NAPOLI VIA DEI GUANTAI NUOVI di Stefania Conti – Numero 19 – Dicenbre 2020 – Gennaio 2021

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napoli. via dei guantai nuovi

 

arriva a Parigi nel 1625, gli viene sottratta la lettera di presentazione per arruolarsi tra le Guardie del Re da tale con il quale si era battuto a duello.

L’intimazione al duello avveniva sfiorando la guancia dello sfidato con un guanto. 

Quel guanto, con ogni probabilità, era italiano


Anzi, napoletano. In tutta Europa, ma soprattutto in Francia, nel Seicento i guanti erano un accessorio indispensabile per la moda sia per gli uomini che per le donne, e non solo: erano adoperati dalle Guardie del Re, incarico al quale, appunto, d’Artagnan aspirava. 

L’arte della fabbricazione dei guanti a Napoli è antica. Già nel 1600 quelli di pelle arrivavano nelle maggiori corti europee


e così è stato nei secoli successivi, fino agli anni Sessanta del Novecento. Furono i Borbone a voler incentivare la produzione artigianale locale, in particolare quella dell’alta sartoria: dalle raffinatissime sete di San Leucio, la cui fabbrica, voluta da Ferdinando IV, oggi è patrimonio dell’Unesco, per arrivare, con il passare dei secoli, alle pregiatissime cravatte, alle camicie, ai completi da uomo di sapiente taglio. I Borbone fecero diventare la capitale partenopea “capitale della moda”.  E in questo empireo di bellezza c’erano (e ci sono tuttora, anche se in misura estremamente ridotta rispetto al passato) anche i guanti.

Il segreto era nei dettagli, eseguiti con minuziosità e fantasia,


che riuscirono a togliere il primato in tale manifattura alla Francia, fino al 1700 faro cui si guardava per essere à la page.   

 

Le prime botteghe nacquero in una strada che ancora oggi si chiama Via dei Guantai Nuovi (“nuovi” perché ai guantai era già stata intitolata una strada, distrutta però nella Seconda Guerra Mondiale), nel quartiere Sanità, noto per aver dato i natali a Totò.

Nel 1800 vi lavoravano intere famiglie che tagliavano, cucivano, ricamavano la pelle che poi veniva trasformata in guanti ed esportata in tutto il mondo.


A loro volta, queste famiglie davano lavoro anche ad altre persone di quel quartiere o di quelli limitrofi, familiari o conoscenti, e così andava avanti una vera e propria economia di scala. Perché la guanteria aveva anche un ruolo, per così dire, sociale. La miseria era veramente nera e avere un mestiere, anzi, essere abili in un mestiere era una garanzia per tutta la famiglia, anche allargata.  

 

L’arte guantaia riuscì a resistere anche all’arrivo dei Savoia. Le industrie del Regno delle Due Sicilie si trovavano, subito dopo l’Unità d’Italia, in grande difficoltà. L’immediato abbattimento delle barriere doganali messe in atto dal governo borbonico per proteggerle “fu peggiore di un terremoto per quanti erano coinvolti nelle varie attività industriali” (Gustavo Rinaldi, Il Regno delle Due Sicilie: tutta la verità). Ma i guanti no: piacevano anche ai piemontesi. Tanto che

fino al 1930 si contavano ancora ben 25.000 guantai. E negli anni Sessanta 

del secolo scorso un’intera fetta di economia campana viveva della pregiata manifattura: il 90 per cento dell’esportazione italiana dei guanti 

veniva da Napoli. 


Ad abbattere l’attività dei maestri artigiani fu il boom economico. L’Italia si industrializza, le produzioni arrivano in serie, realizzate dalle catene di montaggio, il prezzo si abbassa. Si abbassa ancora di più quando, negli anni Novanta, sul mercato arrivano i cinesi, rendendo praticamente impossibile reggere la concorrenza. E un’arte così pregiata comincia a morire. 

 

Ma non del tutto.

A Napoli ci sono ancora dei guantai.


Non sono molti, ma per resistere alla globalizzazione hanno preso una saggia decisione: specializzarsi nell’altissima gamma della moda, riproponendo lusso, raffinatezza e capacità. Sono napoletani, tanto per fare un esempio, i guanti utilizzati nel famosissimo film Titanic. Sono napoletani molti dei guanti dei più costosi marchi di moda che vediamo nelle vetrine di Parigi o New York.

  

Ancora oggi non c’è nemmeno un passaggio automatizzato


ed il mestiere si tramanda di padre in figlio, perché tutta la famiglia è ancora impegnata in questa preziosa lavorazione. C’è chi pensa al modello, chi lo lavora, chi lo cuce, chi lo rifinisce e chi lo taglia.   

 

Il guanto napoletano nasce dopo ben 25 passaggi, tutti fatti a mano con l’aiuto di macchine da cucire, quasi sempre le vecchie Singer della nonna (c’è una piccola azienda partenopea che è in perenne contatto con una ditta tedesca per la manutenzione della vetusta signora). Le pelli sono scelte con perizia perlopiù dal capofamiglia (o da chi dovrà prenderne le veci) e devono essere pregiatissime e morbidissime. La tintura viene fatta seguendo le regole stabilite dalla normativa internazionale sul controllo della qualità. Il taglio deve essere accuratissimo, perché solo se è ottimo esso garantisce la valorizzazione al meglio del pellame.

Ogni fase richiede controlli di qualità continui, con l’occhio attento 

di chi ha imparato il mestiere da bambino e la capacità 

di sentire al tatto anche la più piccola imperfezione. 


E questa capacità si ottiene solo dopo aver maneggiato pelli per decine di anni.  Anche per tale motivo, oggi non è facile trovare chi possa continuare questa tradizione.   

 

Eppure il distretto dei guanti in Italia fino al 2017 fatturava 50 milioni di euro, l’80 per cento dei quali proveniva da Napoli e dintorni. Sfogliando le Pagine Gialle, infatti, troviamo guantai a Casoria, Arzano, Mugnano, Marano, Calvizzano, San Giorgio a Cremano, Melito. 

Testardi, innamorati del loro mestiere, decisi a continuare un’arte,


proprio come si faceva ai tempi dei Borbone. Forse ha ragione lo scrittore Philip Roth, che in Pastorale americana rende loro omaggio: “Nessuno più taglia i guanti in questo modo… tranne forse in qualche fabbrichetta a gestione familiare di Napoli o Grenoble».

 

 

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