Arte

CASTEL DEL MONTE di Roberta Lucchini – Numero 5 – Luglio 2016

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La dovizia di informazioni che liberamente circolano sulle autostrade di cavi in rame o fibra o sui corridoi aerei rappresenta, come noto, la grande opportunità di conoscenza mai offerta all’essere umano; il quale, nel percorrere corsie talvolta sconosciute, può imbattersi, per curiosità o semplicemente per caso, in notizie che, seppure singolari, accendono un qualche anelito di riflessione.

A sostegno di tale ipotesi sia l’analisi delle tecniche costruttive, del sistema di raccolta delle acque pluviali, di quello di scolo all’interno delle stanze (che, si ricorda, sono otto al pian terreno e otto al piano superiore, di forma trapezoidale, con grandi caminetti solo in alcuni ambienti), sia la presenza di veri e propri bagni in alcune delle torri ottagonali esterne e di sistemi di adduzione dell’acqua negli stessi, sia, ancor prima di tutto questo, la valutazione della geometria stessa della costruzione, cioè la base ottagonale, presente già in epoca romana nelle strutture termali (si pensi, ad esempio, all’Aula Ottagona nelle Terme di Diocleziano) e successivamente nell’architettura cristiana del Fonte Battesimale.

Vien da pensare qui, come per contrappasso con la possanza di queste mura, alla freschezza dei giovani scalpitanti, ai ragazzi in età scolare che dovrebbero venire a conoscere luoghi come questo per liberarsi da un nozionismo sterile, che non può dare conto della complessità e della ricchezza di molti scenari e personaggi.

CASTEL

DEL

MONTE

 

Ora, il visitatore, trovandosi nell’abbraccio del cortile centrale, mentre osserva i tre portali di accesso al piano terra o le tre porte-finestre del piano superiore incorniciate di breccia corallina, può sentirsi libero di sposare l’una o l’altra opzione, od anche di non prendere posizione.

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Nel farlo, però, deve ammettere che le parole altisonanti utilizzate dalla Principessa Von Hohenstaufen nella sua domanda di restituzione di Castel del Monte, secondo cui quest’ultimo dovrebbe diventare “omfalos della sapienza, scienza, centro della pace e dialogo tra i popoli”, parole capaci, ad una prima lettura, di strappare un sorriso, non risultano totalmente prive di una qualche suggestione, se consideriamo che l’origine di tutto ciò è nella personalità eclettica, poliedrica, illuminata e affascinante del preteso trisavolo Federico II, colui che, fra l’altro, preferì alla guerra guerreggiata la via del dialogo col sultano Al-Malik al–Kamil. E se combiniamo il tutto con le affermazioni di De Biase, secondo il quale “i cittadini possono diventare i maggiori tutori e fruitori del patrimonio culturale”, sorge spontanea un’ulteriore riflessione, che assume caratteri più generali. Vien da pensare qui al testamento che abbiamo il dovere morale di redigere.

Senza dimenticare che il pericolo di isolamento cui i nativi digitali sono esposti, altra faccia della medaglia rispetto alla facilità di reperire notizie a basso costo sul web, potrebbe allontanarli dal desiderio di entrare “fisicamente” in contatto con la realtà, accontentandosi del mondo virtuale. Si dovrebbe approfittare in positivo, come d’altronde si sta già facendo, delle limitazioni che la cronaca recente impone alle istituzioni scolastiche circa le mete delle cosiddette uscite didattiche, orientate oggi, per esigenze di sicurezza, alla scoperta della nostra Penisola: siti pregnanti come questo devono essere stabilmente inseriti all’interno dei circuiti delle gite degli studenti che frequentano gli ultimi anni delle scuole secondarie di primo e secondo grado, e selezionati innanzitutto per familiarizzare con periodi della nostra storia che sono spesso percepiti come ostici e troppo distanti; secondariamente

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Capita così di leggere che, nel 2009, la Principessa Yasmine Aprile, che si dichiara erede unica della casa Hohenstaufen, abbia inviato un telegramma al Comune di Andria ed alla Regione Puglia per ottenere la restituzione di Castel del Monte, la celeberrima costruzione sulla Murgia voluta nel XIII secolo dal suo presunto avo Federico II di Svevia, lo Stupor mundi, adducendo a pretesto l’estremo degrado, l’incuria e l’ignominia in cui il Castello sarebbe piombato. A parte la leggerezza di una simile richiesta, erroneamente indirizzata a destinatari che non godono della proprietà del sito, avendo lo Stato italiano acquistato Castel del Monte nel 1876 dalla famiglia Carafa d’Andria per venticinquemila lire; a parte che lo stesso è entrato nel 1996 nella Lista del Patrimonio Mondiale dell’ Unesco (evento di cui è stato celebrato il Ventennale lo scorso 27 maggio presso la Sala Consiliare del Comune di Andria); a parte l’aver verificato che la principessa è avvezza a rivendicare possedimenti “irrinunciabili e imprescrittibili” appartenuti ai suoi antenati, come ha fatto per la reggia di Carditello e per l’Isola di San Giulio sul lago d’Orta; tuttavia un moto di orgoglio meridionale, in cerca di redenzione per i continui e frustranti luoghi comuni sulla trascuratezza del Sud e la latitanza delle istituzioni pubbliche anche nella gestione del patrimonio culturale, innesca quel desiderio di “accertamento” dello stato dei fatti che solo può dare il reale polso della situazione.

Cosa significa recarsi oggi a Castel del Monte,

vale a dire presso uno dei trenta siti storici più visitati in Italia, il primo della Puglia, in cui nel 2015 si sono registrate circa 250.000 presenze, con un incremento di circa il 20% rispetto all’anno precedente?

Vuol dire, come testimoniano i numeri, doversi ricredere rispetto alla drammatica situazione dipinta dalla nobildonna qualche anno fa.

E’ lampante l’impegno a rendere questo sito sempre più fruibile, attraverso il tentativo di risolvere alcuni dei problemi, come la questione della viabilità e dei parcheggi a ridosso dell’area museale o quella dei servizi legati alle informazioni al turista, con i quali il Mezzogiorno d’Italia sembra destinato a confrontarsi quasi come in un atavico supplizio di Tantalo. 
Inoltre, i recenti lavori di sistemazione della zona verde subito sottostante il Castello dimostrano la volontà di intraprendere un virtuoso percorso di valorizzazione dell’intera area, in modo da aprirsi più e meglio ad un turismo di ampio respiro. Del resto, il nuovo direttore del Museo Archeologico di Castel del Monte, il foggiano Alfredo De Biase, nominato lo scorso gennaio, ha manifestato con chiarezza la propria visione della funzione museale: non più l’arte riservata ad una élite, ma un patrimonio culturale che si offre alla comunità. 
E, certamente, quello custodito fra le mura di Castel del Monte rappresenta un capitale ricco e a tutt’oggi non totalmente disgelato, un serbatoio da cui si può ancora attingere, se si considera la perdurante attenzione degli studiosi su struttura e funzioni dell’edificio, nella speranza di carpirne il significato. Si scopre infatti che, dopo averne esclusa la natura di castrum per le inesistenti caratteristiche difensive; dopo aver scartato la eventuale funzione di residenza, non essendovi traccia di cucine e quant’altro possa riportare alla possibilità di soggiornarvi; dopo aver ridimensionato il legame fra Federico II ed il maniero, avendone sicuramente il primo ordinato l’edificazione (come risulta da un atto scritto risalente al 1240) ma visitato lo stesso pochissime volte (sicuramente in occasione del matrimonio della figlia Violante con Riccardo conte di Caserta nel 1249); dopo aver avanzato ipotesi legate a misteriose finalità esoteriche, data la posizione geografica, i rapporti fra le dimensioni costruttive, l’orientamento rispetto agli astri (ipotesi in parte smentite da più accurati studi sulle reali misure e geometrie del palazzo), o aver immaginato funzioni “formative”, come luogo di incontro e discussione sulle varie discipline umanistiche e scientifiche,

spunta fuori, qualche anno fa, ad opera di due ricercatori dell’Università di Bari, una nuova teoria: il Castello sarebbe un esempio di Spa, un hammam, un luogo dove godere dei benefici dell’acqua, ritemprando lo spirito.

perché trovarsi in un monumento come Castel del Monte, ove simbologie cristiane, ebraiche e musulmane si sono fuse armonicamente significa comprendere che dal passato, quello più insospettabile, quello delle Crociate e della frammentazione di regni e dinastie, arrivano messaggi attualissimi di tolleranza e pacifica convivenza;

in terzo luogo perché favorire la domanda di cultura equivale a stimolarne l’offerta, avviando peraltro meccanismi generatori di impiego per le comunità locali; infine perché, riallacciandosi alle parole di De Biase, solo trasmettendo “sul campo” alle nuove generazioni l’importanza della conoscenza delle nostre radici, il rispetto per il passato, la curiosità di ricercare nuove chiavi di lettura attraverso l’approfondimento scientifico, possiamo auspicare di mettere insieme un asse ereditario che non potrà essere passibile di rivendicazioni perché realmente condiviso e tutelato come patrimonio comune, nella speranza di favorire il superamento di una cultura che percepisce il bene pubblico come terra di nessuno. La trappola dell’indifferenza è il pericolo maggiore. E il Mezzogiorno lo ha compreso, per non dover essere ancora, stancamente, demagogicamente, additato di disinteresse, incuria, disamore…

La volontà di riscatto da una simile etichetta è forte, sulla Murgia come in molte altre aree del nostro Meridione, dove sarebbe logico raccogliere l’eredità federiciana favorendo nel visitatore quel senso di “stupore” che contraddistinse il sovrano. Ma il patrimonio, anche quello culturale, va amministrato: nel farlo, si pensi anche, e prima, ai giovani e al loro futuro, è l’unica ancora di salvezza.

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PERCHÉ UN MUSEO? di Donatello Genovese – Numero 5 – Luglio 2016

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Ad Avigliano (comune della provincia di Potenza, sito nella parte nord-occidentale della Basilicata, a circa 800 m s.l.m.) ogni anno, nel periodo estivo, si tiene la caratteristica manifestazione dei “quadri plastici”, ossia la rappresentazione vivente d’immagini tratte da capolavori dell’arte figurativa.

La tradizione è molto antica, anche se le notizie certe disponibili, tramandate oralmente, consentono di datare le prime rappresentazioni negli anni ’20 del secolo scorso.

Gli attori, inseriti in contesti scenografici fedeli nei più minuti dettagli alle opere artistiche oggetto d’imitazione, restano immobili per qualche minuto, come statue viventi, riproducendo scene sacre, storiche, mitologiche o immaginarie, tratte dai celebri quadri pittorici.

Attualmente i quadri plastici vengono realizzati su palchi fissi, dotati di sipari, che vengono aperti più volte, per circa un minuto, al cospetto di un pubblico assai nutrito, capace di restare anche per ore in attesa del magico momento dell’esibizione.

La realizzazione delle scenografie, dei costumi, delle acconciature, degli sfondi, degli oggetti, delle luci e dei tanti dettagli esecutivi richiede un lungo ed accurato lavoro artistico preparatorio, finalizzato a rendere la scena finale perfettamente aderente al capolavoro artistico da cui è tratta.

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PERCHÉ UN MUSEO?

 

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In origine tali rappresentazioni venivano eseguite, in occasione delle festività religiose estive più importanti, su carri a traino animale, che sfilavano lungo il corso principale del paese nel corso delle processioni popolari. Su tali carri i figuranti, ad ogni sosta, assumevano le caratteristiche pose fisse delle immagini artistiche che intendevano rappresentare. Le scene, corporee e tridimensionali, davano luogo ai caratteristici quadri viventi, detti anche quadri plastici.

Per un lungo periodo la manifestazione si è svolta nel corso dei festeggiamenti della Madonna del Carmine, protettrice del paese, che si tengono ogni anno il 16 luglio. Da qualche anno, però, sotto la crescente partecipazione del pubblico, si è preferito rendere autonoma la kermesse, spostandola nel mese di agosto.
In genere, le rappresentazioni dei quadri plastici sono realizzate da due/tre gruppi di giovani artisti, prescelti dall’Associazione Pro Loco, appartenenti ad associazioni dei vari quartieri del paese, che fanno a gara nella più fedele riproduzione delle opere d’arte da essi prescelte.
Il palco, allestito nella piazza più capiente del paese, è diviso in vari box, ciascuno separato fisicamente dagli altri e dotato di un sipario, all’interno dei quali gli scenografi, i falegnami, i pittori, i truccatori, i parrucchieri, i sarti, i costumisti, i tecnici delle luci e della fotografia, ecc., nascosti alla vista del pubblico, sotto la guida di direttori artistici altamente qualificati, allestiscono le scene e preparano gli attori per l’esibizione.

La visione dei quadri plastici, resa possibile della contemporanea apertura dei sipari, più volte, per la durata di circa un minuto, avviene al buio e con suggestivi sottofondi musicali, in modo che le luci sceniche, sapientemente calibrate, restituiscano allo spettatore l’emozione di trovarsi al cospetto di meravigliosi ed imponenti quadri tridimensionali, carichi di pathos e di sublime bellezza.
Al termine della manifestazione, una giuria altamente qualificata ed imparziale proclama il gruppo vincitore, al quale viene assegnato un premio. La manifestazione ha assunto rilievo nazionale nell’aprile del 2016, quando, nel corso di un talent show mandato in onda da un importante network televisivo, un nutrito gruppo di giovani aviglianesi ha riprodotto le maestose opere del Caravaggio.

 

LUCANIA, OMBELICO DELLA POESIA, DELL’INFERNO, DELLA VITA di Alessandro Gaudio – Numero 5 – Luglio 2016

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da molti considerata la raccolta più importante dell’autore nato a Montemurro − in provincia di Potenza, in fondo alla Val d’Agri, tra Viggiano e Corleto Perticara, nei pressi dell’invaso del Pertusillo − nel 1908. Si tratta di versi ormai molto noti, e non soltanto tra i cultori di Sinisgalli, ma li ripropongo comunque per i lettori di «Myrrha».

Il più delle volte, si è preferito sottolineare il riferimento dei versi di Sinisgalli al tempo dell’infanzia e dell’adolescenza, a uno spazio povero, spoglio ed elementare, quasi folcloristico, tralasciando di notare che

La poesia, allora, è una reazione incontrollata, ma non indefinita, a quel cumulo di detriti, a quel mucchio di pietre, a quella strada senza uscita;5 essa non fa operazioni, né composizioni, ma reagisce ad esso, costruendo con niente un po’ di geometria

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1 Ne trascrivo il testo da una bella antologia, curata da Giuseppe Pontiggia: L. Sinisgalli, Lucania, in Id., L’ellisse. Poesie 1932-1972, Milano, Mondadori, 1974, pp. 55-56.
2 Cfr. G. Pontiggia, Le Muse di Sinisgalli, in L. Sinisgalli, L’ellisse cit., pp. 11-19.
3 L. Sinisgalli, Postilla, in Id., L’età della luna. 1956-1962, Milano, Mondadori, 1962, p. 137.
4 Dell’ENI, Sinisgalli, su invito di Enrico Mattei, assumerà nel 1959 la direzione dei servizi di pubblicità. Tra l’altro, il famoso cane a sei zampe, simbolo dell’Ente, fu ideato proprio dal poeta lucano. Sin dal 1937 anche altre notissime aziende del panorama nazionale si erano avvalse delle competenze di Sinisgalli: tra le altre, Olivetti e Pirelli. La foto che ritrae Sinisgalli a Milano Bicocca, tra i copertoni, è del 1951.
5 E senza uscita è la strada di una delle foto che Raffaele Luongo, in collaborazione con la Fondazione Leonardo Sinisgalli, ha dedicato alla Lucania di Sinisgalli, reinterpretando, in una mostra del 2015, la poesia qui discussa.
6 La strada interpoderale, dritta e semplice, che collega Tricarico alla piana delle Matine fu voluta già alla fine degli anni Quaranta da Scotellaro: la foto riproduce il suo aspetto odierno. In questa sezione si fa riferimento al dettato lessicale de La ricerca (ora in L. Sinisgalli, Infinitesimi, a cura di G. Tedeschi, prefazione di G. Pontiggia, Roma, Edizioni della cometa, 2001, p. 54).

 

LUCANIA, OMBELICO DELLA POESIA, DELL’INFERNO, DELLA VITA

è proprio sopra i cumuli di detriti, intatti per secoli ma sdrucciolevoli e malfermi, che nasce la poesia di Lucania. Nasce in questo spazio privo di fondamenta, con innocenza, senza che nessuna certezza le faccia da struttura.

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Al pellegrino che s’affaccia ai suoi valichi,
a chi scende per la stretta degli Alburni
o fa il cammino delle pecore lungo le coste della Serra,
al nibbio che rompe il filo dell’orizzonte
con un rettile negli artigli, all’emigrante, al soldato,
a chi torna dai santuari o dall’esilio, a chi dorme
negli ovili, al pastore, al mezzadro, al mercante,
la Lucania apre le sue lande,
le sue valli dove i fiumi scorrono lenti
come fiumi di polvere.

Lo spirito del silenzio sta nei luoghi
della mia dolorosa provincia. Da Elea a Metaponto,
sofistico e d’oro, problematico e sottile,
divora l’olio nelle chiese, mette il cappuccio
nelle case, fa il monaco nelle grotte, cresce
con l’erba alle soglie dei vecchi paesi franati.

Il sole sbieco sui lauri, il sole buono
con le grandi corna, l’odoroso palato,
il sole avido di bambini, eccolo per le piazze!
Ha il passo pigro del bue, e sull’erba,
sulle selci lascia le grandi chiazze
zeppe di larve.

Terra di mamme grasse, di padri scuri
e lustri come scheletri, piena di galli
e di cani, di boschi e di calcare, terra
magra dove il grano cresce a stento
(carosella, granoturco, granofino)
e il vino non è squillante (menta
dell’Agri, basilico del Basento!)
e l’uliva ha il gusto dell’oblio,
il sapore del pianto.

In un’aria vulcanica, fortemente accessibile,
gli alberi respirano con un palpito inconsueto;
le querce ingrossano i ceppi con la sostanza del cielo.
Cumuli di macerie restano intatti per secoli:
nessuno rivolta una pietra per non inorridire.
Sotto ogni pietra, dico, ha l’inferno il suo ombelico.
Solo un ragazzo può sporgersi agli orli
dell’abisso per cogliere il nettare
tra i cespi brulicanti di zanzare
e di tarantole.

Io tornerò vivo sotto le tue piogge rosse
tornerò senza colpe a battere il tamburo,
a legare il mulo alla porta,
a raccogliere lumache negli orti.
Vedrò fumare le stoppie, le sterpaie,
le fosse, udrò il merlo cantare
sotto i letti, udrò la gatta
cantare sui sepolcri?1

Quel cumulo di detriti, a ogni buon conto, è il punto verso cui tutta la poesia converge; è anzi, il polo, diceva Giuseppe Pontiggia, del medesimo esistere.2 Sinisgalli, dal canto suo, sosterrà che è situata lì la forma «introvabile»,3 il cuore della poesia (poesia che non è voluttà espressiva, perla nel pattume; è, piuttosto, quello stesso pattume): allineata, cresciuta su frammenti, ossa, escrementi, senza un disegno preventivo, un progetto: asimmetricamente, se si vuole, allo stesso modo di un paese, allo stesso modo di Montemurro.
In quel cumulo di non-poesia (oppure, ma non è poi così diverso, di antimonio) c’è lo spreco, la dissipazione, sulla quale la poesia − come lo stesso Sinisgalli ammetterà sempre nell’Età della luna − fulmineamente sorge e prospera; vita che muore cui la poesia attinge. Il poeta, dunque, non esce indenne da quell’ammasso di macerie: è lì, nella Lucania che sta per essere devastata dai vulcanici succhielli e dalle piogge rosse dell’ENI, che il poeta lascia le penne;4 è lì, all’interno dei suoi confini, che i versi di Sinisgalli ripiegano. Nelle sue viscere trova la strada difforme della poesia, abbandonando per sempre quella del formalismo (la forza, quindi, più che la sua forma), perdendo di vista, nello sforzo vano, nel pianto e nell’oblio, il soggetto, la coscienza.

(che poi non è, con ogni evidenza, che la semplice geometria della strada che Scotellaro, segnando a suo modo il percorso obbligato del progetto di cambiamento, aveva fatto costruire a Tricarico), una fedele chimica interiore.6 Il poeta di Montemurro, per non cadere, si siede su quel mucchio di detriti e tossisce e sputa e rifà i calcoli, all’infinito, nelle distanze incommensurabili di spazio e di memoria e nel tempo infinitesimale di un soffio. Non è forse, quel cumulo di scorie, il luogo stesso in cui ciascuno di noi resta sepolto? Non è forse esso il risultato dell’accumulo giornaliero di tutti i frammenti della nostra esistenza? E non è forse proprio quello che, giornalmente, continuiamo a ricercare? Risiede in questa ricerca, fatta della realtà che il poeta distrugge, di piccole aberrazioni millesimali, di nessi, congiunzioni, particole, spezzoni, tacche del linguaggio, nodi, l’esercizio, talvolta fastidioso, della poesia e, di conseguenza, della vita.

 

SANTA CATERINA D’ALESSANDRIA A GALATINA di Sergio Spatola e Gianluca Anglana – Numero 5 – Luglio 2016

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A presentare “lo scrigno che gelosamente custodisce le memorie sacre e profane dell’umile terra” è Padre Adiuto Putignani1, che, già nel 1948, comprese che “chi l’ha vista una volta la vuol rivedere; chi l’ha amata non la dimenticherà più mai”.

È la Basilica di Santa Caterina d’Alessandria di cui oggi Myrrha riscrive2 perché, come ha detto Padre Putignani,

, “questo grande amore per la più bella chiesa del mezzogiorno d’Italia mi ha spinto a parlare di essa, a scrivere le sue glorie, a violare il silenzio geloso dei secoli. Perché mai? Perché altri la possano conoscere bene e meglio, e conoscendola amarla, e amandola custodirla e vegliare perché non si sfrondi la sua gloria, non si deturpi la sua bellezza”.

Quando Maria d’Enghien decise, nei primi decenni del Quattrocento, di (ri)affrescare gli interni della Basilica, certamente non poté ignorare gli esiti della rivoluzione di Giotto di Bondone, quella rivoluzione deflagrante, una sorta di big bang che generò la nascita dell’arte moderna in Occidente e che travalicò ben presto le Alpi. 
Altrettanto sicura è però anche la presenza di maestranze artistiche borgognone e fiamminghe: come alcuni studiosi sostengono, infatti, è plausibile che, al seguito dello spostamento dei popoli che in precedenza dal Nord si erano riversati verso il Sud dell’Italia, vi fossero artigiani ed artisti caratterizzati dal gusto dei Paesi di provenienza.
Si può dire, dunque, che Galatina abbia giocato, sebbene su scala limitata dal punto di vista regionale, un ruolo assai simile a quello assunto dalle scuole pittoriche di Assisi. Non per questo, però, si può escludere una sorprendente osmosi culturale europea in atto, sul finire del ‘300, nel Tacco d’Italia.
Ecco spiegato perché

la Basilica di Santa Caterina d’Alessandria a Galatina costituisca un unicum nel panorama artistico meridionale: è una sintesi di culture (massimamente di quella italiana e francese), un linguaggio totalmente innovativo e sperimentale, un guanto di sfida al passato e uno sguardo su un futuro da scoprire.

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1 In P.Adiuto Putignani, Il Tempio di Santa Caterina in Galatina, Introduzione
2 Tantissimi i contributi scientifici sulla storia, l’architettura ed il ciclo pittorico all’interno della Basilica nonché sul contesto storico-socio-politico in cui fu eretta. 
3 Il nome di una via è venuto in soccorso degli storici tanto quanto i documenti scritti in senso stretto: l’onomastica stradale ha permesso a città troppo protese verso il futuro di non dimenticare il proprio glorioso passato.
4 La parola “Balzo” è l’italianizzazione del nome di un feudo provenzale: Baux.
5 Maria emanò una serie di bandi e capitoli che ancora oggi destano interesse. Era convinta che “in tutte le città bone se vuole vivere con ordine et boni statuti in tutte cause” (cfr. Can. Pietro Serio, Attraverso dieci secoli di storia patria, p. 86).

SANTA CATERINA D’ALESSANDRIA A GALATINA

 

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Più si approfondisce la storia di questo splendido esempio di commistione di stili (romanico e gotico), più se ne è rapiti. Innanzitutto perché, essa stessa,

è la rappresentazione dell’unione di tre terre affacciate nel mediterraneo: la Terra Santa, la nostra Italia e la Francia.
Cosa esattamente accomuni le tre terre lo si scopre approfondendo: un mito, una terra e una donna straordinaria.

Se esistesse una psicologia del profondo applicata alle masse, essa probabilmente spiegherebbe le ragioni dell’appeal che, da qualche anno a questa parte, il Salento esercita nei confronti di un numero sempre crescente di visitatori provenienti dalla Francia e da altre aree di lingua francese del Vecchio Continente. È capitato a qualunque salentino di incrociare, soprattutto in primavera o in estate, gruppi di visitatori d’Oltralpe o di imbattersi sui social network in articoli di encomio della Terra d’Otranto, scritti nella lingua di Stendhal. 
Non sappiamo se, così come gli individui, anche i popoli dispongano di una sorta di io profondo, una qualche memoria a lungo termine che affonda le proprie radici in un’infanzia ormai lontana o scomparsa. Sta di fatto però che, a cavallo tra il XIII e il XIV secolo, le province più meridionali di Puglia furono occupate da genti provenienti dal nascente Regno di Francia o dalla Vallonia: di questa invasione si trovano tuttora numerose tracce, a partire dalla toponomastica salentina3.
Nel Comune di Lecce, ad esempio, non è infrequente accorgersi di una o più vie intestate a personaggi illustri di chiara origine francese: si pensi, ad esempio, a Via Orsini del Balzo4 oppure a Via Maria d’Enghien, strada cittadina dedicata ad una sorta di “Wonder Woman ante litteram”.
Per un soffio Maria mancò l’obiettivo di conquistare la corona del ricchissimo Regno di Napoli, un reame ormai saldamente in mani francesi, ponte di collegamento tra lo Stivale e i territori dell’Anjou o della Borgogna: lei, abile amministratrice5 dotata di un notevole fiuto politico, perse il duello che la vide opporsi a Giovanna d’Angiò per la scalata al potere partenopeo.
Ed è proprio Maria il comune denominatore delle tre terre del Mediterraneo.
Enghien è il nome di una cittadina del Belgio (o, per essere più precisi, di quella Vallonia che potremmo definire le Fiandre di idioma francese). In realtà, Maria poté fregiarsi di origini più luminose di una cittadina vallone: era nipote di Isabella di Brienne nonché figlia di Giovanni d’Enghien, conte di Lecce, e di Sancia (Bianca) del Balzo.

Maria, come di consueto per quei tempi, fu data in moglie a Raimondello Orsini del Balzo – tipo tosto ed estremamente spregiudicato – dietro consiglio di Luigi I d’Angiò.
Raimondello aveva anche fama di essere un tipo alquanto macabro. Ed è qui che la leggenda unisce la Puglia alla Terra Santa:

 pare che, nel corso di un pellegrinaggio alla salma di Santa Caterina d’Alessandria sul Monte Sinai, Raimondello strappò con un morso un dito della reliquia che venne, dunque, portato in Puglia. In omaggio alla tradizione delle Cattedrali gotiche, soprattutto francesi, Raimondello si risolse a dedicare alla Santa quella Basilica che avrebbe dovuto ospitarne la falange e che, a ragione, può essere considerata la Cappella degli Scrovegni del Mezzogiorno italiano.
La Basilica (eretta tra il 1369 e il 1391), austera all’esterno, quasi una fortezza, colpisce, all’interno, per il mirabile ciclo di affreschi: questi ultimi non sono soltanto opere pittoriche di eccezionale fattura, ma una testimonianza rarissima di un inedito intreccio di culture. Sì, perché il Salento era stato, anche dal punto di vista artistico, saldamente in pugno dei Bizantini, cioè di quella élite greca che era presente da secoli in Apulia e che era arroccata su un modo di intendere l’arte ormai in fase di definitivo superamento.
La Puglia meridionale è, soprattutto, ricca di preziosissimi monumenti di radice orientale: si pensi ad esempio, alle chiese di impronta basilica in terra di Brindisi o a taluni edifici di memoria greca sparsi sul territorio della provincia leccese. Questo passato, glorioso e ingombrante, è stato raramente scalfito nella sua granitica esistenza.

Santa Caterina d’Alessandria a Galatina segna, dunque, un improvviso cambio di passo, perché importa in Terra d’Otranto un linguaggio artistico inedito, una summa di stili interpretativi che attingono ispirazione alla cultura francese e fiamminga oltre che alla ormai inarrestabile lezione di Giotto.

 

QUANDO GOETHE INCONTRÒ LA MOZZARELLA di Francesco Festuccia – Numero 5 – Luglio 2016

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questo “cibo” assolutamente unico che sembra caduto sulla terra da un altro mondo e da un altro tempo. Forse è proprio così se pensiamo a quell’animale che è alla base di tutta la vera mozzarella di bufala. Perché è una storia che ha radici lontanissime guardando questa specie di sopravvissuto al mammut, bovino dal profilo ingobbito, ma assai meno fesso della mucca, un po’ spaventevole per quella sua vaga aria preistorica, sfortunato anche nel nome visto che l’appellativo di “bufala” è chissà perché sinonimo di cosa inventata.

QUANDO GOETHE INCONTRÒ LA MOZZARELLA.

 

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Per raccontare la storia della mozzarella si deve andare indietro fino al Settecento. Da qui partono le tracce sicure della presenza del bufalo (e della bufala…) in alcune zone italiane e, quindi, delle mozzarelle

nei primi diari di viaggio di chi – da tutta Europa – veniva per il Grand tour in Italia, addentrandosi con grande coraggio e spirito d’avventura alla ricerca delle rovine della Magna Grecia dalle parti di Battipaglia.

Ai lati di queste, nient’affatto agevoli, strade si rischiava pure di trovare agguerriti briganti, ma, soprattutto, poveri e macilenti bufalari che tenevano sotto controllo le loro bestie cercando di vendere al viaggiatore la “provatura” del formaggio di bufala e sbarcare faticosamente il lunario.

Due singolari circostanze, come suggerito da uno studio di Oreste Mottola – uno dei pochi circostanziati – favoriranno la conoscenza della mozzarella in quel periodo, della passione venatoria di Carlo III di Borbone e di suo figlio Ferdinando IV e poi del “pellegrinaggio culturale” a Paestum.

E qui, l’orografia e le strade del tempo cambiarono il senso della storia di questo particolare tipo di alimento. Fu così che tante persone delle più diverse condizioni di tutta Europa assaggiarono, innamorandosene, questo prodotto mai assaporato prima, dalle caratteristiche peculiari perché il latte proveniva da un animale che non suda e, per questo, il suo sapore è leggermente acidulo con un vago accenno di muschio. Insomma, la chiave di tutto erano le bufale e le zone dove erano diffuse. 
Una parte, dove era alta la presenza di bufala, veniva evitata dai viaggiatori, perché c’era forse qualcosa di inquietante nei territori capuano e mondragronese. La strada proveniente da Roma passava solo da/per Sessa, Cascano, Speranise, Capua: chi voleva spingersi fino a Paestum doveva obbligatoriamente percorrere la piana ebolitana e pestana, con avventure leggermente orrorifiche, come ha descritto Goethe che arrivò lì nel 1787 “attraversando canali e ruscelli e incontrando bufali dall’aspetto di ippopotami e dagli occhi iniettati di sangue…”

Il sapore affascinante della mozzarella di bufala si scontrava con il luogo impervio e l’aspetto stesso dell’animale.

Stavo facendo proprio questa considerazione vedendo un gruppo di bufale allo stato brado, in una tenuta nel basso Lazio, ancor oggi spesso ricoperte di fango e dal caracollare diverso da qualsiasi altro animale. Mi chiedevo quale tipo di impressione o quale tipo di paura devono aver fatto a un viaggiatore, anche se erudito, come Goethe, nel Settecento. 
Il bufalo della mozzarella, bubalus bubalis, è infatti un bovino di origine asiatica abituato, proprio per difendersi dal caldo e dal sole, a rotolarsi nel fango delle zone paludose.
Ma torniamo proprio al prodotto del latte di quell’animale: la mozzarella.

Il termine nella storiografia sembra posizionarsi addirittura prima di questi eruditi del Grand Tour settecentesco, citato, per la prima volta, in un libro di cucina pubblicato nel 1570 da Bartolomeo Scappi,

che, come cuoco della corte papale, era abituato a una cucina che oggi si potrebbe definire da cuoco stellato e dove giungevano specialità da ogni parte dell’Italia e dell’Europa. E allora scrive: “…capo di latte butirro fresco, ricotte fiorite, mozzarelle fresche et neve di latte” e poi parla di “mozzarelle fresche” (incomprensibile oggi perché le mozzarelle sono per forza fresche…). 
Quindi, la parola mozzarella è collegata, nell’origine del termine, alla mozza che altro non è se non la provata, ovvero la provola. Negli annuali contratti per l’appalto del prodotto della Reale industria della Pagliara delle bufale a Carditello si stabiliva che la mozzarella doveva restare nella salsa 24 ore, mentre la provola 48; la successiva affumicazione, cui generalmente era sottoposta, era un espediente per una più lunga conservazione in vista del trasporto che, certo visti i mezzi e le strade del periodo, non erano veloci. I documenti d’archivio ci dicono che la pratica dell’affumicazione era stata in precedenza uno strumento molto utilizzato per cercare di conservare il più a lungo possibile dei prodotti che andavano velocemente a male.

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E nel XVII secolo, nel mercato capuano, arrivano, accanto alle mozzarelle fresche, provole e mozzarelle affumicate.

Se tutte le fonti sono concordi a far risalire al grande cuoco Scappi la primogenitura della parola mozzarella, ci sono tracce incerte o quasi certe anche prima. Tracce di una storia vaga che spesso si autoalimentano in curiosi e incrociati rimandi.
Anche un altro indizio ci deve far pensare che il prodotto mozzarella fosse all’epoca poco conosciuto, perché sembra totalmente assente nell’iconografia, anche in quella così particolare del presepe napoletano, che è spesso una interessante spia degli usi e costumi popolari. Nel presepe, casomai, si vede la provola. Ricordate? C’è spesso il classico contadino a cui pendono due provole dal collo legate da una corda. Certo con la provola, la mozzarella è strettamente collegata: non solo perché fatta con lo stesso latte di bufala (la provola rispetto alla mozzarella rappresenta un’ulteriore fase della lavorazione) ma perché il nome stesso della mozzarella deriva da quello della provola; anzi, da una denominazione di questa caduta in disuso e mettendo in campo anche il fatto che, all’inizio, proprio per la sua poca conservabilità, la mozzarella era fatta con gli avanzi del latte. Quello che non era potuto diventare altro, alla fine diventava mozzarella.

Ed è una storia tutta da scoprire, per uno dei simboli del cibo italiano, così amato e imitato nel mondo, così misconosciuto nelle sue origini.

 

LE RINASCITE DELLA FENICE di Gianluca Anglana – Numero 6 – Ottobre 2016

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«Non c’è nulla di più fragile dell’equilibrio dei bei luoghi».

Nelle Memorie di Adriano, Marguerite Yourcenar lancia un monito al mondo, perché abbia a cuore l’armonia che sovente s’intreccia tra il paesaggio e le opere dell’uomo, un rapporto talvolta indissolubile, come di radici che impugnano saldamente le zolle di terra.
Eppure, altrettanto spesso, l’essere umano dimentica, deturpa, offende la bellezza: l’insipienza è uno sfregio all’arte, la noncuranza sa stendere per secoli il suo velo di nebbia su veri e propri capolavori.
Oblio e violenza. Questa è stata, a lungo, la condanna inflitta ad uno tra i più significativi complessi architettonici di Puglia.
Nell’agro di Squinzano, a pochi chilometri dalla costa adriatica salentina, sorge Santa Maria di Cerrate. Si tratta di un’abbazia di notevole interesse storico-artistico, perfettamente coniugata al fascino delle campagne leccesi. Oggi, Cerrate è avvolta da un manto di vegetazione tipica mediterranea: querce, pini marittimi e cipressi, così come gli ulivi monumentali, sono una legione di guardiani silenziosi, un esercito di guerrieri incaricato di difendere un tesoro.

La leggenda narra che Tancredi d’Altavilla, durante una battuta di caccia, sia rimasto impietrito davanti all’immagine della Vergine, comparsa tra le corna di una cerva: nel luogo del miracolo, il nobile normanno avrebbe fatto elevare un tempio in onore di Maria. Le tradizioni esigono dunque che il nome di Cerrate derivi da Cervate e prima ancora, appunto, da cerva.

Fu allora che la fulgida traiettoria dell’esistenza dell’Abbazia parve avere una definitiva conclusione. 
E invece no. La fenice si ricompose tra le ceneri e i tizzoni in cui il fuoco delle razzie ne avevano disarticolato il corpo.
Nel 1531 tutte le proprietà e le ricchezze, che appartennero ai sacerdoti bizantini, passarono all’Ospedale degli Incurabili di Napoli.

Il buio della memoria cessò solo nella seconda metà del Novecento con l’intervento della Provincia di Lecce ed un primo ciclo di restauri. Oggi Santa Maria è ancora una volta risorta dalle ceneri del disdoro: dal 2012 è affidata alle cure del FAI.

Il modulo lessicale in cui si articola il monumento nel suo complesso potrebbe per certi versi rammentare gli enclos parroissiaux bretoni: attorno al nucleo centrale del luogo di culto vero e proprio si dipana una serie di edifici ancillari. A differenza però dei recinti parrocchiali di Bretagna, i manufatti “laici” di Cerrate (ovvero la Casa del Massaro, il pozzetto cinquecentesco, il frantoio ipogeo o gli alloggi per i mezzadri) non si qualificano come coevi alla Chiesa, ma le si sono sedimentati attorno lungo l’arco dei secoli.
L’Abbazia, romanica, è di eccezionale fattura: l’esterno, con facciata a capanna tripartito, è sobrio ed elegante. Il portale, ad arco, è impreziosito da un’edicola sorretta da colonne, a loro volta sormontate da suini. L’arcata narra il ciclo della Natività di Cristo e ospita vari personaggi (delizioso il gruppo dei tre Magi, vestiti alla maniera di pope ortodosso; così teneramente convincente Santa Elisabetta, nell’atto di poggiare il capo sulla spalla di Maria, in un gesto di sororale intimità).
Il portico offre al visitatore l’occasione di indugiare su elementi figurativi splendidamente eseguiti e commoventi. Tra i capitelli della loggia spuntano cespugli di pietra, racconti fantastici e bestiari dal sapore squisitamente medievale, si affollano sirene, arpie, grifi, draghi e centauri: particolarmente pregevole è la raffigurazione del monaco in lotta con dei ramarri, a loro volta sopraffatti da aquile.
L’interno dell’Abbazia, a tre navate, corre fino all’altare centrale sotto un ciborio duecentesco e contiene un prezioso ciclo di affreschi due e trecenteschi raffiguranti quegli stessi santi guerrieri (San Giorgio e San Demetrio), che guidarono le potenze crociate contro i Turchi e consentirono l’espugnazione di Antiochia: la propaganda normanna aveva forse preteso un dazio, piegando a sé il talento degli artisti di scuola bizantina.

Durante recenti lavori di restauro, sul fianco della navata destra e nella cornice di un altare barocco, è emerso un affresco, eseguito da maestranze resesi permeabili alla lezione giottesca. Si tratta della rappresentazione di uno spazio architettonico in prospettiva. Ciò che colpisce sono l’abiura del registro stilistico bizantino e il chiaro rimando a nuovi linguaggi figurativi. Lì accanto, sulla sinistra, un altro dipinto di matrice occidentale fissa il momento esatto in cui un santo, avvolto in un piviale scuro e assisi su un trono così maestoso da sembrare esso stesso una cappella, indica all’osservatore, nei testi sacri, l’unica via per la salvezza.
Cerrate è un vaso di Pandora al contrario, un gorgo delle ere, in cui sono stati tumultuosamente risucchiati miti, battaglie, leggende, racconti, potere, violenze, vite umane, Oriente, Occidente, il male, il bene.
Cerrate sembra dare voce al lento scorrere del tempo, sembra dare un senso alle stagioni, massimamente all’euforia dell’estate o alle incipienti vanità della primavera. Qui tutto è in equilibrio: il tempo e lo spazio, le opere dell’uomo e quelle della natura, la flora, la fauna. Qui si assapora la storia. Qui si degustano i frutti dell’arte, nel turchese cielo salentino e nel silenzio metafisico, rotto solo dal frinire delle cicale.

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1 Sulla vita di Boemondo cfr. UTET, 1967, p. 222. 2 Pietro Serio, Appunti per una storia di Campi Salentina, 1963, pp 53-54. 3 Gli storici evidenziano che quello di “basiliano” è un vocabolo solo convenzionale, non essendo di fatto mai esistito un ordine monacale con questo nome. 4 Lara Leovino, Bell’Italia n. 360, Ed. Aprile 2016. 5 Teodoro Pellegrino, Santa Maria a Cerrate, Capone Editore (2004), p. 21. 6 Teodoro Pellegrino, Santa Maria a Cerrate, Capone Editore (2004), p. 21. Notevole importanza per gli scambi commerciali della zona ebbe la fiera che, per cinque giorni (dal 20 al 25 Aprile di ogni anno), animava gli atrii dell’Abbazia. Preciso che l’istituzione ufficiale della fiera avvenne per volontà di Giovanni Antonio Del Balzo Orsini, con decreto del 20 Dicembre 1452. 7Teodoro Pellegrino, Santa Maria a Cerrate, Capone Editore (2004), p. 26-27: è appurato che lo scrittorio di Cerrate avesse rapporti con quello celeberrimo di Casole, nei pressi di Otranto.

LE RINASCITE DELLA FENICE

 

La storia obietta che la paternità del sito sia da ascrivere ad un altro membro della casata, ovvero a Boemondo d’Altavilla1, padrone di feudi tra Oria e Otranto2. L’edificazione del complesso abbaziale fu dunque decretata nel XII secolo con l’intento di ospitare una comunità di monaci basiliani3, provenienti dall’Oriente per sfuggire alle persecuzioni iconoclaste4. Questa seconda teoria, giudicata più attendibile anche se meno accattivante della prima, ipotizza che il nome di Cerrate discenda piuttosto dalla nutrita popolazione di cerri (alberi simili alle querce) presenti nella zona.
Boemondo fu figlio di Roberto il Guiscardo, duca di Puglia e di Calabria. Era quindi un normanno, entrato più volte, invero quasi mai pacificamente, in contatto con la superpotenza greca di Bisanzio. Di lui traccia un profilo Anna Comnena, figlia dell’imperatore bizantino,

nella sua Alessiade: «Ora [Boemondo] era uno, per dirla in breve, di cui non s’era visto prima uguale nella terra dei Romani, fosse barbaro o Greco (perché egli, agli occhi dello spettatore, era una meraviglia, e la sua reputazione era terrorizzante). (…) Era così fatto di intelligenza e corporeità che coraggio e passione innalzavano le loro creste nel suo intimo ed entrambi lo rendevano incline alla guerra. Il suo ingegno era multiforme, scaltro e capace di trovare una via di fuga in ogni emergenza».

Anna ci consegna un ritratto assai lusinghiero di Boemondo: uomo bellicoso, di bell’aspetto e dalla fervida intelligenza, egli era un condottiero valoroso e tenace, sapeva ben destreggiarsi nelle arti militari. Si distinse in particolare nell’assedio di Antiochia, che strappò ai Turchi Selgiuchidi nel 1098 e dove fondò un regno destinato a durare, di sovrano in sovrano, ben 190 anni. Egli stesso assunse il titolo di Principe della città siriana e diede vita al ramo antiocheno degli Altavilla. La gloria di questo leggendario clan normanno avvampò con inusitata rapidità, mentre il mito di quella battaglia assunse presto le sembianze della propaganda autocelebrativa. In tutta Europa, deflagrò la leggenda che gli eserciti cristiani, nella loro crociata contro gli infedeli, fossero stati affiancati e sostenuti persino da tre santi militari: San Giorgio, San Demetrio e San Maurizio.
La fama di Boemondo, come abile stratega e principe sagace, brillò, si allargò presto, da Oriente a Occidente, come incendio nella foresta.
Fu probabilmente il suo acume a indurlo a fiutare il prestigio e le potenzialità di arricchimento che sarebbero potute piovere sulle sue terre italiane dalla concessione di un rifugio sicuro ai transfughi.
Costoro abitarono stabilmente a Cerrate, in prossimità della Via Traiana Calabra che collegava Brindisi con Lecce ed Otranto, dalla metà del XII secolo, epoca in cui le fonti testimoniano della vivace attività di una biblioteca e di uno scriptorium. I loro alloggi erano disposti all’interno della casa monacale, che tuttora si erge nella sua massiccia austerità.
La convivenza dei Basiliani era disciplinata da una precisa gerarchia, in cima alla quale era l’Igumeno «che osservava e faceva osservare rigorosamente le regole della comunità e puniva con penitenze, a volte gravi e severe, le infrazioni ad esse»5. Il superiore era assistito nelle sue mansioni da altre figure sacerdotali, quali gli Ieromonaci o ancora l’Ebdomadario, colui cui era demandata, con turni a rotazione settimanale, la celebrazione della liturgia sacra.
Generazioni di calògeri diedero impulso e slancio all’economia6.
Oltre che alla contemplazione e alla preghiera, i monaci si dedicavano anche alla trascrizione di opere della letteratura cristiana, ma soprattutto allo studio dei classici greci7. Ai Basiliani quindi si deve la conservazione e la diffusione, in gran parte della penisola salentina, della più nobile cultura greca. Essi stessi divennero cultura greca, al punto che, quando decisero di darsi ad un nuovo esilio perché prostrati dalle continue scorrerie saracene, la loro Schola greca perse di linfa vitale, appassì e si estinse.

L’Abbazia parve riaccendersi di rinnovato splendore e prosperò lungamente, fino al 1711, quando cadde in declino a causa di una violentissima incursione da parte dei pirati turchi. Cerrate, con le campagne circostanti, venne, di nuovo, abbandonata.
In seguito essa divenne una masseria: i salentini ricordano tuttora che la chiesa fu degradata a pollaio e il suo sagrato ad aia. Alcuni capitelli furono strappati alle loro colonne, il pavimento sfondato, alcuni affreschi irreparabilmente danneggiati. I giorni dell’abbandono divennero mesi, anni, secoli.

Quegli stessi artisti cui dobbiamo un’altra meraviglia, oggi conservata nel piccolo museo attiguo alla chiesa: la Dormitio Virginis. Maria, agonizzante, è vegliata da una schiera di Angeli e di Santi, mentre Cristo si mostra all’interno di una mandorla ed attira a sé l’anima della genitrice in un turbinoso vortice di colori e creature celesti. La Madre ha generato il Figlio nella vita terrena, il Figlio accoglie a sé la Madre nella vita eterna.

Qui ci si lascia ammaliare dalle suggestioni di un Medioevo che ritorna come magma dolce dalle profondità dei secoli; ci si attarda su ogni dettaglio, su ogni singolo animale (reale o immaginario) sapientemente evocato sui capitelli di ciascuna delle colonnine del portico, sul fantasma di scomparse comunità di monaci, sul tramestio dei loro passi sul selciato o sul suono ormai perduto dei loro canti. Qui riecheggia ancora il nome della rosa, che, nel susseguirsi d’iscrizioni in greco, arabo e latino, tra le navate abbaziali, riemerge dal passato.

 

MUSICA DI GUARIGIONE di Ruggiero Inchingolo – Numero 6 – Ottobre 2016

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Nel 1984 frequentavo l’Università di Bologna (DAMS) ed ero allievo di Roberto Leydi (considerato, con Diego Carpitella, il fondatore dell’Etnomusicologia moderna in Italia).

Questi, accortosi della mia passione per il violino della tradizione popolare, in quanto già da tempo studiavo questo strumento, mi esorta a conoscere le musiche eseguite dal violinista Luigi Stifani (1914-2000) per scrivere una tesi di laurea su di lui. Perché Stifani? Perché è stato l’ultimo e più importante musicista terapeuta che più d’ogni altro ci ha permesso di capire i rituali legati al tarantismo salentino (uno dei fenomeni più rilevanti della demo-antropologia italiana).

Di professione barbiere, localmente conosciuto come Maestro Gigi, Stifani ha svolto un’intensa attività musicale non soltanto nell’ambito dei rituali di guarigione dei tarantati (coloro che, secondo la tradizione, si consideravano morsi dal ragno e si liberavano dal suo veleno attraverso il ballo),

Il violinista-barbiere permise all’etnologo di conoscere quel mondo difficilmente raggiungibile da un intellettuale estraneo, diventando il personaggio chiave dell’opera citata “La terra del rimorso”. Le teorie del maestro Stifani sul tarantismo danno un contributo indispensabile all’indagine di De Martino, svelando pertanto il volto di una cultura popolare millenaria. Finalmente, nel 1989, discuto con lo stesso Roberto Leydi, la mia tesi di laurea dal titolo Biografia di un suonatore popolare: Luigi Stifani di Nardò. In questo lavoro ho analizzato i suoi manoscritti e il modo in cui vengono suonati gli strumenti musicali. Inoltre, ho trascritto e analizzato le musiche eseguite durante i rituali terapeutici di tarantismo. In seguito, dalle trascrizioni, ho ricavato le strutture melodiche dei brani. Durante gli anni della ricerca e anche dopo la laurea, attraverso i successivi incontri con il maestro Stifani, ho imparato i moduli ritmico-melodici della pizzica cosiddetta tarantata, oltre al modo di suonarla. 
Dal ‘93 in poi, inizia la mia esperienza sul campo a stretto contatto con importanti esecutori depositari della tradizione. Apprendo le modalità esecutive del tamburello, dell’organetto e della chitarra, gli stessi strumenti che venivano usati per la terapia. Nel 1995 come violinista – guida del gruppo salentino Officina Zoè ho partecipato a prestigiosi Festival nazionali ed esteri: le pizziche di Stifani, dopo essere state da me trascritte, vengono rieseguite oltre i confini regionali e nazionali. Il ritmo iterato e i suoni più acuti del violino vanno dritto al cuore e riescono a sedurre, a trainare i tamburelli fino al parossismo. Nella melodia del mio violino si scorge lo stile esecutivo più rappresentativo di quest’ultimo periodo di riproposta della pizzica salentina, a cui tanti giovani violinisti si sono ispirati.

 

Il libro, dopo un decennio fortunato, è stato ristampato dalla stessa casa editrice, con un ampliamento dell’introduzione scritta da Eugenio Imbriani (docente di Antropologia culturale dell’Università di Lecce) e con una nuova postfazione curata dall’etnomusicologo e storico Salvatore Villani. Nel 2007 le registrazioni delle musiche suonate da Stifani e il suo gruppo vengono raccolte in un CD dal titolo: “Le pizziche tarantate di Luigi Stifani” (Il Giardino dei Suoni). Nel 2009 esce il film documentario “Latrodectus, che morde di nascosto” di J.Bassét e I.Gurrado (Les Films du Lierre). Il film si impernia sui ricordi di casi di tarantismo salentino raccontati da Giovanna, figlia del maestro Stifani e mostra interessanti interpretazioni rilasciate dagli esperti più qualificati di vari ambiti disciplinari che si sono interessati al fenomeno del tarantismo1. Sempre nel 2007, Sergio Torsello, direttore artistico del Festival “La notte della Taranta” mi invita come ospite al concertone finale del Festival (con il maestro concertatore Mauro Pagani) per rappresentare Luigi Stifani con una delle pizziche tarantate più rappresentative del suo repertorio, la pizzica indiavolata. Seguiranno, negli anni successivi, altri concerti realizzati nell’ambito del Festival itinerante della popolare kermesse. Dopo la morte di Luigi Stifani ho continuato a frequentare Giovanna, figlia del maestro e testimone del ricco patrimonio di conoscenze tramandate dal padre. Con lei e con l’aiuto volontario di altri collaboratori, organizziamo un grande evento in suo ricordo, ormai giunto alla XVI edizione, che si svolge in due giorni a S. Maria al Bagno (LE). Si tratta di un Memoriale seguito da un Festival Concorso dedicato al maestro Stifani.

 

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1 Lo storico della scienza Gino Dimitri; il decano dell’analisi istituzionale nonché psicosociologo George Lapassade dell’Università di Parigi VIII; lo scrivente etnomusicologo, autore delle musiche del film (che dal maestro Stifani ha ereditato il modo di suonare) in cui illustro, in breve, la funzione dei due strumenti fondamentali nella cura domiciliare del tarantismo, il violino e il tamburello; l’aracnologo Roberto Pepe.

 

MUSICA DI GUARIGIONE

 

ma anche come musicista per il ballo e l’intrattenimento. Oltre che violinista, è stato anche un abile suonatore di vari altri strumenti. Per il mio lavoro di ricerca, trattandosi di una tesi sperimentale, era indispensabile incontrarlo. Arrivai nella sua bottega a Nardò (Le) nel 1985 e, sin dai primi incontri, rimasi affascinato dai suoi ricordi che illustravano gli episodi più importanti di tarantismo da lui curati dal 1928 al 1972. 
La curiosità verso questo mondo ai confini tra la realtà e il mistero aumentava sempre di più al punto che non vedevo l’ora di fissare l’incontro successivo per conoscere nuovi intriganti racconti.

Uno dei dettagli che più mi colpì, riguardava il concetto del termine pizzico del violino che, citando le sue parole, «iccita la parte dell’ammalato. Sicché se non gli va il suono, l’ammalato dice ‘non mi piace’».

Col passar degli anni avrei fatto le mie valutazioni sull’espressione “pizzico” (cfr. Inchingolo Ruggiero, Il pizzico prodigioso del violino di Stifani, in Melissi, n. 10-11, Nardò, Besa, 2005) che, solo in misura minima, si riferirebbe all’effetto provocato dallo sfregamento dell’arco sulle corde. Il più delle volte, invece, il termine indicava il modo di suonare rapido e molto ritmato.
Il maestro Gigi con la sua orchestrina (tra cui ricordiamo l’abile suonatrice di tamburello, Salvatora Marzo), oltre a curare molte tarantate con il pizzico del suo violino, annotava sulla sua rubrica tutti i casi di tarantismo che gli si presentavano.

Infine, grazie alla sua abilità di terapeuta, riusciva a somministrare al paziente le tarantelle neretine, chiamate anche pizziche tarantate (se considerate dal punto di vista coreutico), o, a volte, anche altre musiche, più idonee al caso. Questo tipo di tarantelle suonate durante i rituali terapeutici si differenziavano da quelle suonate nella pizzica pizzica (ballo di coppia che fa parte della famiglia delle danze meridionali denominate tarantelle) proprio per gli strumenti musicali adoperati, tra cui emergevano il violino e il tamburello e per le diverse modalità esecutive dettate dal contesto terapeutico in atto. Il violino (per via del timbro più penetrante e incisivo) assumeva il ruolo di strumento melodico principale che, insieme al ritmo del tamburello, determinava il buon esito della terapia. Gli altri due strumenti usati nelle cure domiciliari di Stifani (e che completavano l’organico strumentale) erano l’organetto e la chitarra.

 

Il tamburello smuove il corpo e trascina al movimento, il violino comunica alla mente poiché, secondo la tradizione, è proprio nella melodia che la tarantata si identifica e si concilia con la taranta che la possiede.

 

 

Il suonatore a partire da un limitato numero di melodie “generatrici”, riesce a inventare (improvvisare) continue varianti. Questo procedimento è comune nelle musiche di tradizione orale dove l’improvvisazione diventa un tratto distintivo. La bravura di Stifani consisteva proprio nella capacità di variare le melodie di volta in volta, a seconda dei casi che gli si presentavano, proprio per non creare quella sensazione di noia, determinata invece, dalla pura e identica ripetizione di una melodia. E’ doveroso sottolineare che

 

 

Le stesse musiche associate ad altri contesti culturali perderebbero la loro efficacia regolatrice e di controllo. E’ ormai noto che la bottega di Luigi Stifani, alla fine degli anni ’50, è stata meta di tanti ricercatori di varie discipline, tra questi l’etnologo Ernesto De Martino che, nel 1959, durante la sua ricerca etnografica – condotta con una équipe multidisciplinare per studiare il tarantismo salentino -, si fece accompagnare dal maestro Stifani. Le sue ricerche confluiranno in seguito nel suo celebre saggio “La terra del rimorso”, in cui arrivò, in sintesi, a scontrarsi con l’interpretazione medica (casi di aracnidismo o disordini della sfera psichica) a favore, invece, di una interpretazione storico-culturale e religiosa del fenomeno.

 

 

Questo intenso sodalizio con il gruppo si concluderà nel 2000, con la partecipazione come attore e musicista al film Sangue vivo di Edoardo Winspeare. Nel 2003, il frutto di una esperienza di ricerca quasi ventennale, confluiranno nella mia prima pubblicazione dal titolo: “Luigi Stifani e la pizzica tarantata. Studio sugli strumenti musicali, sulla musica “numerica” e sulle musiche eseguite dal gruppo di Luigi Stifani durante le cure rituali del morso della mitica taranta” (Besa Editrice). Sergio Torsello (1965-2015), giornalista e ricercatore, autore di numerosi articoli, saggi e volumi sul tarantismo, così si espresse in una sua recensione sul quotidiano di Lecce, del 18 ottobre 2003:

 

 

 

Prima di dare inizio alla terapia,secondo Stifani, bisognava effettuare una diagnosi sul sofferente, per verificare che effettivamente si trattasse di tarantismo. Subito dopo, Stifani osservava il paziente e mediante una esplorazione musicale, cercava di aprire un canale di comunicazione, di provocare attivazioni senso-motorie, basandosi anche sull’atteggiamento e l’indole del paziente.

La musica eseguita dai quattro strumenti aveva la funzione di regolare e controllare il movimento del corpo e le emozioni degli individui all’interno del rito, oltre che di ordinare ritualmente le crisi dei tarantati in cicli coreutici regolari

I due strumenti producono l’iterazione ossessiva. Una è quella determinata dall’ostinato ritmico prodotto dai sonagli e scandito dalla botta sulla pelle del tamburello. L’altra ,invece, è quella che viene prodotta dal violino.

gli effetti terapeutici delle musiche eseguite durante le cure domiciliari sono comprensibili solo all’interno di questa formazione o credenza simbolico-religiosa, socialmente accettata e condivisa, che ha lo scopo di rendere più facile il processo di reintegrazione dell’individuo nella comunità.

Una forma di protezione sociale per uomini e donne che hanno avuto un problema esistenziale, individuale o collettivo, e che proprio attraverso un rituale caratterizzato dal simbolismo della taranta che morde e della musica, della danza, dei colori, si riesce a liberare da questo “morso avvelenato“.

La folla, trascinata e rapita da questi suoni, si esalta, applaude e allo stesso tempo balla, irretita dal magico ritmo ossessivo della pizzica tarantata.

<< …quello di Inchingolo è un saggio che scava nel duplice solco di una singolare vicenda biografica da un lato e dall’altro nella concreta prassi esecutiva e nel sistema di notazione musicale (la musica”numerica”) elaborati da maestro […]. Inchingolo evidenzia la presenza di rilevanti microvariazioni all’interno degli stessi brani […].Un libro importante per comprendere meglio la singolare personalità di Stifani.>>

 

SANTA MARIA DI PULSANO – DOVE IL MONACHESIMO VIVE 1 di Roberta Lucchini – Numero 6 – Ottobre 2016

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Caligine. Oggi il mare celestino sembra evaporare gradualmente in un cielo lattiginoso e denso, che impedisce allo sguardo di spingersi oltre, di superare il dolce golfo di Manfredonia, sul quale si adagia, rugoso e antico pachiderma dormiente, l’aspro massiccio del Gargano. 

«Nei giorni limpidi, riusciamo a distinguere nitidamente il faro di Molfetta». Lieve moto di orgoglio trapela dalle parole di padre Pietro, priore dell’Abbazia di Santa Maria di Pulsano, mentre descrive questo luogo, che da quindici secoli accoglie uomini di fede e di preghiera, monaci eremiti che hanno cercato, e trovato, fra questi anfratti calcarei, dove la vegetazione bassa e sparuta lotta contro la forza dei venti, un rifugio dalle malversazioni della vita terrena, per tornare in comunione con Dio e con la natura. Passato e presente qui convivono. Quasi in una figurata trasposizione architettonica della centralità del mistero eucaristico, sull’antico nucleo rappresentato dalla chiesa si sono aggiunti, sovrapponendosi, gli edifici abbaziali, alcuni dei quali molto recenti e dotati di tutti i comfort: non te lo aspetteresti, arrivando, nonostante tu abbia già incamerato una discreta quantità di informazioni dal sito Internet dell’Abbazia, aggiornatissimo e completo. Come dice Francesco, le nuove tecnologie devono essere orientate a favorire l’incontro.

Bisogna dare ai monaci degli abiti adatti alle condizioni e al clima della località in cui abitano. (Regola, Cap. LV)

Se non fosse per gli abiti – t-shirt, pantaloni blu e scarponi da lavoro -, che lo classificano come uomo dei nostri giorni, il priore rimanda, nell’aspetto, ad altre epoche: la barba bianca lunghissima, i capelli altrettanto canuti e fluenti, di corporatura robusta e imponente, Pietro interrompe il suo quotidiano daffare e, sedendo nel refettorio, racconta, pacato e bendisposto, la propria storia personale, dagli studi e conseguente laurea in Geologia, alla scelta di una vita diversa, «fuori dal mondo, ma con il mondo». Da Pozzuoli, dove svolgeva vita monastica, è arrivato qui nel 1997, insieme a padre Fedele, suo confratello, «per avviare la rinascita di una piccola comunità di monaci che tornasse ad arricchire la vita di fede del territorio, risvegliando l’originaria vocazione del luogo». 
Perché “risvegliare”? Cosa aveva sopito il fluido scorrere della storia, in questa oasi di pace mimetizzata fra le rocce abbondanti, in un angolo poco accessibile della Puglia variegata? Il cuore dell’uomo, indurito come la fredda pietra, aveva lasciato che la protervia dei rovi fagocitasse poco a poco mura, architravi, fregi, capitelli, trabeazioni; che la cupidigia mai satolla facesse trafugare beni di immenso valore artistico e religioso, tra cui la preziosissima icona della Madre di Dio Odigìtria di Pulsano, risalente ai secoli XI-XII, rubata nel 1966 e mai ritrovata; che la veemenza degli animali, lasciati pascolare senza regole, trasformasse spechi e altari di un insediamento sacro più che millenario, in ricoveri e stalle di fortuna; che il territorio stesso, sul quale insiste l’intero complesso, divenisse teatro di faide fra malavitosi. Ricorda padre Pietro che solo la devozione della comunità locale per la Vergine di Pulsano, particolarmente fervida in occasione delle festività dell’8 settembre – Festa della Madonna delle Grazie – e del mese mariano, allorquando processioni di fedeli si inerpicavano fra gli angusti e difficili passaggi del sentiero che da Manfredonia fortunosamente raggiunge l’abbazia, manteneva acceso il ricordo di un passato ricco di vicende e di santità che avevano permeato di sé i secoli, ma rischiavano di finire inesorabilmente nell’oblìo. 
Di quanto andare indietro nel tempo per recuperare le origini? Sebbene già in epoca precristiana esistessero nella zona insediamenti e luoghi di culto, la fondazione di un monastero in cui eremiti oranti potessero trovare albergo risale al VI secolo, per volontà di San Gregorio Magno Papa: egli, sostenitore dei monaci e grande ammiratore di San Benedetto da Norcia, ordinò qui l’edificazione di un’abbazia dedicata, al tempo, a Santa Maria in Monte Gargano, contemporaneamente ad un’altra in terra di Bari (Abbazia di Barsento, presso Noci). Al Papa – Santo è intitolato l’eremo più prossimo all’Abbazia, uno dei 24 disseminati lungo le pendici del promontorio e afferenti alla stessa, in parte risistemati e visitabili, seppur con atto di coraggio, essendo ubicati in posizioni per lo più impervie. In realtà, sembra storicamente accertata la presenza a Pulsano, già in epoche precedenti, di eremiti che si ispiravano al monachesimo nato in Oriente, in particolare alle esperienze di Sant’Antonio Abate e di San Pacomio, nonché alle successive Regole di San Basilio, pregando anche in lingua greca. Il monastero, dopo l’affidamento ai monaci di Sant’Equizio prima e ai Cluniacensi poi, subì un periodo di decadenza a seguito delle ripetute incursioni saracene, finché il cenobiarca San Giovanni da Matera non lo ricostruì e fondò la Congregazione dei Monaci pulsanesi, detti gli Scalzi. Ed ecco la data di riferimento: il 30 gennaio 1177, papa Alessandro III consacrò il nuovo Altare dell’Abbazia dedicata alla Sempre Vergine Maria, Regina del Cenobio pulsanese, sotto il quale vennero custodite le spoglie di San Giovanni abate, morto nel 1139. 
Ottocento anni dopo, il 20 dicembre 1997, l’Arcivescovo di Manfredonia, Mons. Vincenzo D’Addario, riaprì al culto pubblico l’Abbazia, decretando altresì la rinascita della comunità monastica di Pulsano (smembrata come conseguenza del decreto del 13 febbraio 1807, con cui Giuseppe Bonaparte ordinò lo scioglimento di alcuni ordini monastici, per incamerarne i beni di pertinenza), approvandone la Regola e ponendola sotto la giurisdizione della diocesi di Manfredonia-Vieste-San Giovanni Rotondo. Padre Pietro è uno dei tre monaci, insieme al ricordato padre Fedele, ed a padre Massimo, siriano melchita, che fece parte della ricostituita comunità. 
Tre monaci. Chi li ha spinti ad arrivare qui? Come avranno potuto affrontare questa esperienza, come potuto superare le immancabili difficoltà? Pietro riferisce di essere stato contattato su indicazione di Tommaso Federici, professore ordinario presso la Pontificia Università Urbaniana di Roma, il quale, frequentando spesso Monte Sant’Angelo per ragioni di studio, era a sua volta stato avvicinato da alcuni fautori del “Movimento pro-Pulsano”: nato agli inizi degli anni Novanta su impulso, fra gli altri, di Alberto Cavallini – profondo conoscitore della storia locale e, tuttora, molto attivo nel monastero, di cui è economo – il movimento si proponeva di favorire la rinascita cristiana del complesso abbaziale. Grazie, quindi, all’interessamento ed all’entusiasmo del Professor Federici, si era potuta concretizzare quella che sembrava, alla popolazione, una utopia: padre Pietro non nasconde che proprio l’affetto, il sostegno e la fattiva partecipazione della gente del luogo, insieme alla salvifica preghiera, quotidiano nutrimento dell’anima, permisero di superare l’insuperabile, la ripartenza, e, per lui in particolare, pugliese della provincia di Lecce, di concretizzare il desiderato ritorno al servizio del proprio territorio. 
Certo, i numeri impressionano: una comunità di soli tre monaci…. Sorride, Pietro: «La vocazione monastica è in recessione: oggi siamo in due! Nei periodi di massima presenza, ci siamo trovati con quattro monaci, un professo semplice e due novizi.» Del nucleo iniziale, è l’unico “superstite”, essendo stati, gli altri due, chiamati a nuovi uffici. Oggi è affiancato da padre Efrem, laureato in Giurisprudenza all’Università di Roma “La Sapienza”, un passato da dipendente del Ministero per le Politiche Agricole, cui segue un’esperienza molto toccante in Siria, fino all’approdo sul Gargano. Quindi è ancora possibile, oggi, votarsi al monachesimo! Inutile negarlo: richiede coraggio. Si è ancora disposti a correre il rischio di fare una scelta azzardata, anacronistica per certi versi? «Il tempo è galantuomo…» dice Pietro, sorridendo «Proprio per ovviare al problema, la formazione del monaco richiede molti anni.»

Quando si presenta un aspirante alla vita monastica, non bisogna accettarlo con troppa facilità. (Regola, Cap. LVIII)

Fra postulantato, noviziato, studentato e successiva licenza o dottorato, trascorrono dieci anni circa. «La lunga durata, tuttavia, non spaventa, si rivela anzi una garanzia tanto per chi chiede di entrare nella comunità quanto per la comunità stessa, poiché certe scelte vanno ben ponderate. In genere, alla fine dei primi tre anni la decisione, in un verso o nell’altro, risulta definitiva.» 
Il discorso è generale, ma qui, a Pulsano, quali sono le specificità? «L’idea di fondo è quella di recuperare il messaggio originario del monachesimo, quando i monaci rimettevano i propri voti nelle mani del Vescovo ed erano al servizio della Diocesi, senza necessità di una presenza presbiteriale, che si manifesta invece nelle comunità numerose: anche S. Pacomio radunava i suoi monaci e li accompagnava in parrocchia….! Proprio in virtù di questo ritorno alle origini, viene praticata la biritualità, ossia le celebrazioni e le preghiere si svolgono sia secondo il rito latino che secondo quello bizantino, entrambi espressione dell’unicità della Chiesa cattolica.» Spiega padre Pietro che, in realtà, questa impostazione non è il risultato di una scelta preordinata alla rinascita del monastero, ma quasi frutto della casualità, visto che uno dei monaci fondatori, padre Massimo, attualmente parroco nelle isole Tremiti, seguiva il rito bizantino. 
Come è stato possibile conciliare le due esperienze? «Per mantenere la compattezza dell’Anno Liturgico, visto che non sempre vi è coincidenza fra le ricorrenze nei due calendari – giuliano e gregoriano -, si è deciso, salomonicamente, di alternarli secondo i giorni della settimana: il martedì, il giovedì e il sabato si prega secondo il rito latino, il mercoledì, il venerdì e la domenica pomeriggio secondo il typikòn del rito bizantino; e quest’ultimo è adottato anche per la Divina Liturgia (la Santa Messa), qualora in Abbazia si trovi ospite o venga invitato un presbitero che officia seguendo lo Ieratikòn. Spesso, ne arrivano da Piana degli Albanesi (PA) e da Lungro (CS), le uniche due Eparchie presenti in Italia.» E’ naturale, a questo punto, voler conoscere differenze e affinità fra le due celebrazioni…

E le Conferenze, le Istituzioni e le Vite dei Padri, come anche la Regola del nostro santo padre Basilio, che altro sono per i monaci fervorosi e obbedienti se non mezzi per praticare la virtù? (Regola, Cap. LXX)

«Le radici sono comuni. Il fine è il medesimo. Nel rito latino i fedeli partecipano alle funzioni spesso inconsapevolmente, mentre nel rito greco-bizantino la simbologia è ancora molto sentita; inoltre, nella Divina Liturgia è rilevante e immancabile la figura del diacono, il quale ha invece un ruolo marginale nella Santa Messa.» 
Quando il priore fa strada a visitare la Chiesa abbaziale, ricavata in una grotta naturale, e ancor più assistendo alla preghiera secondo il rito bizantino, altre differenze risultano evidenti. Innanzitutto, l’assenza di statue di santi, sostituite da raffinatissime icone (Pulsano è sede di una Scuola di Formazione Permanente di Iconografia, articolata per livelli di difficoltà); poi l’iconostasi, cioè una sorta di divisorio ornato da tre icone, che protegge dalla navata la parte più intima e sacra, quella dove si rinnova il sacrificio eucaristico, cioè l’altare. Poi i modi della preghiera, durante i quali ricorrono i profondi inchini accompagnati dal segno di Croce (metànie) ad ogni menzione delle persone della S.S. Trinità, le invocazioni ripetute, le melodie intonate e cantate senza ausilio di strumenti musicali, l’utilizzo abbondante dell’incenso, che simboleggia la preghiera che sale verso Dio. Vien da chiedersi se i fedeli siano in grado di seguire questi ritmi, queste preghiere, che spesso utilizzano la lingua greca. Ebbene sì: con grande spirito di apertura e disponibilità, la popolazione locale ha abbracciato di buon grado l’osservanza della biritualità, partecipando attivamente a tutte le iniziative e tendendo, in questo modo, una mano a quanti, soprattutto stranieri, e rumeni in particolare, hanno potuto ritrovare qui le forme della religione praticata in Patria. Anche questo è ecumenismo. La preghiera unisce, è comunione.

“Sette volte al giorno ti ho lodato” dice il profeta. (Regola, 
Cap. XVI)

La giornata è scandita dal rintocco della campana, posta nel cortile alto dell’Abbazia, che chiama a raccolta. Il Mattutino, alle 5.30; le Lodi, alle 7:30; la Terza, alle 8:30; la Sesta, alle 12:30; la Nona, alle 15:30; il Vespro, alle 18:30; la Compieta, alle 21. Negli intervalli, la lectio personalis, la meditazione, il silenzio, lo studio, il lavoro. «Vivere di sola preghiera è come volare con una sola ala», dice Pietro. Ora, lege et labora. In effetti, il priore, insieme a padre Efrem, che fra l’altro gestisce la biblioteca, in gran parte costituita dal patrimonio librario del Professor Federici, cui è intitolata, si occupa di studiare le Sacre Scritture, di organizzare corsi di formazione per sacerdoti, ritiri spirituali, conferenze e tutte la attività di approfondimento puntualmente riportate sul sito Internet; ma, al contempo, si premura di seguire la piccola fattoria di conigli, galline, piccioni, un maiale, una mucca (da poco ricevuta in dono – ne erano state rubate ben due!), che, insieme ai prodotti dell’orto ed alla generosità dei benefattori, assicurano il sostentamento quotidiano per sé, ma soprattutto per i bisognosi; si dedica a coordinare il lavoro dei tanti volontari che, ogni giorno, convergono qui, e non solo dai paesi limitrofi, per prestare collaborazione in tutte le attività necessarie alla conservazione e miglioramento del complesso, dallo svolgere manutenzioni piccole e grandi agli edifici, al dissodare il terreno, all’impiantare colture, al preparare i pasti… come adesso, quando, durante questa chiacchierata, sono intenti ad approntare, nell’ampia, attrezzatissima e moderna cucina, un pranzo per non meno di venti persone. Sì, perché molto del servizio reso da questa comunità, della sua missione, è dedicato all’accoglienza, che non si limita alla semplice offerta di ristoro con acqua e caffè, ma importa la divisione della mensa, degli spazi comuni (rigorosamente senza televisione), di una stanza in cui trattenersi per periodi brevi o più lunghi; il tutto in spirito di assoluta gratuità.

Tutti gli ospiti che giungono in monastero siano ricevuti come Cristo, poiché un giorno egli dirà: “Sono stato ospite e mi avete accolto”. (Regola, Cap LIII)

La tortuosa “via di Pulsano”, “strada senza uscita” (come indica il segnale stradale posto al suo inizio) che, in otto chilometri, congiunge il monastero al centro abitato di Monte Sant’Angelo, conduce qui viaggiatori da tutta Italia e dal mondo; sono i ben accetti, soprattutto se non è la mera curiosità a condurli qui, se non li spinge quell’indefinito bisogno di massificante turismo irrispettoso delle peculiarità locali, che, nel caso di specie, sono temperanza e silenzio. Meglio giungere con spirito di pellegrini e venire alla ricerca di solitudine, di raccoglimento, a ritrovare se stessi e Dio, a chiedere ascolto; oppure condivisione, del silenzio, della preghiera e, perché no, del lavoro. «Talvolta basta poco per sostenere chi invoca aiuto: ognuno di noi custodisce dentro di sé le risposte alle proprie domande, ai propri dubbi; deve trovare solo il coraggio per tirarle fuori, per renderle coscienti; e il riferirle ad un altro rafforza, come quando si ripeteva la lezione al compagno prima dell’interrogazione …» E’ un uomo concreto, pragmatico, non deve essere un caso che si chiami Pietro…. Ma non ha mai avuto paure, tentennamenti, indugi, ripensamenti? «Le difficoltà ci sono, e molte ce ne sono state. La benevolenza di Dio, tuttavia, si manifesta continuamente attraverso i mille volti e gli altrettanti destini che ogni giorno incrociano la nostra via. Anche nei momenti di grande sconforto, non è mai mancato il segnale, la presenza tangibile della Provvidenza, attraverso una donazione, un aiuto insperato, una testimonianza: la costante preghiera al Signore è di non lasciare l’uomo troppo a lungo nella prova, affinché non perda la speranza, né troppo poco, perché non monti in superbia! Ognuno di noi deve operare su se stesso, sulla propria conversione, cercando di essere autentico.»

Non saremo esauditi per le nostre parole, ma per la purezza del cuore. (Regola, Cap XX)

Certo, fa riflettere… Secoli di storia che continuano a “pulsare”. Una vita inconcepibile, per chi è abituato alla frenesia dei ritmi cittadini, al continuo affannarsi nel rincorrere orologi tiranni fra le esalazioni del traffico urbano, alla costante verifica del telefono cellulare, qui incredibilmente senza campo; dove non c’è il tempo per sostare e riflettere, dove il solo obiettivo consentito è il “performare” e non l’“essere”, il “donare”, l’“accogliere”, l’“ascoltare”, concetti dimenticati nella nostra società. Eppure realtà come questa esistono, esistono vite “comuni” spese non per la propria gloria personale e che, per questo, diventano “straordinarie”. Non è necessario essere credenti e praticanti per ricevere qui un messaggio, un invito a rivedere le priorità, a soppesare i propri valori, a riscoprire la contemplazione, a voler offrire…. Per qualcuno dura un attimo, per altri, forse, di più.

“Vieni e vedi”. (Giovanni, 1, 43-51)

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1 Si ringraziano padre Pietro Distante, padre Efrem Massimo Valentini, Alberto Cavallini e i volontari della Comunità che, con la loro testimonianza, hanno permesso di redigere questo scritto.

 

LA TRADIZIONE DEL PRESEPE A NAPOLI di Sergio Attanasio – Numero 6 – Ottobre 2016

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LA TRADIZIONE DEL PRESEPE A NAPOLI

 

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basti pensare che nella commedia “Natale in Casa Cupiello”, opera del drammaturgo Eduardo un vero tormentone è legato alla frase Te piace ‘o presepe?

Le origini del presepe a Napoli risalgono al Quattrocento e si diffondono per tutto il XVI secolo.

Ne esistono testimonianze nelle chiese della città. Narra il Napoli-Signorelli che “Antonio Baboccio, nel XV secolo, nel sepolcro di marmo bianco che fece nella cappella de’ Minutoli del Duomo di Napoli, per l’arcivescovo di questa famiglia, pose un bassorilievo eccellente che nel bel mezzo rappresenta un presepe”.E ancora: “Nella chiesa di Monteoliveto, come si vede ancor oggi, vi è nella cappelladei duchi Piccolomini d’Amalfi una tavola di marmo colla nascita del Signore che stimasi opera del riputato scoltore Donatello … Un antico presepe pur si vede nella cappella antica de’ Carafa di Ruvo in S. Domenico Maggiore e parimenti una rappresentazione del tugurio ove nacque Gesù con figure di legno che voglionsi scolpite da Giovanni Merliano, si trova nella icona del maggiore altare della chiesa di S. Giuseppe dei falegnami edificata nel XVI secolo; infine che Pietro la Plata eccellente scoltore spagnuolo fece un bassorilievo colla Vergine Madre che sostiene nelle braccia il Bambino e con i tre re magi che l’adorano nella chiesa di S. Giovanni a Carbonara nella cappella de’ marchesi di Vico”.

Nel secolo XVII furono noti presepisti i Perrone:

Michele, nato nel 1633 scultore in legno menzionato anche dal de Dominici, “… fece bensì buoni pastori da presepio, alli quali era da un particolare genio inclinato”; Aniello, “scultore anche migliore” e Donato, di cui le fonti non parlano ma che fu, con Michele, l’autore del presepe del Viceré conte di Castrillo, il quale commissionò ai due fratelli il suo presepe nel 1658, il più ricco finora tramandatoci, di 112 elementi, inviato in Spagna.

Nel secolo successivo il presepe si diffuse nella dimore dei nobili napoletani e a preparare le scenografie furono impegnati noti architetti

“si sono segnalati in costruir presepi curiosi ottimamente architettati gl’ingegneri Muzio Nauclerio e Niccola Canale Tagliacozzi Emuli, i quali hanno regolati co’ loro disegni varii edificii in Napoli e la stessa regina di Napoli e poi delle Spagne visitò una o due volte il presepe del Nauclerio … Famosi erano i presepi dei Pignatelli, nel loro palazzo a Calata Trinità Maggiore, e ogni anno il duca di Diano, il duca di Monteleone, il principe di Ischitella, aprivano al popolo le porte dei loro palazzi dal centro storico a Chiaja perché ne ammirasse i presepi”.

Alla realizzazione dei pastori erano impegnati i maggiori scultori dell’epoca: “Domenico Antonio Vaccaro, i fratelli Matteo e Felice Bottiglieri, il Celebrano, il Sammartino autore della statua del famoso Cristo velato della Cappella Sansevero, ed i suoi allievi Giuseppe Gori ed il Viva”.

La loro abilità di modellatori si estrinsecava nella creazione dei vari personaggi del presepe: “spiegarono la loro espertezza nel formar vaghe teste di pastori di carattere e di età differenti, angeli bellissimi, figure divotissime di Maria e di San Giuseppe”. Così come altri scultori non meno noti: “scolpirono egregiamente gli animali, che accrescono la verità dell’imitazione campestre di valli di colline e di tugurii, Francesco di Nardo coi suoi discepoli, Nicola Vassallo che formava eccellentemente buoi, capre, pecore, e cavalli in piccolo, e Saverio Vassallo suo fratello che si distinse in formar cammelli, polli, cani, augelletti”.

 

Il periodo d’oro del presepe a Napoli, dunque, è il Settecento, durante il regno di Carlo III, il sovrano che volle la costruzione della reggia di Caserta,

del quale quest’anno si celebrano i trecento anni dalla nascita. Egli era tanto amato dai napoletani ed era un gran cultore dell’arte di costruire il Presepe, così come si trova nelle cronache dell’epoca: “Era cosa mirabile, e di edificazione grandissima, il vederlo a certe ore sfaccendate del giorno con le regie sue mani impastar de’ mattoncini, e cuocerli, disporre i soveri, formar la capanna, architettar le lontananze, situarvi i Pastori, etc., e tener tutto pronto per la sacratissima notte del Santo Natale, che sempre veniva Egli a celebrare in Napoli, quantunque si ritrovasse fuori, siccome accadde in un anno, che ritrovavasi alla caccia in Persano, donde volle di carriera venire in Napoli, per celebrare la notte della Natività del Signore”.

La stessa regina Maria Amalia aiutava il consorte in questo diletto: “Occupavasi ancora nel fare gli abiti, da vestirne i Pastori, che servir dovevano pel Presepe del Re suo Consorte, il quale n’era divotissimo; nel colorire altresì i marmi bianchi con quella mistura indelebile, che fu inventata dal fu Principe di S. Severo, Don Raimondo di Sangro; e nel formar quei vaghi arazzi di diversi colori, fatti di lane spolverizzate; per le quali occupazioni la Regina rendevasi l’esempio di tutti, e la consolazione dei Re, suo amato Consorte”.

La stessa passione fu trasmessa al suo erede e figlio: “Ferdinando IV, ben sappiamo, quanto sempre o nella Chiesa di Belvedere, o in quella di Caserta, con egual pompa, e divozione, ha celebrato, e celebra un sì divoto, e tenero mistero di nostra redenzione”.

 

 

Il presepe ammirato dai tanti viaggiatori del Grand Tour, è così descritto da J.W.Goethe, nel suo Viaggio in Italia del 1787

“Ecco il momento di accennare ad un altro svago che è caratteristico dei napoletani, il Presepe. Si costruisce un leggero palchetto a forma di capanna, tutto adorno di alberi e di alberelli sempre verdi; e lì ci si mette la Madonna, il Bambino Gesù e tutti i personaggi, compresi quelli che si librano in aria, sontuosamente vestiti per la festa. Ma ciò che conferisce a tutto lo spettacolo una nota di grazia incomparabile è lo sfondo, in cui s’incornicia il Vesuvio coi suoi dintorni”.

A testimoniare la qualità dei pastori settecenteschi i presepi che derivano dalle donazioni delle maggiori collezioni napoletane, esposti nei musei della città da San Martino a Capodimonte, dal palazzo Reale di Napoli a quello di Caserta. E per vedere quanto sia ancora viva nella città la memoria e la tradizione del presepe

 

 

 

non resta, per coloro che vogliono visitare Napoli, che recarsi nella via S. Gregorio Armeno

una miriade di artigiani, rifacendosi ai pastori settecenteschi, ripropongono tutti i personaggi del presepe. In questa strada unica al mondo, può oggi capitare di vedere, accanto ai pastori della tradizione, anche Papa Francesco, Obama o la Merkel, abilmente riprodotti. Una sorta di aggiornamento costante che dimostra che il presepe è ancora vivo ed attuale.

 

 

 

 

NAVIGARE NECESSE EST di Stefano Benazzo – Numero 6 – Ottobre 2016

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NAVIGARE

NECESSE EST

 

A-Caccia-Di-Memoria

“Navigare necesse est”. Sono un fotografo di relitti emersi nel mondo.

I relitti sopravvivono dove sono assenti uomini, capitali, strade e utilizzo commerciale del materiale recuperato. Si trovano quindi in posti difficili da raggiungere: dovunque gli insediamenti umani siano così lontani da renderne impossibile lo smantellamento,

Chi ascolta un testimone diventa a sua volta testimone. Secondo una leggenda africana, un uomo muore quando muore l’ultima persona ad averlo conosciuto ed a mantenerne il ricordo. Il Libro egiziano dei morti chiarisce d’altronde: “Ciò che è scritto deve essere ricordato; ciò che è ricordato vive”.

o dove le condizioni ambientali rendono difficoltosa la permanenza di chi voglia sfruttarli. Per fotografarli, bisogna trovarli e identificarli. Le mie ricerche nascono sui siti dedicati o da segnalazioni inaspettate; continuano con la navigazione su Internet, la verifica su Google Earth e i contatti con i musei e le Capitanerie. In Italia, i resti di navi sono pochi: la navigazione è sempre più sicura e le comunità rivierasche – o le Autorità – li smantellano. Nel resto dell’Europa e del Mediterraneo la caccia è più fruttuosa. 
Gli scomparsi trasmettono conoscenze importanti, e noi abbiamo la responsabilità di tramandarle.

Dobbiamo, quindi, almeno fissarne le immagini per le future generazioni, prima che siano irrimediabilmente distrutti. Non si tratta di sentimentalismo, ma di assaporare le emozioni, di aprire il cuore e di ritrovare la nostra capacità simbolica – anche se inconsciamente cerchiamo di rimuoverla – per raggiungere ciò che è nascosto. Chi non immagina si spegne…

Le mie immagini di relitti portano in sé la vita di tanti marinai e, attraverso i racconti, la loro memoria rimane viva ed essi continuano ad esistere. Le migliaia di uomini che hanno navigato per secoli su tutti i mari non hanno avuto riconoscimenti. Erano uomini avvezzi alla vita senza sconti, ostinati, consapevoli, senza pretese di capire tutto o di realizzare imprese. Hanno compiuto il loro dovere senza essere eroi, senza voler sfidare il mare: era il loro naturale ambiente di lavoro. Il loro ricordo non figura nei testi di storia: sono gli uomini comuni, dalla prosaica esistenza quotidiana.
Le fotografie che ho privilegiato in questo riverente omaggio ai navigatori del passato sono quelle che mi hanno dato un brivido misterioso, facendomi rivivere le ore difficili o fatali delle donne e degli uomini che erano a bordo. Cerco di restituire i sentimenti che provo avvicinandomi a queste presenze del passato, proponendo a chi non ha potuto finora vederle le testimonianze di un’era scomparsa. I resti che fotografo, condannati ad una morte lenta ma sicura, non saranno più gli stessi fra alcuni anni, e scompariranno quasi del tutto fra 20-30 anni. E’ impossibile (salvo poche eccezioni) esporli nei musei: inoltre, si trovano in luoghi lontani e costosi da raggiungere.

Le parole chiave della mia ricerca sono: passione, emozione e dovere di memoria.
Questi resti – diventati parte della natura – sono, in realtà, dissonanti da essa: rappresentano la rottura di sequenze preordinate. La mia ricerca vuole cristallizzare i resti di cattedrali (o di carrette) del mare che sono un monumento ad alcune caratteristiche essenziali dell’uomo – ingegno, iniziativa, coraggio, spirito di avventura – e testimoniano la capacità degli architetti navali, dei cantieri, degli armatori, degli equipaggi.

Sono il simbolo di un elemento essenziale della storia economica, sociale, industriale e marittima del mondo. Ricordano lo sviluppo secolare dell’arte della navigazione, l’ansia di innumerevoli famiglie di marinai, le vicende degli emigranti e gli innumerevoli misteri che il mare custodisce per sempre.

Anche in Italia, del resto: la Eden V – una “nave dei veleni” arenata in Puglia – è stata smantellata misteriosamente nello spazio di alcuni decenni, tra l’incuria generale. I barconi dei migranti che giungono a Lampedusa, e su altre nostre isole e coste, scompaiono presto. I burchi sul Sile costituiscono un vero cimitero, vicino a Treviso. L’àncora apparsa sul molo del Circolo velico che frequento da cinquant’anni sul Lago di Bracciano, scomparsa per cinquant’anni, e riapparsa. Non mancano catene e maniglioni utilizzati per raddrizzare la Costa Concordia (ma volutamente non ho documentato l’agonia della nave), così come le àncore e le imbarcazioni delle tonnare. Infine, i relitti di navi moderne, abbandonati come quelli vicino a Marina di Ravenna.
Forse scrivere di relitti è un modo per esorcizzare il momento in cui ne potrei diventare uno io stesso. Forse è un modo inconscio di chiedere attenzione. Forse è un modo per non essere dimenticato, come sarebbero dimenticati tutti quelli senza nome che hanno navigato e che, tuttavia, ricordo qui.
Voglio mostrare al lettore il varco per entrare in un mondo diverso, immaginario ma reale. Sarà il lettore ad identificarne le caratteristiche.

Alcuni hanno la tentazione di recarsi – almeno con la mente, in attesa di andarci realmente – nei luoghi che descrivo nelle mie opere, nel Mediterraneo e nel resto del mondo. Da tanti relitti, speranza di salvezza e di vita. 

Buon vento…

OndeFineP

 Credit photo © Stefano Benazzo