L’OPERA DI KEZIAT di Alessandro Gaudio – Numero 6 – Ottobre 2016

Keziat-I sogni fanno volare
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L’opera di Keziat − pseudonimo di Kezia Terracciano, artista nata a San Severo, vicino Foggia, nel 1973 −1allestisce uno spazio multidimensionale suscettibile di infinite misurazioni, ma all’interno del quale possono vigere, mi sembra, le regole del pensiero simmetrico.2

L’OPERA DI KEZIAT

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Keziat-Attraverso-il-monitor

 Qui, l’aspetto originario e quello spostato (di cui soventemente ha parlato chi si è occupato della produzione di Keziat) sono trattati come identici

(se x è parte di y allora, simmetricamente, y è parte di x). Il riferimento primo è alla logica del tardocapitalismo (rappresentata nelle teste a forma di monitor o di scatola, nelle strade che attraversano alberi e palazzi, negli oggetti e negli edifici antropomorfi, nei grattacieli deformati, nei giardini attraversati da strani pesci volanti e da figure femminili scomponibili), cui fa da cornice una logica seconda, inconscia, che quasi immediatamente si sostituisce alla realtà esterna.

Questo secondo spazio è pieno di cose vissute dall’uomo (pensieri, emozioni, azioni mentali) ed è soggetto a regole bi-logiche.

Quelle aristoteliche, infatti, rappresentano soltanto una parte della verità della mente dell’uomo; nello spazio secondo approntato da Keziat trova posto anche ciò che è rimosso: quel qualcosa, cioè, che è tenuto fuori dalla coscienza o dal ricordo.

L’accesso nella coscienza di un contenuto del sistema inconscio è intrinsecamente impossibile: eppure, Keziat, con la sua penna, gioca su questa incapacità,

perorando artisticamente la strenua necessità di uno sforzo vano e di uno spazio asimmetrico, vale a dire cosciente, che in sé non può contenere ciò che cosciente non è. Tavole come I sogni fanno volare e fanno rumore (opera composta da venti tele del 2014; fig. 1) o Nuotando nella memoria (dell’anno successivo e appartenente, come la precedente, alla serie denominata Hybrids e al corrispondente nuovo progetto espositivo, partito proprio quest’anno; fig. 2), ma già Attraverso il monitor (del 2012; fig. 3) e molte altre realizzate precedentemente, sono il risultato della relazione che Keziat è riuscita a stabilire tra quell’immensa base simmetrica, che poi è la vera realtà psichica, e la nostra capacità di conoscenza, espressione del modo di essere asimmetrico.

Per ciascuno di noi è impossibile incontrare tanto l’essere simmetrico quanto quello asimmetrico; incontriamo, però, il pensiero simmetrico e il pensiero asimmetrico, manifestazioni indirette di quello spazio dell’essere che possiamo soltanto dedurre o inferire.

È come se Keziat, nei suoi disegni su carta e tela (pieni di apparecchi televisivi, connessioni, stringhe, antenne e cablaggi), immaginasse ciò che immaginare non si può, ricoprendo le manifestazioni simmetriche inconsce di un rivestimento in grado di particolarizzare e, dunque, di limitare la smisurata realtà dei fenomeni umani.

Così, attraverso le sue composizioni, l’artista pugliese traduce l’inconscio di un capitalismo ormai all’ultimo stadio, rende consci i meccanismi inconsci e ineffabili del nostro essere, dando vita a un composto contraddittorio,3 permanente mescolanza di relazioni simmetriche e asimmetriche,

in grado di mettere in crisi il modello di un mondo interamente dischiuso dalla razionalità e regolamentato sin nei minimi dettagli. Lo mette in crisi servendosi di uno stile popolare, contaminato dai diversi linguaggi di cui si serve, adattissimo per descrivere quella condizione agghiacciante, stralunata e post-umana che tanto somiglia alle nostre esistenze alienate.

1 Dal 1998, anno in cui consegue la laurea all’Accademia di Belle Arti di Foggia, Keziat ha presentato i suoi lavori, i suoi fumetti, le illustrazioni, le installazioni e le sue performance dal vivo in tutto il mondo: indico in ordine sparso le mostre e le presentazioni tenute a Venezia, Roma, Parigi, New York, Hong Kong, Amsterdam, Porto, San Francisco, Chicago, Los Angeles, Washington, Firenze, Milano, Toronto, Lubiana, Lussemburgo, Singapore e Kuala Lumpur. Molte altre informazioni sull’eclettica artista pugliese e sulla risonanza internazionale della sua opera sono reperibili al seguente URL: www.keziat.net.
2 Sull’argomento si veda almeno I. Matte Blanco, L’inconscio come insiemi infiniti. Saggio sulla bi-logica [1975], trad. di P. Bria, Torino, Einaudi, 1981.
3 Contraddizione che è percepibile perfino nei titoli di alcune opere, come Connessi e disconnessiUpside downIrrealtà quotidianaLa casa che cammina sulle altra caseIl pensiero solidoIl pensiero liquido e tanti altri.

 

LA CASA DEL SOLE di Giusto Puri Purini – Numero 6 – Ottobre 2016

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Il filosofo e pensatore tibetano Chogyam Trungpa, che vive ed insegna negli Stati Uniti, sostiene, secondo la tradizione Buddhista, che il Sole rappresenta il principio femminile e la Luna quello maschile. L’uno risiede “fertile” nella mente, l’altro nel cuore.
Il Sole nella vostra mente sollecita l’intelligenza naturale necessaria, per organizzare il vostro mondo, e strutturarla su solide basi.

Inizierete a capire come la vostra intelligenza s’irraggia nello spazio, ed il motivo per cui la brillantezza dell’arte del guerriero si stia sviluppando in voi.
Applicate all’Architettura questi concetti spaziali e naturali e sarà la casa stessa, come un Tempio, a suggerirvi inserimenti e trasformazioni, legate anche ai principi dell’odierno vivere.

Questa interazione tra esseri e spazio, fatto da soffitti, porte, finestre…che si animano, rappresenta l’essenza dell’esistenza naturale, che noi chiamiamo “principio del Mandala”.
“L’onestà e l’integrità dello Spazio che ci circonda si manifesta direttamente. Se alcuni, verso di voi diffidenti, arrivano in uno spazio da voi creato e vedranno attualizzata la vostra visione, potranno distendersi ed accettarvi.

Quando il Sole della saggezza è trapiantato nella vostra mente si crea automaticamente il risveglio, l’autenticità, insieme ad un sentimento naturale dell’esistenza, il tutto avviene nello stesso tempo.
Apparirà, quindi, un mondo molto gioioso e straordinariamente gradevole.”
(Tratto dal capitolo 4 “Le Soleil dans la tête” del libro di Chogyam Trungpa “Le sourir du courage”).

Nella bella premessa del filosofo si colloca la nostra ricerca di una masseria contadina da ristrutturare nel Salento, con calma e pazienza, finchè essa è arrivata a noi, e, prima che leggessimo di questo bellissimo intervento, l’abbiamo chiamata la “La Casa del Sole”.
La ristrutturazione della masseria è frutto, quindi, di un intervento a due mani, uno conoscitore dei luoghi e delle antiche culture del costruire, l’arch.Luigi Nicolardi, e l’altro, il committente, io, che confluisce lì, alla ricerca di una sostenibilità del futuro non solo “parlata”.
L’arch. Nicolardi la descrive così:
“…La casa sorge all’interno di un lotto dalla forma di un poligono irregolare, ai piedi dell’ultima propaggine delle Serre Salentine che delimitano l’orizzonte a Ovest, al di sopra di un ampio banco roccioso di origine tufacea. La casa rappresenta, in maniera egregia, un interessante esempio “di architettura sostenibile a Km 0”.

Tutti i materiali di costruzione sono ricavati in loco, dai conci di tufo cavati a mano all’interno del lotto, all’argilla rossa (bolo) usata per impastare la calce per la malta, alla pavimentazione in battuto di coccio pesto ottenuto impastando il tufo locale, con l’argilla rossa, la calce e la tegola macinata.

Tutt’attorno sono visibili i segni dello scavo di sbancamento effettuato per ricavare i tufi necessari alla sua costruzione. Enormi blocchi di pietra, come dei possenti guerrieri messapi, sono posti in piedi, uno accanto all’altro, a delimitare il confine. Mura ciclopiche delimitano gli ambienti della casa, tutta raccolta attorno al grande forno in pietra – vero e proprio elemento generatore dello spazio.

In questo progetto non siamo stati noi a definire gli elementi della ristrutturazione, ma è stato lo spazio della casa a dettare le regole da seguire nella sua rifunzionalizzazione.

LA CASA DEL SOLE

 

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ANTONELLO DA MESSINA VERSUS HIERONYMUS BOSCH di Enrico Malizia – Numero 6 – Ottobre 2016

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ANTONELLo da messina versus hieronymus bosch 

 

soprannome di Antonio di Giovanni de Antonio, nato a Messina nel 1430 e ivi morto nel 1479, è il più grande pittore del Mezzogiorno d’Italia non solo del 1400 ma, secondo me, di tutti i tempi.

La sua arte riesce a fondere ed equilibrare la luce, l’atmosfera e la meticolosità dei dettagli, propri della pittura fiamminga, alla costruzione prospettica degli spazi, desunta essenzialmente da Piero della Francesca e Guido d’Arezzo, nonché alla maestosità delle figure e dello scenario, assimilato da Giovanni Bellini.
La sua profonda conoscenza dell’arte fiamminga risale al 1450, quando lavorava da apprendista a Napoli nella bottega del pittore Colantonio, ove ebbe modo di conoscere molti maestri fiamminghi (oltre agli spagnoli e ai provenzali), che lavoravano in quella metropoli, specie nella corte angioina prima e aragonese poi; inoltre, nei palazzi reali e della nobiltà ha potuto ammirare capolavori di quelle scuole. Dallo studio attento di quei Maestri, particolarmente di Petrus Christus, Hans Memling, Jan van Eyck e Jean Fouquet, apprese a dipingere su tavola, ad usare (uno dei primi in Italia) la tecnica a olio e la loro costruzione della ritrattistica.
La tecnica a olio, consentendo di stendere trasparenze di colore in successione, ottiene effetti di luce, luminosità, morbidezza e precisione che non si possono realizzare con la pittura a tempera.
La scuola fiamminga non orienta i ritratti di profilo (come la nostra pittura), ma di tre quarti, il che consente di effettuare una profonda analisi fisica e psicologica dell’effigiato. Rispetto ai Maestri fiamminghi che lo avevano preceduto e di quelli a lui contemporanei,

 

 

Professore, il suo è un nome internazionalmente noto nel campo della medicina, come mai ha scritto un poderoso libro su un pittore, per di più fiammingo?

Fin dai primi anni di scuola ho avuto una grande passione per le discipline umanistiche, che ho coltivato leggendo, viaggiando molto e trascrivendo le osservazioni, le meditazioni e i pensieri su carta, con il risultato che ho pubblicato trentaquattro volumi oltre a un gran numero di articoli. 
Bosch, come spiego dettagliatamente nell’introduzione, mi ha abbagliato dal 1966. Ho visto tutti i suoi dipinti e molti disegni, e ho ricercato sul posto tutti i documenti reperibili, approfittando di essere stato consulente della Comunità Europea per circa due anni e di essere stato insignito della laurea honoris causa per i risultati delle ricerche scientifiche mediche.

Professore si sente totalmente italiano o parzialmente contaminato da altre nazionalità?

Mi sento profondamente italiano, lucano da parte di padre e romano di madre. Non posso però dimenticare di essere cittadino europeo e di tutto il mondo. La bellezza, la cultura e la verità sono universali. Il Presidente Ciampi mi ha insignito della medaglia d’oro cui tengo di più tra le tre ricevute: “Benemerito della Scienza, della Cultura e dell’Educazione”. La mia nascita mi colloca prevalentemente nel meridione della Penisola, al quale ho sempre riconosciuto grandi qualità che un regno sempre arretrato rispetto al resto dell’Italia non ha consentito di far sbocciare come merita e come dimostrano le eccellenze fiorite nel Sud, come Antonello da Messina, oggetto del mio ultimo saggio. Dopo l’Unità di Italia, specie con l’istaurazione della Repubblica, si sono fatti grandi passi avanti rispetto alla storia precedente. Sono certo che in futuro si riusciranno a integrare le due parti dello Stivale, anche se il processo sarà lungo e complesso, soprattutto perché non favorito dalla legislazione delle regioni e delle province.

 

Professore, ci parli adesso del suo volume e perché ha scelto Antonello da Messina come eccellenza da confrontare con Bosch.

Si tratta di un volume alla II edizione dopo 7 mesi dalla prima, di 532 pagine, di cui 138 illustrazioni a tutta pagina, 99 di esse a colori: un’introduzione, ventidue capitoli, un commento descrittivo, note al testo e catalogo delle opere. Bibliografia, una nuova prefazione del Prof. Strinati e una nuova presentazione del Prof. Massari. Ho esposto tutte le notizie storicamente documentate e le ho fuse con quelle da me intuite sulla base dei dipinti, della storiografia della sua città natale Hertogenbosch delle Fiandre e di tutta Europa dal 1450 al 1516. Ho scritto in prima persona, come se fossi il pittore, e al presente storico. Ho espresso tutta la narrazione sotto forma di vivaci dialoghi che rispecchiano il pensiero dei suoi tempi di transizione tra Medioevo e Rinascimento, affidandomi a vari personaggi, in primis a Erasmo da Rotterdam, che aveva studiato nella sua stessa scuola e di cui, come desunto dalle rispettive opere, condivideva molti argomenti, quali la follia, il libero arbitrio, la critica alla decadenza morale, specie del clero, e il rigetto del riformismo delle sette. Ho acquisito notizie complete sull’albero genealogico che mi hanno consentito di farlo dialogare con tutti i suoi familiari. Ho ritenuto che nella genesi delle incredibili visioni giocasse oltre a una fantasia eccezionale l’uso delle droghe vegetali dette delle streghe, di cui ho riportato ricette e meccanismo di azione. Infine ho descritto nel capitolo X un compendio di alchimia, nel capitolo XII di magia e stregoneria, desunto dai resoconti di processi inquisitori per queste pratiche; di simbolismo poi ho parlato in tutto il volume, come dei proverbi fiamminghi.
Per quanto riguarda la scelta di Antonello da Messina per un confronto con Bosch, questa non è stata motivata dai contenuti visionari che nelle opere del pittore siciliano non compaiono, ma dall’aria di mistero e dalla costruzione delle figure e dallo stile, che in Antonello non si limita all’arte fiamminga, ma la fonde con rara abilità alla prospettica spaziale della scuola italiana, come del resto ho spiegato nel saggio.

 

Grazie professore

 

Antonello dedica minore attenzione al dettaglio, privilegiando la caratterizzazione psicologica e umana, come avverrà nelle opere di Bosch, esprimendo all’esterno – specie nel volto – quello che avviene nell’intimo.

Lo schema compositivo fiammingo del ritratto, in cui Antonello rifulge, è caratterizzato come segue. L’effige è immersa sempre in uno sfondo scuro per farla risaltare maggiormente. II busto viene tagliato sotto le spalle, la testa girata verso destra, gli occhi guardano direttamente lo spettatore, cercando di ottenere un contatto psichico con lui, la luce illumina il lato destro del volto, lasciando il sinistro in un’ombra misterica, proprio come quella che avvolge le figure boschiane. Di Antonello si ammirano svariati splendidi ritratti, eseguiti con quest’archetipo; da notare che dopo “L’uomo di Cefalù” (1460) il Maestro aggiunge, come i fiamminghi, una balaustra in basso, su cui appoggia un cartiglio che riporta firma e data, tipico elemento fiammingo.

Nel 1460 Antonello da Messina dipinge la Crocefissione detta di Sebiu (si trova nel Museo d’Arte di Bucarest), molto interessante sia perché consente di confrontare la tecnica italica con quella fiamminga, non ancora fuse tra loro, sia per comparazione con opere analoghe di Bosch.

Il dipinto, come individua il Longhi, va diviso in due parti: l’inferiore, di netta concezione fiamminga, è priva di profondità spaziale, ma splende di colore, di espressività delle figure e di meticolosità nei dettagli (v. Crocefissioni e immagini del Golgota in H. Bosch di E. Malizia (1) tav. 4A, 5B, 19, 40, 61). La parte superiore, di chiara concezione italica, mostra una perfetta costruzione dello spazio e dei volumi, ponendo le croci alle quali sono infissi i due ladroni, in posizione ortogonale rispetto a quella del Cristo. La discrepanza stilistica tra le due parti fa ritenere, come pensa il Longhi, che la parte superiore sia stata aggiunta alla inferiore successivamente, mediante un accostamento ligneo delle due tavole, senza una riequilibrazione architettonica e concettuale. Una diversità di stili che non si osserva sia nelle successive Crocefissioni di Anversa e di Londra sia nella coeva, la cosiddetta Madonna Salting, in cui l’iconografia e lo stile fiammingo sono equilibrati da una perfetta costruzione prospettica e volumetrica.
Tra il 1465 e il 1470 circa realizza il Ritratto d’uomo di Cefalù.

 

Negli anni successivi Antonello risale l’Italia, toccando Roma, la Toscana e le Marche, venendo sicuramente a contatto con le opere di Piero della Francesca, dalle quali mutuò la salda monumentalità e la capacità di organizzare lo spazio secondo le regole geometriche della prospettiva lineare.

A seguito di questo incontro, Antonello perfeziona e amplifica la spazialità prospettica, come si desume dall’Annunciazione del 1474 conservata nel Museo Bellomo di Siracusa. In questa tavola lo spazio è unificato dalla prospettiva (con la presenza del punto principale alla sinistra dell’angelo) e dalla costruzione modulare dell’inquadratura, basata sull’interasse delle colonne e sul sottile digradare della luce verso il fondo della prima stanza.
Sempre nel 1474, il Maestro si reca a Venezia, dove entra in contatto con la pittura di Giovanni Bellini. Nel Salvator mundi, la sua prima opera firmata, e datata 1475, l’iconografia è ripresa dai fiamminghi, ma la piega dello scollo bassa e la mano benedicente in avanti accrescono la spazialità della composizione, accorgimento usato anche da Bosch (v. in E. Malizia (1) tav.9A e 48, particolari Cristo Giudice).
Del 1475 va ricordato in primis il San Girolamo nello studio, ora alla National Gallery di Londra. La scena, inquadrata in un arco di trionfo, è architettata in modo da far coincidere

 

i raggi luminosi con quelli prospettici; il loro centro è rappresentato dal busto e dalle mani del santo al lavoro nel suo studio, ingombro di libri e di oggetti, meticolosamente rappresentati. Oltre ai libri e ai simboli (come il pavone in primo piano) va anche rilevata la costruzione dello spazio, illuminato da diverse fonti di luce secondo l’esempio fiammingo.

Nella penombra si scorge il leone che si avvicina al portico. Di particolare significato è il pavimento, che richiama quello della Madonna del cancelliere Nicolas Rolin di Jan van Eyck. Contrariamente non vi è alcuna affinità con il S. Girolamo di Bosch (v. (1) E. Malizia, parte centrale del Trittico Pala degli Eremiti, tav.54), che invece si avvicina alla tavoletta S. Girolamo penitente (1461), conservato nel Museo di Reggio Calabria.
Sempre del 1475 è l’Ecce Homo del Collegio Alberoni di Piacenza firmato e datato, un volto che ricorda, come profondità e dolcezza di espressione, quelli dipinti da Bosch (v. (1) E. Malizia, tav. 4B, 21, 34).
Dello stesso anno vanno annoverate: La Crocifissione e il Ritratto d’uomo della National Gallery di Londra, la Pietà del Museo Correr, il Ritratto d’uomo, detto il Condottiero del Louvre e il Ritratto d’uomo della Galleria Borghese.
Tra il 1475 e il 1476 esegue la Pala di San Cassiano (mutilata, ma per fortuna rimangono intatti conservati a Vienna la Vergine sul trono rialzato e quattro santi a mezzo busto), dipinto ispirato dalla Sacra Conversazione di Giovanni Bellini per la chiesa dei Santi Giovanni e Paolo andata perduta. Nell’opera di Antonello risalta però non solo un impianto più distanziato e solenne, che dà maggior respiro e soprattutto crea dalla luce gli effetti atmosferici che illuminano il dipinto, rendendo più vive le figure. 
Del 1478, o del ’75-76, è il San Sebastiano di Dresda, parte centrale di un trittico smembrato: la figura monumentale del santo, accentuata dal punto di vista ribassato, ruotata leggermente a destra, costituisce l’asse del dipinto. L’influenza di Piero della Francesca è evidente nella disposizione vitruviana degli elementi e nel pavimento messo di scorcio in prospettiva che conduce lo sguardo verso il piazzale in fondo (v. il S. Cristoforo di Bosch, tav. 6 A e S. Giovanni a Patmos di Bosch, tav. 9 B su E. Malizia). 
Antonello da Messina dopo il suo ritorno in Sicilia nel 1476 realizza L’Annunciata di Palermo: Maria, distratta dalla lettura, è colta nell’attimo in cui interloquisce con l’Angelo che le sta dinnanzi. La sua mano destra sembra volerlo fermare; dalla sagoma geometrica del manto emerge il perfetto ovale del volto; la piega del manto sulla fronte giù fino all’angolo del leggio forma un asse – forse casuale – della composizione; il lieve girare della figura e il gesto della mano rendono naturale tutto lo scenario.

 

Per la sua bellezza senza tempo, il colore del manto e lo sguardo, questo dipinto può essere ritenuto un’opera misteriosa ed enigmatica, come quelle di Hieronymus Bosch, e di buon diritto rappresenta uno dei traguardi fondamentali della pittura rinascimentale italiana. La bellezza formale, lo sguardo magnetico e la mano sospesa in una dimensione astratta ne fanno un capolavoro assoluto.

Dello stesso anno è il ritratto d’uomo, detto Ritratto Trivulzio, del Museo Civico d’Arte Antica di Torino, in cui l’incarnato si accorda perfettamente al colore rosso della veste. Un dipinto che piacque talmente anche a Galeazzo Maria Sforza da indurlo ad invitare Antonello più volte a Milano senza risultato.
Tra il 1476 e il 1478 dipinge la Pietà del Museo del Prado; il paesaggio intorno è caratterizzato da teschi e tronchi secchi a significare la morte, mentre in secondo piano la città e il verde della natura simboleggiano la Resurrezione. Il corpo di Cristo morto, sorretto da un angelo, è ripreso da temi di origine nordica; è dipinto realisticamente, sia nel costato sanguinante che nel volto sofferente, probabilmente ripreso dalla tavoletta del Cristo alla colonna (1476 circa) del Louvre, in contrasto con la bellezza idealizzata di quello angelico.

 

Nel 1479 muore a Messina, ove viene sepolto nella Chiesa di Santa Maria Superiore. Le sue opere, sparse tra i più importanti Musei e collezioni di tutto il mondo, lo faranno rivivere in eterno.

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LUCE DA LEVANTE di Francesco Festuccia – Numero 6 – Ottobre 2016

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LUCE DA LEVANTE

 

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Spesso non si riesce a far andar via dalla testa quella “cartolina” in bianco e nero che scorreva inesorabile sui nostri schermi della Tv.

 I trulli, che, per me bambino, avevano quell’aspetto fiabesco e irreale, con il sottofondo della litania dell’”intervallo”, arcaico metodo per far quadrare i buchi di palinsesto di una televisione alle prime armi.

Eppure, i trulli di Alberobello (ora vero tesoro dell’umanità) da soli, per tanti anni, hanno dato al resto dell’Italia l’immagine della Puglia, quasi non ci fosse il mare, le spiagge infinite, le città vissute. Immagine distorta che sorprendeva quando a scuola sui libri di geografia scoprivamo il resto. E poi, dopo tanti anni, uno schiaffo all’immagine: la nave carica di immigrati albanesi vista e rivista in Tv e narrata meravigliosamente da Gianni Amelio nel 1994 in Lamerica. Ed ecco che l’immagine della Regione cambia radicalmente, ma sempre in maniera disassata rispetto alla verità, così come ci aveva fatto pensare, in una specie di Gomorra ante litteramLaCapaGira, geniale film del 1999 di Alessandro Piva sulla piccola vita della piccola criminalità. E subito dopo il più complesso Sangue Vivo, di un pugliese dal sangue inglese, Edoardo Winspeare.

Così, per anni, la “visione” della Puglia è andata per conto suo, tirata da una parte all’altra. Poi, i registi di cinema e tv hanno scoperto la “vera” Puglia con le sua straordinarie bellezze, la sua lingua, i suoi pregiudizi, i suoi slanci e i suoi sapori.

Sì, perché, grazie al grande e al piccolo schermo, quello che ci arriva dall’immagine-Puglia è cambiato. Tanti i film e fiction che hanno come sfondo gli scorci pugliesi. Ne abbiamo contati a centinaia negli ultimi anni, tanto da far diventare questa terra l’emblema del Sud, titolo che prima apparteneva forse solo alla Sicilia e alla Campania. E c’è di tutto in questo sterminato elenco. Si può correre sul filo del film d’autore con Ferzan Özpetek, che ha portato i suoi set in Puglia: da Allacciate le cinture a Mine Vaganti, che ci mostra un Riccardo Scamarcio nelle limpide acque del Salento (e, questa sì, è una delle immagini che restano più impresse). O far saltare i botteghini con il più popolare autore pugliese, quel Checco Zalone che ha messo a confronto la “pugliesità” più divertente con il Nord dai riti spesso “incomprensibili” (a proposito, è sempre curioso ricordare che il nome d’arte di Luca Medici non è altro che la storpiatura dell’epiteto pugliese “che cozzalone!”, sinonimo di “che tamarro!”). O ancora, tornare al mitico Lino Banfi, che poca Puglia forse ci ha fatto vedere nei suoi film, ma ne ha fatto diventare decisamente universale l’immagine attraverso il dialetto. Un mito del cinema, così mitico che persino Quentin Tarantino davanti a noi, in un festival di Venezia, si mise in ginocchio chiamandolo maestro. Tanto che, assieme al foggiano Renzo Arbore e a Michele Placido (nato in un paesino tra Puglia e Basilicata), è il simbolo della “puglitudine” in Focaccia Blues, film del 2009 di Nino Cirasola, in cui si racconta la storia vera della più nota catena di fast food costretta a chiudere uno dei suoi punti ad Altamura per la concorrenza dell’imbattibile focaccia locale.Scorriamo ancora questo sterminato elenco per trovare tanti filoni, anche sorprendenti. Se pensiamo alla storia e al fantasy non si può non parlare del maestro Pupi Avati, che con I Cavalieri che fecero l’impresa del 2001 trasforma i paesaggi e i monumenti della Puglia, da Barletta a Otranto, dal Gargano a Brindisi, in una sognata Europa medievale. O di Matteo Garrone e del suo Racconto dei Racconti del 2015, che apre una pagina su tutto il Sud ma anche sulla Puglia, come nell’episodio della pulce a Castel del Monte. Oppure Il Viaggio della Sposa, del 1997, di Sergio Rubini, che usa la sua Puglia, emblema dell’Italia del Seicento, per raccontare una contrastata storia d’amore.Ma si può anche ridere. Oltre al citato e popolarissimo Zalone, lo stesso Rubini è protagonista, in Manuale d’Amore 2, film di Giovanni Veronesi del 2007, nell’episodio dell’esilarante (ma non caricaturale) coppia gay salentina assieme ad Antonio Albanese: i due sono costretti a sposarsi in Spagna, ma non rinunciano alla loro amata terra d’origine. Dalla Puglia sono passati anche Aldo, Giovanni e Giacomo nel loro debutto cinematografico del 1997, Tre Uomini e una gamba, in cui percorrono l’Italia per arrivare, tra mille comiche avventure (e qualche ripensamento), a Gallipoli. Un “prodotto” della terra pugliese, popolarissimo per le sue apparizioni nelle tv locali, Uccio De Santis, si è immerso in un viaggio on the road alla ricerca della felicità in Non me lo dire, film del 2012 del suo sodale Vito Cea – partnership rinnovata quest’anno nel più iconico dei simboli pugliesi in Mi rifaccio il trullo.

Film d’autore, comici, storici, fantasy: ora c’è tutto per renderci conto che l’immagine della Puglia è diventata totale, set perfetto con le sue tante angolazioni, di paesaggio, di suggestioni, di storia. Tanto che anche la Apulia Film Commission ha fatto e sta facendo un grande lavoro,

che prosegue con l’ultimo bando da poco presentato in cui sono stanziati tre milioni euro per attirare nuova cinematografia. Un fermento di cui sono esempio i film appena conclusi di Luca Miniero (Non c’è più religione, girato tra Foggia e il Gargano), Marco Ponti (Io che amo sempre solo te) e ancora Edoardo Winspeare con il suo La vita in comune. Poi documentari, fiction (come Questo è il mio paese, successo di Rai 1 con Violante e Michele Placido), cinema d’autore (con i nuovi lavori di Vito Palmieri, Pippo Mezzapesa e Pierluigi Ferrandini) e anche kolossal come Wonder Woman, il film della Warner Bros sull’eroina dei fumetti, in uscita nel 2017.

Sì, forse così ci dimenticheremo, anche se poi è un dolce e misterioso ricordo, di quei trulli in bianco e nero, unico simbolo, in quegli anni da poco trascorsi, di una regione dalle mille bellissime sfaccettature.

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