IL SALOTTINO DI PORCELLANA A CAPODIMONTE Gemme del Sud numero 27 gennaio febbraio 2023 ed. maurizio conte

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IL SALOTTINO DI PORCELLANA  A CAPODIMONTE

 

 Gemme del Sud
                         Napoli

 

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Originariamente creato per gli appartamenti privati della regina di Napoli Maria Amalia di Sassonia nella Reggia di Portici, questo capolavoro della Real Fabbrica di Porcellana di Capodimonte fu realizzato tra il 1757 e il 1759. Nel 1866, quando il Palazzo Reale di Portici divenne proprietà demaniale, fu smontato e riposizionato in una sala della Reggia di Capodimonte, dove si trova tuttora.

 

Il salottino, progettato da Giovan Battista Natali, è in stile rococò ed è composto 

da pannelli in porcellana a sfondo bianco decorati ad altorilievo, posizionati 

alle pareti ed alternati a sei ampi specchi racchiusi da cornici 

di festoni floreali e candelieri a tre bracci 

sempre in porcellana.

 

Nella colorata decorazione compaiono frutti, animali, scene di genere con uomini e donne nei caratteristici abiti tradizionali cinesi e cartigli scritti in mandarino, temi che si rifanno alla moda cinese e alle cineserie in gran voga nell’Europa del XVIII secolo. 

 

Anche il soffitto richiama la stessa tipologia decorativa delle pareti, ma è in stucco con decorazione a rocailles, mentre è in porcellana il mirabile lampadario che pende al centro della sala nel quale, tra i dodici bracci avvolti da tralci di fiori, il fusto raffigura una palma, una scimmia e un cinese con ventaglio. 

 

Fantasie e suggestioni dell’Estremo Oriente andarono ad alimentare un gusto per paesi lontani creando un misto di stili in cui accanto ad elementi esotici tradizionali si aggiunsero capricci ed invenzioni che diedero origine ad un linguaggio tipicamente europeo espresso in una porcellana di qualità e di una raffinatezza unica.

 

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“LA POESIA” E’ UNA SORGENTE di Lorenzo Salazar numero 27 gennaio febbraio 2023 Ed. Maurizio Conte

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LA “POESIA” e’ UNA SORGENTE

 

 

Dal novembre dello scorso anno il già ampio panorama dei ristoranti italiani a Parigi si è arricchito con l’inaugurazione di un nuovo locale, dotato però di un interesse affatto peculiare.

 

L’indirizzo in rue de la Fidelité, nel 10° arrondissement, a pochi passi dalla Gare de l’Est, sembra giocare con il nome del locale, “La Poesia”.

 

Che non deriva però dalla più eterea delle sette arti bensì dal sostantivo greco πόσις (“bere”), da cui trae origine il nome di un fascinoso luogo sulla costa del Salento che si trova nelle immediate adiacenze dell’area archeologica di Roca Vecchia, poco a sud di Lecce. Una profonda sorgente naturale dà vita a una piscina naturale di acqua dolce che si trova proprio in riva al mare, arroccata su un promontorio e circondata da scogliere calcaree. A questa fonte, fin dal II millennio a.C., dapprima i marinai messapi e quindi quelli greci usavano accostarsi per rifornirsi di acqua e invocare la protezione delle rispettive divinità sulla navigazione. Un nome capace, da solo, di evocare tutta la bellezza della natura, della storia e della cultura del nostro Sud. 

 

Al di là del nome, i piatti preparati dallo chef Giuseppe Fiore, originario di Praiano, si ispirano alla migliore tradizione della cucina meridionale e utilizzano prodotti e materie prime (molti dei quali biologici, come pasta, lenticchie, pomodori secchi…) provenienti in massima parte dal catalogo di Libera Terra, l’associazione che riunisce cooperative sociali guidate dall’associazione Libera di Don Ciotti. 

 

Dietro di esse vi sono decine di strutture produttive e centinaia di ettari di terreno sottratti alle mafie in Sicilia, Puglia, Calabria e Campania grazie all’istituto del riutilizzo sociale dei beni confiscati alle mafie introdotto in Italia dalla legge n. 109 del 1996 

in materia di gestione e destinazione di beni sequestrati o confiscati.

 

Su quei terreni e in quelle aziende – non di rado dopo aver resistito a ulteriori atti di intimidazione o violenza posti in essere anche dopo la definitività dei provvedimenti di confisca, quale disperato ultimo tentativo delle organizzazioni criminali di opporsi agli stessi – si producono pasta, olio, vino e altri generi alimentari che rendono omaggio, sin dal nome posto sull’etichetta, alla lotta alle mafie e alle vittime della loro violenza. 

 

Così un vino Primitivo del Salento è dedicato ad Antonio Montinaro, giovane poliziotto pugliese capo scorta del giudice Giovanni Falcone, caduto a 29 anni nell’attentato di Capaci, opera del più sanguinario dei boss, Totò Riina, o un Negroamaro della stessa regione ricorda la storia di Renata Fonte, assessora alla cultura e alla pubblica istruzione del comune di Nardò, assassinata il 31 marzo 1984 per la sua lotta contro la speculazione immobiliare nel Leccese. O ancora i vini Centopassi, tanti quanti quelli che separavano a Cinisi la casa del giovane giornalista e attivista Peppino Impastato da quella di Tano Badalamenti, mandante del suo assassinio avvenuto il 9 maggio 1978; era lo stesso giorno del ritrovamento del corpo di Aldo Moro in via Caetani, coincidenza questa che contribuì a confondere la percezione iniziale dell’evento (che gli autori cercarono anche di mascherare sotto le sembianze di un suicidio, ponendo una carica di tritolo sotto il corpo del povero giornalista, adagiato sui binari della ferrovia Palermo-Trapani) in tal modo oscurandolo in parte all’attenzione dell’opinione pubblica. 

 

Noi italiani, già da molti anni abituati a vedere beni oggetto di confisca destinati a finalità di pubblica utilità (tra i più recenti esempi quello della sede romana della Scuola Superiore della Magistratura, con strepitoso affaccio sulla Fontana di Trevi, già residenza di lusso di un boss della banda della Magliana) 

 

abbiamo difficoltà a comprendere quanto e come esperienze simili possano risultare invece innovative e dirompenti agli occhi dei cugini d’oltralpe.

 

Nonostante l’adozione, nell’aprile 2021, di una legge ispirata a quella italiana, pratiche simili appaiono ancora marginali e poco conosciute in Francia, dove i servizi statali sono spesso apparsi riluttanti a riconoscere la crescente presenza della crimine organizzato e solo di recente hanno cominciato a mobilizzare l’Agence de gestion et de recouvrement des avoirs saisis et confisqués (Agrasc) creata sul modello della nostra Agenzia Nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni Sequestrati e Confiscati alla criminalità organizzata.

A una tale presa di coscienza intende a suo modo contribuire anche l’équipe 

de La Poesia, ispirata tra l’altro da un magistrato francese che ha a lungo lavorato 

nella nostra penisola, proponendosi di promuovere e diffondere l’esperienza italiana 

in materia di contrasto alle organizzazioni criminali.

Il locale viene infatti animato non solo attraverso l’esposizione sui suoi muri di opere di pittori italiani legati al meridione ma anche con eventi e incontri sul tema (il più recente dei quali dedicato proprio al trentennale degli attentati a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino). Sono state anche avviate iniziative di partenariato con associazioni francesi impegnate nel reinserimento sociale dei più debolì, partecipando in tal modo, anche attraverso l’assunzione di personale di sala tratto dalle stesse, a un percorso di solidarietà concreta. 

 

Quanta distanza appare separare l’esperienza de La Poesia da quella, così diversa e di breve durata, del ristorante aperto nel 2017, in un diverso quartiere della capitale francese, proprio dalla figlia del boss di Corleone giudicato principale responsabile della strage di Capaci, che faceva esplicito riferimento, già a partire dalla scelta del nome, all’evocativa immagine del paese del Padrino. Le differenze non si misurano solo sulla base degli ingredienti delle pietanze e delle voci dei menù… 

 

 

 

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CORALLIUM RUBRUM. JAN FABRE E L’AURA PARTENOPEA di Francesca Romana De Paolis numero 27 gennaio febbraio 2023 Ed Maurizio Conte

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Corallium Rubrum. Jan Fabre e l’aura Partenopea

 

Al centro di una doppia trasmutazione alchemica, per così dire – che consta della devitalizzazione dell’organico e quindi della vitalizzazione dell’inorganico, a garanzia di uno splendore imperituro, nodo di remoti commerci tra Mediterraneo e Oriente, legame tra il folklore del passato e il lusso folklorico del presente – risiede

uno dei più pregiati doni del Sud: il corallo.


È risaputo che dal 3500 a. C. l’uomo appendesse corni animali sull’uscio delle proprie caverne, gesto apotropaico. Noto che dagli scavi di Pompei ed Ercolano siano affiorati, tra i molteplici reperti, anche enigmatici cornicelli

Dall’antica Roma Plinio il Vecchio, nell’enciclopedica Naturalis Historia, descrive le spade dei Galli come decorate in oro rosso. 

E nel Medioevo pillole coralline rappresentarono un portentoso farmaco contro crisi epilettiche, incubi e malattie infantili. 

Tutti sanno infine che nel Meridione il corno di corallo è simbolo di buona sorte. Lungi da interpretazioni freudiane esso rappresenterebbe, nella forma, il fallo di Priapo, antica divinità simbolo della forza generativa maschile e della fecondità della natura.

E benché dal diario di Marco Polo – che raccontò dei corallini ornamenti indiani 

e degli amuleti nepalesi, degli utensili tibetani e degli elmi e dei copricapi mongoli 

o ottomani – affiori in sottoparlato il profilo di una via del corallo, accanto 

alla via delle spezie e a quella della seta; benché percorrendo 

la vesuviana cittadella di Torre del Greco o i vicoli partenopei, 

possiamo ancora scorgere il profilo di questa via, 

ci accorgiamo lo stesso di un rischio imminente.


Non possiamo non constatare – in questo ventunesimo secolo di humana historia – una crisi auratica dilagante, un dissolvimento cultuale della materia dalla quale perfino il sacro corallo sembra non avere scampo. Qualsivoglia oggetto di pregio, quando non davvero rituale, per non soccombere alla scadenza effimerica dell’oggi, abbisogna di un gesto salvifico in controtendenza. 

Soffermiamoci su quel sublime olio su tavola rinascimentale che è La Madonna di Senigallia di Piero della Francesca, laddove il bambino Gesù indossa un ciondolo di corallo, monito del futuro sacrificio. Soffermiamoci sulle Sette Opere di Misericordia dell’ultimo Caravaggio, che al corallo si lega non per iconografia, ma per significazione, poiché nulla di più misericordioso e caritatevole esiste del sangue versato per l’Altro. Corallium sanguinis imago. E scopriamo come un modo vi sia – offerto proprio da Napoli, città sirenica, partenopea, feconda di risorse – per ritrovare alfine l’aura del Corallium Rubrum, sopravvissuta in resilienza.

Entro la napoletana chiesa ottagonale del Pio Monte della Misericordia, 

in via dei Tribunali – fondata nel 1602 grazie a sette nobili caritatevoli 

che offrivano assistenza ogni venerdì presso l’ospedale degli Incurabili – 

si trovano, in forma permanente, dal 2019, quattro sculture realizzate 

dall’artista contemporaneo Jan Fabre (Anversa, 1958). 

In dialogo con i dipinti seicenteschi delle sette cappelle d’intorno 

e con l’opera del Merisi, posta sull’altare: si tratta di una tetragonia 

di sculture fatte interamente di corallo.


L’artista belga, amante di Caravaggio e di Napoli, che non a caso ha dato a suo figlio il nome Gennaro, è legato al concetto di Caritas e ha scelto il corallo per risvegliarne la storia a partire dalla tradizione culturale e pittorica barocca. Il filo rosso – più rosso non potrebbe dirsi – che lega le sculture fiamminghe è la presenza, in ciascuna, di grossi, guizzanti cuori anatomici. Di volta in volta associati a simbologie cristologiche. 

Nella Purezza della Misericordia, ispirata alla tela del Merisi, ove Sansone eroe biblico, beve dalla mascella di un asino, questa è la base ossea su cui si regge il cuore umano, dal quale sbocciano magnifici gigli, simbolo della purezza della Vergine Maria, cui la chiesa è dedicata. La colomba con ramo d’ulivo è il soggetto corallino de La Libertà della Compassione, dove il cuore umano è stretto fra catene. E lo stesso cuore è circondato di edere nella Rinascita della Vita, a omaggiare il ciclo di vita, morte e resurrezione. Mentre nella Liberazione della Passione il cuore di corallo si fa serratura ed accoglie le chiavi del Paradiso di San Pietro.

Perché adempia al suo compito di portare fortuna il corallo dev’essere ricevuto 

in dono, non acquistato, infatti le opere fabriane sono state donate dal fiammingo 

al Pio Monte della Misericordia, grazie al sostegno di Gianfranco D’Amato 

e Vincenzo Liverino in ricordo dei Cavalieri del Lavoro 

Salvatore D’Amato e Basilio Liverino


Questo fa del Pio Monte non soltanto un celebre luogo di culto cristiano e il custode partenopeo di una delle più complesse opere di Caravaggio, ma anche un tempio della Buona Sorte. 

Varcando la soglia della chiesa tutto ciò che il corallo taceva torna a galla. Quella storia raccontata da Ovidio, che vuole la rossa viscera splendente generarsi dalle stille di sangue della Medusa decollata da Perseo. La sollecita corsa quattrocentesca all’acquisto di gioielli corallini di Alfonso d’Aragona per soddisfare la vanitas della sua Lucrezia d’Alagno.

La fascinazione che ebbe per il corallo la moglie del re di Napoli Gioacchino Murat, Carolina Bonaparte, che regalò al fratello Napoleone una spada imperiale ornata 

di cammei torresi, una scacchiera corallina ed altri gioielli vermigli.


La moda per il Rubrum Corallium che di qui si espanse alla corte di Francia. 

Il racconto di qualche viaggiatore d’oggi, che forse si è udito senza troppa cura. Che descrive alcune casupole Polinesiane sull’isola di Huahine, povere e disadorne viste da fuori, ma che all’interno custodiscono ancora pavimenti rivestiti di corallo. E ancora, le colonie degli artigiani di Torre del Greco generatesi in Giappone quando si scoprirono risorse coralline nel Pacifico. 

I mercanti ebrei di Livorno e Genova che sovraneggiavano sul mercato corallino, messi in riga dall’ordine giuridico di Ferdinando IV di Borbone. La diaspora quattrocentesca dei fini corallari siciliani che si insediarono in Campania portando le proprie tecniche di lavorazione tra Napoli, San Giorgio a Cremano, amalgamandosi agli artigiani napoletani del corallo. 

Questo fa Napoli, città pulsante di segreti. Mischia le carte e sovrappone le storie. Dal mito alla religione, dal lusso d’Oriente, alla moda cortese fino all’arte contemporanea. E lo fa anche attraverso la storia infinita dei rami di corallo.  

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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 Foto di Francesca Romana De Paolis

JOE DI MAGGIO di Gaia Bay Rossi e Luigi Vignali numero 27 gennaio febbraio 2023 Ed. Maurizio Conte

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JOE DI MAGGIO

 

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quando delineò il dovere del Filosofo nel secondo libro de La Scienza della Legislazione, che “Se i lumi che egli sparge non sono utili pel suo secolo e per la sua patria, lo saranno sicuramente per un altro secolo e per un altro paese. 

Dopo un lungo viaggio la coppia si stabilì a Martinez, cittadina vicino a San Francisco, ebbe nove figli e fra i loro, il 25 novembre 1914, nacque Joe.

Sin da piccolo appassionato di baseball


(come i fratelli Dom e Vince, che diventeranno anch’essi giocatori professionisti), esordì a soli diciassette anni nella “minor league”, con la squadra dei San Francisco Seals. Dopo quattro stagioni venne ceduto ai New York Yankees, in cui costruirà la sua straordinaria carriera sportiva e in cui rimase fino al 1951, quando a trentasette anni si ritirò dallo sport agonistico.   

 

Joe Di Maggio fu uno dei più grandi giocatori di baseball di tutti i tempi. Vinse per tre volte il titolo di miglior giocatore dell’American League e fu chiamato nella selezione dei più forti giocatori per ben 13 volte.

 

Tifosi e giornalisti lo chiamavano Joltin’ Joe (“Joe che fa sobbalzare”) 

per la forza con cui colpiva la palla. Nell’arco della carriera Joe 

totalizzerà l’incredibile risultato di 2.214 “battute valide”.


Il giorno prima della vittoria degli Yankees contro i Red Sox, partita che chiudeva il campionato del 1949, il Corriere della Sera scrisse: il campione 
“è stato festeggiato non solo dai propri tifosi, ma anche dai giocatori e dai tifosi della squadra avversaria. Una folla di 80.000 persone lo ha acclamato per un’ora intera prima che la partita potesse cominciare: Joe è stato letteralmente coperto di doni, che andavano da un chilo di gelato alla crema ad un motoscafo da corsa di gran lusso. Quest’ultimo però non è stato portato in campo. Il sindaco di Nuova York è sceso per congratularsi con lui e per consegnargli una bicicletta per il suo figliuolo. Joe Di Maggio, il bel ragazzo sorridente ed espansivo di origine italiana […] ha consegnato al sindaco tutti i doni in denaro che aveva ricevuto perché venissero divisi tra due fondazioni: quella per ammalati di cuore e quella per le ricerche sul cancro”. 

 

Un grande sportivo, un grande italiano. Nella sua vita Joe non dimenticò mai l’Italia 

e Isola delle Femmine. Nel 1955, giunto a Roma decise di far visita al paese 

dei genitori, dove una volta arrivato fu accolto dall’allora sindaco 

suo omonimo, Francesco Di Maggio.


Tornò a Roma una seconda volta, nel 1993, come rappresentante della Federazione Italia-America, con l’intenzione di recarsi a Isola delle Femmine per ritirare la cittadinanza onoraria. A causa di un malore non poté partire: fu dunque il sindaco a venire a Roma, alla Farnesina, per la consegna della cittadinanza. Oggi a Isola delle Femmine, è possibile visitare la casa Museo Joe Di Maggio, per ricordare un campione straordinario, uno dei personaggi più amati nella storia dello sport americano. Si sposò una prima volta con l’attrice Dorothy Arnold e dal matrimonio nacque Joe Di Maggio Jr., ma i due divorziarono nel 1943, mentre Joe prestava servizio militare alle Hawaii.

 

Dopo una serie di storielle senza importanza, arrivò finalmente

il grande amore, Marilyn Monroe.


Joe perse completamente la testa, nonostante l’opposizione del fratello Dom che e soprattutto del vescovo di New York, che gli negò il divorzio dalla prima moglie e poi la possibilità di ricevere i sacramenti. 

Durante la celebrazione del matrimonio con Marilyn, di fronte a 400 persone, il giudice Peery dichiarò: “Ho dimenticato di baciare la sposa, come vuole la tradizione e, credetemi, mi dispiace”. Gli sposi partirono per il Giappone, dove Joe era stato invitato a lanciare la nuova stagione di baseball; Marilyn doveva invece esibirsi per le truppe americane di stanza in Corea: in tre giorni di tour incontrò 13.000 soldati e in ogni base militare fu accolta da enormi ovazioni.

 

Di Maggio era certo che, una volta sposati, Marilyn avrebbe lasciato la carriera 

per dedicarsi alla famiglia (al giornalista che le chiese se aveva intenzione 

di avere bambini, aveva risposto: “Certo, almeno sei”). 

 

Ma così non fu, 


la sua popolarità negli Stati Uniti era al culmine e la sua fama mondiale. Dopo un primo periodo di felicità, arrivarono discussioni e violente liti, anche se non erano note al grande pubblico. Joe seguiva le condizioni contrattuali di Marilyn con le case cinematografiche, riuscendo a ottenere migliori compensi, ma era esacerbato dalla gelosia per una donna che rappresentava il desiderio proibito per antonomasia. Forse il punto di non ritorno fu la gonna svolazzante del film
“Quando la moglie è in vacanza”, per Joe fu devastante vedere l’intera troupe a bocca aperta davanti alla scena – poi trasmessa nei cinema di tutto il mondo. Sicuramente fu l’ultima volta che i coniugi apparvero insieme in pubblico. 

Il 5 ottobre 1954, a solo nove mesi dal matrimonio, Marilyn Monroe, annunciò la decisione di separarsi dal marito. Dopo poco seguirà l’annuncio del divorzio. La causa di divorzio fu molto dura. Di Maggio si fece addirittura accompagnare da Frank Sinatra (peraltro già amante di Marilyn) a un’”imboscata” alla diva – con il risultato di una porta sfondata a una sconosciuta, cui i due dovettero risarcire 7000 $. Dopo vari anni, in cui Marilyn si era risposata una terza volta (con Arthur Miller), aveva sofferto per alcuni aborti, era diventata dipendente da farmaci e psicofarmaci, la donna si riavvicinò a Joe Di Maggio. 

 

Lui, nonostante tutto, continuava a esserne innamorato. Addirittura nel 1961 

i giornali parlavano di un secondo matrimonio tra i due.

 

Poi il 5 agosto del 1962 lei morì improvvisamente, in circostanze mai del tutto chiarite, nella sua casa di Los Angeles.   

 

Di Maggio si occupò del funerale e delle spese. Invitò solo gli amici più intimi, escludendo sia le star hollywoodiane, sia le note personalità politiche che pure Marilyn frequentava. Con il figlio Joe Jr. accanto, seguì il feretro fino alla sepoltura nel cimitero di Brentwood. Prima della chiusura Joe baciò per tre volte la cassa e per tre volte le disse “Ti amo”. E ordinò di deporre un mazzo di 6 rose rosse due volte a settimana sulla sua tomba, per sempre. Quando giunse la sua ora, nel 1999 per un tumore ai polmoni, le ultime parole furono: “Finalmente riuscirò a vedere Marilyn”.  

 

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ENRICO CARUSO UN NAPOLETANO IN AMERICA di Luigi Vignali e Gaia Bay Rossi numero 26 ottobre navembre 2022 Ed. Maurizio Conte

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ENRICO CARUSO UN NAPOLETANO IN AMERICA

 

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Enrico Caruso è stato uno dei più grandi tenori di sempre e ha fatto conoscere e amare in tutto il mondo la lirica e la musica napoletana. La sua vicenda è narrata nel bel documentario “Enrico Caruso, the greatest singer in the world”, girato per i cento anni dalla morte dell’artista e prodotto dalla Direzione Generale per gli italiani all’Estero della Farnesina.

 

Caruso era di umili origini, ma sin da bambino maturò notevoli capacità musicali, tanto da suscitare l’attenzione di alcuni “maestri” dai quali prese lezioni, per quanto ancora di livello amatoriale. La dedizione che mise nello studio gli permise, nel tempo libero dal lavoro alla fonderia in cui il padre era operaio, di esibirsi presto in piccoli teatri e caffè fuori Napoli, cantando canzoni napoletane e arie d’opera. In una di queste occasioni venne notato dal baritono Edoardo Missiano che lo presentò al maestro Guglielmo Vergine, uno dei migliori maestri di canto della città. Quest’ultimo, intuendone il potenziale, accettò di dargli lezioni in cambio del 25% dei proventi che il tenore avrebbe guadagnato nei successivi cinque anni. Per il giovane venne poi la chiamata alle armi, ma la fortuna volle che un suo ufficiale, maggiore Nagliati, lo ascoltasse cantare in caserma. Rimanendo colpito dalla sua voce, non solo gli propose di andare a lezione dal suo amico barone Costa, ma fece anche in modo che il fratello di Enrico, Giovanni, lo sostituisse sotto le armi (la legge allora lo permetteva)!

 

Talento, professionalità e dedizione permisero a Caruso di debuttare nel marzo 

del 1895, di farsi conoscere in Italia e di iniziare ad apparire sui giornali


Riuscì anche ad avere un’esperienza all’estero, percependo 600 lire per un mese di lavoro al Cairo. In quel periodo Caruso ebbe modo di conoscere direttamente il Maestro Puccini, che lo invitò nella sua casa di Torre del Lago. Il compositore stesso accompagnò Caruso al pianoforte e durante la romanza di Rodolfo, esclamò la famosa frase: “Chi t’ha mandato, Dio?”. 

Fu proprio in quegli anni che iniziò una relazione con il soprano fiorentino Ada Botti Giachetti, per quanto già sposata e madre di un bambino, dalla quale ebbe poi due figli, Enrico jr. e Rodolfo. Per lei più avanti comprò Villa Bellosguardo a Lastra a Signa (presso Firenze, tuttora sede di un museo a lui dedicato). La loro unione finì undici anni dopo in tribunale, perché Ada lo lasciò per fuggire con l’autista. La coppia cercò anche di estorcere denaro al tenore.

 

Oltre all’Italia, Caruso iniziò a esibirsi all’estero con tournée in Russia, 

a Lisbona, a Londra e a Buenos Aires. Aveva preso quota,

 

erano finiti i tempi dei localini di un tempo, ora in Italia cantava alla Scala di Milano, all’Opera di Roma, al Massimo di Palermo e al San Carlo di Napoli. Fu proprio qui, secondo la leggenda, che durante l’interpretazione de L’elisir d’amore nel dicembre 1901 si fosse così emozionato da aver subito delle incertezze canore; la protesta eccessivamente severa dei suoi concittadini e le critiche sui giornali gli fecero giurare di non cantare più nella sua città: sarebbe tornato solo per “vedere la mia cara mamma e mangiare i vermicelli alle vongole”. E così fu: un giuramento che Caruso manterrà per tutta la vita. Era pronto invece a cogliere il grande successo che lo attendeva oltreoceano. 

Nel marzo del 1903, grazie al banchiere italiano residente a New York Claudio Simonelli, Caruso riuscì ad ottenere un eccezionale contratto con il Metropolitan Opera House. Simonelli, dopo lunghe trattative con il nuovo direttore Henrich Conried, era infatti riuscito a fargli accettare tutte le condizioni richieste dal tenore.

 

Il 23 novembre Caruso debuttò in un Metropolitan sfarzoso e brillante di luci. 

In cartellone la sua opera preferita, Rigoletto.

 

Il pubblico era composto da alta società e giornalisti, Caruso era pronto e perfettamente all’altezza, ma la grande emozione lo fece muovere in maniera maldestra, tanto che ruppe il ventaglio del soprano Helen Mapleson. La serata non raggiunse picchi particolari di ammirazione, ma neanche di critica e risultò una serata “media”, come tante altre. La stampa comunque fu benevola, il New York Times mise in rilievo l’espressione e la flessibilità della sua voce, così come l’intelligenza e la passione sia nel canto che nella gestualità, mentre il Sun si rallegrava di come il nuovo tenore non mostrasse traccia del “tipico belato italiano” e faceva notare che Caruso era oltretutto un uomo piacente!

 

Al Rigoletto seguirono AidaToscaBohemePagliacciLuciaTraviataElisir d’amore, per complessive 29 recite in cui Caruso era sempre intento a reggere 

e superare il confronto con Jean de Reszke, il tenore stabile del Metropolitan.


Era oltretutto un uomo affascinante e il pubblico femminile ne rimaneva ammaliato. Queste 29 serate furono le prime delle 607 realizzate per il Metropolitan, in ben diciassette stagioni. 

Le rappresentazioni divennero sempre più veri e propri trionfi, la sua voce era considerata straordinaria. Durante un’esibizione il 5 dicembre lo straordinario successo fu sottolineato anche dall’inusuale gesto del soprano Marcella Sembrich, che raccolse uno dei fiori presenti sul palco e lo porse a Caruso. 

Il tenore fu il primo ad incidere dei dischi sin dal 1902, e fu proprio questo supporto a contribuire alla divulgazione del mito. Oltretutto riuscì a vendere un milione di copie, diffondendo musica napoletana e operistica in tutti i continenti. E questo senza tralasciare l’impulso che le incisioni diedero all’aumento di ingaggi e cachet…

 

Nel 1910, diretto da Arturo Toscanini, Caruso cantò nella prima mondiale della Fanciulla del West di Giacomo Puccini. Era ormai diventato 

il tenore più importante e famoso al mondo.

 

L’organizzazione di stampo mafioso La Mano Nera, con ramificazioni in Sicilia, tentò di estorcergli del denaro, sotto minaccia di morte. Caruso non cedette al ricatto e si affidò al poliziotto Joe Petrosino, che riuscì a far arrestare due dei tre delinquenti (e, grazie alle indagini, qualche anno dopo, anche due importanti capi della mafia newyorkese). Il tenore, alle estorsioni preferiva la beneficenza, soprattutto se riguardava gli immigrati italiani. Diede un concerto di beneficenza anche dopo l’affondamento del Titanic, a metà aprile 1912, e durante la I Guerra mondiale tenne concerti per i soldati.

 

Fino al 1920 la vita di Caruso era organizzata in base alle stagioni al Metropolitan, 

alle incisioni discografiche, e ogni anno dalla primavera all’inizio dell’autunno 

era in Europa (almeno fino allo scoppio della guerra), 

ritagliandosi un mese estivo di vacanza italiana.

 

Durante le prove del Sansone e Dalila al Metropolitan crollò una scenografia in cartapesta, colpendo il tenore ad un fianco e fratturandogli le costole. Rimase sempre il dubbio se fosse un disgraziato evento del destino o un atto criminale. Le conseguenze dell’infortunio gli procurarono poi un’emorragia durante una rappresentazione che venne interrotta. Il 25 dicembre del 1920, mentre si trovava a Sorrento, il cantante lamentò forti dolori, che furono diagnosticati dai medici come pleurite infetta. Fu operato il giorno prima di capodanno.   

 

Tornato in America, Caruso abbandonò le scene perché le sue condizioni erano particolarmente gravi. Decise poi di voler terminare i propri giorni a Napoli e con la moglie Dorothy (sposata nell’agosto del 1918), la figlioletta Gloria e il fratello Giovanni fece rientro in Italia. 

Morì nella sua città, al Grand Hotel Vesuvio, il 2 agosto 1921.In occasione del centenario della morte, nell’abitazione dove nacque il cantante, è stato inaugurato il Museo Casa Natale Enrico Caruso.

 

Il tenore era estremamente legato a Napoli, la napoletanità rimase impressa 

nella sua indole, nel suo carattere e temperamento fino alla morte.

 

Gli piaceva avere intorno napoletani, sia che fossero amici, collaboratori o colleghi. E questo perché lui stesso si sentì sempre profondamente napoletano, anche se il rapporto con la città fu caratterizzato da un’ambivalenza di struggimento e scetticismo. 

Alcune delle canzoni napoletane incise da Caruso furono ideate e realizzate a New York, all’interno della comunità italiana, non a Napoli, come Core ‘Ngrato (scritta e musicata appositamente per lui), Tarantella sincera, Scordame, Sultanto a te, I’m’ arricordo ‘e Napule, ultima canzone incisa da Caruso nel 1920. Il 20 marzo 1916 aveva invece inciso la canzone Tiempo antico, scritta e musicata da lui stesso, una sorta di sfogo, di liberazione del suo amore per Ada perduto nel tempo. 

Caruso fu in tutto e per tutto un italiano d’America, negli atteggiamenti, nell’allegria, nella passione, che lo portarono ad essere in tutto il mondo un vero, grande mito italiano.

 

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LECCE UNA MATTINA DI AGOSTO di Gianluca Anglana numero 26 ottobre novembre 2022 Ed. Maurizio Conte

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LECCE UNA MATTINA DI AGOSTO

 

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Palazzo Giaconia

 

«Mangiami»: mi implora il pasticciotto dalla teca in cui è imprigionato. Con lui altri galeotti, nell’attesa che qualcuno li scelga e si decida a liberarli. E a divorarli. Il piccolo bar, a pochi passi dalla Chiesa Greca, brilla all’esterno di un bagliore accecante: la sua unica sala interna è fresca e buia, come l’antro di una sibilla. Il cameriere napoletano scivola svelto sulla strada, così scintillante e linda che non lo crederesti.

 

Nel caleidoscopio della vacanza, anche i luoghi familiari si ammantano di novità, si illuminano di un inedito riverbero.

La luce che piove dal cielo blu aragonite accende la pietra leccese: vicoli stretti 

come budelli, in cui sciamano turisti e lavoratori in pause furtive.


In lontananza, un violoncello e un contrabbasso piangono lacrime di musica argentina.
Pouilles, Italie: qualche sedia più in là, alle ultime propaggini del dehors, due francesi consultano la loro Lonely Planet con una pensosità così grave da sembrare assorti nella lettura di un trattato sulla pietra filosofale.   

 

Dal mio tavolino, su cui il pasticciotto evaso e un caffè salentino pazientano come una natura morta, osservo la mia bicicletta appoggiata al muro di fronte. Sarà il mio ronzino, alla scoperta di nuovi quartieri in apparenza trascurabili, sciatti, sopra i quali si distende l’ombra lunga delle sedi del potere: gli uffici giudiziari sono a portata di lancia, mulini a vento da cui guardarsi e tenersi a distanza. Il Comando provinciale della Guardia di Finanza sorveglia la piazzetta dove ho scelto di arrivare: 

 

qui è la chiesa che avrei voluto visitare. E che invece resterà chiusa 

per tutto il mese di agosto,

 

sentenzia uno sbrigativo cartiglio incollato al portale come un qualunque avviso a una bacheca comunale. Disappunto. Un nulla di fatto in cui inciampo dopo avere accolto il suggerimento di

 

una signora gentile, dai capelli rosa e da un altrettanto inatteso accento barese: 

«vada a vedere la chiesa di San Francesco da Paola, 

dentro è bella quanto Santa Croce» mi esorta, 


sorprendendomi nel ventre tortuoso del centro storico, con il naso all’insù a osservare la facciata austera di un antico monastero benedettino, e sfoggiando un sorriso complice. Un incontro casuale, un dialogo cordiale e foriero di buonumore. Dopotutto, cos’altro è la vita se non un dedalo di giravolte di un’antica città dalle radici messapiche, grani di sale che ci nevicano addosso sotto forma di imprevisti?

 

Se le porte della casa del Signore sono sbarrate, 

sono aperte quelle di Palazzo Giaconìa

 

La sua facciata sonnecchia sobria di fronte alla caserma e guarda con noncuranza al viavai dei finanzieri sulla piazza. Ha il nome di Angelo Giaconìa, vescovo di Castro, che nel 1546 iniziò a erigere per sé una dimora signorile approfittando delle nuove possibilità dischiusesi con la revisione urbanistica di Lecce nella prima metà del sedicesimo secolo.

E sì che il palazzo eredita il suo nome da un presule, ma deve i suoi fastosi giardini 

a un sindaco, Vincenzo Prioli, che lo acquistò alla fine del Cinquecento:


sua l’idea di un parco privato, che volle ingentilire con elementi decorativi, impluvi e reperti strappati alla terra negli scavi aperti a Lecce e Rudiae. Dopo la sua morte, la residenza passò di mano in mano: ai Carignani duchi di Novoli, prima; ai Lopez y Royo duchi di Taurisano, poi. Una catena interrotta solo all’alba del ventesimo secolo, quando un decreto prefettizio assegnò l’edificio a un istituto assistenziale. Della primitiva vastità del giardino, limitato dalle mura urbiche, così come della vegetazione originaria resta poco, ma quanto basta per lasciarsi accarezzare dalla brezza dei sogni.

 

Il profilo alto delle palme, che svettano come comari curiose di vedere cosa accade 

al di là della cinta muraria, dona alla villa un aspetto vagamente moresco, 

un’allure pressoché mediorientale.

 

Pareti inghiottite da rigogliosi rampicanti, cipressi, cespugli, un’antica pianta di alloro: tutti si lasciano ammirare da un camminamento rialzato, abbellito da un pergolato e da colonne seicentesche. Lungo questo breve tragitto sul ciglio delle mura, mi disfaccio della fretta, l’espressione di distaccato sospetto propria delle sentinelle e di chi diffida degli inganni della contemporaneità. Dall’alto si vede la città pulsare: il rumore del traffico si sfarina in un ronzio lontano, gli affanni si stemperano, le accuse al presente di tradimento e al futuro di latitanza precipitano giù, dall’orlo dei bastioni. Nel caleidoscopio della vacanza, quando si è più vicini al cielo di qui, i nodi si allentano, le voci di troppo tacciono.   

 

È ora di andare.

 

Uno sguardo ancora al bassorilievo che è accanto all’ingresso e che si attribuisce 

a Gabriele Riccardi, tra i massimi architetti del rinascimento salentino: 

il Trionfo di David. C’è bisogno di trionfi, dell’alloro che li celebri, 

di palme giganti da scalare per rimpicciolire il mondo, 

di segnali di ottimismo, per lo meno dall’arte, 

in un periodo come il nostro che ne è avaro.

 

Mentre sorrido a una turista americana e alla sua gioia di trovarsi lì, vado a recuperare il mio ronzino. È ora di andare. Alla scoperta di altri luoghi dimenticati, di altre fantasie da nutrire, di altre emozioni da cui lasciarsi cullare

 

 

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VOCI DEL CINEMA TRA LE SPONDE DI LISCA BIANCA di Aurora Adorno numero 26 ottobre novembre 2022 ed.maurizio conte

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VOCI DEL CINEMA 

TRA LE SPONDE 

DI LISCA BIANCA

 

 Stelle al Sud

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Appare in lontananza Lisca Bianca, a pochi chilometri a est di Panarea, come una donna adagiata sul mare che, beandosi dei raggi del sole e benedetta dalle acque galleggia in solitudine; distaccata da Dattilo e Bottare, è ciò che resta di antiche bocche vulcaniche prima unite in un unico scoglio.

 

Sull’isolotto cresce un tappeto grigio – verde di erbe che si estende come un vestito sul corpo di questa bella Riserva naturale; è l’Anthemis aeolica, anche detta Camomilla delle Eolie, un’erba che cresce solamente sull’isola.   

 

Vicino a Lisca Bianca nelle profondità del mare, giace sul fondo il relitto di un cargo inglese affondato nel 1885 di cui la poppa e la prua ancora intatti sono sommersi dalle acque silenziose del Mediterraneo.

 

 Non è possibile sbarcare sull’isola, se non per scopi scientifici o di ricerca, 

ma soltanto ammirarla da lontano, oppure girarci intorno con una barca.   

 

 Un’altra opzione è quella di perlustrare Lisca attraverso lo sguardo inquieto 

della macchina da presa di Antonioni: nel celebre cortometraggio del 1983 

dal titolo “Ritorno a Lisca Bianca” l’isolotto appare 

in tutta la sua selvaggia bellezza.  

 

Nelle urla furiose delle onde che si infrangono contro gli scogli a strapiombo sul mare è nascosto un segreto, forse terribile: «Anna, Anna». Rimbalzano tra le rocce le urla di Monica Vitti nella parte di Claudia e di Gabriele Ferzetti nella parte di Sandro il fidanzato di Anna (Lea Massari), una ragazza fragile che sparisce nel niente durante una gita alle Eolie.

 

Il documentario fa capo al film “L’avventura”, diretto nel 1960 dallo stesso Antonioni 

e prima parte della trilogia “esistenziale” o “dell’incomunicabilità” 

di cui fanno parte anche il film “La notte” e “Eclisse”.


Ma Anna non si trova, è sparita, e dopo il panico tra Sandro e Claudia scoppia la passione. 

«Pochi giorni fa all’idea che Anna fosse morta, mi sentivo morire anch’io. Adesso non piango nemmeno. Ho paura che sia viva. Tutto sta diventando maledettamente facile, persino privarsi di un dolore» confida Claudia ormai infatuata di Sandro, e nei suoi occhi chiari c’è tutto lo struggimento della Vitti, una donna vulnerabile alle prese con una passione proibita, forte, tanto da toglierle il fiato. Tra Noto e Taormina continua la storia d’amore: 

Sandro: «Claudia, ci sposiamo?» 

Claudia: «Come ci sposiamo?» 

Sandro: «Ci sposiamo io e te. Rispondi!» 

Claudia: «Rispondi. Cosa ti rispondo: no, non ancora, non lo so, non ci penso nemmeno. In un momento come questo, ma perché me lo domandi?» 

Sandro: «Mi guardi come se avessi detto una cosa pazzesca». 

Claudia: «Ma sei sicuro di volermi sposare? Proprio sicuro? Di voler sposare me?» 

Sandro: «Se te lo chiedo?» 

Claudia: «Già, ma perché tutto non è semplice. Dici che voglio vedere tutto chiaro. Io vorrei essere lucida, vorrei avere le idee veramente chiare, e invece».

 

Prosegue il dialogo tra gli amanti, e va a confondersi col vento che, 

come scrisse il drammaturgo francese, in queste isole suona. 

 

Come capita in certi amori, Sandro si concede una storia con un’affascinante scrittrice. Claudia lo perdona, è pronta a tutto, anche ad accettare una relazione tormentata, passionale, come quella che aveva portato Anna a sparire nel niente tra gli scogli di Lisca. 

Il mistero chiude il film come una nuvola che, tra il vulcano e la terra ferma, oscura il cielo senza mai sparire veramente.

 

Le Eolie, quel favoloso arcipelago che Stromboli illumina come un faro, 

scriveva Dumas

 

che, proprio come molti scrittori fecero a cavallo tra l’800 e il 900, ricordò le isole in un lungo diario di viaggio, tingendo le pagine con i colori pastello del nostro Mediterraneo.

 

 

 

 

 

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Stelle al Sud

 

Con la serie “Stelle al Sud” Myrrha va alla ricerca di alcuni tra i tanti personaggi celebri la cui arte si è in qualche modo intrecciata con la natura incontaminata di un Sud selvaggio e incantatore, divenuto per essi fonte di ispirazione, talvolta dimora d’elezione.

 

 

LA TARGA FLORIO di Gaia Bay Rossi – Numero 25 – luglio agosto 2022 Ed. Maurizio Conte

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LA targa florio

 

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allineate sulla linea di partenza. La tensione era alta da giorni, tutti si rendevano conto che quella competizione, la Targa Florio, sarebbe entrata nella storia. 

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Era il 1906 e quella era una delle prime gare automobilistiche al mondo, basti pensare che la Mille Miglia sarebbe nata circa vent’anni dopo, nel 1927.   

 

La cosa più incredibile è che si disputò nella Sicilia di quegli anni, e lì si svolse anche in tutte le 60 edizioni successive. 

Ancora una volta la Sicilia, nonostante l’arretratezza dovuta ai molti fattori 

che non stiamo qui ad indagare, era in testa al mondo,


stavolta non per la ricchezza della sua arte, per la sua cultura multiforme, per la sua storia millenaria, per la sua incredibile biodiversità, ma per uno sport e per l’organizzazione di un evento che, così strutturato, in Italia non si era ancora mai visto.

Il luogo esatto erano le Madonie, una piccola catena montuosa nella parte Nord Occidentale della Sicilia che, come tutti i luoghi montani, aveva strade strette e tortuose, adatte più ai carretti che non a rombanti automobili. Solo un grande siciliano appartenente ad una famiglia fuori dal comune avrebbe potuto ideare e organizzare una simile competizione. Lui era Vincenzo Florio junior, figlio del senatore Ignazio Florio e di Giovanna d’Ondes Trigona, nonché cognato della “regina di Palermo” Franca Florio, moglie di suo fratello Ignazio jr. Ma facciamo un passo indietro e vediamo cosa stava succedendo in quegli anni a Palermo. 

La famiglia Florio, che ormai molti di voi hanno conosciuto anche grazie 

agli apprezzatissimi romanzi della trapanese Stefania Auci 

era, tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento, 

una delle famiglie più ricche dell’Italia 

della Belle Époque,


famosa in tutta Europa e molto oltre. Tra i loro amici vi erano capi di Stato e reali, politici di vario genere e grado, banchieri internazionali, e poi anche i rappresentanti più importanti della vita culturale dell’epoca, con pittori, artisti, musicisti, scrittori che entravano e uscivano dalle loro meravigliose case e dalle loro vite, lasciando sempre traccia di sé. 

Ad un certo punto, in mezzo all’immenso impero dei Florio,


che andava dalla Navigazione Generale Italiana (seconda più grande compagnia di navigazione del Mediterraneo), alle tonnare (con loro si ebbe per la prima volta la conservazione del tonno sott’olio con relativo inscatolamento), dalle cantine di Marsala, a Villa Igiea a Palermo (capolavoro dell’hôtellerie di lusso), dal Cantiere Navale di Palermo, nato per supportare l’attività della loro acciaieria, alle banche,

 

arrivarono anche le gare automobilistiche, che si affiancarono al resto.


Vincenzo Florio jr. poco più che adolescente, percorse la strada che tanto lo appassionava e iniziò a guidare auto sportive, partecipando a qualche piccola gara amatoriale. Nel 1905, ideò il nome di “Coppa Florio” per una gara automobilistica da lui organizzata e finanziata, che si svolgeva già dal 1900 a Brescia ma che assunse la denominazione di “Coppa” perché Vincenzo aveva deciso di istituire, oltre al premio di 50 mila lire, anche una coppa d’argento, opera di un suo amico orafo francese, alla Casa costruttrice che avesse vinto più volte nel corso di sette edizioni. Questa avventura lo catapultò definitivamente nell’idea delle gare sportive, dedicandosi con entusiasmo alla creazione di una nuova competizione da svolgersi sulle Madonie.   

 

Vincenzo disegnò il percorso a Parigi, aiutato da Henri Desgrange, direttore della famosa rivista francese “L’Auto”. Il percorso, come dicevamo, era molto complesso e difficile, poiché si snodava in quelle strade montane piene di curve che collegavano i vari Comuni della dorsale per 146 km e 900 metri. Vincenzo.

Florio stava dando vita ad una competizione che, proprio per queste difficoltà 

di tracciato, era destinata ad entrare nell’immaginario collettivo 

e a divenire leggenda.

Torniamo quindi a quel 6 maggio del 1906 con le automobili rombanti sul nastro di partenza di un circuito che avrebbero dovuto ripetere tre volte. Gli equipaggi erano: cinque Itala, una Fiat, due Bayard-Clement, una Berliet e una Hotchkiss. Di queste riuscirono a tagliare il traguardo solamente sette, tenendo conto che le auto dei due francesi furono bloccate da un incredibile errore della loro squadra: al rifornimento, il pieno fatto fu d’acqua e non di carburante. 

Vinse il torinese Alessandro Cagno su una Itala e, per coprire l’intero percorso, impiegò circa 9 ore e mezza ad una media di 46,8 km orari, distaccando di oltre mezz’ora il secondo classificato. Il premio in palio fu, oltre alla cifra di trentamila franchi in oro, una targa in oro massiccio in stile Liberty, creata per la gara da René Lalique e consegnata al vincitore direttamente dalle mani di donna Franca, la cui presenza all’evento, già da sola catturava l’attenzione degli spettatori e di tutto il bel mondo presente. 

Lalique firmò anche la targa dell’anno successivo e poi altri artisti firmarono 

i premi di successive edizioni: come Duilio Cambellotti, autore della targa del 1908 

e poi anche le illustrazioni di Terzi, Dudovich, Marinetti, De Maria, Gregorietti.


Il quartier generale della manifestazione era a Termini Imerese al Grand Hotel delle Terme, costruito a fine Ottocento in stile neoclassico dal noto architetto Giuseppe Damiani Almejda, che aveva appena terminato il teatro Politeama di Palermo. Lì vi alloggiavano sia i piloti con le Case costruttrici, sia la Palermo bene, e tutti insieme prima della gara impegnavano il tempo organizzando lussuose feste.

Migliaia di persone raggiungevano Termini Imerese con ogni mezzo a disposizione, dalle automobili alle carrozze, dai carretti siciliani ai numerosissimi treni speciali 

che partivano dalla stazione di Palermo.


Una delle gare automobilistiche più antiche del mondo era nata in Sicilia e il successo che seguì fu un successo per entrambi, per Vincenzo Florio e per la Sicilia stessa e la sua promozione turistica. Inoltre, 

grazie all’idea del giovane Florio venne fondato l’Automobile Club di Sicilia, 

il Giro d’Italia decise di includere nelle sue tappe anche la Sicilia, 

e a Palermo fu inaugurato il primo cinema.


Vincenzo morì il 6 gennaio del 1959, senza figli nonostante avesse avuto due mogli. La sua unica vera “figlia” riconosciuta fu così la Targa Florio, di cui disse: “Continuate la mia opera, perché l’ho creata per sfidare il tempo”. La Targa Florio classica si disputò dal 1906 al 1977 come gara automobilistica di durata, divenendo in seguito una gara rallistica con il nome di “Rally Targa Florio”, ma questa è un’altra storia.

Nel 1955 e nel lasso di tempo dal ‘58 al ’73, ha fatto parte del gruppo 

di gare titolate ai fini dei “Campionati Internazionali o Mondiali riservati 

alle vetture Sport o Gran Turismo”, ottenendo sempre maggior popolarità 

e ospitando piloti di fama e importanti Case costruttrici.

Incontriamo Giuseppe Calvaruso, un’appassionato ed entusiasta spettatore della Targa Florio dal 1970 al 1977, che ci racconta cosa volesse dire in quegli anni “vivere” questo evento: 

“I miei primi ricordi della Targa Florio risalgono al 1970 quando, quattordicenne con gli zii andammo a vedere la mitica competizione, e poi ci tornai ogni anno fino alla definitiva chiusura. Gli occhi del nostro narratore brillano, mentre mi racconta delle centinaia e centinaia di curve che le automobili dovevano affrontare in “un circuito di circa 72 Km. da fare 11 volte, che toccava vari paesi nel pieno della campagna siciliana, sfiancante per i piloti e stressante per i bolidi da corsa, e il più delle volte solo la metà dei partecipanti riusciva a tagliare il traguardo”.  Con l’entusiasmo di chi si sente un privilegiato, ci spiega che 

“la corsa, anzi “a cursa” come veniva chiamata dai siciliani, era valida 

per il Campionato Mondiale Marche che annoverava gare come 

la 24 Ore di Le Mans o la 12 Ore di Daytona e richiamava 

oltre 500.000 spettatori che arrivavano da ogni dove.


Il Campionato Mondiale Marche era importante come la Formula 1. Immaginatevi per noi Siciliani il piacere e l’orgoglio di vedere correre sulle nostre strade piloti famosi come Hill, Rodriquez, Bandini, Siffert, Redman, Elford, Stommelen, ecc. e ancora negli anni piloti mitici come Nuvolari, Achille Varzi, Taruffi, lo stesso Enzo Ferrari, Giunti, Merzario, De Adamich. Il giorno della gara ti rendevi conto dell’interesse che suscitava, centinaia di auto dell’epoca (le fiat 127, le Cinquecento, le 850) sparse lungo i bordi del percorso. E poi le storie e gli aneddoti che venivano raccontate da chi c’era già stato negli anni precedenti, e noi a bocca aperta ad ascoltare le storie e le gesta dei piloti più famosi. Che festa in quelle campagne, quanta gente con tanta passione per quei prototipi che, dal rumore in lontananza, già avvertivano chi stava arrivando:
“Chista (questa) è la Ferrari di Vaccarella, no è una Alfa Romeo 33, no è la Porsche di Siffert. Negli anni ’70 la Targa Florio mi vide sempre presente fino al 1977, per l’ultima volta.” 

Infatti, Nonostante fosse una gara abbastanza sicura, tanto che, per questo, 

Vincenzo Florio ai suoi tempi l’aveva definita “la gara più lenta del mondo”, 

anch’essa vide presentarsi il conto di morti e feriti, 

sia tra i piloti che tra il pubblico.


E, dopo alcuni incidenti più o meno gravi, nel 1977 durante la 61esima edizione, si replicò l’incidente avvenuto venti anni prima nella Mille Miglia.   

 

In un tratto subito successivo ad un rettilineo, gli spettatori furono travolti dalla macchina di Gabriele Ciuti, uscita di pista: due morti e tre feriti gravi. La gara fu sospesa e il risultato conteggiato al termine del quarto giro, sugli otto totali. Così finiva la Targa Florio.

 

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LA PIAZZA DEI GAGA’ di Fernando Popoli Speciale Napoli aprile maggio 2022 Ed. Maurizio Conte

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la piazza dei gagà

 

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ciao Cocò, ciao Fefè, tanti cari saluti a mammà…”, 

così recitava una canzone alla moda nella Napoli degli anni Cinquanta, quando Graziella Buontempo, non ancora romana, passeggiava nella piazza col marito sfoggiando il suo stile di icona napoletana del buon gusto, fermandosi per l’aperitivo al bar Cristallo. 

 

Erano gli anni in cui la città risorgeva completamente dalle brutture della guerra e la moda ritornava come esperienza essenziale di vita e di classe sociale per nobili, nuovi ricchi e borghesi emergenti, arrampicatori sociali e gigolò, un mondo variopinto che si ricomponeva come un mosaico all’insegna del buon gusto e dello stile.

Nell’adiacente Riviera di Chiaia, in un piccolo negozio di 20 metri quadri, 

c’era, e c’è ancora con il nipote, un signore ossequioso, 

gentile, affabile, con abito rigato e panciotto,


che dal cassetto del suo mobile in mogano tirava fuori gli “Square”, i tagli con i quali faceva scegliere le cravatte da confezionare su misura ai suoi clienti. Il negozio, Eugenio Marinella, era anche salotto ed occasione di piacevole passatempo per scegliere impermeabili Burberry, cappelli Lock, pullover Coxmoore e profumi Floris, tutti articoli inglesi che il figlio Gino, allora ragazzo di bottega, andava a scegliere personalmente a Londra. 

 

Nella vicina Via Filangieri imperava Bebè Rubinacci, con la sua London House, un negozio di raffinata eleganza col parquet di legno e le vetrine incorniciate di nero, dov’era possibile acquistare altri prodotti inglesi, articoli di Hermès, cravatte regimental, farsi confezionare abiti dal mitico Vincenzo Attolini e camicie rifinite a mano dalla signora Buonamassa.

Tutti capi che Bebè misurava, plasmava, aggiustava con la sua supervisione 

stilistica, per poi farli confezionare a questi artigiani a suo nome 

per clienti come Giovanni Ansaldo, Vittorio De Sica, 

Curzio Malaparte, Eduardo de Filippo 

o il principe Umberto di Savoia.

Attolini lavorava anche in proprio nella sartoria adiacente al Cinema Delle Palme e cuciva vestiti per nobili e meno nobili. Una volta fu chiamato dall’industriale tedesco Sachs von Opel, proprietario dell’omonima fabbrica di automobili, che l’ospitò nella sua villa in Costa Azzurra con tutta la sua équipe per 30 giorni, per farsi confezionare 40 vestiti, mentre un noto aristocratico si faceva cucire in continuazione nuovi capi affermando che una volta morto Attolini non sarebbe rimasto nessuno in grado di fargli quegli abiti così eleganti. 

 

La signora Buonamassa riceveva nel suo atelier in un palazzo tra Via Vittoria Colonna e Parco Margherita, a ridosso delle scale, rigorosamente per appuntamento, e l’attesa per le camicie era di qualche mese, se tutto andava bene, ma i clienti aspettavano pazienti per avere quelle camicie con i giri delle maniche ribattuti a mano ed i bottoni alti di madreperla.

I luoghi deputati per lo show e gli incontri sociali, oltre a Piazza dei Martiri, 

erano Via dei Mille, Piazza Santa Caterina da Siena, Via Carducci 

e Piazza Amedeo. Lì sfoggiavano eleganza e stile 

i rampolli delle buone famiglie e gli stessi genitori.


Per le donne c’erano l’atelier della De Finizio al numero 40 di Via dei Mille, nel palazzo con la palma al centro del cortile, e la modista Ninetta la Magna con i suoi favolosi cappelli su misura, che primeggiavano tra le tante sartorie che vestivano, in tempi precedenti al prêt-à-porter, le signore della “Napoli bene”. 

 

Nel corso degli anni l’antica tradizione del buon gusto continua, la maison Eugenio Marinella ha ampliato il negozio della Riviera di Chiaia con un appartamento nello stesso palazzo, ha poi aperto sedi a Londra, Roma, Milano e Tokyo e distribuisce le sue cravatte insieme a tanti altri articoli originali in tutto il mondo. Sono passati dalla sua sede il presidente Clinton, Enrico de Nicola, Francesco Cossiga, Pietro Barilla, il principe Carlo d’Inghilterra e tanti altri personaggi famosi.

Ai suoi tempi Gino, il figlio di Eugenio, si recava qualche giorno prima di Natale 

a Milano con un campionario di cravatte e lì, in un albergo del centro, 

incontrava Barilla ed altri facoltosi compratori che gli ordinavano 

centinaia di cravatte da regalare ad amici e clienti 

per l’imminente festività.


Il nipote Maurizio, ora alle redini dell’impresa, disegna una vasta serie di prodotti: foulards, borse, pochettes, tutti rigorosamente all’insegna dello stile e del buon gusto.

Anche Rubinacci ha messo piede a Londra:


Mariano, che ha ereditato la London House del padre, ha trasferito la sua eleganza di moda inglese nella capitale britannica e gestisce il negozio insieme al figlio Luca. Lui, napoletano, veste gli inglesi alla moda napoletana. 

 

Ed il mitico sarto Attolini ha lasciato una forte eredità: 

i nipoti, figli di Cesare Attolini, gestiscono un’importante 

fabbrica di abiti sartoriali che vendono in tutto il mondo, 

nelle boutiques raffinate di Miami, Mosca, New York, esportando la raffinatezza di un abito su taglia o su misura rifinito del tutto artigianalmente secondo l’antica tradizione sartoriale napoletana.

A Napoli, l’eleganza si perpetua e fa scuola il “Made in Naples” 

e non il Made in England in un mondo esclusivo 

che chiede sempre più raffinatezza,


dove l’eleganza, lo stile, la manualità artigianale è considerata un’autentica opera d’arte, a testimonianza di quella creatività unica che contraddistingue la città in tutti i campi.

 

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MUSICA STRUMENTALE DI VERDI A NAPOLI di Antonio Lopes – Numero 23 – Dicembre 2021 gennaio 2022 – Ed. Maurizio Conte

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MUSICA STRUMENTALE DI VERDI A NAPOLI

 

Verdi compositore di musica strumentale a Napoli. 

 

Si può certamente affermare senza ombra di dubbio che i tre maggiori operisti italiani che hanno operato nella prima metà dell’800, Rossini, Bellini e Donizetti, hanno avuto con la città di Napoli e con il San Carlo un rapporto speciale in forza del quale hanno raggiunto grandi successi internazionali e confermato ancora in pieno secolo XIX il ruolo di Napoli come capitale europea della Musica e del Melodramma.Diverso è il caso di Giuseppe Verdi.

 

Si annoverano solo due opere del catalogo verdiano che furono tenute a battesimo 

al San Carlo di Napoli: Alzira (1845) e Luisa Miller (1849),

 

va poi ricordato che Un Ballo in Maschera, commissionato dal San Carlo nel 1856 non poté essere rappresentato a causa delle richieste della direzione del Teatro, la quale, temendo i rigori della censura borbonica, impose al compositore tali e tante modifiche al libretto da indurlo a ritirarsi. Il desiderio di mettere in scena la sua opera spinse comunque il Maestro a prendere contatto con l’impresario del teatro Apollo di Roma, Vincenzo Jacovacci, il quale fu ben lieto della notizia, ma preannunciò che l’opera avrebbe dovuto subire qualche cambiamento per la censura pontificia. Il librettista Antonio Somma esortò Verdi a lasciar perdere e a dare il libretto a Milano dove sarebbe passato indenne in teatro, ma per il Maestro bisognava dare uno «schiaffo» al teatro napoletano, mettendo in scena l’opera «quasi sulle porte di Napoli e far vedere che anche la censura di Roma ha permesso questo libretto». 

 

Occorre ricordare che successivamente i rapporti tra il San Carlo e Verdi migliorarono: infatti il Maestro vi mise in scena la ripresa del Simon Boccanegra nel 1858 e vi rappresentò la prima italiana del Don Carlo nel 1872 andato in scena per la prima volta a Parigi nel 1867. In ogni caso a Napoli furono riproposte subito dopo le prime rappresentazioni, quasi tutte le opere del compositore di Busseto e sempre con grande successo, al punto che tuttora questo repertorio è probabilmente quello più amato e apprezzato dal pubblico napoletano. 

 

Fatta questa premessa, può essere interessante rievocare un altro episodio, non molto noto, della biografia del grande musicista che vede coinvolta Napoli e il suo teatro.

Nel 1873 Verdi è di nuovo a Napoli per la messa in scena dell’Aida andata in scena 

al Teatro dell’Opera del Cairo, il 24 dicembre 1871 e poi a Milano 

al Teatro alla Scala l’8 febbraio del 1872.


È l’opera che più ha amareggiato Verdi nel corso della sua intera carriera: «Mi ha procurato noje infinite e disillusioni artistiche grandissime». In effetti, il pubblico non aveva apprezzato granché, pur nel rispetto per quello che già allora era già considerato un “Padre della Patria”, ma soprattutto la critica aveva sollevato obiezioni di “imitazione wagneriana”. Per Verdi questo era troppo: «Finire imitatore alla mia età, dopo 35 anni di carriera!». 

 

Durante le prove dell’opera al San Carlo, il soprano Teresa Stolz (già moglie del direttore d’orchestra Angelo Mariani e poi legata da “affettuosa amicizia” con il compositore), ingaggiata per la parte principale, si era ammalata. La prima era stata posticipata, e così 

Verdi «nei momenti di ozio all’albergo Crocella» aveva scritto il suo unico 

Quartetto per archi, in mi minore, eseguito privatamente in albergo, 

presenti non più di sette-otto ascoltatori.


Fra i presenti c’era il corrispondente della Gazzetta Musicale di Milano, sulla quale, pochi giorni dopo, era uscito un grande articolo intitolato 

“Un quartetto di Verdi!”.


L’esordio fu affidato ad un ensemble formato dalle prime parti dell’Orchestra del San Carlo: dai fratelli Finto ai violini, Salvadore alla viola e Giarritiello al violoncello. 

 

L’atteggiamento di Verdi nei confronti di questa composizione strumentale fu molto ambivalente: da un lato il Maestro tendeva a disconoscere valore alla sua composizione, negando che essa fosse degna di essere conosciuta dal grande pubblico, dall’altro poteva comunque essere la dimostrazione che il grande operista era in grado di dare dei contributi originali anche nell’ambito della musica strumentale che proprio in quegli anni iniziava a diffondersi in Italia, intaccando il monopolio del Melodramma nei gusti del pubblico.

Basti pensare che nel 1878 gli era arrivata una richiesta da Parma, 

in fondo la sua “patria” in cui si chiedeva il permesso di concedere 

il Quartetto per l’esecuzione, alla quale egli risponde in modo piccato:


«Sono veramente dolente di non poter aderire a quanto ella domanda. Io non mi sono più curato del Quartetto che scrissi per semplice passatempo alcuni anni or sono a Napoli e che fu eseguito in casa mia alla presenza di poche persone che erano solite venire da me tutte le sere. Questo per dirle che non ho voluto dare nissuna importanza a quel pezzo e che non desidero almeno per il momento renderlo noto in nissuna maniera». Eppure era già stato eseguito a Vienna e a Parigi con successo enorme; stava per essere suonato a Londra, addirittura in una versione adattata per un’orchestra di 80 archi. E l’autore, al quale era stato chiesto l’assenso, lo aveva dato osservando che alcuni temi del primo e del secondo violino sarebbero risultati meglio in versione orchestrale.

Questo atteggiamento così contraddittorio nei confronti dell’unica composizione 

da camera del grande operista si inserisce nel dibattito sulla musica strumentale tedesca, molto vivace in Italia fra gli anni Sessanta e Settanta del XIX secolo.


Nel 1873, mentre componeva il suo unico Quartetto per archi, Verdi si sentiva coinvolto in una sorta di “conflitto musicale” che aveva un fronte interno e uno esterno. Quest’ultimo riguardava ovviamente quanto accadeva fuori dell’Italia nel mondo dell’opera, sotto le insegne del dramma musicale di Wagner e più in generale della cosiddetta “opera d’arte dell’avvenire”, che iniziava a fare breccia anche in Italia. Più singolare, nella prospettiva attuale, il fronte interno. Infatti, dopo il controverso debutto scaligero di Aida, il musicista mostrava spesso di sentirsi “nel mirino”. Non solo e non tanto nell’ambito operistico, nel quale in fondo continuava a non avere rivali, ma in quello della discussione sulla musica strumentale, che stava fiorendo vivacemente in Italia. Carattere forte e ruvido, imperioso e stizzoso, spesso impaziente, Verdi al giro dei suoi 60 anni si sentiva coinvolto al punto da voler condurre una “guerra” in un ambito che non era quello teatrale. E per questo – con intento a suo modo provocatorio e sicuramente polemico – aveva deciso di scrivere un Quartetto.

All’editore Ricordi aveva scritto: «È convenuto che noi italiani non dobbiamo ammirare questo genere di composizione se non porta un nome tedesco. 

Siamo sempre gli istessi, noi italiani».


E aveva aggiunto un’annotazione particolare della quale in realtà non era convinto fino in fondo, visto che attenua in maniera senz’altro insolita il suo parere: «Credevo allora e credo ancora, forse a torto, che il Quartetto in Italia sia pianta fuori di clima». Nella stessa lettera spuntava la polemica “ideologica”: «Io vorrei che le nostre società, licei e conservatori, unitamente ai quartetti a corde, istruissero quartetti a voce per eseguire Palestrina, i suoi contemporanei e Marcello». E così anche la famosa frase verdiana, “Torniamo al passato e sarà un progresso”, riletta sotto questa luce assume una particolare evidenza. Il vero punto di riferimento di Verdi per replicare ai “modernisti” era la grande tradizione polifonica italiana del Cinquecento e i suoi sviluppi nella musica del Settecento. 

 

Subito dopo la prima di Aida a Napoli, Verdi aveva scritto alla fedele amica la contessa Maffei, alla quale aveva raccontato che Aida aveva avuto un grande successo, probabilmente più che altrove in Italia, perché «Qui a Napoli non vi sono i critici che la fanno da “apostoli”». Ovvero, apostoli di una nuova religione musicale, della quale il compositore non aveva certo una grande considerazione. E aveva rincarato la dose: «Non c’è la turba dei maestri che sanno di musica soltanto quello che studiano sulla falsariga di Mendelssohn, Schumann, Vagner (sic!). Non il dilettantismo aristocratico che per moda si trasporta a quello che non capisce».

Molto lucidamente il Quartetto esprime chiaramente l’intenzione verdiana di definire una diversa pratica musicale, che sintetizzi nella forma classica un gusto 

e uno stile tipicamente italiani, alieni da qualsiasi pedissequa “falsariga” 

e imitazione di stilemi ad essi estranei.


Particolarmente significativa, da questo punto di vista, la scelta di concludere la composizione con una Fuga. Che non a caso era la parte cui il compositore teneva di più. 

 

Nel Quartetto, la scrittura della Fuga è stringente, profonda eppure singolarmente lieve. In un primo momento, Verdi aveva pensato di farla precedere da una sorta di recitativo introduttivo. Poi, forse pensando che il tutto sarebbe suonato “sulla falsariga” di Beethoven, vi aveva rinunciato. E l’ultimo movimento era diventato, semplicemente, uno Scherzo-Fuga in tempo “Allegro assai mosso”, con il soggetto affidato al secondo violino chiamato a suonare pianissimo, staccato e leggero. Sorge a questo punto invitabile il paragone con il grandioso Fugato che conclude la sua ultima opera Falstaff (rappresentato nel 1893), quello in cui si dice che “Tutto nel mondo è burla”, lungo un contrappunto di voci e strumenti in 14 parti. 

In modo sorprendente e modernissimo la polifonia si fonde con il gesto ironico dell’estrema maturità verdiana in una sintesi che ancora oggi, 

a distanza di oltre un secolo, ancora ci sorprende.

 

 

UN EPISODIO POCO NOTO DELLA VITA DEL GRANDE MUSICISTA

 

Antonio_Lopes
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