LA PINACOTECA “GIUSEPPE DE NITTIS” A BARLETTA di Gianluca Anglana numero 30 dicembre 2023 e gennaio 2024 editore Maurizio Conte

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 LA PINACOTECA “GIUSEPPE DE NITTIS” a BARLETTA

 

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il fascino austero della cattedrale, la severità marziale del castello, l’aura di corrucciata enigmaticità del Colosso. E anche Palazzo della Marra, splendida dimora aristocratica ceduta al demanio dello Stato nel 1958: un edificio elegante, che oggi ospita la Pinacoteca De Nittis.   

 

Come si vedrà più avanti, questa collezione di quadri è uno dei più toccanti attestati d’amore che, per interposta persona, un artista abbia mai tributato alla propria terra natia. 

Già, perché Giuseppe De Nittis, tra i più originali protagonisti della pittura europea dell’800, nacque il 25 febbraio del 1846 proprio a Barletta. Qui trascorse l’infanzia e la prima adolescenza fino al 1860, quando si trasferì a Napoli. Perse il padre prematuramente: dovette così imparare a rendere conto al fratello maggiore Vincenzo, a discuterci, a negoziare con lui le prospettive del proprio futuro. La diffidenza del nuovo capofamiglia rispetto al «mestiere dei disperati» non fu evidentemente abbastanza coriacea ed impenetrabile da impedirgli di iscrivere Giuseppe all’Istituto di Belle Arti. Nondimeno l’indole inquieta e burrascosa dell’apprendista generò presto conflitti con i vertici dell’Accademia, da cui venne espulso come un imbrattatele privo di stoffa artistica.   

 

Eppure, gli anni napoletani furono determinanti nella formazione tecnica di De Nittis, che nel 1863 aderì, a Portici, alla cosiddetta “Scuola di Resina” e divenne sodale dei suoi fondatori: Marco De Gregorio e Federico Rossano. Privilegiò la pittura en plein air. Gli esordi in Campania consentirono a Giuseppe di scoprire e nutrire la sua passione per la natura e per i paesaggi, passione di cui si trova traccia nei suoi Notes et Souvenirs sotto forma di ammissione di debito e devozione sconfinata: 

«La natura, io le sono così vicino! L’amo! Quante gioie mi ha dato! Mi ha insegnato tutto: amore e generosità». Il trasporto, la brama di conoscere i misteri della terra, 

il desiderio tenace di capire, abbracciare, riprodurre le «belle nubi», le sfumature 

del cielo e persino i colori dell’aria:


tutto questo entrò nel suo bagaglio per il trasloco a Parigi, dove giunse per la prima volta nel 1867. Nella capitale francese, ancora sfavillante prima della disastrosa guerra contro la Prussia, conobbe Léontine Gruvelle, la futura moglie che ebbe grande parte nell’introdurlo negli ambienti culturali più innovativi; alcuni dei massimi interpreti dell’Impressionismo, come Édouard Manet o Edgar Degas con i quali strinse amicizia; soprattutto il mercante d’arte Adolphe Goupil che intuì subito il talento del giovane e sconosciuto italiano, al punto da legarlo a sé con un accordo di esclusiva stipulato nel 1872. 

 

Tramite l’esercizio, talora invadente, delle proprie pretese di controparte contrattuale, Goupil premeva sull’artista affinché, in una prima fase di produzione pittorica, rappresentasse panorami e soggetti del Mezzogiorno d’Italia: le atmosfere quasi esotiche, le tinte vivaci e i mondi rurali con biche e trulli solitari, così lontani dalla frenesia della ville lumière, catturavano l’attenzione e solleticavano la curiosità dei facoltosi compratori americani, che consideravano Parigi come la piazza principale per i loro acquisti d’arte. Quando invece la mondanità parigina e le frivolezze della Belle Époque si imposero come oggetto esse stesse di una promettente narrazione figurativa, Goupil sollecitò il Maestro al cambiamento. Fu così che, nel 1874, De Nittis realizzò una delle sue opere più celebri e accattivanti, 

Che freddo!, un gruppo di donne investite da un gelido vento invernale, 

che gli fruttò l’appellativo di “Peintre des Parisiennes” (pittore delle parigine) 

e che soprattutto fu venduto per la cifra astronomica di diecimila franchi


Quel guadagno da capogiro rese Goupil quasi pazzo di gioia e persuase De Nittis che era giunta l’ora di voltare le spalle al suo passato italiano per immergersi totalmente nel suo definitivo presente francese. A questa nuova fase produttiva appartengono molte delle tele esposte a Barletta. Tra le tante meritano di essere citate: Figura di donna (Léontine De Nittis) del 1880; Il salotto della principessa Mathilde del 1883, pregevolissimo racconto di un momento di festa dell’alta società; Colazione in giardino del 1884 e la Signora con gattino nero, del 1880, la quale colpisce per l’avvenenza e il sorriso negli occhi.   

 

Il pittore lavorò instancabilmente, anche per sostenere l’elevato tenore di vita cui aveva abituato la sua famiglia e se stesso. E viaggiò molto: tornò spesso in Italia, approdò a Londra che gli permise altre conoscenze ed inesplorati orizzonti di ricerca, rivide la sua Barletta che omaggiò il suo figlio illustre con una medaglia d’oro. Morì a Saint Germain en Laye, anche lui precocemente come suo padre, il 21 agosto del 1884.

La pinacoteca illustra chiaramente l’evoluzione artistica di Giuseppe De Nittis. 

Il percorso espositivo è ricchissimo di opere, frutto del generoso 

lascito testamentario disposto da Léontine, vedova, 

in favore della città che aveva dato i natali 

al suo Giuseppe:

portano la data del 3 Novembre 1912 le ultime volontà di colei alla quale oggi Barletta deve così tanto. Un’antologia di meraviglie che, seppure provvisoriamente, si è arricchita di un altro capolavoro del Maestro pugliese, forse il suo dipinto più commovente: La Strada da Napoli a Brindisi. Completato nel 1872, dopo un’impegnativa serie di disegni preparatori, fu esposto al Salon di Parigi di quello stesso anno. Recava il numero di serie 1177 della Maison di Adolphe Goupil, il quale ne era entusiasta e vi riponeva grandi aspettative di guadagno: rimase oltremodo deluso, come ammise furente in una lettera a Léontine, quando seppe che la piccola tela aveva ricevuto solo una menzione speciale anziché un premio vero e proprio. Ad ogni modo, l’11 ottobre 1872 riuscì a venderla, per milletrecento franchi, ad un magnate americano che, per l’acquisto, si servì di un prestanome per scongiurare incrementi di prezzo: fu così che la Strada da Napoli a Brindisi prese la via dell’America e, sempre restando dentro i confini statunitensi, passò di mano in mano fino ai primi anni Quaranta, quando fu acquisita dalla famiglia dell’attuale proprietario. È lui che ha acconsentito al prestito in favore del museo barlettano, dove oggi si può ammirare, anche se solo fino ai primi mesi del 2025. Dopo, tornerà oltreoceano, all’Indianapolis Museum, dove è custodito in comodato.   

 

Una strada bianca. Molto più che un tratturo: una di quelle arterie volute dai Borboni per connettere tra loro le città. Due contadini avanzano insieme, vestiti dei loro poveri stracci: procedono stanchi, forse si parlano, e sembra quasi di sentirli mormorare nella melodia di uno dei numerosi dialetti pugliesi. E poi una carrozza, trainata da due cavalli: dentro c’è qualcuno, se ne intuisce la gamba sinistra. I contadini ci vengono incontro. La carrozza no: pare allontanarsi, diretta verso Napoli, Brindisi, chissà. 

Eppure non siamo soli. Attorno a noi, la languida campagna pugliese, con le sue molteplici tonalità di verde e le sue voci selvagge, mandrie di bovini al pascolo. E poi un corso d’acqua, sarà l’Ofanto, il fiume di cui nessuno parla più se non Orazio nelle sue odi. E poi gli arbusti, i fiori, gli alberi e candide casette lontane: sembrano macchie di biacca, spruzzate qua e là. E poi c’è lui:

l’immenso cielo di Giuseppe De Nittis, la vastità di cui era deciso ad apprendere 

i segreti e le potenzialità cromatiche, il reame percorso dalle «belle nubi», 

la divinità eterna nella quale tutti noi, qui al Sud, presto o tardi, 

ci perdiamo incantati.


Stornare lo sguardo da un dipinto di De Nittis è come un risveglio. 

La sua arte è fatta d’incanto e di emozioni, seduzione e ipnosi, sogni e sentimento. È un’arte in moto perenne, come le nuvole in transito o la vita breve e inquieta di colui che la produsse. Un’arte fatta di momenti e di visioni, di opportunità da cogliere al volo, come il Maestro stesso ci rivela: «una immagine di quella dolce vita da sognatore al quale basta una distesa di cose bianche, una pioggia di neve o una pioggia di fiori. È la vita per la quale son nato: dipingere, ammirare, sognare».

 

 

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D’Annunzio e la Sardegna Gloria Salazar numero 30 dicembre 2023 gennaio 2024 editore maurizio conte

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D’Annunzio e la Sardegna

 

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Ai primi di maggio del 1882 un giovanissimo, ma già celebre, Gabriele d’Annunzio visitò la Sardegna in compagnia di altri due autori parimenti noti: Edoardo Scarfoglio, in seguito co-fondatore de Il Mattino di Napoli, e Cesare Pascarella, affermato poeta in dialetto romanesco.  

I tre viaggiavano come inviati del giornale satirico Capitan Fracassa, il cui titolo era ripreso dall’omonimo romanzo di Gautier. 

D’Annunzio vi scriveva con il nome de plume di Mario de’ Fiori, pseudonimo che era stato anche quello di un pittore del 1600, cui è intitolata una via del centro di Roma. 

Secondo il racconto che Scarfoglio fece del viaggio, inizialmente d’Annunzio, nonostante le insistenze del Pascarella, non doveva essere della partita, ma all’ultimo momento aveva cambiato idea e si era imbarcato sulla nave. Il repentino ripensamento era dovuto al fatto che, ad un tratto, gli era balenata in mente la prospettiva di vedere il plenilunio sul mare e questo solo pensiero era bastato a vincere le sue resistenze. Malgrado le iniziali aspettative, il poeta aveva sofferto la traversata, tuttavia l’accoglienza trionfale che lo attendeva in Sardegna, dove la sua reputazione l’aveva preceduto, gli fece presto dimenticare i disagi patiti durante la navigazione

L’itinerario del tour sardo, intrapreso per fare un reportage dell’isola, 

all’epoca non ancora meta dei vacanzieri e sconosciuta ai più, 

dopo lo sbarco a Terranova (oggi Olbia) 

prevedeva varie tappe,

 

che dovevano fornire gli spunti per gli articoli da inviare al giornale: il Nuorese, Cagliari, l’Iglesiente, il Campidano, Sassari e forse – relata refero perché notizia desunta da un quotidiano locale dell’epoca – anche Alghero.  

Il dubbio sorge perché la pubblicazione dei resoconti sul Capitan Fracassa rimase incompiuta. Iniziata in quello stesso maggio del 1882, venne interrotta, infatti, per dare spazio alle notizie relative alla morte di Giuseppe Garibaldi, avvenuta il 2 giugno, e non fu più ripresa. Dal viaggio in Sardegna doveva scaturire anche un saggio del quale era stato già deciso il titolo – Libro d’oltremare – eppure alla fine non se ne fece nulla. 

Di questo viaggio lo scrittore sardo Stanis Manca dirà: “D’Annunzio, Scarfoglio e Pascarella percorsero tutta la Sardegna, descrivendo con entusiasmo i suoi costumi e i suoi paesaggi“. 

D’Annunzio, dal canto suo, aveva collaborato alla stesura degli articoli per il Capitan Fracassa, che nelle intenzioni dovevano essere sei, però a sua firma comparve solo Masua, reportage sulla testata Cronaca Bizantina, nel quale descrisse la miniera iglesiente come “un pezzo d’inferno seppellito nel paradiso terrestre”. 

In effetti

d’Annunzio era stato subito conquistato dalla “solitudine ampia e serena” dell’isola 

e dalla sua “civiltà taciturna”,  


come poi efficacemente la definirà. In Sardegna stringerà immediate e durature amicizie e rimarrà così ammaliato dal canto sardo – che gli era parso “…antico quanto l’alba” – da ospitare più di quarant’anni dopo, nel 1927, il Coro di Aggius al Vittoriale. Della musica sarda dirà inoltre: “…da più giorni vivo nel cerchio magico di quelle melodie. Non è possibile ascoltare un canto della Planargia e dell’Anglona senza restare imprigionato da un fascino misterioso…”. 

La fascinazione del poeta per l’isola era passata anche attraverso il vino cannonau di Oliena, da lui – che si definiva orgiaste astemio – ribattezzato Nepente (dal greco ne penthos, letteralmente “no” “dolore”), nome dato nell’antica Grecia ad una portentosa bevanda che leniva il dolore e procurava l’oblio, con il quale da allora è conosciuto. A proposito del Nepente, anni dopo, nel 1909, scriverà nella prefazione al libro Osteria del tedesco Hans Barth: “…non conoscete il nepente di Oliena neppure per fama? Ahi lasso! Io son certo che se ne beveste un sorso non vorreste mai più partirvi dall’ombra delle candide rupi e scegliereste per vostro eremo una di quelle cellette scarpellate che i sardi chiamano Domos de janas, per quivi spugnosamente vivere in estasi…” 

Benché la sua permanenza fosse stata appena di una ventina di giorni, d’Annunzio affermerà in seguito di avere

“…nostalgia della Sardegna da dodici anni, come d’una patria già amata 

in una vita anteriore”, e di amare “…filialmente codesta terra”,


nella quale, tuttavia, non ritornerà più, sebbene negli anni ne avesse sempre mantenuto il proposito: sia, un decennio dopo, per assolvere l’incarico di censire tutti i monumenti artistici dell’isola, affidatogli nel 1893 dal Ministro dell’Istruzione, sia per una progettata opera sulla Barbagia, della quale il personaggio Rudu, nella tragedia Più che l’amore (peraltro un clamoroso fiasco), è l’unica cosa che resta. 

Frutto del soggiorno dannunziano in Sardegna fu anche il trittico di sonetti Su Campidanu (Il Campidano), pubblicato sul Capitan Fracassa, oggi pressoché inedito perché non figura in nessuna raccolta delle opere del poeta. 

I versi sono quelli di Sa Spendula (che in sardo significa “la cascata”), dedicati all’omonima cascata di Villacidro; Sotto la lolla (Sotto il loggiato), ambientati nelle campagne del nuorese e celebrativi della venustà femminile sarda; Sale, ispirati alle saline cagliaritane di Molentargius. 

Delle tre poesie Sa Spendula è senz’altro quella più rinomata. La cascata, malgrado non sia la più alta dell’isola, è forse la più conosciuta, presumibilmente grazie ai versi del medesimo d’Annunzio. 

L’acqua scaturisce dalla sommità rocciosa del Monti Mannu (‘monte grande’, una delle montagne che delimitano a sud ovest la vasta pianura del Campidano), “fende come una lama la foresta” ed in tre salti precipita per 60 metri, formando tre piscine naturali.

Lo scenario della Spendula è quello che ispirò al d’Annunzio probabilmente 

le rime più potenti dei tre componimenti sardi, con sonorità che, in abbozzo, richiamano e precorrono – in un analogo contesto silvestre – le onomatopee 

e le allitterazioni de La Pioggia nel pineto,

 

la sua lirica più famosa, che vedrà la luce vent’anni più tardi.

 

 

Sa Spendula   

 

Dense di celidonie e di spineti  

le rocce mi si drizzano davanti 

come uno strano popolo d’atleti 

pietrificato per virtù d’incanti. 

 

Sotto fremono al vento ampi mirteti 

selvaggi e gli oleandri fluttuanti, 

verde plebe di nani; giù pei greti 

van l’acque della Spendula croscianti.  

 

Sopra, il ciel grigio, eguale. A l’umidore  

della pioggia un acredine di effluvi 

aspra esalano i timi e le mortelle. 

 

Ne la conca verdissima il pastore 

come fauno di bronzo, su ‘l calcare, 

guarda immobile, avvolto in una pelle.     

 

 

E così, come la Cascata delle Marmore ebbe nel Byron il suo bardo, anche la cascata sarda – e la Sardegna stessa – troverà nel Vate il suo (imparziale) cantore.

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 Foto da DEPOSITPHOTOS

 

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