GENTE MOLTO PER BENE. JOHN FANTE E L’ABRUZZO di Alessio Romano – Numero 13 – Gennaio 2019

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GENTE MOLTO PER BENE. JOHN FANTE E L’ABRUZZO

 

Per John Fante, italoamericano di seconda generazione, nato in America e che non sapeva parlare italiano, conoscendo solo qualche parola di dialetto ascoltata in casa, l’Abruzzo è puro mito. La terra primitiva dove è nato il padre, Nicola Fante, muratore che per sfuggire al freddo e alla miseria della sua terra, ha attraversato l’oceano, migrante economico, per lasciare le montagne appenniniche e raggiungere quelle così simili del Colorado.

È da qui, da questo padre e da questi ricordi, che tutto il lavoro letterario

di John Fante prende le prime mosse. 


Già nell’incipit del suo primo romanzo pubblicato (Aspetta primavera, Bandini), prima ancora di Arturo Bandini, suo alter ego e ritratto dell’artista da giovane, compare il personaggio di Svevo Bandini, padre di Arturo: 

 

“Avanzava, scalciando la neve profonda. Era un uomo disgustoso. Si chiamava Svevo Bandini (…). Detestava la neve. Faceva il muratore e la neve gelava la calce tra i mattoni che posava (…). Anche da ragazzo, in Italia, in Abruzzo, detestava la neve. Niente sole, niente lavoro. Adesso viveva in America, nella città di Rocklin, Colorado. (…). Le montagne c’erano anche in Italia, simili a bianchi monti a pochi chilometri di distanza verso occidente. Le montagne erano un gigantesco abito bianco caduto come piombo sulla terra.”1 

 

E ancora più avanti, nello stesso romanzo, l’Abruzzo diventa l’argomento di un divertente e divertito dialogo tra Svevo e una ricca e colta vedova americana: 

 

“E così lui era italiano. Splendido. (…). Doveva sentirsi orgoglioso delle sue origini. Non sapeva anche lui che la culla della civiltà occidentale era proprio l’Italia? Aveva mai visto la cattedrale di San Pietro, gli affreschi di Michelangelo, l’azzurro del Mediterraneo. E la Riviera? No, non li aveva mai visti. Le disse con parole semplici che era abruzzese, e non si era mai spinto a nord, nemmeno a Roma. Aveva lavorato duro, fin da ragazzo. Non aveva avuto tempo per nient’altro. L’Abruzzo! La vedova sapeva tutto. Ma allora aveva sicuramente letto le opere di d’Annunzio, era abruzzese anche lui. No, non l’aveva letto, quel d’Annunzio. Ne aveva sentito parlare, ma non l’aveva mai letto. Sì, sapeva che quell’uomo importante era della sua provincia. La cosa gli faceva piacere, sentiva gratitudine per d’Annunzio. Finalmente aveva trovato un terreno comune, ma con suo grande sconforto s’accorse di non avere nient’altro da dire sull’argomento.”

Ma l’Abruzzo di John Fante è soprattutto un piccolo paese, 

Torricella Peligna, quel paese che, ci ha insegnato Cesare Pavese, 

“ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via”. 


Un paese che, per quanto lontano e mai visitato realmente, per John Fante è la garanzia di radici, di gente che a prescindere dal tuo ritorno, è rimasta ad aspettarti, come effettivamente è stato. Torricella Peligna è un luogo primordiale, l’Eden della sua mitologia familiare. Un mondo-paese popolato da personaggi leggendari come il suo antenato brigante Mingo di cui proprio il padre lo esorta a scriverne la storia nel romanzo Full of Life

 

“Un uomo coraggioso, mio zio Mingo. Era un Andrilli, fratello di tua nonna. L’hanno appeso proprio là, in Abruzzo. I Carabinieri… Due proiettili nella spalla. Ma l’hanno appeso lo stesso. E sua moglie lì, che piangeva. Sessantuno anni fa. L’ho visto con i miei occhi. Coletta Andrilli, bella donna.”2

Ma l’Abruzzo è anche un ingombro di cui sbarazzarsi. Su John Fante infatti 

c’è tutto il peso del pregiudizio razziale nei confronti degli italiani. 


I dago, mangia-spaghetti, selvaggi ubriaconi, violentatori e assassini, mafiosi, sporchi come maiali. È un tema caro a Fante soprattutto trattato nella sua raccolta di racconti Dogo red. Il successo letterario vagheggiato da Arturo Bandini serve anche a questo: è la chiave di quel riscatto sociale per sconfiggere il pregiudizio che su di lui incombe in quanto italiano.

Per l’Abruzzo, John Fante è un nipote smarrito, un figliol prodigo letterario 

mai tornato, ma che ha reso immortale e conosciuta in tutto il mondo 

la piccola comunità di Torricella Peligna (nel Sangro Aventino, 

in provincia di Chieti) che ormai da più di dieci anni 

lo celebra in un festival3 a lui dedicato.


John Fante non è mai tornato nel paese del padre, proprio per paura di infrangere la sua natura mitologica. Ma sono tornati lì i suoi figli, soprattutto il poeta e scrittore Dan Fante, venuto a mancare da qualche anno, proprio per essere protagonisti di questa celebrazione annuale che ha portato lì scrittori, registi e musicisti di fama mondiale (Sandro Veronesi, Romana Petri, Ryan Gattis, Paolo Virzì, Frank Spotnitz, Vinicio Capossela, Nada, Enrico Rava, Gianni Vattimo solo per citarne qualcuno), tutti complici di questo rito collettivo: il chiudersi di un cerchio, il ritorno a casa dell’eroe dopo la sua odissea. 

 

John Fante è però stato in Italia per il suo lavoro di sceneggiatore. Nelle lettere che scrive da Roma ha un giudizio molto negativo del suo popolo di origine, una preoccupazione che condivide proprio con il figlio Dan: 

 

“Gli italiani sono farabutti, ladri, malversatori, bugiardi, truffatori. Mi danno la nausea. Sii contento del tuo lato tedesco e inglese4. E soprattutto sii contento di essere americano. Per quanto riguarda me, vorrei essere un Ubangi con un osso nel naso.”5 Ma subito dopo Fante sembra quasi pentirsi delle sue parole, deve tornare in lui quel “ricordo di vecchie camere da letto, e il ciabattare di mia madre verso la cucina”6. Aggiunge infatti:

“Ma credo sia così per Roma, città di ladri, e che in provincia sia diverso. 

Mi dicono che gli abruzzesi sono gente molto per bene.”  

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Una storia di amore e odio dal passato utile a comprendere le difficoltà del nostro presente. 

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1.Traduzione di Caro Corsi, Aspetta Primavera, Bandini, Einaudi, 2005.

2.Traduzione di Alessandra Osti, Full of life, Einaudi, 2009.

3.John Fante festival “Il Dio di mio padre” direzione artistica di Giovanna Di Lello organizzato dal Comune di Torricella Peligna dal 2006.

4.Da parte della madre Joyce Smart, sposata da Fante nel 1937.

5.Da Tesoro, qui è tutto una follia, a cura di Francesco Durante, traduzione di Alessandra Osti, Fazi editore, Roma.

6.Dalla nuova prefazione di Fante a Aspetta primavera, Bandini.

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PER UN RITRATTO DI GIANNI GASPARI di Simone Gambacorta – Numero 13 – Gennaio 2019

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PER UN RITRATTO DI GIANNI GASPARI

 

Dico Baggio perché ho iniziato a seguire il calcio con i mondiali di Italia 90 (avevo 12 anni) e da allora per me (che di calcio nulla so) dire Baggio significa dire che qualcuno riesce a fare benissimo e con uno stile suo qualcosa di difficile.

 

C’è chi parla di classe. La parola è abusatissima e però funziona: 

si dice un giocatore di classe, per esempio, e Baggio lo è. 


Lo associo alla grazia, alla morbidezza di movimento, all’armonia: nessun altro calciatore, nemmeno Maradona (che a Baggio sarà stato senz’altro superiore), mi ha dato un’idea così nitida di eleganza. Baggio per me significa vedere la bravura che accade, vederla succedere. Ma quando ho visto Baggio, Baggio non c’era. A dire il vero, Baggio non l’ho mai visto di persona e quel giorno ero a Teramo in una libreria e secondo me Baggio a Teramo nemmeno c’è mai stato. Non ho verificato, manco saprei a chi domandare, ma mi sa che la città in cui vivo neppure l’ha sfiorata. 

 

Quel giorno mi pare fosse un sabato del 2017. Si era lì a parlare di un libro ed ero fra coloro che lo presentavano. Quando si arrivò alla fine si chiese al pubblico se ci fossero domande. Ce ne furono. Una, un’altra, un’altra ancora: e l’una, l’altra e l’altra ancora ebbero risposte. Poi una mano si tirò su in un cenno rapido e duplice, un po’ qua e un po’ là, tac-tac tac-tac, sembrava un “ciao” e invece era un “posso?”. Era Gianni Gaspari.

Sapevo che era lì, ci consociamo da anni, lo considero un maestro, 

ma non pensavo intervenisse.


Intervenne: e io vidi Baggio. 

 

Ma adesso devo spiegare per sommi capi chi è Gaspari: è un giornalista, è stato per anni conduttore del Tg2 (edizione serale) e di quella testata è stato a lungo caporedattore della cultura (Antonio Ghirelli direttore) oltre che critico cinematografico. I suoi servizi da Cannes e da Venezia (eccetera) hanno fatto scuola. Per dire: in un articolo di «Repubblica» del 2002 (si legge pure in rete: Tg2 a sorpresa, c’è il cinecritico che fa sul serio) Sebastiano Messina plaudiva alla sua onestà di recensore e al suo lessico. Morando Morandini fece altrettanto nell’introduzione a un suo dizionario dei film. 

 

Insomma, i meriti riconosciuti al teramano Gaspari (null’altro che omonimo del corregionale pluriministro) sono parecchi e non pochi valgono da blasone.

Varrebbero da blasone, se solo fosse capace non dico d’ostentare alcunché, 

ma almeno di mettere a parte gli amici delle esperienze per lui più gratificanti.


Non avviene. L’aneddotica (sempre garbata) che rende la sua carriera un’antologia capace di racconti gustosissimi e inaspettati (corsi condensati di giornalismo e critica) non contempla lodi a se stesso e resoconti a lui favorevoli: per via di quel suo riserbo tutto meridionale, le cose che lo riguardano le vieni a sapere fortunosamente, per il sovrano capriccio della casualità, praticamente per sbaglio, come inciampandoci; e se non tutte, molte di esse possono essere riassunte in un orientamento che nella sua carriera l’ha sempre guidato: il giornalismo mal s’accorda con ruoli di potere.

 

Si può convenire o meno con una simile visione, ma Gaspari, galantuomo 

come pochi (discretissimo, mai invasivo), sempre l’ha pensata così e tuttora lo fa.


Sicché molte possibilità di ascesa per le quali altri avrebbero fatto (o hanno fatto) carte false, lui le ha scansate. Non le ha cercate, gli sono state proposte, e più volte: e però nulla, è rimasto fedele alla sua idea di fare giornalismo senz’altro per la testa che il giornalismo. E giornalismo tout court. Per capirci: s’incontra in rete un video che risale a metà anni Ottanta e che lo vede in veste di cronista puro: Le 48 ore più lunghe, sull’allarme terremoto in Garfagnana. «A Barga, a Castelnuovo di Garfagnana, a Bagni di Lucca, a Villa Collemandina e in altre località sconvolte dal rischio sismico, l’alba significa praticamente uscire da un incubo». Il tempo di arrivare al punto e il pezzo da antologia lo si tocca con mano sin dall’incipit esemplare. Quel servizio per il Tg2 lo si potrebbe prendere pari pari oggi, proiettarlo in una qualsiasi aula di una qualche più o meno grandeggiante Facoltà di Comunicazione e utilizzarne ogni singola virgola per spiegare com’è che un giornalista dovrebbe raccontare le cose.

Ma perché dico che quel giorno ho visto Baggio? 


Perché Gaspari il suo intervento lo fece come quando ai mondiali del Novanta Baggio prese palla a centrocampo in Italia-Cecoslovacchia. Giannini, Baggio, Giannini, Baggio: dopo la triangolazione il 15 azzurro partì filato dalla trequarti sinistra, saltò un avversario e tagliò il campo in diagonale avanzando verso il centro; poi, non appena in area, scartò un secondo difensore e con un tocco di destro che pareva dipinto mandò la palla alla sinistra del portiere, frattanto graziosamente messo assiso.

Idem Gaspari: non un’esitazione, non un’incertezza.


Presentavamo Tutti i racconti di Andrea Carraro, e lui, con la sua inconfondibile voce, partì dal Branco, il romanzo del 1994 da cui Marco Risi trasse il film omonimo (sceneggiato con lo scrittore). A quell’iniziale scatto dalla trequarti seguì il primo movimento a sorpresa (salto dell’avversario), con un parallelismo che in trenta secondi divenne una recensione doppia che rileggeva allo specchio film e romanzo. Dopo di che centralizzò con un flash sul realismo di Carraro per poi tirare fuori – a limite d’area varcato – un’altra mossa a sorpresa (bye bye al secondo difensore): un excursus sui romanzi dello scrittore, con una compattezza concettuale che rese tutto ancor più simile al gesto di un atleta. Il gol fu una parecchio rapinosa e non meno suadente stoccata: un compendio sui temi cardine della narrativa di Carraro e sui narratori a lui accostabili. 

 

Se ne potrebbero raccontare altri di episodi buoni per testimoniare la maestria di un uomo che, partito dal suo Abruzzo, è diventato un protagonista del giornalismo culturale e un gran nome della critica cinematografica.

Ma questa mezza fantasia con Baggio serve forse per dire che lo stile 

sempre possiede un che d’inesorabile e bello.

 

 

 

 

 

 

 

 

Una volta ho visto Roberto Baggio, solo che eravamo in una libreria e Baggio non c’era.

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“FORTE E GENTILE”. LA TRADIZIONE INVENTATA di Marzio Maria Cimini – Numero 12 – Ottobre 2018

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        “FORTE E GENTILE”.            LA TRADIZIONE INVENTATA

 

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e hanno tremendamente seccato noi e l’universo.

Siamo stanchissimi d’essere fotografati in costume (che non esiste). Siamo stanchissimi d’essere forti e gentili. Noi non vogliamo più essere presi per gentili, cioè per fessi. Più grave è poi prendersi per gentili da se stessi… Siamo stanchissimi di aprilate e maggiolate avendo voglia di cantare quando, dove e come ci pare! Per rifare un’educazione abruzzese è urgentissimo ed indispensabile capire questa semplice verità provvisoria: noi non siamo speciali, noi non abbiamo niente di speciale!” 

 

Con queste parole – riportate in esergo alla splendida Storia di Pescara che il facondo storico aquilano Raffaele Colapietra ha dato alle stampe nel 1980 -, Filandro De Collibus (1889-1975), federale abruzzese e deputato per tre legislature nel Regno d’Italia, affida i suoi pensieri alla rivista L’Adriatico l’11 gennaio 1931.

 

De Collibus era un avvocato, fascista quantum sufficit ma dall’ingegno adamantino, 

e quasi novant’anni fa non si faceva riguardo di contestare un’invenzione propria 

di quel regime di cui peraltro L’Adriatico era chiamata a farsi fanfara: 


l’invenzione della tradizione, che poi è tutt’uno, in questo caso, con una tradizione inventata. 

 

Era stato il Fascismo, raccogliendo un’estrosità postunitaria, fattasi vieppiù tenace con la Grande Guerra, a premiare quel senso d’appartenenza su base diremmo etnica, regionale, provincialissima che chiamava a mettere in risalto i caratteri più identitari, o ritenuti tali, delle comunità;

quei tratti distintivi che, anziché fare l’Italia Unita, la volevano rotta in milioni di rivoli 

di lingue diverse e abiti particolarissimi e usanze mai viste altrove,


carezzando il pelo dell’orgoglio triviale e convincendo così i crocchi – anche i più disparati – della loro unicità, e dunque della loro preziosità. 

 

Ne paghiamo ancora oggi lo scotto più salato; e la perdita del contatto giornaliero con la lingua vernacolare e coi riti che davvero quelle comunità, fino almeno al secondo dopoguerra, coltivavano sinceramente, ha prodotto autentiche mostruosità che sono sotto gli occhi di tutti: abiti “tipici” che sono pastiches esilaranti di generi e tessuti, riti che vivono solo nelle (buone?) intenzioni di quelli che si ostinano a riproporli in feste patronali e sagre estive, canti ritenuti popolari che di popolare non hanno nulla, essendo noti gli autori di testo e musica. E’ esemplare il pur decente “Vola vola vola” che gli abruzzesi son tanto lieti d’intonare, con confusione di strofe e di uccelli che normalmente si esaurisce dopo il secondo ritornello, mentre altri due restano nel segreto della bocca: è in verità canzone recente assai, scritta dall’ortonese Luigi Dommarco e musicata da Guido Albanese appena nel 1922.

De Collibus poi s’indigna davanti a questa formula che più di tutte pesa

sull’identità abruzzese: “forte e gentile”. 


Ma se, come mi capita spesso, io chiedo ai miei conterranei se sanno come mai gli aprutini vengono così definiti e loro son tanto lieti di definirsi, nessuno mai sa dirmelo. E quindi mi pare questa soprattutto l’occasione migliore per fare chiarezza: non in Dante, che ricorda Tagliacozzo e la sua battaglia famosa del 1268 nella Commedia
2, ma in un libello felice del 1883 scritto da Primo Levi compare questa definizione. A rendere ardua e poco maneggevole la spiegazione, ci si mette anche l’omonimia del giornalista ferrarese, ma meneghino per scelta, col chimico torinese autore di celeberrimi libri sull’infinita vergogna della persecuzione degli ebrei in Europa negli anni feroci della Seconda Guerra Mondiale.

 

Anche il Primo Levi autore di Abruzzo forte e gentile era di religione israelita, 

anche lui dotato di una penna felicissima e d’un ingegno grande: 


giornalista fervente, amico di Crispi che gli fece fare una gran carriera al Ministero degli Esteri accanto a quella giornalistica, era anche amico di alcuni tra i maggiori intellettuali della sua epoca, su tutti il grande scrittore lombardo Carlo Dossi -di cui curò la prima pubblicazione delle Note Azzurre dopo la morte avvenuta nel 1910- Luigi Perelli, Gabriele d’Annunzio, e gli artisti Tranquillo Cremona, Teofilo Patini e Francesco Paolo Michetti, quest’ultimo autore della copertina di Abruzzo forte e gentile. Si tratta di un buon esempio di reportage impressionistico destinato, con il binomio del titolo, “a fondare una vulgata di lunga durata, non immune da mistificazioni, dell’immagine regionale”
3 dove peraltro era tipico di una certa cultura il giudizio sul brigantaggio, definito “espressione morbosa di qualità che un popolo libero, uno Stato indipendente, potrebbero senza pena trasformare in virtù”4.

 

Scrive Primo Levi “L’Italico”, come usava firmarsi in un eccesso di fervore nazionalista, nella prefazione al libro, che conta 231 pagine e 22 capitoli: 

 

“V’a nella nostra lingua, tutta, in sé stessa, semplicità ed efficacia, una parola consacrata dalla intenzione degli onesti a designare molte cose buone, molte cose necessarie: è la parola Forza.

 

Epperò, s’è detto e si dice il forte Abruzzo.


V’a nella nostra lingua, tutta, in sé stessa, comprensiva eleganza, una parola che vale a comprendere, definendole, tutte le bellezze, tutte le nobiltà… è la parola Gentilezza.

Epperò, dopo aver visto e conosciuto l’Abruzzo, 

dico io: Abruzzo Forte e Gentile”.


Il libro non è mai più stato ripubblicato – e quindi è introvabile – e si è perso nella notte dei tempi (sarebbe anzi ora che un editore lo ripubblicasse), ma il suo titolo è rimasto ben vivo nell’immaginario collettivo dentro e fuori l’Abruzzo: già nel 1886 Giuseppe Mantica, nel suo Zoologia letteraria contemporanea, per descrivere con delizioso sarcasmo la … specie alla quale appartiene lo scrittore pescarese Gabriele d’Annunzio, scrive: “Echinus adriaticus – Frutto di mare. Nasce sulle coste dell’Abruzzo forte e gentile. Leccato animale da’ capelli ben ravviati, da le forme femminee, da li canti novi aspiranti alle melodie di Vergilio latino […]”.

Com’è possibile che una formula felice, che data appena centotrentacinque anni, 

e che già era contestata novant’anni fa, possa essere entrata 

così profondamente nell’immaginario 

dell’identità aprutina? 


Perché, tutto sommato, è una formula consolatoria, di cui nessuno, in fondo, può dispiacersi davvero, lusinghiera se la si osserva da lontano e senza troppe questioni: è una pietra tombale, de mortuis nihil nisi bonum, e che però poco s’addice ad un popolo che si consideri, o voglia farsi considerare, ancora vivo e vitale. Naturalmente questo è un problema non solo dell’Abruzzo e non solo del Meridione, ma è un problema d’identità veramente troppo vasto, che interessa tutti quelli che abbiano un sentimento di popolo e di condivisione, e dunque queste riflessioni alla spicciolata si adattano a contesti tra di loro solo apparentemente eterogenei: in effetti, a ben guardare, i rischi di una “tradizione inventata” affliggono chiunque sia portatore di una qualsivoglia forma di tradizione, e l’afflato protezionistico molto spesso danneggia anziché esaltare.

Può esistere una tradizione che non sia espressione vera di un modo di agire, 

di pensare, di mangiare, di vestire? Può esistere, 

e persino trionfare sulla tradizione vera. 


Gli strumenti della modernità, tuttavia, permettono non solo una maggiore cura filologica nella testimonianza delle tradizioni, ma ne consentono anche una più vasta e capillare diffusione: la trasmissione dell’immateriale è sempre problematica, ma ci sono migliaia di persone pronte ad accogliere il vero e il bello, a mettere a frutto un patrimonio vastissimo fatto di condivisione e di saperi trasmessi. 

 

E’ compito di questa epoca promuovere e anzi imporre contenuti che non solo suonano nuovi e inediti alle orecchie più accorte, ma che possono dare nuova energia al recupero e alla trasmissione di storie e di valori che non possono non essere riconosciuti come alti e irripetibili.

Una vera identità abruzzese, una vera identità, passa oggi attraverso il recupero
di consuetudini più antiche e più illustri, meno orecchiate e più precise,
meno consolatorie e più forti, meno gentili ma anche più autentiche. 


Non è un ritorno al passato, non è un vacuo esercizio di nostalgia, ma l’unico mezzo che abbiamo per continuare a far vivere quanto di più onesto e vero resiste ancora nella nostra comunità. 

 

Abbandonare quanto di posticcio, di grottesco, di sedimentato affligge il nostro sentimento dell’appartenenza ad un luogo e ad una storia è l’unica difesa che ancora possiamo esercitare per la resistenza dei nostri luoghi e delle nostre storie.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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1. Abruzzo forte e gentile: impressioni d’occhio e di cuore / Primo Levi. Roma: Stabilimento tipografico Italiano, 1982. Abruzzo forte e gentile: Impressioni d’occhio e di cuore / a cura di Virgilio Orsini. Sulmona: Libreria editrice A. Di Cioccio, 1976.

2. Cfr. Inf XXVIII 17-18.

3. Storia d’Italia Einaudi, Le regioni dall’Unità a oggi, L’Abruzzo, a cura di M. Costantini – C. Felice, Torino, 2000, p. 257.

4. Ibi, p. 40. Per un approfondito ritratto biografico di Primo Levi si può vedere: http://www.treccani.it/enciclopedia/primo-levi_res-90eb7b0e-87ee-11dc-8e9d-0016357eee51_(Dizionario-Biografico)/

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IL TRATTURO. “L’ERBAL FIUME SILENTE” di Franca Minnucci – Numero 12 – Ottobre 2018

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           IL TRATTURO.            “L’ERBAL FIUME SILENTE”

 

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è questo il titolo della raccolta, poi confluita in Alcyone, che comprende la lirica più nota di Gabriele d’Annunzio: I Pastori.

Composta fra settembre e ottobre del 1903, la creazione stessa dei Sogni – e in particolare dei Pastori – è da rimandare ad una annotazione sulle carte alcionie del luglio 1902 che recita: “Andiamo? Ormai la terra – questa terra – ha preso la mia sembianza! E’ tempo di partire”. Alle soglie dell’autunno quindi, con una estate che man mano si stempera poeticamente in note soffuse e sfumate, … è la faccia dell’Estate / quella che langue / nell’aria lontana, che muore / nella sua chiaritate / dopo che tanto l’amammo, / dopo che tanto ci piacque…, sembra che il poeta si lasci invadere dal desiderio nostalgico della sua terra, dal suo ricordo più vivo e malinconico.

L’immagine dell’Abruzzo si staglia davanti ai suoi occhi, e si tinge di un velo di tristezza e di rimpianto,


come avviene nelle memorie sfumate del Sogno… Pochi scrittori hanno infatti sentito e nutrito la forza delle proprie origini come d’Annunzio e nessun luogo egli ha portato nel cuore come la sua terra natale. Quel litorale sabbioso incorniciato da pini smilzi, il fiume che mescola l’acqua dolce a quella salsa, la Maiella – terra madre – solenne e austera, saranno per tutta la vita i suoi contorni interiori, i profili della sua anima. Il poeta vagabondo e inquieto, l’unico scrittore italiano che a fine secolo era già proiettato in Europa, mantiene invece forte i legami con la sua cultura d’origine, e il rapporto che d’Annunzio ha con la sua terra è alla base delle pagine più alte della sua prosa e della sua poesia.

Il tema della migrazione stagionale delle greggi, cosi rilevante pel nostro territorio, 

era da lungo tempo sedimentato nella sua anima, elaborato nella sua mente.

 

Già nel 1893 d’Annunzio, sulla Tribuna Illustrata, a commento dei lavori di Michetti, scriveva “Qui è tutta la nostra razza rappresentata, nelle grandi linee della sua struttura fisica e nella sua struttura morale:… Qui passano lungo il mare pacifico nell’alba le vaste greggi condotte da pastori solenni e grandiosi come patriarchi a somiglianza delle migrazioni primordiali”; torna poi ancora sull’immagine nel Trionfo della Morte: “Scendevano, egli e Demetrio, giù per un tratturo verso l’abbazia che ancora gli alberi nascondevano. Una calma infinita era intorno, su i luoghi solitari e grandiosi, su quell’ampia via d’erbe e di pietre deserta, ineguale, come stampata d’orme gigantesche, tacita, la cui origine si perdeva nel mistero delle montagne lontane e sacre.” E ancora nella Laude dell’illaudato, nel Libro ascetico della giovane Italia, compare l’accostamento tratturo-fiume: “quelle vie larghe come fiumane, verdeggianti d’erbe e sparse di macigni, qua e là segnate d’orme gigantesche, che discendono per le nostre alture conducendo ai piani le migrazioni delle greggi”. Così come nelle pagine più malinconiche ed elegiache del Fuoco: anche qui la transumanza è descritta in tutta la sua poetica bellezza: “… le pecore lanose camminando imitavano il movimento delle onde; ma il mare era quasi sempre quieto, quando passavano le greggi con i loro pastori. Tutto era quieto; su le spiagge era disteso un silenzio d’oro…”. Tutto è pronto, dopo una lunga gestazione, e se ne sente già l’eco, per i versi più eleganti e sobri della sua produzione: l’endecasillabo alcionio de I Pastori nella sua nitida purezza e in tutta la malia musicale dei suoi versi. 

 

D’Annunzio racconta liricamente la sua terra attraverso l’evento più rituale e identitario che la caratterizza: la transumanza… ma lo fa

vedendo in quei pastori non dei comuni uomini ma dei solenni sacerdoti, transumanza come trasmigrazione universale di tutti gli uomini.

 

Il poeta aveva già anticipato quello che oggi l’Unesco vuole venga riconosciuto come patrimonio culturale immateriale dell’umanità; e far così conoscere un frammento della nostra identità, che pur avendo profonde radici nella nostra terra è un pezzo di identità nazionale. 

 

Gli itinera callium o percorsi tratturali hanno rappresentato per millenni strutture viarie di essenziale importanza non solo per il passaggio delle greggi e dei pastori ma anche per quello dei mercanti, artigiani, pellegrini che li hanno adottati nei loro collegamenti e nei loro transiti come luoghi sicuri e sperimentati. La transumanza non è però fenomeno esclusivo dei paesi italiani ma si colloca nelle latitudini più diverse, caratterizzando l’economia di diversi paesi europei oltre che di intere zone alpine ed appenniniche del Nord ed ovviamente del Centro e del Sud Italia. 

 

La sua collocazione più autentica è quella che la lega ai verdi pascoli della montagna abruzzese che conducono alle pianure del Tavoliere delle Puglie e che è resa possibile solo da un clima di stabilità e sicurezza sociale e politica.

I percorsi tratturali, apparentemente semplici ed elementari, rappresentano invece 

il risultato di una complessa strategia di analisi del territorio,  

 

di uno studio della morfologia per cui si disegna un percorso che scavalca fiumi, valli, che si inerpica in modo audace e che crea una rete organizzata nei cui punti di intersezione si sono da sempre collocati luoghi di culto, mercati, luoghi di scambio e di smercio, abbazie, chiese, monasteri, castelli, stazioni di posta, locande, trattorie, che sono tutti, a loro modo, realtà che hanno espresso i codici economici, religiosi, antropologici ed artistici dell’economia pastorale.

Il termine tratturo, deformazione del latino tractoria, comparve per la prima volta 

sotto l’Impero Romano e designava il beneficio dell’uso gratuito del suolo 

di proprietà dello stato che venne successivamente esteso 

anche ai pastori della transumanza.

 

Con la romanizzazione delle regioni del centro Italia le attività pastorali vengono regolate giuridicamente in modo preciso e articolato, come si evince dagli scritti di Cicerone e di Varrone, come si legge ancora sulla porta Boiano di Sepino e dai tanti cippi seminati lungo le località del centro Italia. La legislazione romana ci testimonia la grande importanza dell’economia pastorale e di tutte le attività che essa induceva. Conosciamo tutti bene le origini del termine pecunia che proprio da pecus, pecora, bestiame, prende il suo etimo. 

 

Con la caduta dell’impero romano la transumanza vive un inesorabile declino e con l’arrivo dei Longobardi, ma solo dopo la loro conversione al cristianesimo, quei luoghi di culto saranno riutilizzati come tali. Dobbiamo aspettare gli Aragonesi che mutuarono il modello organizzativo della Mesa spagnola adeguandolo, con opportune modifiche, alle tipicità dell’Italia meridionale.

Così, nel 1447, si iniziò a parlare in maniera compiuta della Dogana della Mena 

delle pecore, un’istituzione fiscale, con sede a Foggia, che provvedeva 

ad affidare i pascoli e ad esigere i tributi.  

 

Sempre sotto gli Aragonesi venne fissata in metri la larghezza del tratturo e si consolidarono le tradizioni e i rituali intorno al calendario della transumanza scandito nell’arco di tempo dei due San Michele, il primo dell’8 maggio e il secondo del 29 settembre, arricchiti dai pellegrinaggi alla grotta del Santo al Gargano.Il declino della transumanza inizia con le leggi di Bonaparte, che vanno a vantaggio dell’agricoltura a discapito della pastorizia, e, nonostante gli sforzi dei Borboni, il processo purtroppo diventa irreversibile.

Il territorio abruzzese però porta ancora le stimmate come vestigia degli antichi padri di questa millenaria civiltà perché tutto il nostro paesaggio geografico 

è disegnato e costruito intorno a questo erbal fiume silente.

 

E se è vero come è vero che l’uomo è soprattutto “geografia” cioè il risultato dei suoi fiumi, del suo mare, delle sue colline, gli uomini della nostra terra sono quindi legati indissolubilmente a questa nobile e antica pratica. Raccontano essi con gesti, parole, riti, suoni, profumi, quei camminamenti, quelle lunghe pianure, quelle colline, l’orizzonte di quel mare. Modelli comportamentali, usi, costumi, stili di vita che sono maturati nei secoli dettati dalla pratica della transumanza e che si sono sedimentati nel tessuto della nostra regione, nel vissuto antropologico e in tutte le tradizioni, dimostrando ancora oggi, nel terzo millennio, la forza espressiva e la potenza del loro significato.

Cadenzati dalla melodiosa sequenza di chiese, edifici, luoghi di sosta e di culto 

che si sgranano come rosari lungo le vie dell’erba, i tratturi continuano 

ancora oggi, nascosti dietro o dentro tracciati autostradali, 

a lanciare segnali di vita attraverso suoni, segni e sapori 

e fanno sentire la forza della loro presenza.

 

Perché dentro quella terra, lungo quella via, è imprigionata la nostra identità primigenia ed è per questo che l’affermazione ah perché non son io coi miei pastori è il grido d’amore più vero e lirico che un poeta abbia mai levato per la propria terra. Il poeta che sente la realtà in una fase di disfacimento, di decadenza, avverte l’istinto incontrollabile a riandare con i “suoi” pastori e riattraversare in un percorso rigenerativo i luoghi della sua terra.

E così, in un silenzio a-temporale, accompagnato solo dall’antica musica d’acqua 

che lo sciacquio delle onde produce e da quell’ovattato calpestio degli armenti, d’Annunzio ricrea davanti ai nostri occhi il rito più antico e solenne 

di tutti i tempi: la transumanza!

 

In questo abbraccio lirico il poeta si riappropria delle sue radici e ci chiama a fare lo stesso per tornare ad essere – con orgoglio – uomini d’Abruzzo proprio nelle figure più nobili e sacre che ci rappresentano: I Pastori.

 

 

 

 

 

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LE PAROLE IN TERRA di Pier Franco Brandimarte – Numero 12 – Ottobre 2018

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LE PAROLE IN TERRA

 

quella dell’Abruzzo settentrionale dove il Tronto segna il confine e si sente l’influenza del piceno.

Tra i lemmi con la A c’è un verbo che si trova solo qui, arregnarsi, ed è significativo. Lo usavano un tempo i marchigiani, i papalini che scendevano a sud, che valicavano il fiume Tronto per raggiungere l’Abruzzo, la prima terra del Regno appunto, quello delle Due Sicilie. Un moto a luogo che per l’inimicizia degli schieramenti si trasformava in un principio bellicoso.

Arregnarsi vuol dire ancora adesso fare a botte, e lo usano da entrambe le sponde senza bisogno che nella zuffa siano coinvolti abruzzesi o marchigiani;


è sparita la connotazione geopolitica, resta solo la generica violenza. Io mi arregno, tu ti arregni, egli si arregna, etc, va bene con chiunque. 

 

Altra violenza, a colpi di verbi, senza spiegazioni: abberresà, scunecchijà, accìde. 

 

La scrèlla è un pezzo di legno, la screllata è il colpo dato con quello. Qualsiasi oggetto minimamente contundente, se si aggiunge –ata, si può dare in faccia a fare male.

 

Ricordarsi poi che morire è sempre riflessivo:

 

I’ m’mòre, tu t’muóre, etc: io mi muoro, tu ti muori. Morire in sé. Morire se stessi, spegnersi come averne avuto abbastanza. Togliersi di mezzo. À ssà muort. Si è morto. Chi l’ha ucciso? La morte. Lui stesso in quanto morte. Morire è diventare morte, farsi morte.

Da piccolo mi sembrava che nessuno, dalle mie parti, avesse troppa voglia di parlare, per quello che serviva bastavano quei cozzi circospetti di dialetto.

 

Bastava far rumore. Nonostante questo, nella normalità degli scambi, degli abbai, improvvisamente partivano ircocervi colorati, composti carnosi e filamentosi che solcavano le conversazioni, termini compatti e ramificati di nervi espressivi che non te ne dimenticavi più. Le parole lavorate da catene di bocche nei secoli e scagliate da certi vecchioni davanti al te stesso bambino.

Certi lemmi, come nomi di re babilonesi, dicevano le traiettorie: 

Nnammónde, lassù, verso il monte, Nabbàlle, verso valle.

 

I verbi che s’innestano nei tessuti del significato, che agucchiano e stringono l’uomo alla cosa: ficcare, incantare, ingannare:’ngarrà,’ngandà, ngannà: morsi, risparmio e sfinimento. Le parole andavano in terra, rimbalzavano per aria. 

 

Rivedo le persone pancitare dopo il pranzo, nel sopore digestivo. Il pancito, pangetà, lo sbadiglio inteso come un palpito dello stomaco. E nelle notti una membrana malefica si stendeva sul respiro: sognavi di annegare, di non tornare più alla superficie

Era la sensazione di sprofondare in una melma, il fondale del lago, 

un pantano, la pandàfeca si diceva, ti è venuta la pandàfeca

 

– il dizionario riporta la credenza che la pandàfeca fosse la molestia di uno spettro scontento. La pandàfeca risaliva da secoli di paludi malariche dove sciami di moscerini scurivano le sponde dei fiumi e dei fossi, nei miasmi. La terra è il fantasma che uccide. L’erosione, i disgeli, le piogge abbondanti in primavera, calcando con le suole la terra si strizza e sforma come una spugna, ne vengono riccioli e bollicine tutt’intorno, si fatica a camminare.

Ci si impantana lavorando sulla M, ‘mbandanà, le aferesi che impastano le parole lavorano di N e di M: ‘mbana, impanare, ‘ndògne, intingere – 

le lettere imbibite nel brodo del complemento.

 

Si veniva a messa dai campi con le scarpe in collo per evitare si sporcassero, alla fontanella della piazza ci si limpiava e calzava. Era tutta terra qua. Una frase nostalgica e pubblicitaria. Ma la pubblicità è sempre pulita mentre il dialetto, in sostanza, è uno sporco che gronda, sono brocche di metallo che cadono nella terra continuamente fangosa e sollevano schizzi e cimurri. E anche le bocche si gettano in terra, e le parole rimbalzano in aria: lu zalluócche, lu ciuótte, lu ciuóppe, lu ciùnghe… 

 

…La ciùta è il sesso della femmina, più conosciuta come fregna, terra madre, regina delle melme, che è come dire un fico maturo spiccato che precipita nel piatto bianco squacquerandosi, sugoso. Mentre da piccoli la si chiamava mozza, paritaria, rispetto al corrispondente membro maschile, nel numero di lettere e nella doppia zeta puntuta, ma la seconda gregaria del primo;

il primo aggressivo con le zeta che tagliano l’aria rapaci; la seconda invece ferita, mancante, mozzata, tranciata del qualcosa originario,

 

come fosse inferiore, come fosse un’invidia del pene. Anche le persone e le cose sono fregne, come nell’italiano vale l’uso di fico e fica, una cosa fica, una persona fica, un fico una fica, un fregno una fregna. La fregnaccia è sempre una cazzata. 

 

E il corpo, altro corpo, sempre caricato, pesante, deforme, animato: la varvaiòzza, ad esempio, è un doppio mento colante, lievito madre di carne, che non finisce mai come fosse l’impasto per un dolce o la massa per gli gnocchi che ognuno, corpulento, si porta addosso.

Terra di morchie, metalli cavi e violenza, terra di allegrie, spiriti e penitenza.

 

(In casa ti possono entrare: streghe, gattimammoni, mazzamarielli, e Sant’Antonio l’eremita.)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Torre di Montone

a Vinicio Ciafrè, poeta del Vibrata

decoro cultura
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1 – Il dizionario a cui si fa riferimento è l’opera di V. Ciafrè, Dizionario del dialetto neretese, Artemia edizioni, Mosciano S. Angelo, 2010

 

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