LA CHIESA DI SANTA LUCIA A ROCCA DI CAMBIO Gemme del Sud numero 29 agosto2023 editore Maurizio Conte

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 LA CHIESA               DI SANTA LUCIA         A ROCCA DI CAMBIO

 

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                       Abruzzo

 

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Nel piccolo comune di Rocca di Cambio, in provincia de L’Aquila, conosciuto per essere il paese più alto dell’Appennino, a pochi chilometri dal centro abitato, si trova la chiesa di Santa Lucia, ciò che resta di un antico complesso abbaziale citato per la prima volta in documenti datati agli inizi del 1300 ma la cui costruzione potrebbe risalire ai secoli XI-XII.

 

L’edificio è sopravvissuto ai danni causati dai ciclici terremoti 

che nel tempo si sono verificati nella zona,

 

pl cui ultimo disastroso risale al 2009. Più volte restaurato, oggi presenta all’esterno una semplice facciata con portale del XV secolo sormontato da un piccolo rosone ed un campanile a vela mentre l’interno a tre navate è privo di abside e conserva un ciborio del 1400. 

 

Ciò che sorprende entrando in questa chiesa, dichiarata monumento nazionale nel 1902, sono gli affreschi del presbiterio e della cripta – cui si accede dalla navata centrale – testimonianza della produzione pittorica abruzzese compresa tra il XII e gli inizi del XV secolo. 

 

Ed è nel presbiterio che, accanto alla rappresentazione della Vergine, delle vicende di Cristo, della vita di Santa Lucia e di altri santi, lo sguardo è catturato da un’ampia Ultima Cena in cui Gesù, seduto a capotavola, è raffigurato benedicente e rivolto verso gli apostoli tra i quali sono insolitamente presenti San Paolo e San Barnaba

 

Ammirando queste pitture, recentemente restaurate, si viene inondati dal colore, 

ed è un po’ come rivivere lo stupore e le emozioni di quei fedeli 

ai quali la Chiesa, nei secoli passati, attraverso le immagini 

insegnava il messaggio cristiano, la storia 

del Salvatore e dei santi.

 

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L’Ultima Cena raffigurata sulla parete nord del presbiterio – Fotografia di Paola Ceretta

 

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LA BASILICA DI SANTA RESTITUTA A NAPOLI Gemme del Sud numero 29 agosto 2023 Editore Maurizio Conte

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LA BASILICA DI SANTA RESTITUTA A NAPOLI

 

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                     Campania

 

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Nel cuore storico di Napoli si trova la basilica di Santa Restituta, la più antica della città partenopea, datata all’epoca costantiniana ed edificata, probabilmente, su un tempio pagano.

 

La sua particolarità è che per accedervi bisogna entrare 

nella cattedrale metropolitana di Santa Maria Assunta,

 

perché l’edificio è stato inglobato dal duomo partenopeo, costruito nel XIII secolo, divenendo una cappella della sua navata sinistra. 

 

Seppure ridotta nella sua planimetria – delle cinque navate originarie ne restano 3 – e nonostante la distruzione della sua facciata,

 

 

 

che passa attraverso i rimaneggiamenti di epoca angioina, i danneggiamenti dei terremoti dei secoli XV e XVII e le ristrutturazioni della prima metà del Settecento. 

 

Fra sarcofagi di epoca romana, monumenti funebri, plutei marmorei del XIII secolo, il battistero più antico dell’Occidente e il mosaico trecentesco di Santa Maria del Principio di Lello da Orvieto spiccano nell’ampia abside – al di là di un drappo in stucco dipinto da Nicola Vaccaro – un affresco duecentesco raffigurante Cristo in trono e un dipinto cinquecentesco Madonna in trono con San Michele e Santa Restituta di Andrea da Salerno.


Infine,

alzando gli occhi al soffitto della navata centrale, 

il dipinto La gloria di Santa Restituta, 

attribuito a Luca Giordano,

 

ci racconta le ultime vicende della martire del IV secolo di origine nord africana il cui corpo avvolto da gigli bianchi, secondo la tradizione, approdò in modo miracoloso sulle coste dell’isola di Ischia su una barca guidata da un angelo.

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 Il villaggio di Pietracupa – Foto da DEPOSIPHOTOS

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IL CASTELLO PANDONE A VENAFRO Gemme del Sud numero 30 dicembre 2023 gennaio 2024 Editore Maurizio Conte

 

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IL CASTELLO PANDONE A VENAFRO

 

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                     Venafro (IS)

 

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Nell’alta valle del Volturno, sulle propaggini del Monte Santa Croce, in un territorio in cui la presenza umana è attestata fin dalla preistoria, si erge il Castello Pandone che offre ai visitatori la duplice particolarità di poter essere ammirato sia come residenza nobiliare che come sede del Museo Nazionale del Molise, il quale conserva al suo interno pitture e sculture che vanno dal periodo paleocristiano all’età moderna. 

 

Sorto su antiche strutture di epoca sannitica e poi romana, 

 

fu con i Longobardi, alla fine del X secolo, che prese forma il nucleo originario del castello che fiorì in epoche successive anche grazie agli Angioini e agli Aragonesi

 

E fu proprio l’aragonese Alfonso V a concedere nel XV secolo il feudo di Venafro alla famiglia Pandone, originaria di Capua, che fece del castello la propria elegante dimora per quasi un secolo. 

 

Aggirandosi per il maniero si possono ammirare la torre longobarda, il salone di rappresentanza, la loggia con arcate, la sala del teatrino, affreschi con scene di caccia e vita paesana, pitture e sculture esposte nel Museo tra le quali il famoso polittico in alabastro con scene della Passione di Cristo, realizzato nel XV secolo da una bottega di Nottingham, ed opere provenienti dai depositi di importanti musei statali tra cui la Galleria Nazionale d’Arte Antica di Roma in Palazzo Barberini.

 

Un unicum pittorico è rappresentato da ciò che resta del famoso ciclo di affreschi fatti realizzare da Enrico Pandone agli inizi del XVI secolo

L’amore del conte per questo nobile animale traspare nell’accuratezza dei particolari anatomici e dall’eleganza dei finimenti, mentre una breve descrizione accanto ad ogni esemplare ne specifica il nome, la razza e l’età. Tra tutti spicca quello nominato San Giorgio che Enrico avrebbe donato nel 1522 a Carlo V, l’imperatore che alcuni anni dopo, nel 1528, lo condannò a morte per tradimento facendolo decapitare a Napoli in Largo Castelnuovo e che confiscò alla famiglia Pandone tutti i beni.

 

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LA CHIESA NELLA ROCCIA DI PIETRACUPA Gemme del Sud numero 29 agosto 2023 Editore Maurizio Conte

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LA CHIESA NELLA ROCCIA DI PIETRACUPA

 

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                 Pietracupa (CB)

 

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Pietracupa, in provincia di Campobasso, è un piccolissimo paese arroccato ai piedi di un monte nel cuore del Medio Sannio, sovrastato da un maestoso sperone di roccia. Un luogo davvero speciale, conosciuto come 

 

la “piccola Betlemme molisana”, per la presenza di una grotta ipogea dove, 

alla Vigilia di Natale, si può vivere una Natività 

davvero molto realistica e suggestiva.

 

Per la sua conformazione, questa grotta, nel corso del tempo, è stata adibita ad usi assai diversi: inizialmente utilizzata come dimora, poi trasformata in tribunale, fino ad essere adoperata come prigione, come luogo pubblico per le esecuzioni capitali e, durante i bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale, come un rifugio per la popolazione. Furono proprio gli abitanti di Pietracupa che, nel 1977, su iniziativa del parroco di allora, con il loro lavoro volontario la recuperarono e ne fecero il cuore del paese. 

 

La Chiesa rupestre, di forma circolare, accoglie nello spazio centrale un altare rudimentale ricavato dalla macina di un vecchio mulino. Intorno ad esso si stringono secondo cerchi concentrici piccole sedute in legno, che aumentano il senso di raccoglimento e di meditazione di questo luogo così speciale. 

Tra le opere più importanti che si trovano al suo interno spicca senza dubbio 

un bellissimo crocefisso del Cinquecento, sospeso nel vuoto 

al di sopra dell’altare, particolare perché senza braccia


Vi sono poi custoditi un Bambino Gesù di legno d’olivo, a grandezza naturale, proveniente da Nazareth, assieme ad un calice anch’esso di legno, proveniente da Betlemme. Questi due oggetti sono stati entrambi benedetti personalmente da Papa Giovanni Paolo II e vengono utilizzati in occasione delle festività natalizie, che qui hanno davvero un sapore magico.

 

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 Il villaggio di Pietracupa – Foto da DEPOSIPHOTOS

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QUANDO L’ARMENIA TOCCO’ IL MEDITERRANEO di Gaia Bay Rossi Numero 29 agosto 2023 Editore Maurizio Conte

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QUANDO L’ARMENIA TOCCO’ IL MEDITERRANEO

 

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ha avuto in più momenti un confine sul Mediterraneo. 

Ma fu durante il regno di Tigrane II d’Armenia detto “il Grande” (95 a.C. – 55 a.C.) che l’Armenia ebbe i confini più estesi della sua storia e il massimo grado del suo potere, divenendo così lo Stato più potente del Vicino Oriente. I suoi confini andavano dal Mar Caspio al Mar Mediterraneo includendo non solo l’Armenia orientale (Armenia Maior) ma anche quella occidentale (Armenia Minor) e altri territori della Mesopotamia, della Siria, del Ponto, della Cappadocia, della Cilicia e della Media Atropatene. Mai più gli Armeni avrebbero controllato una così ampia fascia dell’Asia

Tigrane era noto per essere un ammiratore della cultura greca e volle seguire 

la tendenza ellenistica dei governanti che fondavano nuove città. 

Così Tigranocerta (Tigranakert), fu da lui fondata nell’83 a.C.

 

anche grazie al bottino ottenuto dall’invasione della Cappadocia, e ne fece la capitale del nuovo Impero dell’Armenia. Non essendoci prove archeologiche, l’ubicazione precisa della città non è nota, oltre al fatto che si trovava da qualche parte nel sud-ovest dell’antica Armenia che, data la recente espansione del regno, era in una posizione più centrale rispetto all’antica capitale di Artaxata (Artashat). Secondo fonti storiche antiche doveva trovarsi nei pressi di Nissibin, ai piedi delle colline di Tur-Abdin e, sempre secondo le medesime fonti, la città era molto ricca e rivaleggiava con la famosa Ninive per quantità di palazzi, giardini e parchi. Tigranocerta aveva un’architettura sostanzialmente ellenistica, sebbene fosse stata progettata per mischiare i tre stili, greco, persiano e armeno.   

Aveva mura alte 50 braccia (antica unità di misura che indicava 25 metri) e così larghe che alla base riuscivano ad entrarci le stalle per i cavalli. 

 

Il palazzo reale era circondato da un immenso parco con ampi spazi per la caccia 

e laghetti per la pesca, e vicino al palazzo un forte di protezione

 

Per popolare questa città, Tigrane fece arrivare molti sudditi da altri luoghi, così che ne diventassero i nuovi abitanti. Venne fatta trasferire buona parte della nobiltà armena e molte famiglie di origine greca provenienti dall’Asia Minore. A questi si aggiunsero sudditi provenienti dal Gordiene, dall’Assiria, dalla Mesopotamia araba e da altre regioni conquistate. 

Essendo il centro di un prospero impero con collegamenti commerciali sia con la Mesopotamia che con la Fenicia, la ricchezza era interminabile, come riporta Plutarco:   

 

“La città era anche piena di ricchezze… poiché 

ogni privato e ogni principe gareggiavano con 

il re nel contribuire al suo accrescimento 

ornamento…” (Lucullo, 26:2)  

 

La leggendaria ricchezza di Trigranocerta in quel momento è riportata anche dallo storico armeno Movses Khorenatsi nella sua Storia degli Armeni:

 

“Moltiplicò le scorte d’oro e d’argento e di pietre 

preziose, di abiti e broccati di vari colori, sia 

per uomini che per donne, con l’aiuto dei quali il brutto 

appariva meraviglioso come il bello, e il bello 

era del tutto divinizzato in quel momento… Portatore 

di pace e prosperità, ingrassava tutti con olio e miele”. 

(citato in Hovannisiano, 56-7)

 

Una città così prospera attirò persone da ogni parte e molti filosofi e retori greci
furono invitati a condividere le loro idee alla corte di Tigrane.

 

Per inaugurare il teatro della capitale furono anche chiamati attori greci. La natura cosmopolita della città, e dell’impero in generale, faceva sì che la lingua greca fosse utilizzata, insieme al persiano e all’aramaico, come lingue della nobiltà e dell’amministrazione, mentre i cittadini comuni parlavano l’armeno. Elementi persiani continuarono ad essere una parte importante nella cultura armena, specialmente nel settore religioso e delle formalità di corte come titoli e abbigliamento.   

 

Tigrane aveva costruito un grande impero ma fece un grave errore di valutazione quando si alleò con Mitridate, il re del Ponto (120-63 a.C.). Alleanza che fu anche rinsaldata con il matrimonio nel 92 a.C. fra Tigrane e la figlia di Mitridate, Cleopatra. Mitridate era un grande nemico di Roma, con cui guerreggiava da oltre due decenni. 

 

La repubblica romana vedeva il pericolo di una simile alleanza tra le due potenze, sospetto confermato da una campagna congiunta Tigrane – Mitridate 

contro lo stato cliente romano della Cappadocia.

 

I romani risposero attaccando il Ponto e quando Mitridate fuggì alla corte di Tigrane nel 70 a.C., chiesero la consegna del suocero scappato. Tigrane rifiutò, rispondendo che non avrebbe mai consegnato Mitridate e che se i romani avessero iniziato la guerra si sarebbe difeso. I romani così invasero l’Armenia. 

Tigrane fu sconfitto da un esercito romano di 15.000 uomini comandato dal generale Licinio Lucullo che inviò Sestilio a saccheggiare il palazzo reale fuori le mura. Tigrane aveva raccolto più di 100.000 uomini e li usò subito per intercettare Lucullo. Questi avendo visto il nemico prepararsi alla battaglia preparò il suo esercitò., dando l’ordine di attaccare più in fretta possibile.

 

Tigranocerta fu assediata il 6 ottobre del 69 a.C. come descritto da Plutarco:

 

Lucullo attraversò il fiume, e si aprì la strada 

contro il nemico di persona. Indossava una corazza 

d’acciaio a scaglie scintillanti, e un mantello 

con nappe, e allo stesso tempo sguainò la spada dal 

fodero […] e ordinò ai suoi cavalieri gallici e di Tracia 

di attaccare il nemico sul fianco, e di parare 

i colpi delle loro lunghe lance con le loro spade 

corte” (Vita di Lucullo, 27.5-6; 28.1-2)   

 

Lucullo con la fanteria aggirò gli avversari, il panico si diffuse tra gli armeni e i catafratti travolsero il loro stesso esercito. Poi, in seguito al tradimento della guarnigione greca che aprì le porte ai romani, Tigranocerta fu catturata e saccheggiata.   

 

I romani conquistatori rimasero stupiti dalla ricchezza di Tigranocerta anche dopo che Tigrane era già riuscito a sottrarre parte del suo tesoro reale e dell’harem personale. 

 

Plutarco racconta che i saccheggiatori trovarono 8000 talenti in oro mentre 

ogni legionario romano ricevette 800 dracme. La popolazione 

che era stata chiamata da Tigrane fu lasciata libera 

di tornare nelle proprie terre d’origine.

 

Lucullo si mosse quindi per attaccare Tigrane e Mitridate nei pressi dell’importante città di Artaxata, ma la battaglia di Artaxata non ebbe esiti decisivi per nessuna delle due parti. In più con l’arrivo dell’inverno, la sua linea di rifornimenti era pericolosamente sottile ed esposta, e un ammutinamento tra le sue stesse truppe costrinse il generale romano a ritirarsi dal nord, tornando verso sud. Dopo otto anni di campagna in Armenia, Lucullo non riuscì mai a sconfiggere definitivamente Tigrane e i suoi alleati, per questo fu richiamato a Roma nel 67 a.C.

 

La tregua non sarebbe durata a lungo poiché il Senato romano aveva approvato

la determinazione di imporre la sua autorità sulla regione una volta per tutte.

 

Nel 66 a.C. un altro esercito romano si diresse verso est, questa volta guidato da Pompeo Magno. Questo non solo mise in rotta l’esercito di Mitridate ma fece arrendere anche l’ultrasettantenne Tigrane. La sua resa portò alla fine del conflitto e alla perdita di tutte le conquiste del regno armeno sotto la sua guida. Pompeo trattò generosamente Tigrane a patto che rinunciasse alla Siria e all’Asia minore e pagasse un riscatto di 6000 talenti d’argento. In cambio rimase re dell’Armenia fino alla sua morte come suddito di Roma.

 

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 Tigranakert foto da DEPOSITPHOTOS

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LA SARDEGNA CHE NON TI ASPETTI di Gloria Salazar numero 29 agosto 2023 editore Maurizio Conte

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LA SARDEGNA 

CHE NON TI ASPETTI

 

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oltre che per lo straordinario eroismo – che valse numerose medaglie d’oro ai combattenti (detti sos dimonios ossia i demoni per la loro furia bellica) e alle bandiere -, erano famosi per il fogu a intru, il fuoco all’interno; che non era la fiamma interiore che li animava, bensì il modo di fumare i sigari in trincea. 

Si trattava, infatti, di introdurre il sigaro in bocca dalla parte incandescente per non far capire al nemico la propria posizione.

 

Quella del fuoco occulto è anche una caratteristica della cucina sarda.


In Sardegna sopravvive, ormai quasi esclusivamente come tradizione folcloristica, un sistema arcaico di cottura che prevede l’arrostimento dei cibi attraverso una combustione latente, ovvero senza fiamma: la cottura cosiddetta
a carraxiu

Il procedimento consiste nell’utilizzare come “recipiente” una buca scavata nella terra, nella quale è stato fatto un fuoco di legna; una volta rimaste le sole braci la buca viene foderata con rami frondosi – verdi – di arbusti aromatici (lentisco, mirto, rosmarino, ginepro), sui quali si adagia la carne da arrostire (di solito l’intero animale), ricoprendola poi ancora con gli arbusti odorosi e quindi di tizzoni ardenti.

La cottura avviene molto lentamente e le essenze profumate sprigionate 

grazie al calore conferiscono alla carne – che rimane tenerissima – 

un sapore  straordinario.


Questo è uno dei metodi usati per cucinare cinghiali (
sirboni), capretti, vitelli ed il famoso e succulento maialetto sardo, a seconda delle località chiamato: porceddu, proceddu, porcheddu, pulcheddu, ed altre numerose varianti.   Una ricetta a carraxiu ancor più caratteristica è quella denominata su malloru de su sabatteri, ossia “il toro del calzolaio”, tipica del nuorese -in particolare di Villagrande -; consistente nella gigantesca farcitura di un vitello, al cui interno vengono inseriti come matrioske russe: una capra, un maialino, una lepre, una pernice ed infine un altro piccolo volatile.  

 

Il nome deriva dal fatto che un tempo era il ciabattino del paese (sabatteri o calzolaio, dallo spagnolo zapatos, cioè scarpe) a provvedere alla cucitura dei vari animali.

Quello di utilizzare la terra è un sistema che i sardi usavano anche per nascondere, seppellendole, le bottiglie di acquavite,

  

anticamente oggetto di appalto (durante la dominazione spagnola detto arrendamento de l’aguardiente – “l’acqua ardente” perché sembra acqua, ma “brucia”- monopolio di privati in ambito locale). Per ritrovare le bottiglie così occultate le munivano di un filu ‘e ferru; filo di ferro che spuntava dal suolo, da cui deriva il nome della bevanda attuale.   

 

I sardi se la cavano bene anche con la graticola (sa cardiga) e soprattutto con lo spiedo (su schidoni o schironi).

Uno spettacolo le grigliate sarde.

 

Gli spiedi o meglio gli spiedoni – che sembrano piuttosto degli spadoni (possono essere lunghi anche più di un metro e mezzo) – vengono conficcati in circolo nel terreno con infilzata la bestia intera, intorno ad un imponente fuoco di braci, e ritmicamente girati per consentire una cottura uniforme. Con questo sistema vengono cucinati principalmente i famosi maialini da latte.

 

 Nel sassarese invece vi è l’usanza dello zimino

 

– anch’essa, analogamente alle metodologie precedenti, caratterizzata da una spiccata connotazione conviviale -, costituita da una grigliata di frattaglie, per la quale ci si avvale, come “barbeque”, di una vecchia carriola (ruota compresa), riempita per metà di sabbia e per il resto di carbone di legna.  

 

L’alternativa alla cottura arrosto è quella in umido, una cottura lunga effettuata con l’ausilio di aromi, che intenerisce la carne ed elimina il gusto di selvatico; come quella della pecora in cappotto o dell’ottima capra alla vernaccia, cotta, appunto, con la vernaccia di Oristano – tipico vino sardo- e le bacche di ginepro.  

 

La cucina sarda tradizionale, al contrario di ciò che si potrebbe pensare, 

non è una cucina “di mare”, ma è principalmente 

una cucina pastorale, “di terra”,


nella quale per secoli le pietanze a base di pesce sono rimaste circoscritte alle sole zone costiere. Anche la celeberrima bottarga, introdotta in Sardegna dai Fenici, che da alimento base nelle traversate e moneta di scambio di quei mercanti navigatori, divenne cibo pregiato per l’elite, ma non venne mai utilizzata nelle ricette tipiche della regione. 

 

Inside a traditional house
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  Foto da DEPOSITPHOTOS

 

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JOE PETROSINO di Luigi Vignali e Gaia Bay Rossi numero 29 agosto 2023 Editore Maurizio Conte

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JOE PETROSINO

 

operai, agricoltori, sarti, meccanici, ma anche avvocati e medici, e artisti di ogni genere. Soprattutto, gente povera che cercava fortuna oltreoceano. 

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Fra loro, purtroppo anche criminali, che a New York e in altre grandi città americane fondarono un’organizzazione di stampo mafioso chiamata la Mano Nera. Praticava sistematicamente l’estorsione all’interno delle stesse comunità italiane, con ramificazioni anche in Sicilia. Sin dai primi del Novecento le sue lettere, contenenti anche minacce di morte, erano firmate con due spade incrociate sotto a una mano nera.

 

L’organizzazione aveva ovviamente legami con la mafia italiana, ma anche 

con la ‘ndrangheta calabrese e americana, con la camorra napoletana.

 

Ma al tempo stesso intratteneva legami stretti con la Tammany Hall, potente macchina politica dei democratici di New York, che aveva in mano tutte le leve del potere (dal municipio alla polizia) e era disposta a tutto pur di continuare ad ottenere voti ed esercitare un controllo politico sulla città.

In questo clima malavitoso si trovò a vivere e lavorare Joe Petrosino, 


originario di Padula (Salerno) che, nel 1873 s’imbarcò giovanissimo con il padre Prospero, di professione sarto, la madre e i suoi due fratelli, con destinazione New York. Andarono a vivere a Little Italy, dove ben presto Joe, per aiutare la famiglia, si diede da fare con vari lavoretti, in particolare “strillone” di strada e lustrascarpe. Nel 1877 ottenne la cittadinanza statunitense e, pur sognando di diventare un poliziotto, iniziò a lavorare come spazzino comunale (allora i netturbini erano alla dipendenza del Dipartimento di Polizia). Era talmente in gamba che dopo un anno era già diventato capo squadra. Strinse amicizia con molti i poliziotti e col tempo divenne un prezioso informatore. Nel 1883, avendo contribuito proprio lui a sventare un colpo della Mano Nera, fu finalmente ammesso nella polizia – con distintivo n. 285.

Di statura piccoletto (circa un metro e sessanta) in mezzo ai “giganti” irlandesi – maggioritari nella Polizia newyorkese – non gli difettavano temperamento e scrupolosità, così come intelligenza e grinta. Oltretutto parlava perfettamente sia l’inglese che l’italiano. Presto si seppe che “non faceva passare nulla sotto gamba”: quando era di servizio a Little Italy, per le strade girava il passaparola sul pattugliamento di Petrosino…

 

Il suo lavoro preciso e rigoroso fu notato da Theodore Roosevelt, allora assessore 

alla polizia, (nel 1901 diventerà poi presidente degli Stati Uniti), che appoggiò Petrosino e nel 1895 lo fece promuovere sergente, destinandolo alla conduzione 

delle indagini. I gangster di Little Italy si trovavano ora di fronte a un profondo conoscitore della loro stessa lingua e dei loro metodi.


Al di là della diligenza nel lavoro, Petrosino provava comunque un rancore molto forte per i criminali che distruggevano il capitale di apprezzamento e rispetto che gli italiani avevano costruito così faticosamente. In quegli anni effettuò centinaia di arresti, sventò attentati e sganciò i commercianti dalla morsa delle estorsioni. Petrosino era perspicace, deciso, veloce e irremovibile, a volte anche rude con i criminali. In poco tempo era diventato il simbolo della battaglia alla criminalità, un mito del suo tempo. Le sue tecniche di lavoro erano assolutamente innovative: travestimenti, imboscate, assalti, disinnesco di ordigni. Nel frattempo Joe si sposò con Adelina Saulino, dalla quale ebbe una bambina, chiamata Adelina come la mamma.

 

Nel 1905 divenne tenente e fu incaricato dell’organizzazione 

di una squadra di poliziotti italiani,

l’Italian Branch (poi chiamata Italian Squad), composta da 5 agenti tra cui il successore di Petrosino, Michael Fiaschetti (nativo di Morolo, Frosinone), uno sviluppo questo che diede forte impulso alla lotta alla Mano Nera. 

Le minacce a scopo di estorsione arrivarono addirittura al grande tenore Enrico Caruso, che non cedette al ricatto e si affidò proprio a Petrosino, il quale riuscì a far arrestare due dei tre delinquenti e, grazie alle indagini, qualche anno dopo anche due importanti capi della mafia newyorkese

 

La lotta di Petrosino contro la Mano Nera ebbe u ulteriore salto di qualità nel 1906, quando Theodore Alfred Bingham divenne il capo 

del dipartimento di polizia di New York.

 

Bingham potenziò l’Italian Squad e le affiancò un’altra squadra di Brooklyn. Petrosino e Bingham dichiararono guerra alla Tammany Hall con un’incisiva azione repressiva che prese ai fianchi le due basi di controllo: l’egemonia sulla polizia newyorkese e la complicità dei malviventi italiani, soprattutto della mafia siciliana. A questo punto, Petrosino e Bingham divennero obiettivi cruciali. 

L’attentato a Petrosino fu costruito “a ragnatela”, con infiltrazioni ovunque, mentre seguiva una pista che lo avrebbe portato in Italia, per infliggere un grave colpo alla Mano Nera. L’operazione doveva essere ovviamente segreta, ma i criminali contavano sulla complicità di persone influenti, capaci di ottenere informazioni certe sulla missione di Petrosino. Persone potenti strettamente collegate con la Tammany.

La mattina del 9 febbraio 1909 Petrosino si imbarcò – apparentemente 

in gran segreto – dal porto di New York a bordo del piroscafo Duca di Genova. 

Ma nello stesso momento il New York Herald già usciva col titolo: 

“Petrosino in viaggio per Napoli e poi per Palermo per andare 

a debellare la Mano Nera e la Mafia”.


Addirittura, arrivato a Napoli, trovò una sorta di comitato di accoglienza fatto da giornalisti e poliziotti. La notizia del suo arrivo era arrivata anche a Palermo, ma Petrosino, pur consapevole dei pericoli, confidava che la criminalità non avesse il coraggio di eliminare un poliziotto. 

La sera del venerdì 12 marzo 1909, proprio a Palermo due sconosciuti gli chiesero di parlare fuori dall’albergo. A piazza della Marina, alle 20.45 tre colpi di pistola lo colpirono in rapida successione e un quarto subito dopo alla testa.

 

Il console statunitense a Palermo telegrafò al suo governo: 

“Petrosino ucciso a revolverate nel centro della città questa sera. 

Gli assassini sconosciuti. Muore un martire”.

 

Si tennero due funerali, uno in Italia e uno a New York, dove parteciparono circa 250.000 persone, un numero mai raggiunto fino ad allora per delle esequie.

 

Il feretro fu accompagnato da Theodore Roosevelt,
ormai Presidente degli Stati Uniti.


Gli indagati furono tutti prosciolti, anche perché la polizia statunitense, la cui collaborazione era stata più volte richiesta dalla procura di Palermo, rispose con un’indifferenza ai limiti del boicottaggio. È possibile che la Tammany Hall, con i suoi agganci importanti nella magistratura, volesse depistare le indagini; di certo essa aveva avuto la sua parte prima nel lasciar trapelare il viaggio di Petrosino, poi nell’evitare che notizie compromettenti giungessero agli inquirenti palermitani.   

 

Solo nel 2014, nell’ambito di una intercettazione al gangster Domenico Palazzolo, gli investigatori vennero a conoscenza del ruolo di suo zio paterno, Paolo Palazzolo – già prosciolto per l’omicidio di Petrosino: “Ha fatto lui l’omicidio del primo poliziotto ucciso a Palermo. Lo ha ammazzato lui Joe Petrosino, per conto di Cascio Ferro” (boss mafioso italiano legato alla Mano Nera). Chi e cosa ci fosse dietro a questi due personaggi non è mai stato definitivamente chiarito.

Di certo idealmente, circa vent’anni dopo, Joe Petrosino fu vendicato da Fiorello La Guardia, altro grande, straordinario italiano d’America,

 

sindaco di New York, sotto il cui impulso venne affibbiato un duro colpo alla malavita e alla Tammany Hall.

 

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 Photo: New York City Police Department, Public domain, via Wikimedia Commons

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PROCIDA. LA SPIAGGIA DI TROISI E PABLO NERUDA di Aurora Adorno numero 29 agosto 2023 editore maurizio conte

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PROCIDA. 

la SPIAGGIA DI TROISI 

E pABLO NERUDA

 

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a Pollara nella borgata marinara dell’isola di Salina a Malfa è possibile ammirare le Eolie e trascorrere qualche giorno di vacanza; bagnata dal cielo e circondata dal verde in quella che oggi viene chiamata “la locanda del Postino” vennero girate nei primi anni’ 90, tra genio e malinconia, le scene dell’omonimo film.

La pellicola, diretta dal regista Michael Radford e interpretata da Massimo Troisi, racconta dell’amicizia tra un postino di nome Mario Ruoppolo e il poeta Pablo Neruda; il viso dell’attore napoletano, malinconico giullare, è scavato dalla malattia, e gli occhi scuri resi ancora più espressivi dalla consapevolezza di una vita che sfugge tra le mani, proprio come la sabbia che il vento spazza via dalle spiagge di Salina. È il mare a fare da sfondo con le sue sfumature, tacito testimone della transitorietà della vita umana.

La semplice bellezza dei paesaggi marinari del Sud incornicia la storia 

del poeta Cileno che nell’isola venne esiliato nel 1948


con la consorte Matilde, e che per caso iniziò un postino, quasi analfabeta, alla bellezza della poesia e della lettura. «Mi sono innamorato di Beatrice» confessa Troisi al poeta che risponde a suon di Dante: «Le beatrici suscitano amori sconfinati, Mario. Che farai adesso?» chiede all’uomo intento a scarabocchiare qualcosa su un foglio; quando Neruda si rende conto che Mario non è capace di scrivere il nome dell’Alighieri lo aiuta. «Sono proprio innamorato» rincara il postino. 

«Ed io cosa ci posso fare» il poeta lo scruta perplesso.

«Se mi potete aiutare. La guardavo e non mi usciva neanche una parola. La guardavo e mi innamoravo.» Continua il dialogo tra i due amici, poi Mario prende coraggio: «Don Pablo, me la potete scrivere una poesia per Beatrice?»

Il film scorre tra le battute e gli scambi di vita, tra amore e amicizia, tra vita quotidiana e politica, fin quando Mario sempre più innamorato rincara la dose:

 

«Caro poeta e compagno lei mi ha messo in questo guaio e lei mi deve aiutare, perché mi ha regalato i libri, insegnato a usare la lingua non soltanto per mettere i francobolli. È colpa sua se mi sono innamorato.» 

«Ti ho regalato i miei libri, sì. Ma non ti ho autorizzato a usarli per il plagio. Se penso che hai regalato a Beatrice la poesia che avevo scritto per Matilde…» 

ribatte Neruda.

«La poesia non è di chi la scrive è di chi gli serve» si difende Mario, 

facendo intenerire il poeta.

E ancora oggi, rimanendo in silenzio, con i piedi ricoperti dai sassolini della spiaggia di Procida e l’orecchio teso tra il mare e i ricordi, è possibile udire la voce sommessa di Troisi che recita:   

 

Nuda sei semplice come una delle tue mani, 

liscia, terrestre, minima, rotonda, trasparente, 

hai linee di luna, strade di mela, 

nuda sei sottile come il grano nudo. 

Nuda sei azzurra come la notte a Cuba, 

hai rampicanti e stelle nei tuoi capelli, 

nuda sei enorme e gialla 

come l’estate in una chiesa d’oro.   

 

Nuda sei piccola come una delle tue unghie, 

curva, sottile, rosea finché nasce il giorno 

e t’addentri nel sotterraneo del mondo. 

come in una lunga galleria di vestiti e di lavori: 

la tua chiarezza si spegne, si veste, si sfoglia 

e di nuovo torna a essere una mano nuda.

 

Poesia nella poesia, le scene si intrecciano con la location del villaggio dei pescatori 

a Marina di Corricella il borgo caratteristico dall’architettura seicentesca 

dove le mura colorate sono sovrastate da archi,

 

e con la spiaggia di Pozzo Vecchio ribattezzata “la spiaggia del postino” in cui Mario incontra Beatrice per la prima volta; l’ufficio postale e la chiesa della Madonna delle Grazie finiscono per incorniciare l’intensità espressiva dei dialoghi e delle scene. Famose quelle in cui Mario pedala tra i monti costeggiando il golfo di Napoli; una delle banchine è stata appunto ribattezzata “Passeggiata Massimo Troisi” e vicino è conservata la bicicletta usata dall’attore durante le riprese del film.   

 

Sono tanti i lungometraggi girati sulle spiagge di Procida, set di “Il talento di Mr Ripley” interpretato da Matt Damon, e di “Francesco e Nunziata” con Sophia Loren e Giancarlo Giannini.

Nella parte più alta dell’isola si trova la Terra Murata, piccolo borgo sorto in posizione difensiva, mentre in quella più antica edifici storici e religiosi si affacciano sul mare:

 

ail Convento di Santa Margherita Nuova, l’Abbazia di San Michele Arcangelo patrono dell’isola  e  il Castello d’Avalos in cui è stato girato “il Detenuto” con Alberto Sordi. Tra Punta Serra e Punta del Cottimo la spiaggia di Pozzo Vecchio è ora nota come la “Spiaggia del Postino” in omaggio al testamento artistico di un attore che ha saputo mettere in risalto gli aspetti poetici e belli del Sud, e che tra quelle spiagge e le nostre memorie rimarrà impresso per sempre, come il vento che tocca le Eolie e incide le rocce.

 

 

Procida – Spiaggia del Postino a Cala del Pozzo Vecchio
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 Foto da DEPOSITPHOTOS

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