UN UOMO IN PIEDI di Marina Alberghini numero 31 ottobre novembre 2024 Editore Maurizio Conte

Benedisse l’unione la Dea lunare Diana, della natura gioiosa regina delle selve e dei boschi, di quella Natura incomparabile che splendeva nel luogo dove era nata quella magia musicale. Luogo incantato che fu chiamato Partenope, dal nome della Sirena suicida per amore, perché anche l’amore era indispensabile a quell’ alchimia, ne era anzi una componente essenziale, inscindibile

Quel luogo, dove cantavano Mare, Bellezza, Musica e Amore si chiamò in seguito Napoli, ed essendo un dono degli Dei, ammaliò per secoli 

i viaggiatori di ogni Paese,

 

che non potevano sapere che quella bellezza, quel fascino che apparivano nuovi ai loro occhi, erano anche misteriosamente antichi. Perché Napoli è il più sontuoso palinsesto di grandi culture stratificate. 

Di quell’antica bellezza, delle sue fortune poi declinate, tanti hanno parlato, ma alcuni sono stati glorificati in eccesso, altri, con meriti spesso maggiori, sono stati tenuti nell’ombra. Molti i nomi celebrati tra chi parla a sproposito di Napoli, ma quanti conoscono, ad esempio, quello di Giuseppe Marotta, scrittore tra i pochi che compresero pienamente la straordinaria poesia e umanità napoletane? E infatti il suo nome è caduto nel dimenticatoio. Per fortuna, nonostante le scopiazzature, fra gli storici emerge ancora un gigante: Luciano Salera.   

 

Sapevo della lotta del Sud per restare indipendente, il mio nonno napoletano, figlio di un ufficiale borbonico, mi raccontava quello che, secondo lui, aveva combinato Garibaldi, e in seguito anche mio marito, benché fosse bolognese, mi diceva sempre che Garibaldi e compagni avevano, consapevolmente o no, distrutto la più grande civiltà italiana dell’epoca. Poi otto anni a Napoli, dove mio marito era stato chiamato a fondare l’Aeritalia, mi riconfermarono nell’amore per una città incomparabile.

Ma mai avrei pensato di conoscere, incarnato, uno dei maggiori conoscitori 

di quella lotta dimenticata che raccontava nei suoi libri e il cui stile 

non era piatto e noioso come quello degli storici ufficiali, 

ma vivo, splendente e carnale.  


Come conobbi quell’uomo che era fatto di mare e come il mare poteva essere tempestoso e ferire, ma essere anche sereno e brillante delle mille luci del sole?     

 

L’incontro ebbe qualcosa di misteriosamente già previsto e d’altronde io non credo nelle coincidenze ma che tutto abbia un fine nella nostra vita perché guidato da un filo misterioso. Era una sera di ottobre del 2009. Mio marito Giordano, dopo 40 anni di matrimonio felice, da un anno era volato in Cielo e io avevo preferito restare sola nella nostra casa rifiutando di trasferirmi dai parenti. Lavoravo ai miei libri, ma a volte ero molto triste. Specialmente con l’arrivo dell’autunno, in quella sera fiesolana del 29 ottobre, sentivo il vuoto attorno a me.

Ma quella sera si rivelò speciale… Sul grande tavolo antico del salone 

era aperto il quotidiano Il Giornale. Stavo preparando la cena 

e buttai un occhio sulle Lettere dei Lettori. Una mi colpì. 

C’era una tale forza in quella lettera che rivendicava 

le ingiustizie passate di un popolo che era stato 

depredato e colonizzato!


Una forza tale che sentii l’impulso di dire a quella persona che aveva ragione, che la pensavo uguale! Che aveva ragione da vendere! Che io avevo scritto della grande civiltà dei Borboni nel mio libro sul Presepio Napoletano! Una cosa davvero inusitata, perché non sono mai stata propensa a scrivere a sconosciuti. Mai.

Vidi la firma: Luciano Salera, Napoli. Anche qui agì il destino perché, 

se avesse firmato la mail con uno pseudonimo, tutto sarebbe finito lì.


Cercai il telefono nell’elenco abbonati e lo chiamai. La sensazione immediata fu che fossimo due vecchi amici che si erano ritrovati, una sensazione reciproca di felicità. Che iniziò con uno scambio di libri e con lui che mi mandava ricette di cucina napoletana insieme con i ricordi dei nostri cari sposi defunti. Andò avanti per più di dieci anni. Parlavamo di tutto e tutti i giorni in un rapporto fatto di mail e di telefonate che arricchirono la nostra vita.   

 

Da quel primo incontro, non pensate che io stia esagerando, egli mi apparve come un antico Cavaliere senza Macchia e senza Paura, fedele per sempre alla sua “Patria napolitana”, come la chiamava, ai suoi colori che erano quelli dei Borboni. E l’arma di quel Cavaliere era la penna. Ho letto tanti libri di storia: alcuni leggeri e a volte umoristici oppure aneddotici, come quelli di Cervi e Montanelli, altri molto documentati, come Declino e caduta dell’Impero Romano, di Edoardo Gibbon, troppo austero per i miei gusti. Invece Luciano coniugava un filo di finissimo humour alla serietà delle sue documentazioni, spesso vere scoperte.

Dopo la morte della moglie adorata, anche lui come me aveva deciso di vivere solo nella dimora che aveva visto crescere una famiglia unita e felice. 

Si dedicava totalmente ai suoi libri. Amici pochi, ma buoni,

come Giorgio Salvatori che lo intervistò al tg2, il magistrato Edoardo Vitale, e l’editore Pietro Golia, che curò per Controcorrente due sue pubblicazioni “Garibaldi, Fauché e i predatori del Regno del Sud” (2006) e “La Storia Manipolata 1860-1861- Documenti e Testimonianze” (2009). Inoltre era circondato dell’affetto delle due figlie, Giorgia e Antonella, e delle nipoti che amava teneramente.

 

Ma  quando  lo  conobbi  io  aveva già  problemi  di  salute ed era diventato un misantropo. Col tempo si aperse con me completamente. Ma sempre da lontano, io a Fiesole, lui a Napoli. Forse lui, che era molto orgoglioso, non  avrebbe  voluto  farsi  vedere  nell’avanzare di un rapido declino, fisicamente diverso da come era stato. Era  un  uomo  molto  sensibile ma di una sensibilità maschia, mai l’ho sentito piangersi addosso. Anzi, se gli dicevo  di curarsi si  arrabbiava. Gli  scocciava  anche  sentirsi chiedere come stava. Era capace di momenti d’ira pensando al destino della sua  Patria Napolitana, e allora faceva paura. Ma a volte  poteva  tramutarsi  in un  umorista  divertentissimo che  mi faceva  piangere dal  ridere facendomi sentire una quindicenne. Posso dire che da quando non c’è più io non ho più riso come allora?
Si è portato via la mia allegria e sono improvvisamente invecchiata.

 

Era un vulcano, un uomo luminoso, i suoi momenti burrascosi 

erano nuvole che coprono il sole e che poi sparivano.


Io mi abbeveravo alla sua sterminata cultura, al punto tale che, grazie a lui, ritengo di essere cresciuta anche spiritualmente. Diceva spesso che Napoli non è una città, ma una nazione. Intuizione felicissima, infatti Napoli non ha niente a che fare con le altre città della Campania e del Sud perché è una stratificazione di molte e grandi civiltà, a cominciare dalla greca. Il suo orgoglio lo portava addirittura a non promuovere i suoi libri o a cercare editori. Fui io a fargli conoscere l’editore Solfanelli e a portare il suo
“La fuga di Garibaldi e il giallo della morte di Anita” (edizione Solfanelli, 2016), alla giuria del Premio Firenze. Ne scaturì un premio e una menzione d’onore. Ogni suo successo lo sentivo come mio. Inoltre mi affiancai a lui, inviando lettere ai giornali, nella sua lotta per ristabilire la verità sul Sud depredato e mistificato. 

Era geniale. Una personalità multiforme sempre determinata a chiedere il massimo a se stesso. Difficile definirlo. tenebroso, insondabile, ironico, focoso, gelido, romantico, scontroso, spiritoso, ma affettuoso, passionale, folle, cupo, iroso, fascinoso, misterioso, indomabile, incomprensibile, sboccato, raffinato… cambiava sempre, pur restando se stesso. 

Con gli editori non fu mai un uomo facile. Delegava tutto a me. Solo con Golia aveva un rapporto fraterno ma anche con lui una volta qualcosa si spezzò. Perché Luciano sapeva anche essere verbalmente violento, e riuscì a volte a farmi piangere, ma poi tornava il sereno e le volte che mi fece ridere o sorridere furono molte di più! 

Tenerissimo quando parlava delle figlie e in particolare delle nipoti. Ma si preoccupava di quando sarebbero cresciute in un mondo così corrotto e io lo consolavo dicendogli che tutto dipende sempre dalla base ricevuta in famiglia. Questo contava. E ho potuto averne la conferma oggi, constatando i successi accademici e professionali delle nipoti.

 

Quando cominciava un libro me ne parlava a lungo. Poi me lo mandava 

per sapere che ne pensassi e perché gli correggessi le bozze.


Perché  lui  scriveva di getto e non rileggeva. C’erano  momenti  in  cui  era  amareggiato al pensiero dei troppi arrivisti: scrittori  da  quattro soldi, spesso  solo  giornalisti, pseudo  scrittori che saccheggiavano i suoi  libri e che, mediante vantaggiose  amicizie,  balzavano agli  onori di citazioni su giornali e in TV con libri troppo spesso scritti male. Gli  dispiaceva  non  per  sé,  perché  rifuggiva da onori  e  successo,  ma perché il suo pensiero, le sue ricerche, andavano in giro storpiati. Un altro suo dispiacere era di non aver fatto Lettere, come gli sarebbe piaciuto (e come sarebbe stato giusto) ma Economia e Commercio, per volere del padre.

 

Io gli mandavo via via i miei libri a ogni uscita, e un divertente diario 

dove lui vestiva i panni di un greco antico protagonista di mille avventure. 

Per lui scrissi anche una poesia,

 

“Uomo solitario’’, che gli piacque molto: Uomo solitario e racchiuso / nella torre del tuo orgoglio.              / Sale invano la voce del mare / a ricordarti il rigoglio / della stagione carnale. / Nella tua casa silente / vuoi respirare soltanto / la polvere antica / di libri vissuti / Amaramente scrivendo / di cupe ingiustizie 

/ Di anni perduti.   

 

Negli ultimi anni era molto peggiorato, quasi paralizzato nelle gambe, e si disperava temendo di sopravvivere a sé stesso e di essere di peso alle figlie. Poi è arrivato il Covid e credo lo avrà accolto come un amico.   

 

Perché le aquile non sono fatte per restare in gabbia.

 

UN UOMO IN PIEDI

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RICORDO DI LUCIANO SALERA

   UNO STORICO DEL SUD DA NON DIMENTICARE 

 

 

RETABLOS di Gloria Salazar numero 31 ottobre novembre 2024 editore maurizio conte

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Chi ha reminiscenze scolastiche ricorderà di non aver mai sentito parlare dell’arte rinascimentale sarda.  

 

Quando si pensa alla Sardegna sotto il profilo artistico viene in mente tutt’altro. Tutti conoscono la civiltà nuragica con i suoi bronzetti e le sue misteriose torri, molti sanno dell’esistenza degli splendidi esempi di architettura romanica, forse qualcuno penserà agli artisti contemporanei; ma la pittura medioevale e rinascimentale sarda – se mettiamo da parte gli scritti di pochi storici dell’arte, in particolare Corrado Maltese, e i fondamentali studi di ambito locale – è sfuggita, almeno come movimento, ai radar della storiografia dell’arte nazionale. 

 

In una terra contesa per secoli tra l’Italia (Pisa, Genova e poi il Piemonte) e la Spagna, lo studio dell’arte sarda è rimasto terra di nessuno. Eppure in Sardegna vi sono, pressoché ignote, interessanti testimonianze di arte pittorica, cicli di affreschi e dipinti Medioevali di grande suggestione

 

Ma la manifestazione più notevole dell’arte sarda è rappresentata dai retabli

 

vasta espressione di un importante fenomeno artistico, altrettanto sconosciuto, fiorito nell’isola nel XV e XVI secolo.  

 

Paradossalmente, o forse no, negli ultimi anni la Spagna si è dimostrata maggiormente interessata alla storia ed alle vicende artistiche isolane, piuttosto che l’Italia stessa; probabilmente come conseguenza della dominazione iberica, sotto la quale la Sardegna si è trovata dal XIV al XVIII secolo. 

 

Ed è proprio dalla Spagna che nel ‘400 venne importata in Sardegna la fattispecie del retablo, termine derivato dal latino “retro tabula”, ossia dietro la tavola (dell’altare). I retabli – italianizzazione dello spagnolo retablos – per alcuni aspetti corrispondono ai nostri polittici. Hanno come caratteristica principale una struttura imponente in legno scolpito e dorato, suddivisa in numerosi scomparti posti su vari ordini, nei quali sono inseriti statue e dipinti su tavola, prevalentemente a fondo oro. La loro più impressionante rappresentazione è costituita dal Retablo Mayor della Cattedrale di Siviglia, il più grande del mondo, un’opera monumentale che misura quasi 30 metri di altezza e 20 di larghezza.

 

Anche in Sardegna i retabli sono pale d’altare maestose ricoperte d’oro. Incorniciano dipinti dai colori vividi, pervasi da una leggiadria iconografica 

che sotto certi aspetti rimanda all’arte gotica.


Sono opera di artisti sardi e sardo catalani, della maggior parte dei quali, purtroppo, non è noto il nome, e che sono conosciuti perciò come “Maestro” della località in cui si trovano i loro principali lavori. 

La Sardegna era stata una terra di conquista e per certi versi, seppure un’isola, idealmente anche una terra di confine, e come tale aveva subito le influenze dell’una e dell’altra sponda limitrofe al suo territorio. Per questa ragione

 

gli stilemi delle pitture dei retabli sardi sono riconducibili
sia a quelli coevi dell’arte spagnola che a quelli italiani;

non scevri, anzi spesso fortemente connotati, da richiami fiamminghi. D’altronde all’epoca l’impero spagnolo, di cui la Sardegna faceva parte, si estendeva fino alle Fiandre, della cui Scuola artistica la penisola iberica aveva recepito totalmente i modelli. 

Il Retablo di San Bernardino, datato al 1455, è noto per essere il più antico retablo sardo ed è conservato, come molti altri, nella Pinacoteca Nazionale di Cagliari.

 

Ma è nel Retablo di Tuili che si rinviene la più alta raffigurazione
dell’arte pittorica rinascimentale della Sardegna,
opera del cosiddetto Maestro di Castelsardo,


cui fu attribuito tale nome per i frammenti di un retablo rinvenuti nell’omonima località. L’artista, la cui vera identità non è stata stabilita con certezza, era contemporaneo – per fornire una collocazione temporale – di Botticelli e Perugino. Recentemente è stato ipotizzato si potesse trattare di Gioacchino Cavaro, forse zio di Pietro Cavaro, pittore appartenente ad una prolifica dinastia. Quest’ultimo fece parte, insieme al figlio Michele, della più famosa Scuola d’arte del Rinascimento sardo, la Scuola di Stampace – attiva dalla fine del XV secolo – che prese il nome da un quartiere storico di Cagliari dove si trovavano le botteghe degli artisti.  

Ne furono protagonisti, oltre ai Cavaro, Antioco Mainas, insieme ad altri pittori minori, anch’essi autori, quasi sempre anonimi, dei dipinti di innumerevoli retabli.

 

Alla scoperta di queste opere d’arte della Sardegna si potrebbe ispirare
un inconsueto itinerario di viaggio nell’isola, una “via dei retabli”.


Infatti tali opere, o parti di esse, oltre che nella già menzionata Pinacoteca di Cagliari, che ne custodisce la principale raccolta, e nel Museo Diocesano della città, si trovano in numerose chiese e musei sparsi su tutto il territorio. Per citare alcuni tra i più notevoli ricordiamo i retabli di: Villamar; Perfugas (il più grande della Sardegna, con 54 tavole); Ozieri, con le splendide opere dell’omonimo Maestro, alcune visibili anche a Benetutti, a Ploaghe e a Bortigali, a proposito del quale Federico Zeri disse: “si potrà definire il Maestro di Ozieri un pittore sardo nella stessa misura in cui Chopin può dirsi risolto nell’etichetta di compositore polacco”; Ardara (il più alto – 10 metri – tra quelli sopravvissuti nella loro interezza); Dolianova; Codrongianos; Iglesias; Lunamatrona; Suelli; Oliena; Olzai; Gonnostramatza; Milis. Senza dimenticare la collezione conservata nel Museo Antiquarium Arborense di Oristano e quella del Museo Diocesano di Alghero.

I retabli perdurarono a lungo come “forma d’arte”. Con l’avvento del Barocco l’aspetto architettonico della struttura assunse un’importanza preponderante
ed i dipinti furono soppiantati da sculture lignee.


Anche di questa tipologia esistono in Sardegna vari esempi, tra i quali: lo spettacolare retablo di San Pietro a Sassari, alto 12 metri; e l’imponente retablo di Sant’Antioco ad Iglesias.

 

 

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IL VENTRE DI NAPOLI NASCONDE UN FANTASMATICO MONACO BAMBINO di Francesca Romana De Paolis numero 31 ottobre novembre 2024 Ed. Maurizio Conte

 

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IL VENTRE DI NAPOLI NASCONDE UN.FANTASMATICO MONACO BAMBINO

 

Soffia nelle orecchie di chi dorme, arraffa oggetti nelle case dei malvisti, accetta di buon grado le monete, spesso è foriero di buona sorte e si diverte a corteggiare le belle donne. 

Si tratta del 

 

Munaciello, il più stimato e temuto, il più antico e rispettato spirito 

del folklore partenopeo.


lMatilde Serao, celebre giornalista e scrittrice napoletana, racconta che le origini di questo piccolo monaco dispettoso, potrebbero essere legate a una vicenda accaduta intorno alla metà del Quattrocento a Napoli, durante il regno di Alfonso V d’Aragona.   

 

All’epoca, si consumava in gran segreto una storia d’amore tra Caterina Frezza, figlia di un ricco mercante di stoffe e il garzone Stefano Mariconda. Per raggiungere nottetempo la sua amata, sembra che Stefano, non gradito dalla famiglia di Caterina, dovesse arrampicarsi e camminare sui tetti della città. Una sera sventurata egli cadde e morì. 

Poco dopo, la sua Catarinella fu rinchiusa in un convento e diede alla luce un bambino malformato. Le suore, allora, accorsero in aiuto vestendolo con abiti monacali, per nascondere le sue deformità.

 

Quando fu in grado di camminare, questi se ne andava in giro 

per il quartiere Porto con saio e cappuccio alla francescana. 

Si guadagnò così il soprannome di “Munaciello” (piccolo monaco). 


Secondo la leggenda egli scomparve prematuramente e da allora si iniziò a credere che la sua anima girasse per Napoli e avesse misteriosi poteri magici.   

 

È possibile che un rifugio del monaco bambino si trovi a Marina del Cantone e più precisamente nella Torre di Montalto, presso Sant’Agata sui Due Golfi a Massa Lubrense. Altre voci raccontano che il Munaciello abiti le vecchie abbazie e i monasteri del centro di Napoli oppure le ville partenopee.

All’origine rinascimentale dello spiritello esoterico se ne aggiunge un’altra, 

legata al Sette-Ottocento.


E, in particolare, alla figura dei pozzari. Uomini minuti, abbigliati con mantello ed elmetto, dunque simili a piccoli monaci, che si occupavano della manutenzione e la pulizia delle cisterne in tufo che costellano la Napoli sotterranea. Le cisterne avevano cunicoli verticali scavati nella roccia, collegati direttamente ai soprastanti palazzi nobiliari.

 

Si racconta che, grazie alla facilità con cui i pozzari avevano accesso alle case, 

essi di tanto in tanto – specie quando non venivano retribuiti – vi sostassero 

per fare uno spuntino, conquistare la donna del focolare e rubacchiare. 

Ancora oggi se qualche oggetto domestico scompare, 

a Napoli si dice che è stato il Munaciello.


Insomma, tutto porta a credere che si tratti di una presenza bizzarra e un po’ canaglia. Però le sue apparizioni, sia reali che in sogno, sono descritte come miracolose, poiché il monaco indica a chi lo vede i numeri fortunati da giocare al Lotto e realizza i desideri. Questo a patto che nessuno riveli la sua presenza, poiché farlo porterebbe invece la cattiva sorte. 

La duplice e ambigua natura dello spiritello – generosa e molesta, irriverente, ma anche sacra, disturbante e sorprendente – lo rende simile ad una sorta di allegoria del destino. Non a caso un antico proverbio napoletano recita così: “O Munaciello: a chi arricchisce, a chi appezzentisce”.

La città che sorge all’ombra del Vesuvio è ancora fervidamente traboccante 

di segnali che fanno pensare all’esistenza del piccolo monaco.

La chiesa di Sant’Eframo Vecchio, il quartiere di Secondigliano, Piazza Garibaldi in centro, una casa in via dei Tribunali sono solo alcuni dei luoghi protagonisti di apparizioni, improvvisi arricchimenti, tranelli e fortune. 

E, a Castellammare di Stabia, tra il vulcano e la costiera sorrentina, nei pressi dell’antico terziero di Scanzano, c’è una strada rivolta a monte, proprio intitolata al Munaciello.

E anzi, a un particolare Munaciello, che da pizzichi 

e fa sgambetti a chiunque passi per di lì.


Secondo Carl Gustav Jung alcune figure del mondo favolistico soprannaturale rappresentano le forze sotterranee dell’inconscio. Risorse psichiche di cui gli esseri umani non sono consapevoli e che hanno a che fare con l’istinto e l’intuizione. Le figure cui si riferiva Jung sono i nani e gli gnomi, appartenenti alla cultura nordica, ai quali tuttavia, il piccolo monaco partenopeo sembra accostarsi per tipologia.

Ad ogni buon conto, il Munaciello resta ad oggi il fantasma più pop 

del nostro meridione. È stato protagonista di opere teatrali, 

cinematografiche e di canzoni.


Compare anzitutto nella famosa commedia di Eduardo de Filippo “Questi fantasmi”, in cui il personaggio dell’amante è vestito come un monaco. Fa capolino nella canzone “O’ Munaciello” (1891) di Roberto Bracco. E arriva fino agli anni Duemila, poiché “Munaciello” è il soprannome dato a uno dei boss nella serie tv “Gomorra” (2014-2021). Ma soprattutto il monaco bambino, compare nell’incipit del film “E’ stata la mano di Dio” (2021) di Paolo Sorrentino, dove la zia del protagonista gli da un bacio sulla nuca, su invito di San Gennaro, come gesto propiziatorio per la propria fertilità. 

  

 

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LA SCALINATA MONUMENTALE DI VIA GIUDECCA di Claudia Papasodaro numero 30 dicembre 2023 gennaio 2024 editore maurizio conte

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LA SCALINATA MONUMENTALE DI VIA GIUDECCA

 

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 L’eredità culturale è un insieme di risorse ereditate dal passato che le popolazioni identificano, indipendentemente da chi ne detenga la proprietà, come riflesso ed espressione dei loro valori, credenze, conoscenze e tradizioni, in continua evoluzione. Essa comprende tutti gli aspetti dell’ambiente che sono il risultato dell’interazione nel corso del tempo fra le popolazioni e i luoghi;   Una comunità di eredità è costituita da un insieme di persone che attribuisce valore ad aspetti specifici dell’eredità culturale, e che desidera, nel quadro di un’azione pubblica, sostenerli e trasmetterli alle generazioni future.

 

Convenzione di Faro, art. 2

La ratifica della Convenzione di Faro da parte dell’Italia, avvenuta nel 2020, ha rappresentato un momento significativo per il nostro ordinamento. Non solo perché tale Convenzione riconosce il patrimonio culturale come elemento fondamentale per lo sviluppo civile (questo principio era già sancito dalla nostra Costituzione), ma soprattutto perché introduce il “diritto al patrimonio culturale”, coinvolgendo i cittadini in nuove forme di tutela e valorizzazione. 

 

Ed è bello scoprire che 

proprio al Sud, ed in particolare in Calabria, questi principi abbiano trovato

spontanea attuazione, dando vita ad una straordinaria 

storia di cittadinanza attiva


cominciata ormai qualche anno fa, ma che vale la pena ancora oggi raccontare. 

 

Tutto nasce da un appello lanciato sui social il 31 marzo 2021 attraverso un gruppo facebook denominato “ILOVERC”. Un appello rivolto alla cittadinanza di Reggio Calabria per correre in soccorso di un luogo simbolo della città abbandonato da più di un decennio: la Scalinata Monumentale di via Giudecca. 

 

Questa storica scalinata è una delle opere di contenimento del dislivello di terreno fra il centro storico e la zona collinare sovrastante, costruita tra il 1916 e il 1930 per facilitare il collegamento pedonale tra la parte bassa e la parte alta della città. Il suo aspetto, nonostante l’inserimento delle ringhiere che hanno sostituito in molti tratti gli originari parapetti in mattoni alleggerendo la struttura, risulta davvero imponente: presenta una doppia rampa con terrazzamenti su ben 12 livelli e 23 scalinate di forma e dimensioni differenti. Il tutto crea  

uno scenografico effetto a cannocchiale che dall’alto attraversa la città sino a toccare

il mare. Un luogo davvero suggestivo e dall’alto valore storico e paesaggistico. 

Ma soprattutto un luogo identitario,

 

presente nelle memorie di tutta la comunità reggina. 

 

Grazie alla risonanza dei social, l’11 aprile 2021 un gruppo di sconosciuti si incontra ai piedi della scalinata. Sono persone giunte da ogni parte della città con un unico obiettivo comune: restituire dignità a quel luogo terribilmente offeso e reso inaccessibile da anni di incuria. 

 

I cittadini decidono dunque di unire le forze per la realizzazione di un interesse collettivo, in una nuova forma di libertà solidale e responsabile. Il 20 aprile 2021 il gruppo fb “ILOVERC” si trasforma in “Articolo118.RC” per richiamare il Principio di Sussidiarietà sancito dalla nostra Costituzione, in virtù del quale i partecipanti all’iniziativa stavano agendo. 

 

Nei tre mesi successivi tantissimi reggini si uniscono alla pulizia della scalinata. Ogni giorno, 

la bellezza di quei 180 gradini, che scandiscono il dislivello fra la Via Posidonea 

e la via Reggio Campi, veniva sempre più fuori, fino all’ultima rampa che, 

ripulita dalle sterpaglie altissime, ha restituito la meravigliosa vista 

sullo Stretto di Messina

 

Completata la fase di pulizia, i volontari non si fermano e decidono di occuparsi anche dell’abbellimento delle terrazze, arricchendo le aiuole con piante e fiori colorati. La Scalinata della Giudecca è finalmente pronta a vivere la sua rinascita: sui suoi gradini c’è di nuovo gente, artisti di ogni genere cominciano ad improvvisare performances ed arrivano anche i turisti. La scalinata non solo recupera la sua funzione di passaggio strategico per la città, ma torna ad essere luogo di ritrovo per la comunità e teatro di manifestazioni ed eventi culturali. 

 

Il progetto di riqualificazione e valorizzazione prosegue, si evolve e si fa sempre più articolato. Il 24 settembre 2022 i volontari costituiscono l’associazione “Scalinata Monumentale di via Giudecca APS”, che ottiene un importantissimo risultato entrando, poco dopo, a far parte della Rete delle Comunità Patrimoniali Italiane (CPI) presenti su “Faro Italia Platform”, un’iniziativa della Rete Faro Italia con il supporto finanziario del Consiglio d’Europa.   

 

Di luoghi come la Scalinata della Giudecca in Italia ne abbiamo molti. L’auspicio è che questa bellissima storia di cittadinanza attiva possa essere un esempio per tante altre comunità, affinché prendano coscienza della portata rivoluzionaria che il loro ruolo può avere nella tutela, nella valorizzazione e a volte, come in questo caso, nella rinascita del nostro straordinario patrimonio.

 

 

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LA LEGGENDA DELLE TESTE DI MORO di Francesca de Paolis numero 30 dicembre 2023 gennaio 2024 ed maurizio conte

 

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LA LEGGENDA DELLE TESTE DI MORO

anfore ed otri abbellite da fiori e limoni; piastrelle dipinte a mano con motivi fitomorfi. Sono questi i manufatti artigianali tipici della Sicilia: terra dove si addensano i profumi dei capperi e dei fichi, degli agrumi e dei giardini. Regione di mare e pescatori, di vini, anfiteatri ed altre bellezze antiche.

Fra tanti misteri esotici, c’è una storia di laggiù – di quell’isola così sfarzosamente mediterranea – che in pochi conoscono e che noi, per vezzo e smodata curiosità di arcani più che per scarno amore di verità, desideriamo raccontare.

A tutti è noto che Caltagirone, luogo in cui si affollarono i migliori artisti di ogni tempo, 

è capitale siciliana di ceramiche, esportate in tutto il mondo.


Catania e Taormina brulicano di botteghe allestite di terrecotte. E basta volgere lo sguardo alle finestre, all’ingresso delle case o dei ristoranti per ammirare e riconoscere il simbolo per eccellenza della ceramica siciliana: le Teste di Moro. 

 

Stravaganti vasi a forma di testa, dalle parvenze vagamente orientali, ai quali negli ultimi anni si sono ispirati anche i gioiellieri. Così, oggi capita di vedere, appesi ai lobi dei più barocchi, piccoli volti di ceramica, sempre in coppia. Una testa, dalla faccia nera, è di un arabo, con turbante, baffi e monili, l’altra raffigura una giovane normanna.

Non si tratta di un’iconografia inventata, frutto del fastoso virtuosismo 

di qualche artigiano, ma di una moda che ha attraversato i secoli, 

affondando le sue radici in una storia sicula del XII secolo.


Era il 1100, durante l’egemonia araba, quando una fanciulla del quartiere di Al Hàlisah di Palermo, oggi chiamato Kalsa, si innamorò di un Moro che era in città di passaggio, e ne fu ricambiata. 

 

Dopo qualche tempo di incontri amorosi, però, l’uomo rivelò all’amata che sarebbe presto dovuto ripartire, poiché in Oriente lo aspettavano moglie e figli. Folle di rabbia, la fanciulla, di tempra combattiva, come è d’uso fra le splendidamente vigorose e tenaci donne del Sud, uccise l’amante nottetempo. Gli tagliò la testa e la usò come vaso per piantarci del basilico che, per non si sa quale strana alchimia, crebbe più rigoglioso che mai. Tanto che il vicinato cominciò a commissionare vasi a forma di testa di moro, usandoli come ornamenti per i propri balconi. 

 

Di questa leggenda siciliana, nella quale si aggrovigliano passione e vendetta, tradimento e gelosia, sono sature dunque le famosissime Teste di Moro in ceramica dipinta prodotte in terra trinacria. Rese nelle più diverse varianti, ad assecondare il gusto di tutti coloro che, anche non conoscendone la storia, sono subito attratti dal loro eccentrico fascino. 

 

A distanza di duecento anni,

 

chi dimostrò di essere stato sedotto dalla storia delle Teste di Moro 

fu niente di meno che una delle tre corone della nostra letteratura: 

Giovanni Boccaccio


Nella ricchissima e variegata raccolta di novelle del Decameron (1349-1351), in particolare nella quinta storia, narrata da Filomena, si parla di una vicenda molto simile. Che certo il nostro novelliere trasse dalla Sicilia. 

La novella di Boccaccio racconta di una certa Lisabetta da Messina che amava in gran segreto Lorenzo, un giovane di Pisa, che non avrebbe potuto frequentare, poiché era di umili origini. Quando la famiglia lo scoprì, i fratelli di Lisabetta, tre ricchi mercanti, uccisero Lorenzo e lo seppellirono nelle campagne. 

La giovane affranta ebbe, tuttavia, una visione in sogno: il suo amato defunto le rivelò il luogo della propria sepoltura. 

 

Così Lisabetta si recò nel luogo indicato, dissotterrò Lorenzo, ne recise la testa e la portò a casa con sé, nascondendola in un vaso di basilico. Di giorno in giorno la giovane andava a piangere per il suo Lorenzo sopra a quel vaso. E fu così che le lacrime d’amore versate da Lisabetta annaffiarono il basilico, che divenne più florido e lussureggiante che mai. 

 

È certo che gli abitanti del posto sapranno offrire una dovizia di particolari in più sulla leggenda, ma prima di avventurarci in Sicilia per saperne di più, per intessere in Trinacria travagliate storie d’amore, o semplicemente per comprare delle splendide e ornamentali Teste di Moro, c’è un dettaglio da notare.

Il basilico ricorre sia nella storia originale delle Teste di Moro 

che nella versione di Boccaccio.


L’illustre scrittore toscano poteva scegliere un’altra pianta per la sua Lisabetta da Messina, invece sceglie la stessa. Il basilico, infatti, è una pianta fortemente simbolica, dal significato ambivalente. È ritenuto di buon auspicio per l’aldilà. Antichi egizi e greci lo usavano per le imbalsamature. Cinesi ed arabi ne conoscevano le proprietà medicinali, i crociati ne riempivano le navi per renderle profumate e nel Medioevo era utilizzato per guarire numerose ferite. Inoltre, in Occidente, al basilico, portatore di fertilità, è attribuito un significato erotico. Mentre sull’isola di Creta il basilico rappresenta una pianta nefasta. 

 

È un po’ come se nel basilico, rigoglioso ed olezzante, squisitamente mediterraneo, si celassero tutti quegli umori, sentimenti, accenti, venature di cui si compone la suggestiva storia che si cela dietro le Teste di Moro.

 

 

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LA PINACOTECA “GIUSEPPE DE NITTIS” A BARLETTA di Gianluca Anglana numero 30 dicembre 2023 e gennaio 2024 editore Maurizio Conte

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 LA PINACOTECA “GIUSEPPE DE NITTIS” a BARLETTA

 

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il fascino austero della cattedrale, la severità marziale del castello, l’aura di corrucciata enigmaticità del Colosso. E anche Palazzo della Marra, splendida dimora aristocratica ceduta al demanio dello Stato nel 1958: un edificio elegante, che oggi ospita la Pinacoteca De Nittis.   

 

Come si vedrà più avanti, questa collezione di quadri è uno dei più toccanti attestati d’amore che, per interposta persona, un artista abbia mai tributato alla propria terra natia. 

Già, perché Giuseppe De Nittis, tra i più originali protagonisti della pittura europea dell’800, nacque il 25 febbraio del 1846 proprio a Barletta. Qui trascorse l’infanzia e la prima adolescenza fino al 1860, quando si trasferì a Napoli. Perse il padre prematuramente: dovette così imparare a rendere conto al fratello maggiore Vincenzo, a discuterci, a negoziare con lui le prospettive del proprio futuro. La diffidenza del nuovo capofamiglia rispetto al «mestiere dei disperati» non fu evidentemente abbastanza coriacea ed impenetrabile da impedirgli di iscrivere Giuseppe all’Istituto di Belle Arti. Nondimeno l’indole inquieta e burrascosa dell’apprendista generò presto conflitti con i vertici dell’Accademia, da cui venne espulso come un imbrattatele privo di stoffa artistica.   

 

Eppure, gli anni napoletani furono determinanti nella formazione tecnica di De Nittis, che nel 1863 aderì, a Portici, alla cosiddetta “Scuola di Resina” e divenne sodale dei suoi fondatori: Marco De Gregorio e Federico Rossano. Privilegiò la pittura en plein air. Gli esordi in Campania consentirono a Giuseppe di scoprire e nutrire la sua passione per la natura e per i paesaggi, passione di cui si trova traccia nei suoi Notes et Souvenirs sotto forma di ammissione di debito e devozione sconfinata: 

«La natura, io le sono così vicino! L’amo! Quante gioie mi ha dato! Mi ha insegnato tutto: amore e generosità». Il trasporto, la brama di conoscere i misteri della terra, 

il desiderio tenace di capire, abbracciare, riprodurre le «belle nubi», le sfumature 

del cielo e persino i colori dell’aria:


tutto questo entrò nel suo bagaglio per il trasloco a Parigi, dove giunse per la prima volta nel 1867. Nella capitale francese, ancora sfavillante prima della disastrosa guerra contro la Prussia, conobbe Léontine Gruvelle, la futura moglie che ebbe grande parte nell’introdurlo negli ambienti culturali più innovativi; alcuni dei massimi interpreti dell’Impressionismo, come Édouard Manet o Edgar Degas con i quali strinse amicizia; soprattutto il mercante d’arte Adolphe Goupil che intuì subito il talento del giovane e sconosciuto italiano, al punto da legarlo a sé con un accordo di esclusiva stipulato nel 1872. 

 

Tramite l’esercizio, talora invadente, delle proprie pretese di controparte contrattuale, Goupil premeva sull’artista affinché, in una prima fase di produzione pittorica, rappresentasse panorami e soggetti del Mezzogiorno d’Italia: le atmosfere quasi esotiche, le tinte vivaci e i mondi rurali con biche e trulli solitari, così lontani dalla frenesia della ville lumière, catturavano l’attenzione e solleticavano la curiosità dei facoltosi compratori americani, che consideravano Parigi come la piazza principale per i loro acquisti d’arte. Quando invece la mondanità parigina e le frivolezze della Belle Époque si imposero come oggetto esse stesse di una promettente narrazione figurativa, Goupil sollecitò il Maestro al cambiamento. Fu così che, nel 1874, De Nittis realizzò una delle sue opere più celebri e accattivanti, 

Che freddo!, un gruppo di donne investite da un gelido vento invernale, 

che gli fruttò l’appellativo di “Peintre des Parisiennes” (pittore delle parigine) 

e che soprattutto fu venduto per la cifra astronomica di diecimila franchi


Quel guadagno da capogiro rese Goupil quasi pazzo di gioia e persuase De Nittis che era giunta l’ora di voltare le spalle al suo passato italiano per immergersi totalmente nel suo definitivo presente francese. A questa nuova fase produttiva appartengono molte delle tele esposte a Barletta. Tra le tante meritano di essere citate: Figura di donna (Léontine De Nittis) del 1880; Il salotto della principessa Mathilde del 1883, pregevolissimo racconto di un momento di festa dell’alta società; Colazione in giardino del 1884 e la Signora con gattino nero, del 1880, la quale colpisce per l’avvenenza e il sorriso negli occhi.   

 

Il pittore lavorò instancabilmente, anche per sostenere l’elevato tenore di vita cui aveva abituato la sua famiglia e se stesso. E viaggiò molto: tornò spesso in Italia, approdò a Londra che gli permise altre conoscenze ed inesplorati orizzonti di ricerca, rivide la sua Barletta che omaggiò il suo figlio illustre con una medaglia d’oro. Morì a Saint Germain en Laye, anche lui precocemente come suo padre, il 21 agosto del 1884.

La pinacoteca illustra chiaramente l’evoluzione artistica di Giuseppe De Nittis. 

Il percorso espositivo è ricchissimo di opere, frutto del generoso 

lascito testamentario disposto da Léontine, vedova, 

in favore della città che aveva dato i natali 

al suo Giuseppe:

portano la data del 3 Novembre 1912 le ultime volontà di colei alla quale oggi Barletta deve così tanto. Un’antologia di meraviglie che, seppure provvisoriamente, si è arricchita di un altro capolavoro del Maestro pugliese, forse il suo dipinto più commovente: La Strada da Napoli a Brindisi. Completato nel 1872, dopo un’impegnativa serie di disegni preparatori, fu esposto al Salon di Parigi di quello stesso anno. Recava il numero di serie 1177 della Maison di Adolphe Goupil, il quale ne era entusiasta e vi riponeva grandi aspettative di guadagno: rimase oltremodo deluso, come ammise furente in una lettera a Léontine, quando seppe che la piccola tela aveva ricevuto solo una menzione speciale anziché un premio vero e proprio. Ad ogni modo, l’11 ottobre 1872 riuscì a venderla, per milletrecento franchi, ad un magnate americano che, per l’acquisto, si servì di un prestanome per scongiurare incrementi di prezzo: fu così che la Strada da Napoli a Brindisi prese la via dell’America e, sempre restando dentro i confini statunitensi, passò di mano in mano fino ai primi anni Quaranta, quando fu acquisita dalla famiglia dell’attuale proprietario. È lui che ha acconsentito al prestito in favore del museo barlettano, dove oggi si può ammirare, anche se solo fino ai primi mesi del 2025. Dopo, tornerà oltreoceano, all’Indianapolis Museum, dove è custodito in comodato.   

 

Una strada bianca. Molto più che un tratturo: una di quelle arterie volute dai Borboni per connettere tra loro le città. Due contadini avanzano insieme, vestiti dei loro poveri stracci: procedono stanchi, forse si parlano, e sembra quasi di sentirli mormorare nella melodia di uno dei numerosi dialetti pugliesi. E poi una carrozza, trainata da due cavalli: dentro c’è qualcuno, se ne intuisce la gamba sinistra. I contadini ci vengono incontro. La carrozza no: pare allontanarsi, diretta verso Napoli, Brindisi, chissà. 

Eppure non siamo soli. Attorno a noi, la languida campagna pugliese, con le sue molteplici tonalità di verde e le sue voci selvagge, mandrie di bovini al pascolo. E poi un corso d’acqua, sarà l’Ofanto, il fiume di cui nessuno parla più se non Orazio nelle sue odi. E poi gli arbusti, i fiori, gli alberi e candide casette lontane: sembrano macchie di biacca, spruzzate qua e là. E poi c’è lui:

l’immenso cielo di Giuseppe De Nittis, la vastità di cui era deciso ad apprendere 

i segreti e le potenzialità cromatiche, il reame percorso dalle «belle nubi», 

la divinità eterna nella quale tutti noi, qui al Sud, presto o tardi, 

ci perdiamo incantati.


Stornare lo sguardo da un dipinto di De Nittis è come un risveglio. 

La sua arte è fatta d’incanto e di emozioni, seduzione e ipnosi, sogni e sentimento. È un’arte in moto perenne, come le nuvole in transito o la vita breve e inquieta di colui che la produsse. Un’arte fatta di momenti e di visioni, di opportunità da cogliere al volo, come il Maestro stesso ci rivela: «una immagine di quella dolce vita da sognatore al quale basta una distesa di cose bianche, una pioggia di neve o una pioggia di fiori. È la vita per la quale son nato: dipingere, ammirare, sognare».

 

 

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D’Annunzio e la Sardegna Gloria Salazar numero 30 dicembre 2023 gennaio 2024 editore maurizio conte

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D’Annunzio e la Sardegna

 

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Ai primi di maggio del 1882 un giovanissimo, ma già celebre, Gabriele d’Annunzio visitò la Sardegna in compagnia di altri due autori parimenti noti: Edoardo Scarfoglio, in seguito co-fondatore de Il Mattino di Napoli, e Cesare Pascarella, affermato poeta in dialetto romanesco.  

I tre viaggiavano come inviati del giornale satirico Capitan Fracassa, il cui titolo era ripreso dall’omonimo romanzo di Gautier. 

D’Annunzio vi scriveva con il nome de plume di Mario de’ Fiori, pseudonimo che era stato anche quello di un pittore del 1600, cui è intitolata una via del centro di Roma. 

Secondo il racconto che Scarfoglio fece del viaggio, inizialmente d’Annunzio, nonostante le insistenze del Pascarella, non doveva essere della partita, ma all’ultimo momento aveva cambiato idea e si era imbarcato sulla nave. Il repentino ripensamento era dovuto al fatto che, ad un tratto, gli era balenata in mente la prospettiva di vedere il plenilunio sul mare e questo solo pensiero era bastato a vincere le sue resistenze. Malgrado le iniziali aspettative, il poeta aveva sofferto la traversata, tuttavia l’accoglienza trionfale che lo attendeva in Sardegna, dove la sua reputazione l’aveva preceduto, gli fece presto dimenticare i disagi patiti durante la navigazione

L’itinerario del tour sardo, intrapreso per fare un reportage dell’isola, 

all’epoca non ancora meta dei vacanzieri e sconosciuta ai più, 

dopo lo sbarco a Terranova (oggi Olbia) 

prevedeva varie tappe,

 

che dovevano fornire gli spunti per gli articoli da inviare al giornale: il Nuorese, Cagliari, l’Iglesiente, il Campidano, Sassari e forse – relata refero perché notizia desunta da un quotidiano locale dell’epoca – anche Alghero.  

Il dubbio sorge perché la pubblicazione dei resoconti sul Capitan Fracassa rimase incompiuta. Iniziata in quello stesso maggio del 1882, venne interrotta, infatti, per dare spazio alle notizie relative alla morte di Giuseppe Garibaldi, avvenuta il 2 giugno, e non fu più ripresa. Dal viaggio in Sardegna doveva scaturire anche un saggio del quale era stato già deciso il titolo – Libro d’oltremare – eppure alla fine non se ne fece nulla. 

Di questo viaggio lo scrittore sardo Stanis Manca dirà: “D’Annunzio, Scarfoglio e Pascarella percorsero tutta la Sardegna, descrivendo con entusiasmo i suoi costumi e i suoi paesaggi“. 

D’Annunzio, dal canto suo, aveva collaborato alla stesura degli articoli per il Capitan Fracassa, che nelle intenzioni dovevano essere sei, però a sua firma comparve solo Masua, reportage sulla testata Cronaca Bizantina, nel quale descrisse la miniera iglesiente come “un pezzo d’inferno seppellito nel paradiso terrestre”. 

In effetti

d’Annunzio era stato subito conquistato dalla “solitudine ampia e serena” dell’isola 

e dalla sua “civiltà taciturna”,  


come poi efficacemente la definirà. In Sardegna stringerà immediate e durature amicizie e rimarrà così ammaliato dal canto sardo – che gli era parso “…antico quanto l’alba” – da ospitare più di quarant’anni dopo, nel 1927, il Coro di Aggius al Vittoriale. Della musica sarda dirà inoltre: “…da più giorni vivo nel cerchio magico di quelle melodie. Non è possibile ascoltare un canto della Planargia e dell’Anglona senza restare imprigionato da un fascino misterioso…”. 

La fascinazione del poeta per l’isola era passata anche attraverso il vino cannonau di Oliena, da lui – che si definiva orgiaste astemio – ribattezzato Nepente (dal greco ne penthos, letteralmente “no” “dolore”), nome dato nell’antica Grecia ad una portentosa bevanda che leniva il dolore e procurava l’oblio, con il quale da allora è conosciuto. A proposito del Nepente, anni dopo, nel 1909, scriverà nella prefazione al libro Osteria del tedesco Hans Barth: “…non conoscete il nepente di Oliena neppure per fama? Ahi lasso! Io son certo che se ne beveste un sorso non vorreste mai più partirvi dall’ombra delle candide rupi e scegliereste per vostro eremo una di quelle cellette scarpellate che i sardi chiamano Domos de janas, per quivi spugnosamente vivere in estasi…” 

Benché la sua permanenza fosse stata appena di una ventina di giorni, d’Annunzio affermerà in seguito di avere

“…nostalgia della Sardegna da dodici anni, come d’una patria già amata 

in una vita anteriore”, e di amare “…filialmente codesta terra”,


nella quale, tuttavia, non ritornerà più, sebbene negli anni ne avesse sempre mantenuto il proposito: sia, un decennio dopo, per assolvere l’incarico di censire tutti i monumenti artistici dell’isola, affidatogli nel 1893 dal Ministro dell’Istruzione, sia per una progettata opera sulla Barbagia, della quale il personaggio Rudu, nella tragedia Più che l’amore (peraltro un clamoroso fiasco), è l’unica cosa che resta. 

Frutto del soggiorno dannunziano in Sardegna fu anche il trittico di sonetti Su Campidanu (Il Campidano), pubblicato sul Capitan Fracassa, oggi pressoché inedito perché non figura in nessuna raccolta delle opere del poeta. 

I versi sono quelli di Sa Spendula (che in sardo significa “la cascata”), dedicati all’omonima cascata di Villacidro; Sotto la lolla (Sotto il loggiato), ambientati nelle campagne del nuorese e celebrativi della venustà femminile sarda; Sale, ispirati alle saline cagliaritane di Molentargius. 

Delle tre poesie Sa Spendula è senz’altro quella più rinomata. La cascata, malgrado non sia la più alta dell’isola, è forse la più conosciuta, presumibilmente grazie ai versi del medesimo d’Annunzio. 

L’acqua scaturisce dalla sommità rocciosa del Monti Mannu (‘monte grande’, una delle montagne che delimitano a sud ovest la vasta pianura del Campidano), “fende come una lama la foresta” ed in tre salti precipita per 60 metri, formando tre piscine naturali.

Lo scenario della Spendula è quello che ispirò al d’Annunzio probabilmente 

le rime più potenti dei tre componimenti sardi, con sonorità che, in abbozzo, richiamano e precorrono – in un analogo contesto silvestre – le onomatopee 

e le allitterazioni de La Pioggia nel pineto,

 

la sua lirica più famosa, che vedrà la luce vent’anni più tardi.

 

 

Sa Spendula   

 

Dense di celidonie e di spineti  

le rocce mi si drizzano davanti 

come uno strano popolo d’atleti 

pietrificato per virtù d’incanti. 

 

Sotto fremono al vento ampi mirteti 

selvaggi e gli oleandri fluttuanti, 

verde plebe di nani; giù pei greti 

van l’acque della Spendula croscianti.  

 

Sopra, il ciel grigio, eguale. A l’umidore  

della pioggia un acredine di effluvi 

aspra esalano i timi e le mortelle. 

 

Ne la conca verdissima il pastore 

come fauno di bronzo, su ‘l calcare, 

guarda immobile, avvolto in una pelle.     

 

 

E così, come la Cascata delle Marmore ebbe nel Byron il suo bardo, anche la cascata sarda – e la Sardegna stessa – troverà nel Vate il suo (imparziale) cantore.

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 Foto da DEPOSITPHOTOS

 

QUANDO L’ARMENIA TOCCO’ IL MEDITERRANEO di Gaia Bay Rossi Numero 29 agosto 2023 Editore Maurizio Conte

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QUANDO L’ARMENIA TOCCO’ IL MEDITERRANEO

 

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ha avuto in più momenti un confine sul Mediterraneo. 

Ma fu durante il regno di Tigrane II d’Armenia detto “il Grande” (95 a.C. – 55 a.C.) che l’Armenia ebbe i confini più estesi della sua storia e il massimo grado del suo potere, divenendo così lo Stato più potente del Vicino Oriente. I suoi confini andavano dal Mar Caspio al Mar Mediterraneo includendo non solo l’Armenia orientale (Armenia Maior) ma anche quella occidentale (Armenia Minor) e altri territori della Mesopotamia, della Siria, del Ponto, della Cappadocia, della Cilicia e della Media Atropatene. Mai più gli Armeni avrebbero controllato una così ampia fascia dell’Asia

Tigrane era noto per essere un ammiratore della cultura greca e volle seguire 

la tendenza ellenistica dei governanti che fondavano nuove città. 

Così Tigranocerta (Tigranakert), fu da lui fondata nell’83 a.C.

 

anche grazie al bottino ottenuto dall’invasione della Cappadocia, e ne fece la capitale del nuovo Impero dell’Armenia. Non essendoci prove archeologiche, l’ubicazione precisa della città non è nota, oltre al fatto che si trovava da qualche parte nel sud-ovest dell’antica Armenia che, data la recente espansione del regno, era in una posizione più centrale rispetto all’antica capitale di Artaxata (Artashat). Secondo fonti storiche antiche doveva trovarsi nei pressi di Nissibin, ai piedi delle colline di Tur-Abdin e, sempre secondo le medesime fonti, la città era molto ricca e rivaleggiava con la famosa Ninive per quantità di palazzi, giardini e parchi. Tigranocerta aveva un’architettura sostanzialmente ellenistica, sebbene fosse stata progettata per mischiare i tre stili, greco, persiano e armeno.   

Aveva mura alte 50 braccia (antica unità di misura che indicava 25 metri) e così larghe che alla base riuscivano ad entrarci le stalle per i cavalli. 

 

Il palazzo reale era circondato da un immenso parco con ampi spazi per la caccia 

e laghetti per la pesca, e vicino al palazzo un forte di protezione

 

Per popolare questa città, Tigrane fece arrivare molti sudditi da altri luoghi, così che ne diventassero i nuovi abitanti. Venne fatta trasferire buona parte della nobiltà armena e molte famiglie di origine greca provenienti dall’Asia Minore. A questi si aggiunsero sudditi provenienti dal Gordiene, dall’Assiria, dalla Mesopotamia araba e da altre regioni conquistate. 

Essendo il centro di un prospero impero con collegamenti commerciali sia con la Mesopotamia che con la Fenicia, la ricchezza era interminabile, come riporta Plutarco:   

 

“La città era anche piena di ricchezze… poiché 

ogni privato e ogni principe gareggiavano con 

il re nel contribuire al suo accrescimento 

ornamento…” (Lucullo, 26:2)  

 

La leggendaria ricchezza di Trigranocerta in quel momento è riportata anche dallo storico armeno Movses Khorenatsi nella sua Storia degli Armeni:

 

“Moltiplicò le scorte d’oro e d’argento e di pietre 

preziose, di abiti e broccati di vari colori, sia 

per uomini che per donne, con l’aiuto dei quali il brutto 

appariva meraviglioso come il bello, e il bello 

era del tutto divinizzato in quel momento… Portatore 

di pace e prosperità, ingrassava tutti con olio e miele”. 

(citato in Hovannisiano, 56-7)

 

Una città così prospera attirò persone da ogni parte e molti filosofi e retori greci
furono invitati a condividere le loro idee alla corte di Tigrane.

 

Per inaugurare il teatro della capitale furono anche chiamati attori greci. La natura cosmopolita della città, e dell’impero in generale, faceva sì che la lingua greca fosse utilizzata, insieme al persiano e all’aramaico, come lingue della nobiltà e dell’amministrazione, mentre i cittadini comuni parlavano l’armeno. Elementi persiani continuarono ad essere una parte importante nella cultura armena, specialmente nel settore religioso e delle formalità di corte come titoli e abbigliamento.   

 

Tigrane aveva costruito un grande impero ma fece un grave errore di valutazione quando si alleò con Mitridate, il re del Ponto (120-63 a.C.). Alleanza che fu anche rinsaldata con il matrimonio nel 92 a.C. fra Tigrane e la figlia di Mitridate, Cleopatra. Mitridate era un grande nemico di Roma, con cui guerreggiava da oltre due decenni. 

 

La repubblica romana vedeva il pericolo di una simile alleanza tra le due potenze, sospetto confermato da una campagna congiunta Tigrane – Mitridate 

contro lo stato cliente romano della Cappadocia.

 

I romani risposero attaccando il Ponto e quando Mitridate fuggì alla corte di Tigrane nel 70 a.C., chiesero la consegna del suocero scappato. Tigrane rifiutò, rispondendo che non avrebbe mai consegnato Mitridate e che se i romani avessero iniziato la guerra si sarebbe difeso. I romani così invasero l’Armenia. 

Tigrane fu sconfitto da un esercito romano di 15.000 uomini comandato dal generale Licinio Lucullo che inviò Sestilio a saccheggiare il palazzo reale fuori le mura. Tigrane aveva raccolto più di 100.000 uomini e li usò subito per intercettare Lucullo. Questi avendo visto il nemico prepararsi alla battaglia preparò il suo esercitò., dando l’ordine di attaccare più in fretta possibile.

 

Tigranocerta fu assediata il 6 ottobre del 69 a.C. come descritto da Plutarco:

 

Lucullo attraversò il fiume, e si aprì la strada 

contro il nemico di persona. Indossava una corazza 

d’acciaio a scaglie scintillanti, e un mantello 

con nappe, e allo stesso tempo sguainò la spada dal 

fodero […] e ordinò ai suoi cavalieri gallici e di Tracia 

di attaccare il nemico sul fianco, e di parare 

i colpi delle loro lunghe lance con le loro spade 

corte” (Vita di Lucullo, 27.5-6; 28.1-2)   

 

Lucullo con la fanteria aggirò gli avversari, il panico si diffuse tra gli armeni e i catafratti travolsero il loro stesso esercito. Poi, in seguito al tradimento della guarnigione greca che aprì le porte ai romani, Tigranocerta fu catturata e saccheggiata.   

 

I romani conquistatori rimasero stupiti dalla ricchezza di Tigranocerta anche dopo che Tigrane era già riuscito a sottrarre parte del suo tesoro reale e dell’harem personale. 

 

Plutarco racconta che i saccheggiatori trovarono 8000 talenti in oro mentre 

ogni legionario romano ricevette 800 dracme. La popolazione 

che era stata chiamata da Tigrane fu lasciata libera 

di tornare nelle proprie terre d’origine.

 

Lucullo si mosse quindi per attaccare Tigrane e Mitridate nei pressi dell’importante città di Artaxata, ma la battaglia di Artaxata non ebbe esiti decisivi per nessuna delle due parti. In più con l’arrivo dell’inverno, la sua linea di rifornimenti era pericolosamente sottile ed esposta, e un ammutinamento tra le sue stesse truppe costrinse il generale romano a ritirarsi dal nord, tornando verso sud. Dopo otto anni di campagna in Armenia, Lucullo non riuscì mai a sconfiggere definitivamente Tigrane e i suoi alleati, per questo fu richiamato a Roma nel 67 a.C.

 

La tregua non sarebbe durata a lungo poiché il Senato romano aveva approvato

la determinazione di imporre la sua autorità sulla regione una volta per tutte.

 

Nel 66 a.C. un altro esercito romano si diresse verso est, questa volta guidato da Pompeo Magno. Questo non solo mise in rotta l’esercito di Mitridate ma fece arrendere anche l’ultrasettantenne Tigrane. La sua resa portò alla fine del conflitto e alla perdita di tutte le conquiste del regno armeno sotto la sua guida. Pompeo trattò generosamente Tigrane a patto che rinunciasse alla Siria e all’Asia minore e pagasse un riscatto di 6000 talenti d’argento. In cambio rimase re dell’Armenia fino alla sua morte come suddito di Roma.

 

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 Tigranakert foto da DEPOSITPHOTOS

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LA SARDEGNA CHE NON TI ASPETTI di Gloria Salazar numero 29 agosto 2023 editore Maurizio Conte

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LA SARDEGNA 

CHE NON TI ASPETTI

 

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oltre che per lo straordinario eroismo – che valse numerose medaglie d’oro ai combattenti (detti sos dimonios ossia i demoni per la loro furia bellica) e alle bandiere -, erano famosi per il fogu a intru, il fuoco all’interno; che non era la fiamma interiore che li animava, bensì il modo di fumare i sigari in trincea. 

Si trattava, infatti, di introdurre il sigaro in bocca dalla parte incandescente per non far capire al nemico la propria posizione.

 

Quella del fuoco occulto è anche una caratteristica della cucina sarda.


In Sardegna sopravvive, ormai quasi esclusivamente come tradizione folcloristica, un sistema arcaico di cottura che prevede l’arrostimento dei cibi attraverso una combustione latente, ovvero senza fiamma: la cottura cosiddetta
a carraxiu

Il procedimento consiste nell’utilizzare come “recipiente” una buca scavata nella terra, nella quale è stato fatto un fuoco di legna; una volta rimaste le sole braci la buca viene foderata con rami frondosi – verdi – di arbusti aromatici (lentisco, mirto, rosmarino, ginepro), sui quali si adagia la carne da arrostire (di solito l’intero animale), ricoprendola poi ancora con gli arbusti odorosi e quindi di tizzoni ardenti.

La cottura avviene molto lentamente e le essenze profumate sprigionate 

grazie al calore conferiscono alla carne – che rimane tenerissima – 

un sapore  straordinario.


Questo è uno dei metodi usati per cucinare cinghiali (
sirboni), capretti, vitelli ed il famoso e succulento maialetto sardo, a seconda delle località chiamato: porceddu, proceddu, porcheddu, pulcheddu, ed altre numerose varianti.   Una ricetta a carraxiu ancor più caratteristica è quella denominata su malloru de su sabatteri, ossia “il toro del calzolaio”, tipica del nuorese -in particolare di Villagrande -; consistente nella gigantesca farcitura di un vitello, al cui interno vengono inseriti come matrioske russe: una capra, un maialino, una lepre, una pernice ed infine un altro piccolo volatile.  

 

Il nome deriva dal fatto che un tempo era il ciabattino del paese (sabatteri o calzolaio, dallo spagnolo zapatos, cioè scarpe) a provvedere alla cucitura dei vari animali.

Quello di utilizzare la terra è un sistema che i sardi usavano anche per nascondere, seppellendole, le bottiglie di acquavite,

  

anticamente oggetto di appalto (durante la dominazione spagnola detto arrendamento de l’aguardiente – “l’acqua ardente” perché sembra acqua, ma “brucia”- monopolio di privati in ambito locale). Per ritrovare le bottiglie così occultate le munivano di un filu ‘e ferru; filo di ferro che spuntava dal suolo, da cui deriva il nome della bevanda attuale.   

 

I sardi se la cavano bene anche con la graticola (sa cardiga) e soprattutto con lo spiedo (su schidoni o schironi).

Uno spettacolo le grigliate sarde.

 

Gli spiedi o meglio gli spiedoni – che sembrano piuttosto degli spadoni (possono essere lunghi anche più di un metro e mezzo) – vengono conficcati in circolo nel terreno con infilzata la bestia intera, intorno ad un imponente fuoco di braci, e ritmicamente girati per consentire una cottura uniforme. Con questo sistema vengono cucinati principalmente i famosi maialini da latte.

 

 Nel sassarese invece vi è l’usanza dello zimino

 

– anch’essa, analogamente alle metodologie precedenti, caratterizzata da una spiccata connotazione conviviale -, costituita da una grigliata di frattaglie, per la quale ci si avvale, come “barbeque”, di una vecchia carriola (ruota compresa), riempita per metà di sabbia e per il resto di carbone di legna.  

 

L’alternativa alla cottura arrosto è quella in umido, una cottura lunga effettuata con l’ausilio di aromi, che intenerisce la carne ed elimina il gusto di selvatico; come quella della pecora in cappotto o dell’ottima capra alla vernaccia, cotta, appunto, con la vernaccia di Oristano – tipico vino sardo- e le bacche di ginepro.  

 

La cucina sarda tradizionale, al contrario di ciò che si potrebbe pensare, 

non è una cucina “di mare”, ma è principalmente 

una cucina pastorale, “di terra”,


nella quale per secoli le pietanze a base di pesce sono rimaste circoscritte alle sole zone costiere. Anche la celeberrima bottarga, introdotta in Sardegna dai Fenici, che da alimento base nelle traversate e moneta di scambio di quei mercanti navigatori, divenne cibo pregiato per l’elite, ma non venne mai utilizzata nelle ricette tipiche della regione. 

 

Inside a traditional house
ghirigoro_stile

  Foto da DEPOSITPHOTOS

 

I MISTERI DI CAMPOBASSO gemme del sud numero 28 maggio giugno 2023 Editore Maurizio Conte

I MISTERI DI CAMPOBASSO

 

 Gemme del Sud
                 Campobasso

 

gemme

Ogni anno, in occasione della festività del Corpus Domini, per le vie di Campobasso si svolge 

 

la processione dei Misteri, una delle tradizioni più suggestive 

e spettacolari di tutto il Molise. 


Già nel Medioevo si usava festeggiare il giorno del Corpus Domini con delle rappresentazioni sacre allestite su dei palchi collocati nei pressi delle chiese. Nella metà del Settecento, alcune Confraternite del luogo commissionarono a Paolo Saverio Di Zinno, talentuoso scultore locale, la realizzazione delle macchine processionali. L’artista ne inventò e realizzò, con la collaborazione di sapienti fabbri locali, ben diciotto, sei delle quali purtroppo andarono distrutte durante il terremoto del 1805. I “Misteri”, o “Ingegni”, sono macchine costituite da basi di legno sulle quali sono applicate strutture in ferro ramificate dove vengono posizionati dei figuranti, per lo più bambini, che rappresentano angeli, diavoli, santi e altre figure sacre. 

 

Dopo oltre duecento anni, i Misteri sono ancora funzionanti 

e vengono portati in spalla per le vie della città.

 

Il passo cadenzato dei portatori, facendo oscillare le strutture, crea l’illusione di vedere i personaggi volare: uno spettacolo che emoziona i visitatori che ogni anno accorrono numerosi a Campobasso per ammirare il passaggio di questi veri e propri “quadri viventi”. Grazie alla dedizione e all’impegno dell’Associazione Misteri e tradizioni, 

nel 2006 è stato inaugurato il Museo dei Misteri, 

situato nel centro della città

 

dove vengono custodite e conservate le Macchine, che si possono ammirare insieme a foto, vestiti d’epoca e altre testimonianze che raccontano la storia di questa tradizione straordinaria.

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