovrani aragonesi di Napoli).

[9] Mario Cazzato, Guida ai Castelli Pugliesi – 1. La provincia di Lecce, Congedo Editore, p. 60. Quelle qui riprese sono parole di G. Basile di Castiglione.

[10] Si tratta di un’opera che l’Alberti scrisse dopo aver percorso l’Italia intera e che egli dedicò ai sovrani francesi Enrico II e Caterina de’ Medici.

[11] Leandro Alberti, Descrittione di tutta l’Italia (1568), p. 406.

[12] Leandro Alberti, Descrittione di tutta l’Italia (1568), p. 405.[

13] Mario Cazzato, Guida ai Castelli Pugliesi – 1. La provincia di Lecce, Congedo Editore, p. 60.

[14] The Cure, The hanging garden, 1982, Fiction Records.

 

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