SAN SERGIO I PAPA di Umberto De Augustinis – Numero 10 – Marzo 2018

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SAN SERGIO I PAPA

 

Inoltre i primi tre sono nati ed eletti nello stesso scorcio di secolo, la seconda parte del VII, e l’ultimo circa cinquanta anni dopo. Due di loro, Agatone e Sergio sono palermitani, entrambi impegnati sul fronte della statuizione delle regole della Chiesa, con relative interferenze imperiali; Leone proveniva da Aidone, una città oggi in provincia di Enna; Stefano da Siracusa.

 

Sicuramente Sergio I tra i papi siciliani occupa un posto di enorme rilievo,
perché, con lui, cambiano molto i rapporti tra Impero d’oriente e Chiesa.

 

Sergio, palermitano, presbitero di famiglia originaria di Antiochia, diventa papa dopo la morte di Conone (21 settembre 687), anche lui formatosi a Palermo. L’epoca era decisamente particolare: Roma, e tutti i territori italiani non Longobardi, erano in mano all’imperatore d’oriente, in quel momento Giustiniano II. Il potere in Italia era esercitato dall’esarca di Ravenna, Giovanni Platina. 

 

L’imperatore non aveva remore a indire frequenti assemblee ecclesiali, denominandole concili, presiedendole personalmente indipendentemente dalla presenza del papa, a volte neppure invitato, o per il tramite di delegati, e a formulare norme e precetti per la Chiesa. Fra queste, l’ultima prima dell’ascesa di Sergio, fu l’avvio del c.d. Concilio trullano, quinto dell’era cristiana, indetto all’epoca di Agatone, che prende il nome dalla costruzione ove ebbe luogo.

 

La giustificazione dell’intromissione imperiale stava nel ritenersi l’imperatore 

un “isapostolo”, un parificato in tutto e per tutto agli apostoli. 

Del primato di Pietro, si preferiva non parlare. 

 

L’elezione di Sergio fu piuttosto turbolenta. Al soglio pontificio aspiravano Pasquale, amministratore delle finanze ecclesiastiche e, quindi, arcidiacono, e Teodoro, presbitero anziano di Roma (arciprete). Pasquale aveva stretto un patto con l’esarca Giovanni Platina: l’appoggio per la sua elezione a papa in cambio di cento libbre d’oro. Tra corruzione e simonia. Ma l’elezione di Pasquale fallì per l’opposizione dell’aristocrazia romana. Pasquale sarà confinato a vita in un monastero, in sospetto di magia.

 

Il 15 dicembre 687, Sergio fu consacrato papa. L’esarca Giovanni Platina chiese 

ed ottenne da lui il pagamento delle cento libbre d’oro come prezzo dell’appoggio. Per trovare le risorse furono pignorate le offerte in oro a S.Pietro dei fedeli. 

Ma, all’epoca, le cose andavano così.

 

Sergio, tuttavia, uomo raffinato e colto, dimostrò subito di non gradire la politica ecclesiale di Giustiniano II. Quando quest’ultimo decise di convocare un concilio (denominato Quinisextum, cioè riassuntivo del quinto e sesto), neppure invitando il papa, lì per lì, Sergio non osservò nulla, ma, poi, si rifiutò categoricamente di sottoscrivere le 102 costituzioni che l’assemblea aveva approvato. Tra queste c’era sia la supremazia del patriarcato di Bisanzio su tutti i vescovi, meno il papa, ma anche una sensibile attenuazione del celibato ecclesiastico. 

 

La reazione di Gustiniano II non si fece attendere. L’imperatore fece arrestare i due delegati pontifici e mandò a Roma uno dei suoi militari più feroci, certo Zaccaria, con l’ordine di arrestare il papa e trascinarlo a Bisanzio per processarlo, così come, qualche anno prima, era avvenuto già con papa Martino (fatto maltrattare, destituire ed esiliare). I romani, e non solo, insorsero. La milizia imperiale di stanza a Ravenna accorse a sostegno del papa. Zaccaria capì che i tempi erano cambiati e che aveva osato troppo. 

 

Il prestigio ed il carisma del papa stavano per mettere fine ad una politica 

religiosa imperiale di evidente sopraffazione.

 

Così il feroce militare fu costretto a chiedere aiuto al papa, mentre popolo e soldati vari lo braccavano per tutta Roma. Alla fine Zaccaria si rifugiò nella camera da letto di Sergio e si nascose sotto il letto stesso. Solo grazie all’intercessione di Sergio, non fu ucciso, ma, in compenso, allontanato da Roma tra gli insulti del popolino.

 

Il papa aveva vinto.

 

Giustiniano II pagò anche a Bisanzio le conseguenze del fallimento della sfida: fu deposto da una congiura di palazzo, alla quale si associò anche il patriarca, Callinico I, subì l’amputazione del naso, donde fu denominato Rinotmeto e mandato in esilio. L’asportazione del naso avrebbe dovuto impedire qualsiasi ripristino di poteri imperiali, perché le amputazioni corporali ne erano ostative. Successivamente, fattosi un naso d’oro, Giustiniano tornerà al potere per alcuni anni, fino alla uccisione sua e del suo unico erede, ma eviterà nuove collisioni con Roma.

 

Il confronto, risoltosi così positivamente per Sergio, ne accrebbe enormemente 

il prestigio, assieme a quello della Chiesa di Roma.

 

Facile spiegarsi, dunque, le numerose visite di importanti personaggi a Roma, desiderosi di abbracciare la fede cattolica, e lo spianarsi della strada per un rapporto estremamente significativo e sinergico con il popolo dominante dell’epoca, i Franchi, che porterà molto lontano. A questo enorme prestigio si devono molte cose: tra le altre, 

 

Sergio fu il primo pontefice a battere moneta, il primo ad essere direttamente 

sepolto in S. Pietro, alla sua morte, avvenuta l’8 settembre 701, 

quello che introdusse la possibilità di avere più altari nelle chiese, 

il primo ad essere citato come diretto referente 

delle comunità cattoliche britanniche.

 

Di qui, infine, la sua immediata canonizzazione.

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Agatone, Leone II, Sergio I e Stefano III.
La caratteristica che li accomuna tutti è di essere inquadrabili nell’ambito e nel contrasto delle strategie politiche-religiose dell’Impero bizantino. 

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TARANTO NON E’ SOLO VELENI. IL MArTA di Roberta Lucchini – Numero 10 – Marzo 2018

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TARANTO NON È SOLO VELENI.        il MA TA

 

Ma il faro mediatico, sistematicamente puntato sui mostri che negli anni hanno corrotto le aspettative, inquinando acque e vite umane, dovrebbe talvolta accendersi sul buono che c’è, sulle iniziative lodevoli, sulle persone che si impegnano per il cambiamento. A Taranto si può ricominciare; anzi si deve. Ma da dove? Il MArTA ci sembra un ottimo punto di partenza.

La visita al Museo Archeologico, invero, è la tappa iniziale e imprescindibile
sia per chi desideri avvicinarsi alla città e alle sue origini sia per i tarentini
che vogliano ritemprarsi con una boccata di orgoglio campanilistico.


Il Museo nacque nel 1887 per ospitare le innumerevoli testimonianze raccolte nel corso dei ritrovamenti massicci, conseguenti alla revisione urbanistica che accompagnò ripensamento e sviluppo del quartiere Borgo Nuovo. Taranto, infatti, era anticamente sorta sul piccolo promontorio che, unito alla terraferma da un modesto lembo di terra, separava la grande baia del Mar Grande, all’esterno, dalle acque – dolci e salmastre ad un tempo, preziose per nutrire i celebri mitili – del bilobato Mar Piccolo; mari che, fino alla seconda metà dell’Ottocento, erano in comunicazione solo attraverso il canale naturale a nord-ovest, sul quale sorge, forse dall’anno Mille, il Ponte di Porta Napoli. Sul finire del XIX secolo, l’espansione della città verso est come conseguenza della nascita dell’Arsenale militare sul Mar Piccolo, iniziato nel 1883 e ultimato nel 1889, sfociò, per un verso, nella realizzazione del Canale navigabile, ottenuto recidendo quel breve cordone ombelicale che ancorava la città vecchia peninsulare al resto del territorio, e richiese la contestuale costruzione, sul canale medesimo, del Ponte girevole (entrambe, opere ingegneristiche di assoluto rilievo, inaugurate proprio nel 1887); per altro verso, comportò il rimaneggiamento dell’assetto urbano sulla sponda est della neonata via d’acqua, anche nell’ottica di accogliere molte famiglie dal sovraffollato centro storico. In seguito a sbancamenti e livellamenti per creare un impianto viario di reticolato regolare, moltissimi reperti vennero alla luce, mentre alcuni siti furono irrimediabilmente interrati. Cosicché 

 

il nostro Museo, la cui sede fu individuata nell’ex convento dei frati Alcantarini, 

avviò le proprie attività inizialmente a mo’ di “deposito” 

dei rinvenimenti archeologici locali.

 

A questi, si aggiunsero nel tempo oggetti provenienti da svariati siti del territorio apulo, spesso necropoli o sepolture, da Canosa a Crispiano, da Ginosa ai dintorni di Bari e al Salento, solo per citarne alcuni. Dai primi anni del Novecento, e a più riprese nel corso del secolo fino ai giorni nostri, il Museo fu ampliato, modificato e organizzato secondo i criteri scientifici che più si confacevano al momento storico. Il percorso che viene oggi offerto al visitatore è la risultante di un ultimo intervento che, dopo una chiusura totale nel 2000, riaperture progressive nel 2007, 2013 e, da ultimo, nel 2016, ci consegna un edificio rimodernato, arricchito di ausili multimediali e articolato in due piani espositivi con mezzanino (ove è ospitato un lascito del 1909 da parte di Monsignor Giuseppe Ricciardi che affidò diciotto tele risalenti ai secoli XVII e XVIII alle cure dell’allora Regio Museo);

vi si ripercorre la storia di Taranto e dintorni in progressione cronologica, 

partendo da preistoria e protostoria, quando la parte meridionale 

della penisola era abitata da popolazioni autoctone – gli Iapigi. 


Si prosegue poi con l’arrivo degli Spartani, che fondarono qui la loro unica colonia fuori dall’Egeo,
Taras per l’appunto, nel 706 a. C., dopo che i Parteni, cioè i figli illegittimi delle spartane nati nel corso della guerra messenica, guidati dal giovane Falanto, furono costretti ad abbandonare la madrepatria e a riparare sulle coste italiche, come propiziamente suggerito dall’oracolo di Delfi. Interessante cogliere la dialettica dei rapporti fra colonizzatori e popolazioni indigene, come pure la differenziazione interna di queste ultime che nel corso dei secoli, anche per ulteriori influssi esogeni, si suddivideranno, sull’intero territorio apulo, in Messapi, Peucetii e Dauni.

Viene quindi proposta una sezione dedicata all’epoca romana,
il che dà l’opportunità di ripercorrere i tormentati rapporti
fra l’ambita Taranto e Roma,

 

dall’accordo del IV secolo a. C., secondo il quale navi romane da guerra non potevano superare il Capo Lacinio, entrando nella baia, in tal modo sancendo il principio della inviolabilità della acque interne, fino alla rottura di questo accordo da parte romana; dall’arrivo di Pirro a sostegno di Taranto alla sconfitta e conseguente capitolazione (275 a.C.); dalla ribellione a Roma all’arrivo del cartaginese Annibale; dalla resistenza all’assedio romano alla definitiva disfatta ad opera di Fabio Massimo nel 209 a. C., con conseguente spoliazione della ricca e ammirata città sul golfo. Il percorso espositivo si estende al periodo tardoantico e poi altomedievale, con particolare attenzione ai cambiamenti introdotti dalla dominazione romana nelle abitudini scultoree e decorative, fino alle testimonianze della convivenza sul territorio di comunità ebraiche e musulmane, per giungere al ritorno dei bizantini nel X secolo d. C.. 

 

Il criterio temporale, nelle venticinque Sale del MArTA, affianca quello tematico 

che, attraverso oggetti di arredo, suppellettili ed elementi architettonici decorativi, 

per lo più appartenuti a corredi funerari o comunque a necropoli, permette 

di comprendere le abilità produttive, le abitudini quotidiane, 

la cultura religiosa e i contatti con altri popoli:

 

in altri termini, l’oggetto che esprime un territorio, nell’accezione più ampia del termine. Sarebbe arduo, e certamente riduttivo, tentare di dar conto della ricchezza dei reperti custoditi in questo raccolto e bellissimo Museo, diretto dal 2015 – e con successo, come si riscontra nel numero degli ospiti e nel giudizio dei tarantini – dalla dottoressa Eva Degl’Innocenti. Ma non si può tacere di alcuni oggetti emblematici i quali, più di altri, colpiscono il visitatore che volentieri li incamera e se ne appropria nella memoria. E’ il caso, ad esempio, dell’elegante Zeus-Zis, statua in bronzo alta circa 80 cm, rinvenuta presso Ugento e risalente al VI sec. a.C., rappresentato dai Messapi nei modi iconografici greci, con leggera torsione del busto nell’atto di scagliare fieramente un fulmine; oppure del magnifico cratere raffigurante la nascita di Dioniso, risalente al IV sec. a.C., appartenente alla sconfinata collezione coroplastica, la quale racconta non solo dei contatti delle popolazioni locali con la civiltà micenea ben prima della vera e propria colonizzazione greca, ma anche del successivo legame degli artigiani locali con metodi e forme importati dalla madrepatria, fino allo sviluppo di tecniche decorative originali, come quelle della ceramica sovradipinta.

 

Colpisce la magnifica produzione orafa, con l’esposizione di gioielli raffinatissimi, rinvenuti nelle sepolture e realizzati con tecniche di laminatura, a sbalzo 

e in filigrana, prova tangibile dell’elevato standard produttivo raggiunto 

delle maestranze locali in epoca ellenistica;


carpisce l’attenzione un sorprendente nucifrangibulum, schiaccianoci in bronzo le cui leve sono due mani in fattezze sorprendentemente morbide, atte a contenere il guscio, che si prolungano fino ai polsi ornati di splendidi bracciali serpentiformi in oro. Ancora, una ricca collezione di antefisse, cioè elementi di chiusura delle tegole decorate da volti di gorgoni con funzione apotropaica, oppure elementi in carparo, pietra calcarenite locale, provenienti da frontoni o da monumenti sepolcrali. Ad ogni buon conto, il miglior reportage non potrà mai eguagliare il fascino di una visita. La Storia che qui è raccontata, tuttavia, non è fine a se stessa: il MArTA ospita giovani studenti delle scuole secondarie di secondo grado impegnati nei progetti di alternanza scuola-lavoro che, come spiega il dott. Lorenzo Mancini, giovane archeologo estremamente competente che ci ha accompagnati in questo viaggio, prevede per i prossimi mesi la realizzazione di un percorso guidato nella storia della città attraverso la mappatura del territorio che tenga conto della percezione che gli abitanti hanno dello stesso, al fine di fornire loro un solido ancoraggio identitario.

 

Nel corso della visita, incontriamo due scolaresche di bimbetti non più grandi 

di 4 anni che, ordinatamente, attraversano le Sale del Museo e i secoli passati. Questa è la speranza con cui si lascia la città: 

la cultura affidata alle nuove generazioni.


Il lavoro richiede anni, lustri, decenni. Ma in fondo è poca cosa rispetto ai millenni di gloriosa Storia che da qui ha transitato, consegnando ai posteri un senso e un patrimonio. Si può fare, bisogna crederci.

 

 

 

 

 

 

 

Non si tratta di nascondere la testa sotto la sabbia, evitando di confrontarsi con i tanti e radicati problemi che attanagliano la città e che sembra si attorciglino su se stessi generando frutti letali.

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 Immagini concesse dal Museo Nazionale Archeologico di Taranto

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BENEVENTO: LEGGENDA STORIA VETUSTÀ di Hilde Ponti – Numero 10 – Marzo 2018

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BENEVENTO: LEGGENDA STORIA VETUSTÀ

 

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abbonda di testimonianze storiche intrecciate a leggende misteriche, annoverate ormai alla tradizione popolare, spesso confermate da documenti sulla Sacra Inquisizione.

Come si presenta Benevento, città piena di doni, magica per elezione? Si svela come una terra amena, posta in una conca, attorniata da montagne, dove il fiume Sàbato confluisce nel Calore. Un mondo questo, carico di presenze straordinarie. Mille incantesimi, antichità spesso dormienti, attestano un centro sannita che entra nella Storia, solo dopo la vittoria dei Romani su Pirro. Da allora, Maleventum – il nome arcaico, muta in Beneventum – nel 268 a.C. quasi a decretare fortuna.

 

E’ l’imperatore Traiano a procurarle ricchezza, tracciando la via Appia Traiana, 

che avvicina il sito ai commerci del porto di Brindisi.

 

A decretare Benevento capitale, però, dovettero intervenire i Longobardi, creando un principato, dove fiorì la scrittura beneventana: splendidi manoscritti miniati, ancora oggi tesori inestimabili. 

 

Risale proprio a quella Età la leggenda di Benevento esoterica: descrivendo le pendici settentrionali del colle beneventano come zona dove guerrieri barbari davano vita a riti scabrosi, ancestrali, proprio intorno a un albero di noce. Tuttavia, anche dopo il dominio longobardo, le credenze si ammantarono ulteriormente di liturgie diaboliche: donne confessavano davanti al tribunale dell’Inquisizione, aver volato in sella a esseri infernali, al noce di Benevento, celebrare il Sabba e congiungersi al demonio.

 

Talvolta, invece, con afflati fantasiosi, descrivevano con dovizia il volo, 

cavalcando a loro dire scope – forse l’oggetto a loro più familiare – 

sopra i cieli di Roma,

 

zona San Giovanni, la notte del solstizio d’estate, quando si dice che i semplici emanino l’ennesima potenza dei loro principi. Ormai, venivano chiamate Herbane, essendo pienamente consce degli effetti magici dei semplici, elaborati in formule alchemiche, una sorta di scienza da divulgare, marchiandola proprio sotto al noce.  

 

Forse, fu proprio per interrompere sensualità particolari, supplizi e stragi, comunque porre fine a dicerie, che il sant’uomo del posto, nella persona del Vescovo Barbato, pensò di far sradicare la pianta.

 

Niente scandali sul suolo passato alla Chiesa, dominio che durò fino all’Unità d’Italia. Ciò nonostante, la leggenda ebbe a rafforzarsi, tanto da far parlare 

del fatto misterico, pure in un passo de I promessi sposi del Manzoni. 

“L’elemosina. Sapete di quel miracolo delle noci, 

che avvenne molt’anni or sono…?”.

 

Intanto il volgo sposta il racconto sulle rive del fiume Sàbato, alla mitica Ripa delle Janare, luogo atto agli incontri carnali, tra fattucchiere dedite a creare incantesimi, prodigi vari e veleni, con esseri diabolici. Storie di contrada, a cui ha attinto persino un Marchio: torroni e liquore “Strega”, famosi nel mondo. Brand di qualità, che promovendo un importante Premio Letterario, unirà leggenda e cultura editoriale. 

Ma cosa è rimasto della storia infinita di Benevento?

 

Divulgati su argomenti profani, si riparerà decantando la bellezza impareggiabile del Duomo: dove cinque navate ad arco tutto sesto dell’ingresso, mostrano colonne corinzie di epoca romana, mentre la spettacolare facciata ospita, oltre a frammenti romani e bizantini, anche iscrizioni longobarde.
 
Meraviglia desta anche l’imponente Teatro romano: diecimila spettatori accolti sotto venticinque arcate monumentali, costruzione avviata nel 126 a.C. dall’imperatore Adriano. L’età non ha scalfito né la cavea, tanto meno la scena: ospita ancora rappresentazioni liriche e di prosa. 
 

E come non provare emozione all’arco di Traiano? Un vero passaggio trionfale, eretto per onorare l’imperatore, 

in assoluto il più ricco dei monumenti vetusti, splendori in bassorilievo 

rivestiti in marmo pario.


Invece, i rilievi che spiccano nei due fronti esaltano il saggio governo romano, mentre le immagini all’interno riferiscono rapporti fruttuosi dell’imperatore con la popolazione beneventana. 

 

E poi, non si può tralasciare la Medievale Santa Sofia, dove si celebrano ancora manoscritti e miniature coniate dalla Scrittura beneventana. La costruzione è sorprendente, di pianta semicircolare, sontuosa la cupola, sorretta al centro da un giro esagonale di grandi colonne, affascinante prospettico a effetti geometrici, presenta via via un ciclo di affreschi dell’VIII Secolo:

lascia senza fiato quell’arte siriaco-armena.

 

E come non essere ammaliati da cimeli, colonne, lapidi, cippi romani, incastrati talvolta nei muri di case e ancora androni, cortili trasudanti seduzioni quotidiane, archi, palazzetti barocchi del centro vetusto: Benevento è uno scrigno di tesori. Eccellenze da brivido! Incantesimi, non sempre da immaginario collettivo. 

 

 

 

 

 

  

 

 

 

  

 

 

 

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 Foto: witches-brooms-3067494a Gianmichele Galassi. Le streghe hanno smesso di esistere…

 

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INCONTRI RAVVICINATI di Sergio Lambiase – Numero 10 – Marzo 2018

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INCONTRI RAVVICINATI

 

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a Napoli, c’è una stretta scala che porta al ballatoio dove sono allineate le arche degli Aragonesi. Impossibile accedervi. Prima sì, era lecito, i padri domenicani chiudevano volentieri un occhio, anche se era raro che qualcuno si avventurasse lassù.

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I bauli, ricoperti di sete e broccati, non avevano serratura. Si potevano sollevare i coperchi e guardare i corpi adagiati su letti di resina, foglie, argilla. Da ragazzo ho avuto più volte il privilegio di contemplare la mummia di Ferrante, di Isabella d’Aragona, di Fernando Francesco d’Avalos vincitore della Battaglia di Pavia, dei principi bambini, senza che nessuno m’abbia fermato o abbia gridato all’effrazione. Privilegio assoluto. La luce scialba del lucernario non impediva di osservare profili e velluti. Incontri ravvicinati. Corpi di marziani rivestiti di una leggera patina verde, come di muffa o di licheni affioranti. C’erano elementi di attrazione, seduzioni che non si possono dimenticare.

Lunghi abiti di velluto, cinture con pietre preziose incastonate, 

gorgiere, scarpine di raso,


cappelli eleganti qualche volta calati su volti ossificati. Molti di questi reperti sono da alcuni anni nelle bacheche del museo attiguo alla sagrestia, prima fasciavano i corpi di oro, di rosso e di verde cupo. Li ingentilivano. Li carezzavano. Li rendevano presentabili per l’Ade. 

 

A San Domenico gli Aragonesi ci sono tutti. Manca all’appello solo il capostipite, Alfonso I il Magnanimo, la cui mummia fu portata nel 1667 a Santa Maria di Poblet, in Catalogna. 

 

Una ventina di anni fa scrivevo per un giornale di Roma anch’esso defunto. Si chiamava “Reporter” ed era diretto da Enrico Deaglio. Un giorno telefono al caporedattore (che era Adriano Sofri) per dirgli: “Caro Adriano, mi piacerebbe fare un articolo su San Domenico, perché nel convento ho scoperto che c’è uno di Lotta continua che ha deciso d’indossare il saio”. “Vabbè” dice Sofri sbrigativo e mi manda un bravissimo fotografo di Salerno per corredare il testo di immagini. Ma al convento l’ex Lotta continua si mostra subito reticente nei miei confronti, proprio non gli va di raccontare la sua storia e le sue lotte, adesso premono gli studi tomistici; i giorni dei cortei, delle parole scarlatte, degli scontri con la polizia sono acqua passata. Scornato, mi rifugio col fotografo nella sagrestia. Ma qui mi attende una sorpresa!

Il consueto silenzio del luogo è rotto infatti dall’andirivieni di due medici al lavoro con tanto di guanti e mascherine.   

 

Salgono e scendono la scaletta che porta al ballatoio con le arche. Sono affannati, sudati, i camici sporchi, come in ‘Medici in prima linea’. Nella sagrestia c’è una luce ancora più scialba perché fuori piove. Ad un certo punto m’arrampico anch’io sul ballatoio col fotografo. I due m’accolgono con iniziale diffidenza, ma poi mi accompagnano in una stanzetta di fianco alle arche dove scorgo un tavolo anatomico con una lunga massa spugnosa al cui centro intravedo una chiostra di denti neri!

 

“Sa cosa è?” mi dice con enfasi uno dei medici (il più affabile) 

che corrisponde al nome di Gino Fornaciari. Il fotografo spara più volte col flash. “Sono i resti di Maria d’Aragona, duchessa del Vasto”. 

 

Mi giro intorno. Su di un tavolino vedo un microscopio, un’ampolla, delle boccette, pinze e bisturi da sala operatoria. Una sedia ai piedi del tavolo ospita una collana di pietre scure, delle bende, qualcosa come un abito stropicciato, tra il giallo e l’avorio, con un cuoricino rosso “Vuole sapere di cosa è morta la nostra Maria? Quasi certamente di sifilide. In una piega del corpo abbiamo trovato infatti tracce certe di treponema pallidum, anche se aveva un principio di tumore all’utero!” 

 

Gino Fornaciari, l’ho scoperto dopo, è il più grande esperto italiano (o al mondo?) di archeologia funeraria. Nel Sud d’Italia ha lavorato spesso: a lui si deve lo studio a Venosa dei resti di Alberada di Buonalbergo, moglie di Roberto il Guiscardo, quello di Iolanda di Brienne e Isabella di Inghilterra nella Cattedrale di Andria, il rilievo paleopatologico degli scheletri della “Casa di Polibio” a Pompei, l’indagine nel Duomo di Salerno del corpo di Gregorio VII (quello che costrinse l’imperatore di Germania Enrico IV a prostrarsi, il capo coperto di cenere, dinanzi alla rocca di Matilde di Canossa, in segno di sottomissione).

Fornaciari ha studiato anche ciò che rimane della stessa Matilde, dell’Uomo di Similaun, dei duchi di Montefeltro, di Sant’Antonio 

da Padova, dei soldati uccisi a Marengo, del conte Ugolino,

 

delle mummie precolombiane, del musicista Luigi Boccherini a cui Fornaciari ha diagnosticato post mortem la scoliosi del violoncellista. Ricordate il film Indiana Jones e il regno del teschio di cristallo? Ebbene il nostro paleopatologo tratta le mummie con la stessa disinvoltura di Harrison Ford. A Napoli la sifilide è portata dalle truppe di Carlo VIII e qui si scopriranno i primi casi. La città s’infranciosa, come accadrà tra il 1943 e il 1945 con le truppe alleate. È una malattia “alla moda” per il XVI secolo, come l’Aids quattro secoli più tardi. Girolamo Fracastoro le dedicherà un poema in latino: Syphilis seu de morbo gallico, Pietro Rostinio il primo trattato medico sull’argomento – è il 1556 – avvertendo: 

“’l mal francese è male nuovo, di cui niuno giamai fece mentione”, anche se sono passati circa sessant’anni dall’arrivo 

dei soldati di Carlo a Napoli. 


La sifilide fa strage a corte, come testimonia il lungo, appassionato studio dedicato da Fornaciari ai corpi degli Aragonesi, frutto appunto dell’intensa esplorazione compiuta fra il 1983 e il 1987. Per difendersi dall’assalto del morbo gallico tutti i rimedi sono buoni. Ad esempio strofinarsi l’unguento di mercurio sui denti (“Una notte con Venere, tutta la vita con Mercurio” si diceva allora); ma il mercurio a furia di usarlo annerisce i denti, e invano si cerca di togliere via la patina scura che si forma, usando stuzzicadenti metallici o d’avorio, come farà Maria d’Aragona, ma anche Isabella d’Aragona duchessa di Milano, deceduta quasi sicuramente di mal francese.

Ricordo ciò che mi disse Fornaciari: “La sifilide ha risparmiato 

nessuno nella Napoli del ‘500, sa, né ricchi né poveri!”.


Con la differenza che i poveri finivano all’Ospedale degli Incurabili, mentre i ricchi restavano tra le lenzuola ricamate dei propri letti. Ma di quali altri malattie soffrivano gli Aragonesi? Ferdinando Orsini, duca di Gravina in Puglia, “aveva un tumore maligno nella regione naso-orbitaria destra” (leggo nel gran romanzo-rapporto di Fornaciari); Ferrante d’Aragona, re di Napoli, “un adenocarcinoma della prostata”; il vaiolo aveva ucciso un bimbo di due anni (a San Domenico vi sono arche piccole come culle); Luigi Carafa, principe di Stigliano, soffriva di una “iperostosi idiopatica scheletrica diffusa”; Antonello Petrucci, decapitato per la sua presunta partecipazione alla congiura dei baroni, presentava “voluminosi calcoli della colecisti”.

E poi “un ignoto gentiluomo deceduto nella prima metà del XVI secolo reca una ferita mortale da punta, verosimilmente di spada, fra l’ottava 

e la nona costa di sinistra, sulla linea emiclaveare”. 


Per tutti, o quasi tutti, abusi di zuccheri, carni, vino, grassi di origine animale, con tendenza a sviluppare obesità, gotta, diabete, cirrosi, denti guasti, tumori dell’intestino. Sullo sfondo la tentazione dell’alcova, ma lasciando che il
treponema pallidum compia la sua opera distruttiva. 

 

Ma ai ragazzi e alle ragazze di scuola che, coi loro insegnanti, vengono in visita a San Domenico non si possono raccontare queste tragedie e miserie umane, anche se lo sguardo è rivolto in su, alle arche allineate come i vagoni di un treno in miniatura. O, per lo meno, non si possono raccontare interamente, benché film e videogame li abbiano abituati al genere horror; ma qui non si tratta di finzione.

Grazie alle auscultazioni di Fornaciari sappiamo tantissimo
degli Aragonesi e delle loro terribili malattie. Non sapremo mai, 

invece, di cosa è morto il padre domenicano Richard Luke Concanen, primo vescovo cattolico di New York, il cui corpo è sepolto nella sagrestia di San Domenico sotto una lapide del pavimento.


Concanen nacque in Irlanda nel 1747 e morì a Napoli nel giugno del 1810, nella vana attesa di imbarcarsi per prendere possesso della sua carica, perché il blocco continentale impediva alle navi di prendere il largo verso i porti americani. Sulla tomba dello sfortunato vescovo di New York i ragazzi di solito accumulano i loro zainetti. 

 

 

 

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