LA SCALINATA MONUMENTALE DI VIA GIUDECCA di Claudia Papasodaro numero 30 dicembre 2023 gennaio 2024 editore maurizio conte

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LA SCALINATA MONUMENTALE DI VIA GIUDECCA

 

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 L’eredità culturale è un insieme di risorse ereditate dal passato che le popolazioni identificano, indipendentemente da chi ne detenga la proprietà, come riflesso ed espressione dei loro valori, credenze, conoscenze e tradizioni, in continua evoluzione. Essa comprende tutti gli aspetti dell’ambiente che sono il risultato dell’interazione nel corso del tempo fra le popolazioni e i luoghi;   Una comunità di eredità è costituita da un insieme di persone che attribuisce valore ad aspetti specifici dell’eredità culturale, e che desidera, nel quadro di un’azione pubblica, sostenerli e trasmetterli alle generazioni future.

 

Convenzione di Faro, art. 2

La ratifica della Convenzione di Faro da parte dell’Italia, avvenuta nel 2020, ha rappresentato un momento significativo per il nostro ordinamento. Non solo perché tale Convenzione riconosce il patrimonio culturale come elemento fondamentale per lo sviluppo civile (questo principio era già sancito dalla nostra Costituzione), ma soprattutto perché introduce il “diritto al patrimonio culturale”, coinvolgendo i cittadini in nuove forme di tutela e valorizzazione. 

 

Ed è bello scoprire che 

proprio al Sud, ed in particolare in Calabria, questi principi abbiano trovato

spontanea attuazione, dando vita ad una straordinaria 

storia di cittadinanza attiva


cominciata ormai qualche anno fa, ma che vale la pena ancora oggi raccontare. 

 

Tutto nasce da un appello lanciato sui social il 31 marzo 2021 attraverso un gruppo facebook denominato “ILOVERC”. Un appello rivolto alla cittadinanza di Reggio Calabria per correre in soccorso di un luogo simbolo della città abbandonato da più di un decennio: la Scalinata Monumentale di via Giudecca. 

 

Questa storica scalinata è una delle opere di contenimento del dislivello di terreno fra il centro storico e la zona collinare sovrastante, costruita tra il 1916 e il 1930 per facilitare il collegamento pedonale tra la parte bassa e la parte alta della città. Il suo aspetto, nonostante l’inserimento delle ringhiere che hanno sostituito in molti tratti gli originari parapetti in mattoni alleggerendo la struttura, risulta davvero imponente: presenta una doppia rampa con terrazzamenti su ben 12 livelli e 23 scalinate di forma e dimensioni differenti. Il tutto crea  

uno scenografico effetto a cannocchiale che dall’alto attraversa la città sino a toccare

il mare. Un luogo davvero suggestivo e dall’alto valore storico e paesaggistico. 

Ma soprattutto un luogo identitario,

 

presente nelle memorie di tutta la comunità reggina. 

 

Grazie alla risonanza dei social, l’11 aprile 2021 un gruppo di sconosciuti si incontra ai piedi della scalinata. Sono persone giunte da ogni parte della città con un unico obiettivo comune: restituire dignità a quel luogo terribilmente offeso e reso inaccessibile da anni di incuria. 

 

I cittadini decidono dunque di unire le forze per la realizzazione di un interesse collettivo, in una nuova forma di libertà solidale e responsabile. Il 20 aprile 2021 il gruppo fb “ILOVERC” si trasforma in “Articolo118.RC” per richiamare il Principio di Sussidiarietà sancito dalla nostra Costituzione, in virtù del quale i partecipanti all’iniziativa stavano agendo. 

 

Nei tre mesi successivi tantissimi reggini si uniscono alla pulizia della scalinata. Ogni giorno, 

la bellezza di quei 180 gradini, che scandiscono il dislivello fra la Via Posidonea 

e la via Reggio Campi, veniva sempre più fuori, fino all’ultima rampa che, 

ripulita dalle sterpaglie altissime, ha restituito la meravigliosa vista 

sullo Stretto di Messina

 

Completata la fase di pulizia, i volontari non si fermano e decidono di occuparsi anche dell’abbellimento delle terrazze, arricchendo le aiuole con piante e fiori colorati. La Scalinata della Giudecca è finalmente pronta a vivere la sua rinascita: sui suoi gradini c’è di nuovo gente, artisti di ogni genere cominciano ad improvvisare performances ed arrivano anche i turisti. La scalinata non solo recupera la sua funzione di passaggio strategico per la città, ma torna ad essere luogo di ritrovo per la comunità e teatro di manifestazioni ed eventi culturali. 

 

Il progetto di riqualificazione e valorizzazione prosegue, si evolve e si fa sempre più articolato. Il 24 settembre 2022 i volontari costituiscono l’associazione “Scalinata Monumentale di via Giudecca APS”, che ottiene un importantissimo risultato entrando, poco dopo, a far parte della Rete delle Comunità Patrimoniali Italiane (CPI) presenti su “Faro Italia Platform”, un’iniziativa della Rete Faro Italia con il supporto finanziario del Consiglio d’Europa.   

 

Di luoghi come la Scalinata della Giudecca in Italia ne abbiamo molti. L’auspicio è che questa bellissima storia di cittadinanza attiva possa essere un esempio per tante altre comunità, affinché prendano coscienza della portata rivoluzionaria che il loro ruolo può avere nella tutela, nella valorizzazione e a volte, come in questo caso, nella rinascita del nostro straordinario patrimonio.

 

 

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LA LEGGENDA DELLE TESTE DI MORO di Francesca de Paolis numero 30 dicembre 2023 gennaio 2024 ed maurizio conte

 

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LA LEGGENDA DELLE TESTE DI MORO

anfore ed otri abbellite da fiori e limoni; piastrelle dipinte a mano con motivi fitomorfi. Sono questi i manufatti artigianali tipici della Sicilia: terra dove si addensano i profumi dei capperi e dei fichi, degli agrumi e dei giardini. Regione di mare e pescatori, di vini, anfiteatri ed altre bellezze antiche.

Fra tanti misteri esotici, c’è una storia di laggiù – di quell’isola così sfarzosamente mediterranea – che in pochi conoscono e che noi, per vezzo e smodata curiosità di arcani più che per scarno amore di verità, desideriamo raccontare.

A tutti è noto che Caltagirone, luogo in cui si affollarono i migliori artisti di ogni tempo, 

è capitale siciliana di ceramiche, esportate in tutto il mondo.


Catania e Taormina brulicano di botteghe allestite di terrecotte. E basta volgere lo sguardo alle finestre, all’ingresso delle case o dei ristoranti per ammirare e riconoscere il simbolo per eccellenza della ceramica siciliana: le Teste di Moro. 

 

Stravaganti vasi a forma di testa, dalle parvenze vagamente orientali, ai quali negli ultimi anni si sono ispirati anche i gioiellieri. Così, oggi capita di vedere, appesi ai lobi dei più barocchi, piccoli volti di ceramica, sempre in coppia. Una testa, dalla faccia nera, è di un arabo, con turbante, baffi e monili, l’altra raffigura una giovane normanna.

Non si tratta di un’iconografia inventata, frutto del fastoso virtuosismo 

di qualche artigiano, ma di una moda che ha attraversato i secoli, 

affondando le sue radici in una storia sicula del XII secolo.


Era il 1100, durante l’egemonia araba, quando una fanciulla del quartiere di Al Hàlisah di Palermo, oggi chiamato Kalsa, si innamorò di un Moro che era in città di passaggio, e ne fu ricambiata. 

 

Dopo qualche tempo di incontri amorosi, però, l’uomo rivelò all’amata che sarebbe presto dovuto ripartire, poiché in Oriente lo aspettavano moglie e figli. Folle di rabbia, la fanciulla, di tempra combattiva, come è d’uso fra le splendidamente vigorose e tenaci donne del Sud, uccise l’amante nottetempo. Gli tagliò la testa e la usò come vaso per piantarci del basilico che, per non si sa quale strana alchimia, crebbe più rigoglioso che mai. Tanto che il vicinato cominciò a commissionare vasi a forma di testa di moro, usandoli come ornamenti per i propri balconi. 

 

Di questa leggenda siciliana, nella quale si aggrovigliano passione e vendetta, tradimento e gelosia, sono sature dunque le famosissime Teste di Moro in ceramica dipinta prodotte in terra trinacria. Rese nelle più diverse varianti, ad assecondare il gusto di tutti coloro che, anche non conoscendone la storia, sono subito attratti dal loro eccentrico fascino. 

 

A distanza di duecento anni,

 

chi dimostrò di essere stato sedotto dalla storia delle Teste di Moro 

fu niente di meno che una delle tre corone della nostra letteratura: 

Giovanni Boccaccio


Nella ricchissima e variegata raccolta di novelle del Decameron (1349-1351), in particolare nella quinta storia, narrata da Filomena, si parla di una vicenda molto simile. Che certo il nostro novelliere trasse dalla Sicilia. 

La novella di Boccaccio racconta di una certa Lisabetta da Messina che amava in gran segreto Lorenzo, un giovane di Pisa, che non avrebbe potuto frequentare, poiché era di umili origini. Quando la famiglia lo scoprì, i fratelli di Lisabetta, tre ricchi mercanti, uccisero Lorenzo e lo seppellirono nelle campagne. 

La giovane affranta ebbe, tuttavia, una visione in sogno: il suo amato defunto le rivelò il luogo della propria sepoltura. 

 

Così Lisabetta si recò nel luogo indicato, dissotterrò Lorenzo, ne recise la testa e la portò a casa con sé, nascondendola in un vaso di basilico. Di giorno in giorno la giovane andava a piangere per il suo Lorenzo sopra a quel vaso. E fu così che le lacrime d’amore versate da Lisabetta annaffiarono il basilico, che divenne più florido e lussureggiante che mai. 

 

È certo che gli abitanti del posto sapranno offrire una dovizia di particolari in più sulla leggenda, ma prima di avventurarci in Sicilia per saperne di più, per intessere in Trinacria travagliate storie d’amore, o semplicemente per comprare delle splendide e ornamentali Teste di Moro, c’è un dettaglio da notare.

Il basilico ricorre sia nella storia originale delle Teste di Moro 

che nella versione di Boccaccio.


L’illustre scrittore toscano poteva scegliere un’altra pianta per la sua Lisabetta da Messina, invece sceglie la stessa. Il basilico, infatti, è una pianta fortemente simbolica, dal significato ambivalente. È ritenuto di buon auspicio per l’aldilà. Antichi egizi e greci lo usavano per le imbalsamature. Cinesi ed arabi ne conoscevano le proprietà medicinali, i crociati ne riempivano le navi per renderle profumate e nel Medioevo era utilizzato per guarire numerose ferite. Inoltre, in Occidente, al basilico, portatore di fertilità, è attribuito un significato erotico. Mentre sull’isola di Creta il basilico rappresenta una pianta nefasta. 

 

È un po’ come se nel basilico, rigoglioso ed olezzante, squisitamente mediterraneo, si celassero tutti quegli umori, sentimenti, accenti, venature di cui si compone la suggestiva storia che si cela dietro le Teste di Moro.

 

 

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LA VILLA ROMANA DI POSITANO Gemme del Sud numero 30 dicembre 2023 gennaio 2024 Editore Maurizio conte

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LA VILLA ROMANA DI POSITANO

 

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                       Positano

 

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L’eruzione del Vesuvio del 79 d.C. causò la distruzione di abitati in un ampio raggio di chilometri e, oltre alle famose Ercolano e Pompei, colpì anche la costiera amalfitana, come testimoniano i resti della ricca domus marittima di Positano, costruita nel I secolo a.C., sepolta dai materiali piroclastici. 

 

Un settore dell’antica struttura si trova sotto la cripta superiore della chiesa di Santa Maria Assunta, ad una profondità di circa 11 metri, in una interessante stratificazione culturale da cui provengono suppellettili e diversi materiali esposti nel rinnovato MAR, il Museo Archeologico di Positano.

 

Le campagne di scavo iniziate nel 2003 hanno rimosso cenere e pomici dell’eruzione ed individuato una porzione della villa che, attraverso rampe e terrazze, 

degradava sulla baia ed hanno portato alla luce un ambiente triclinare, 

accessibile ai visitatori, che probabilmente sul lato sud aveva 

un portico colonnato che affacciava sul mare.

 

Le pareti di questo vano sono decorate da magnifici affreschi e stucchi con motivi riconducibili al Quarto stile pompeiano ed il pavimento è in un raffinato mosaico bicromatico. 

 

Sulle pareti sono dipinti scorci di architetture prospettiche, edicole, colonne e architravi a metope, ricchi tendaggi, mostri marini, delfini guizzanti, ippocampi, animali vari, uccelli, amorini, pannelli con ghirlande, medaglioni con ritratti e scene mitologiche, un paesaggio marino e nature morte in un susseguirsi di colori tra i quali spiccano il rosso, il giallo, il verde ed il blu. 

 

La vicinanza con Roma, l’amenità dei luoghi e il clima salubre, fecero della costa campana la mèta preferita dall’aristocrazia romana che vi costruì lussuose residenze con rigogliosi giardini e panorami mozzafiato sul mare dove trovare ristoro e dedicarsi all’otium.

 

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GLI EXULTET DI BARI Gemme del Sud numero 30 dicembre 2023 gennaio 2024 editore maurizio conte

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GLI EXULTET DI            BARI

 

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                           Bari

 

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Nel Museo Diocesano di Bari sono conservati tre preziosi rotoli di pergamena 

risalenti al Medioevo, restaurati di recente,

 

che esprimono l’essenza delle varie anime della città, compendio tra le civiltà latina, bizantina e le influenze longobarde. 

Tali opere sono conosciute come Exultet, ovvero pergamene miniate in Italia meridionale tra il X ed il XIV secolo, il cui nome deriva dall’incipit – cioè l’inizio – del canto liturgico che annuncia la resurrezione di Cristo. Di questi autentici capolavori, benché poco conosciuti, ne esistono in tutto 28 al mondo ed è orgoglio del nostro Meridione che ben tre di essi siano stati realizzati, e tuttora siano conservati, nel capoluogo pugliese. 

Durante la Veglia pasquale del Sabato Santo gli Exultet venivano srotolati dall’ambone e mostrati ai fedeli affinché potessero ammirarne le immagini nel corso della lettura del testo in latino, questo per rendere comprensibile l’argomento trattato anche da coloro che non conoscevano quella lingua.

Gli Exultet, lunghi fino a 5 metri, sono scritti in una preziosissima grafia, 

che i paleografi denominano “minuscola Beneventana del tipo barese”.


La grafia Beneventana nasce nel monastero Benedettino di Montecassino nel X secolo e si tipicizza a Bari nell’XI secolo, esattamente negli scriptoria (centri scrittori) del monastero di San Benedetto, luogo che ospitò le ossa del patrono della città, San Nicola, fino alla costruzione dell’omonima cattedrale. 

Dunque gli Exultet del Museo Diocesano testimoniano anche l’esistenza di uno scriptorium nel capoluogo pugliese e rappresentano un vero e proprio tesoro sia dal punto di vista religioso, sia da quello storico-artistico e letterario, ed infine occupano un posto importantissimo nella storia della musica, in quanto contengono le prime notazioni musicali occidentali, anticipatrici del pentagramma moderno.

 

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 Durante la Veglia pasquale del Sabato Santo gli Exultet venivano srotolati dall’ambone e mostrati ai fedeli

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IL SITO PREISTORICO LA PINETA E IL MUSEO DEL PALEOLITICO Gemme del Sud numero 30 dicembre 2023 gennaio 2024 ed Maurizio Conte

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IL SITO PREISTORICO LA PINETA E IL MUSEO DEL PALEOLITICO

 

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                         Isernia

 

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Ad Isernia si trova uno dei siti paleolitici più importanti d’Europa, denominato La Pineta, scoperto nel 1978, i cui ritrovamenti sono esposti nel Museo del Paleolitico della stessa cittadina, una struttura che ha la particolarità di svilupparsi attorno al giacimento preistorico in un progetto di parco archeologico. L’insediamento si trova nella piana di Isernia, un’ampia zona dove sono presenti numerose tracce della presenza dell’uomo primitivo risalente a 600.000 anni fa, che, grazie ad una serie di fortunati eventi, si è conservato intatto fino ad oggi.

 

A La Pineta è stato riportato alla luce il più antico resto umano

rinvenuto nella penisola italiana,i

 

il dente da latte di un bambino deceduto all’età di circa 5-6 anni attribuito a Homo heidelbergensis, antenato dell’uomo di Neanderthal, la cui scultura antropologica è stata creata per il Museo dalla paleo-artista Élisabeth Daynès. 

 

Oltre ad esporre i reperti provenienti dall’area archeologica e da altre zone del Molise, il Museo comprende lo scavo stesso che, protetto da un padiglione costruito nel 1999, può essere visitato dal pubblico percorrendo un ballatoio che permette di avere una visione d’insieme dell’insediamento e di osservare i ricercatori al lavoro.     

 

Suddiviso in tre corpi di fabbrica uniti da un lungo corridoio esterno, il percorso museale accompagna il visitatore alla scoperta ed alla comprensione delle tracce dell’uomo primitivo attraverso chiari pannelli espositivi, anche multimediali, che ricostruiscono un ambiente naturale fatto di ampie praterie, boschi radi ed aree umide in cui vivevano elefanti, bisonti e rinoceronti ed in cui comunità primitive praticavano la caccia e lo sfruttamento delle risorse animali. 

 

Tra reperti in selce, tracce di fauna, ossa di animali e la riproduzione a grandezza naturale di un Elephas antiquus ci si ritrova immersi in un mondo perduto in cui i nostri antenati combattevano ogni giorno per la sopravvivenza e dove il tempo era scandito solo dai ritmi circadiani.

 

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 Dentino incisivo superiore di bambino rinvenuto a La Pineta appartenente alla specie dell’Homo heidelbergensis Fonte: Catalogo generare dei Beni Culturali https://catalogo.beniculturali.it/detail/ArchaeologicalProperty/1400108144

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IL CASTELLO DI PESCOLANCIANO Gemme del Sud numero 29 agosto 2023 editore maurizio conte

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IL CASTELLO      DI PESCOLANCIANO

 

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                 Pescolanciano (IS)

 

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Il piccolo comune di Pescolanciano, in provincia di Isernia, conta soltanto 829 residenti e sorge su uno spuntone roccioso (“pesco”, o “peschio”, che significa grosso ciottolo), situato tra la valle del fiume Trigno ad est e del torrente Savone ad ovest. Il borgo è protetto da 

 

una cinta muraria lunga 75 metri, abitata e ben conservata, nella quale svetta 

l’antico e bellissimo Castello Ducale d’Alessandro che domina la valle

 

L’origine del borgo, edificato in posizione strategica per proteggere l’insediamento, è molto antica, probabilmente sannita, mentre quella del castello potrebbe risalire all’epoca medievale, nel periodo longobardo o di Carlo Magno. Nel XIII secolo sappiamo sicuramente che Federico II di Svevia diede l’ordine a Ruggero di Peschio-Lanciano di conquistare il castello, rimuovere i feudatari ed assediare Isernia, ostile al regno federiciano. 

 

Il castello, nell’aspetto odierno, ha forma esagonale irregolare, ma ha subito alcune trasformazioni nel corso del tempo. Sicuramente nel Basso Medioevo doveva apparire come una robusta fortificazione costituita da vari edifici, nello stile dei castelli medievali, fin quando, nel XVIII secolo, sotto la signoria dei d’Alessandro, divenne una residenza sontuosa, con un loggiato che prese il posto dell’antica merlatura e la torre che non fu più utilizzata per scopi difensivi, ma per ammirare un affascinante panorama. All’interno della fortezza è stata costruita una piccola chiesa dove sono custodite alcune reliquie di Sant’Alessandro. 

Nella seconda metà del XVIII secolo, il duca Pasquale d’Alessandro, avvalendosi dell’aiuto degli artigiani di Capodimonte, collocò nei locali del castello 

una fabbrica di pregiate ceramiche e maioliche, 


andata poi distrutta in un incendio. Alcuni pezzi sopravvissuti di questa produzione si possono attualmente ammirare nel Museo delle Ceramiche di Pescolanciano. Il castello è ancora abitato dai discendenti dei d’Alessandro ed è visitabile in varie occasioni, tra cui la festa di Sant’Alessandro, che ha luogo il 26 agosto.

 

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LA PINACOTECA “GIUSEPPE DE NITTIS” A BARLETTA di Gianluca Anglana numero 30 dicembre 2023 e gennaio 2024 editore Maurizio Conte

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 LA PINACOTECA “GIUSEPPE DE NITTIS” a BARLETTA

 

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il fascino austero della cattedrale, la severità marziale del castello, l’aura di corrucciata enigmaticità del Colosso. E anche Palazzo della Marra, splendida dimora aristocratica ceduta al demanio dello Stato nel 1958: un edificio elegante, che oggi ospita la Pinacoteca De Nittis.   

 

Come si vedrà più avanti, questa collezione di quadri è uno dei più toccanti attestati d’amore che, per interposta persona, un artista abbia mai tributato alla propria terra natia. 

Già, perché Giuseppe De Nittis, tra i più originali protagonisti della pittura europea dell’800, nacque il 25 febbraio del 1846 proprio a Barletta. Qui trascorse l’infanzia e la prima adolescenza fino al 1860, quando si trasferì a Napoli. Perse il padre prematuramente: dovette così imparare a rendere conto al fratello maggiore Vincenzo, a discuterci, a negoziare con lui le prospettive del proprio futuro. La diffidenza del nuovo capofamiglia rispetto al «mestiere dei disperati» non fu evidentemente abbastanza coriacea ed impenetrabile da impedirgli di iscrivere Giuseppe all’Istituto di Belle Arti. Nondimeno l’indole inquieta e burrascosa dell’apprendista generò presto conflitti con i vertici dell’Accademia, da cui venne espulso come un imbrattatele privo di stoffa artistica.   

 

Eppure, gli anni napoletani furono determinanti nella formazione tecnica di De Nittis, che nel 1863 aderì, a Portici, alla cosiddetta “Scuola di Resina” e divenne sodale dei suoi fondatori: Marco De Gregorio e Federico Rossano. Privilegiò la pittura en plein air. Gli esordi in Campania consentirono a Giuseppe di scoprire e nutrire la sua passione per la natura e per i paesaggi, passione di cui si trova traccia nei suoi Notes et Souvenirs sotto forma di ammissione di debito e devozione sconfinata: 

«La natura, io le sono così vicino! L’amo! Quante gioie mi ha dato! Mi ha insegnato tutto: amore e generosità». Il trasporto, la brama di conoscere i misteri della terra, 

il desiderio tenace di capire, abbracciare, riprodurre le «belle nubi», le sfumature 

del cielo e persino i colori dell’aria:


tutto questo entrò nel suo bagaglio per il trasloco a Parigi, dove giunse per la prima volta nel 1867. Nella capitale francese, ancora sfavillante prima della disastrosa guerra contro la Prussia, conobbe Léontine Gruvelle, la futura moglie che ebbe grande parte nell’introdurlo negli ambienti culturali più innovativi; alcuni dei massimi interpreti dell’Impressionismo, come Édouard Manet o Edgar Degas con i quali strinse amicizia; soprattutto il mercante d’arte Adolphe Goupil che intuì subito il talento del giovane e sconosciuto italiano, al punto da legarlo a sé con un accordo di esclusiva stipulato nel 1872. 

 

Tramite l’esercizio, talora invadente, delle proprie pretese di controparte contrattuale, Goupil premeva sull’artista affinché, in una prima fase di produzione pittorica, rappresentasse panorami e soggetti del Mezzogiorno d’Italia: le atmosfere quasi esotiche, le tinte vivaci e i mondi rurali con biche e trulli solitari, così lontani dalla frenesia della ville lumière, catturavano l’attenzione e solleticavano la curiosità dei facoltosi compratori americani, che consideravano Parigi come la piazza principale per i loro acquisti d’arte. Quando invece la mondanità parigina e le frivolezze della Belle Époque si imposero come oggetto esse stesse di una promettente narrazione figurativa, Goupil sollecitò il Maestro al cambiamento. Fu così che, nel 1874, De Nittis realizzò una delle sue opere più celebri e accattivanti, 

Che freddo!, un gruppo di donne investite da un gelido vento invernale, 

che gli fruttò l’appellativo di “Peintre des Parisiennes” (pittore delle parigine) 

e che soprattutto fu venduto per la cifra astronomica di diecimila franchi


Quel guadagno da capogiro rese Goupil quasi pazzo di gioia e persuase De Nittis che era giunta l’ora di voltare le spalle al suo passato italiano per immergersi totalmente nel suo definitivo presente francese. A questa nuova fase produttiva appartengono molte delle tele esposte a Barletta. Tra le tante meritano di essere citate: Figura di donna (Léontine De Nittis) del 1880; Il salotto della principessa Mathilde del 1883, pregevolissimo racconto di un momento di festa dell’alta società; Colazione in giardino del 1884 e la Signora con gattino nero, del 1880, la quale colpisce per l’avvenenza e il sorriso negli occhi.   

 

Il pittore lavorò instancabilmente, anche per sostenere l’elevato tenore di vita cui aveva abituato la sua famiglia e se stesso. E viaggiò molto: tornò spesso in Italia, approdò a Londra che gli permise altre conoscenze ed inesplorati orizzonti di ricerca, rivide la sua Barletta che omaggiò il suo figlio illustre con una medaglia d’oro. Morì a Saint Germain en Laye, anche lui precocemente come suo padre, il 21 agosto del 1884.

La pinacoteca illustra chiaramente l’evoluzione artistica di Giuseppe De Nittis. 

Il percorso espositivo è ricchissimo di opere, frutto del generoso 

lascito testamentario disposto da Léontine, vedova, 

in favore della città che aveva dato i natali 

al suo Giuseppe:

portano la data del 3 Novembre 1912 le ultime volontà di colei alla quale oggi Barletta deve così tanto. Un’antologia di meraviglie che, seppure provvisoriamente, si è arricchita di un altro capolavoro del Maestro pugliese, forse il suo dipinto più commovente: La Strada da Napoli a Brindisi. Completato nel 1872, dopo un’impegnativa serie di disegni preparatori, fu esposto al Salon di Parigi di quello stesso anno. Recava il numero di serie 1177 della Maison di Adolphe Goupil, il quale ne era entusiasta e vi riponeva grandi aspettative di guadagno: rimase oltremodo deluso, come ammise furente in una lettera a Léontine, quando seppe che la piccola tela aveva ricevuto solo una menzione speciale anziché un premio vero e proprio. Ad ogni modo, l’11 ottobre 1872 riuscì a venderla, per milletrecento franchi, ad un magnate americano che, per l’acquisto, si servì di un prestanome per scongiurare incrementi di prezzo: fu così che la Strada da Napoli a Brindisi prese la via dell’America e, sempre restando dentro i confini statunitensi, passò di mano in mano fino ai primi anni Quaranta, quando fu acquisita dalla famiglia dell’attuale proprietario. È lui che ha acconsentito al prestito in favore del museo barlettano, dove oggi si può ammirare, anche se solo fino ai primi mesi del 2025. Dopo, tornerà oltreoceano, all’Indianapolis Museum, dove è custodito in comodato.   

 

Una strada bianca. Molto più che un tratturo: una di quelle arterie volute dai Borboni per connettere tra loro le città. Due contadini avanzano insieme, vestiti dei loro poveri stracci: procedono stanchi, forse si parlano, e sembra quasi di sentirli mormorare nella melodia di uno dei numerosi dialetti pugliesi. E poi una carrozza, trainata da due cavalli: dentro c’è qualcuno, se ne intuisce la gamba sinistra. I contadini ci vengono incontro. La carrozza no: pare allontanarsi, diretta verso Napoli, Brindisi, chissà. 

Eppure non siamo soli. Attorno a noi, la languida campagna pugliese, con le sue molteplici tonalità di verde e le sue voci selvagge, mandrie di bovini al pascolo. E poi un corso d’acqua, sarà l’Ofanto, il fiume di cui nessuno parla più se non Orazio nelle sue odi. E poi gli arbusti, i fiori, gli alberi e candide casette lontane: sembrano macchie di biacca, spruzzate qua e là. E poi c’è lui:

l’immenso cielo di Giuseppe De Nittis, la vastità di cui era deciso ad apprendere 

i segreti e le potenzialità cromatiche, il reame percorso dalle «belle nubi», 

la divinità eterna nella quale tutti noi, qui al Sud, presto o tardi, 

ci perdiamo incantati.


Stornare lo sguardo da un dipinto di De Nittis è come un risveglio. 

La sua arte è fatta d’incanto e di emozioni, seduzione e ipnosi, sogni e sentimento. È un’arte in moto perenne, come le nuvole in transito o la vita breve e inquieta di colui che la produsse. Un’arte fatta di momenti e di visioni, di opportunità da cogliere al volo, come il Maestro stesso ci rivela: «una immagine di quella dolce vita da sognatore al quale basta una distesa di cose bianche, una pioggia di neve o una pioggia di fiori. È la vita per la quale son nato: dipingere, ammirare, sognare».

 

 

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D’Annunzio e la Sardegna Gloria Salazar numero 30 dicembre 2023 gennaio 2024 editore maurizio conte

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D’Annunzio e la Sardegna

 

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Ai primi di maggio del 1882 un giovanissimo, ma già celebre, Gabriele d’Annunzio visitò la Sardegna in compagnia di altri due autori parimenti noti: Edoardo Scarfoglio, in seguito co-fondatore de Il Mattino di Napoli, e Cesare Pascarella, affermato poeta in dialetto romanesco.  

I tre viaggiavano come inviati del giornale satirico Capitan Fracassa, il cui titolo era ripreso dall’omonimo romanzo di Gautier. 

D’Annunzio vi scriveva con il nome de plume di Mario de’ Fiori, pseudonimo che era stato anche quello di un pittore del 1600, cui è intitolata una via del centro di Roma. 

Secondo il racconto che Scarfoglio fece del viaggio, inizialmente d’Annunzio, nonostante le insistenze del Pascarella, non doveva essere della partita, ma all’ultimo momento aveva cambiato idea e si era imbarcato sulla nave. Il repentino ripensamento era dovuto al fatto che, ad un tratto, gli era balenata in mente la prospettiva di vedere il plenilunio sul mare e questo solo pensiero era bastato a vincere le sue resistenze. Malgrado le iniziali aspettative, il poeta aveva sofferto la traversata, tuttavia l’accoglienza trionfale che lo attendeva in Sardegna, dove la sua reputazione l’aveva preceduto, gli fece presto dimenticare i disagi patiti durante la navigazione

L’itinerario del tour sardo, intrapreso per fare un reportage dell’isola, 

all’epoca non ancora meta dei vacanzieri e sconosciuta ai più, 

dopo lo sbarco a Terranova (oggi Olbia) 

prevedeva varie tappe,

 

che dovevano fornire gli spunti per gli articoli da inviare al giornale: il Nuorese, Cagliari, l’Iglesiente, il Campidano, Sassari e forse – relata refero perché notizia desunta da un quotidiano locale dell’epoca – anche Alghero.  

Il dubbio sorge perché la pubblicazione dei resoconti sul Capitan Fracassa rimase incompiuta. Iniziata in quello stesso maggio del 1882, venne interrotta, infatti, per dare spazio alle notizie relative alla morte di Giuseppe Garibaldi, avvenuta il 2 giugno, e non fu più ripresa. Dal viaggio in Sardegna doveva scaturire anche un saggio del quale era stato già deciso il titolo – Libro d’oltremare – eppure alla fine non se ne fece nulla. 

Di questo viaggio lo scrittore sardo Stanis Manca dirà: “D’Annunzio, Scarfoglio e Pascarella percorsero tutta la Sardegna, descrivendo con entusiasmo i suoi costumi e i suoi paesaggi“. 

D’Annunzio, dal canto suo, aveva collaborato alla stesura degli articoli per il Capitan Fracassa, che nelle intenzioni dovevano essere sei, però a sua firma comparve solo Masua, reportage sulla testata Cronaca Bizantina, nel quale descrisse la miniera iglesiente come “un pezzo d’inferno seppellito nel paradiso terrestre”. 

In effetti

d’Annunzio era stato subito conquistato dalla “solitudine ampia e serena” dell’isola 

e dalla sua “civiltà taciturna”,  


come poi efficacemente la definirà. In Sardegna stringerà immediate e durature amicizie e rimarrà così ammaliato dal canto sardo – che gli era parso “…antico quanto l’alba” – da ospitare più di quarant’anni dopo, nel 1927, il Coro di Aggius al Vittoriale. Della musica sarda dirà inoltre: “…da più giorni vivo nel cerchio magico di quelle melodie. Non è possibile ascoltare un canto della Planargia e dell’Anglona senza restare imprigionato da un fascino misterioso…”. 

La fascinazione del poeta per l’isola era passata anche attraverso il vino cannonau di Oliena, da lui – che si definiva orgiaste astemio – ribattezzato Nepente (dal greco ne penthos, letteralmente “no” “dolore”), nome dato nell’antica Grecia ad una portentosa bevanda che leniva il dolore e procurava l’oblio, con il quale da allora è conosciuto. A proposito del Nepente, anni dopo, nel 1909, scriverà nella prefazione al libro Osteria del tedesco Hans Barth: “…non conoscete il nepente di Oliena neppure per fama? Ahi lasso! Io son certo che se ne beveste un sorso non vorreste mai più partirvi dall’ombra delle candide rupi e scegliereste per vostro eremo una di quelle cellette scarpellate che i sardi chiamano Domos de janas, per quivi spugnosamente vivere in estasi…” 

Benché la sua permanenza fosse stata appena di una ventina di giorni, d’Annunzio affermerà in seguito di avere

“…nostalgia della Sardegna da dodici anni, come d’una patria già amata 

in una vita anteriore”, e di amare “…filialmente codesta terra”,


nella quale, tuttavia, non ritornerà più, sebbene negli anni ne avesse sempre mantenuto il proposito: sia, un decennio dopo, per assolvere l’incarico di censire tutti i monumenti artistici dell’isola, affidatogli nel 1893 dal Ministro dell’Istruzione, sia per una progettata opera sulla Barbagia, della quale il personaggio Rudu, nella tragedia Più che l’amore (peraltro un clamoroso fiasco), è l’unica cosa che resta. 

Frutto del soggiorno dannunziano in Sardegna fu anche il trittico di sonetti Su Campidanu (Il Campidano), pubblicato sul Capitan Fracassa, oggi pressoché inedito perché non figura in nessuna raccolta delle opere del poeta. 

I versi sono quelli di Sa Spendula (che in sardo significa “la cascata”), dedicati all’omonima cascata di Villacidro; Sotto la lolla (Sotto il loggiato), ambientati nelle campagne del nuorese e celebrativi della venustà femminile sarda; Sale, ispirati alle saline cagliaritane di Molentargius. 

Delle tre poesie Sa Spendula è senz’altro quella più rinomata. La cascata, malgrado non sia la più alta dell’isola, è forse la più conosciuta, presumibilmente grazie ai versi del medesimo d’Annunzio. 

L’acqua scaturisce dalla sommità rocciosa del Monti Mannu (‘monte grande’, una delle montagne che delimitano a sud ovest la vasta pianura del Campidano), “fende come una lama la foresta” ed in tre salti precipita per 60 metri, formando tre piscine naturali.

Lo scenario della Spendula è quello che ispirò al d’Annunzio probabilmente 

le rime più potenti dei tre componimenti sardi, con sonorità che, in abbozzo, richiamano e precorrono – in un analogo contesto silvestre – le onomatopee 

e le allitterazioni de La Pioggia nel pineto,

 

la sua lirica più famosa, che vedrà la luce vent’anni più tardi.

 

 

Sa Spendula   

 

Dense di celidonie e di spineti  

le rocce mi si drizzano davanti 

come uno strano popolo d’atleti 

pietrificato per virtù d’incanti. 

 

Sotto fremono al vento ampi mirteti 

selvaggi e gli oleandri fluttuanti, 

verde plebe di nani; giù pei greti 

van l’acque della Spendula croscianti.  

 

Sopra, il ciel grigio, eguale. A l’umidore  

della pioggia un acredine di effluvi 

aspra esalano i timi e le mortelle. 

 

Ne la conca verdissima il pastore 

come fauno di bronzo, su ‘l calcare, 

guarda immobile, avvolto in una pelle.     

 

 

E così, come la Cascata delle Marmore ebbe nel Byron il suo bardo, anche la cascata sarda – e la Sardegna stessa – troverà nel Vate il suo (imparziale) cantore.

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 Foto da DEPOSITPHOTOS

 

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LA CHIESA DI SANTA LUCIA A ROCCA DI CAMBIO Gemme del Sud numero 29 agosto2023 editore Maurizio Conte

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 LA CHIESA               DI SANTA LUCIA         A ROCCA DI CAMBIO

 

 Gemme del Sud
                       Abruzzo

 

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Nel piccolo comune di Rocca di Cambio, in provincia de L’Aquila, conosciuto per essere il paese più alto dell’Appennino, a pochi chilometri dal centro abitato, si trova la chiesa di Santa Lucia, ciò che resta di un antico complesso abbaziale citato per la prima volta in documenti datati agli inizi del 1300 ma la cui costruzione potrebbe risalire ai secoli XI-XII.

 

L’edificio è sopravvissuto ai danni causati dai ciclici terremoti 

che nel tempo si sono verificati nella zona,

 

pl cui ultimo disastroso risale al 2009. Più volte restaurato, oggi presenta all’esterno una semplice facciata con portale del XV secolo sormontato da un piccolo rosone ed un campanile a vela mentre l’interno a tre navate è privo di abside e conserva un ciborio del 1400. 

 

Ciò che sorprende entrando in questa chiesa, dichiarata monumento nazionale nel 1902, sono gli affreschi del presbiterio e della cripta – cui si accede dalla navata centrale – testimonianza della produzione pittorica abruzzese compresa tra il XII e gli inizi del XV secolo. 

 

Ed è nel presbiterio che, accanto alla rappresentazione della Vergine, delle vicende di Cristo, della vita di Santa Lucia e di altri santi, lo sguardo è catturato da un’ampia Ultima Cena in cui Gesù, seduto a capotavola, è raffigurato benedicente e rivolto verso gli apostoli tra i quali sono insolitamente presenti San Paolo e San Barnaba

 

Ammirando queste pitture, recentemente restaurate, si viene inondati dal colore, 

ed è un po’ come rivivere lo stupore e le emozioni di quei fedeli 

ai quali la Chiesa, nei secoli passati, attraverso le immagini 

insegnava il messaggio cristiano, la storia 

del Salvatore e dei santi.

 

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L’Ultima Cena raffigurata sulla parete nord del presbiterio – Fotografia di Paola Ceretta

 

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LA BASILICA DI SANTA RESTITUTA A NAPOLI Gemme del Sud numero 29 agosto 2023 Editore Maurizio Conte

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LA BASILICA DI SANTA RESTITUTA A NAPOLI

 

 Gemme del Sud
                     Campania

 

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Nel cuore storico di Napoli si trova la basilica di Santa Restituta, la più antica della città partenopea, datata all’epoca costantiniana ed edificata, probabilmente, su un tempio pagano.

 

La sua particolarità è che per accedervi bisogna entrare 

nella cattedrale metropolitana di Santa Maria Assunta,

 

perché l’edificio è stato inglobato dal duomo partenopeo, costruito nel XIII secolo, divenendo una cappella della sua navata sinistra. 

 

Seppure ridotta nella sua planimetria – delle cinque navate originarie ne restano 3 – e nonostante la distruzione della sua facciata,

 

 

 

che passa attraverso i rimaneggiamenti di epoca angioina, i danneggiamenti dei terremoti dei secoli XV e XVII e le ristrutturazioni della prima metà del Settecento. 

 

Fra sarcofagi di epoca romana, monumenti funebri, plutei marmorei del XIII secolo, il battistero più antico dell’Occidente e il mosaico trecentesco di Santa Maria del Principio di Lello da Orvieto spiccano nell’ampia abside – al di là di un drappo in stucco dipinto da Nicola Vaccaro – un affresco duecentesco raffigurante Cristo in trono e un dipinto cinquecentesco Madonna in trono con San Michele e Santa Restituta di Andrea da Salerno.


Infine,

alzando gli occhi al soffitto della navata centrale, 

il dipinto La gloria di Santa Restituta, 

attribuito a Luca Giordano,

 

ci racconta le ultime vicende della martire del IV secolo di origine nord africana il cui corpo avvolto da gigli bianchi, secondo la tradizione, approdò in modo miracoloso sulle coste dell’isola di Ischia su una barca guidata da un angelo.

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 Il villaggio di Pietracupa – Foto da DEPOSIPHOTOS

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