LAURO, MUSICA NEL PAESE DIPINTO di Gaia Bay Rossi – Numero 6 – Ottobre 2016

art_bayrossi-copertina
cat-cultura
cat-storia
cat-sud
Gaia-Bay-Rossi

LAURO, MUSICA NEL PAESE DIPINTO

Lauro,il-paese-dipinto

che pochi conoscono e molti dovrebbero visitare, si distingue ancora una volta per una eccellenza: la Musica. Un liceo sostenuto entusiasticamente dai coniugi Anna e Leonardo Visconti di Modrone e nato per iniziativa di un sindaco lungimirante, Antonio Bossone, che credono, in controtendenza, che proprio la musica, dopo la pittura, possa educare ed appassionare le nuove generazioni e prepararli culturalmente al loro futuro.

E se Lauro nel mito ha stregato il dio delle Arti, sono proprio due di quelle arti, la pittura e la musica, a caratterizzare oggi questo paese, Lauro.

 Lauro, laurus, l’alloro, i cui boschi circondavano la cittadina in epoca romana, ma anche Laurus come Daphne (Alloro, infatti, nella lingua greca è Δάφνη), la mitica ninfa che fece perdutamente innamorare Apollo – dio del Sole, di tutte le Arti, della Musica e della Poesia. Perseguitata dal dio innamorato, la ninfa disperata chiese di essere salvata e venne trasformata in una pianta di alloro. Per questo il lauro divenne la pianta prediletta di Apollo, con cui faceva ornare sia i suoi templi sia i suoi capelli.

 Abbiamo detto Lauro, come paese di pittura e musica. 
Pittura, perché Lauro è un “Paese dipinto”: dal 1976 artisti e pittori di passaggio hanno romanticamente “vestito” molte delle strade del paese con deliziosi murales naïf, i cui temi riportano alla storia e alle attività della cittadina, facendo di essa quasi un museo all’aperto.

 Lauro – incredibilmente fuori dalle rotte turistiche e che andrebbe valorizzato e svelato a chi decide di avventurarsi nel proprio personale “viaggio in Italia” – ha una posizione geografica che non gli rende giustizia e non facilita il passaggio di ospiti stranieri: è situato, infatti, nella bassa Irpinia, in provincia di Avellino, in fondo ad una valle circondata da una catena di monti, con una sola apertura ad ovest verso Nola – anche nota per essere stata il paese in cui morì Augusto, primo imperatore romano. 
Lauro, quindi, non è in una strada di passaggio, né in una zona facilmente raggiungibile; chi passa di qui non lo fa per sbaglio o di passaggio: lo deve volere. Ed è vero che non molti turisti diretti a visitare le bellezze e le particolari suggestioni della Campania decidono di fermarsi a Lauro. Sbagliano, inconsapevolmente o richiamati altrove da nomi noti, come Napoli o le più vicine Pompei ed Ercolano, perché non sanno che, anche in questa piccola cittadina, vi sono opere, monumenti ed attrazioni che reclamano la più viva attenzione.

E così è, se pensiamo che sono proprio alcune famiglie che hanno avuto a Lauro la loro origine, ad occuparsi di mantenere viva questa cittadina, pensando a come migliorarla continuamente e preservarla, e a come espandere la sua notorietà ben al di là delle semplici località vicine.

Tutto è nato da una mostra naïf organizzata nel 1975 al castello Lancellotti, il cui successo ha stimolato pittori italiani e stranieri a venire a Lauro per contribuire alla decorazione del paese. Nel 1994 Lauro si è iscritta all’ASSIPAD, l’Associazione Italiana dei Paesi Dipinti e oggi è uno dei paesi con il più alto numero di dipinti.
Il tempo e gli agenti atmosferici rischiano di rovinare decenni di opere, nonostante siano state messe delle tettoiette a protezione, ma la cittadina risulta ancora ricca di queste importanti suggestioni di artisti, ammiratori e viaggiatori di talento. Un pittore, Marco Berlanda, ha chiamato un suo murales del 1995, situato in Via Principe Lancellotti, “Lauro, capitale del naïf“: si vede una chiesa, un palazzo, un albero, degli uomini e le torri del Castello Lancellotti, il tutto inserito in un cerchio che, a sua volta, è sistemato all’interno di altri quattro cerchi dove si vedono qua e là delle persone. Come dire: il destino di Lauro è in mano alla gente, ai suoi cittadini, alle persone che circondano e vivono quel paese.

Incontriamo donna Anna Sanfelice Visconti che, tra un trasferimento e l’altro al seguito del marito – l’Ambasciatore Leonardo Visconti di Modrone – non ha mai perso di vista le sorti di Lauro. Oggi i coniugi, ormai stabili a Roma, hanno deciso di occuparsi più attivamente della cittadina e delle sorti dei giovani lauretani. Come la trisnonna Emilia Higgins, che è sempre stata coinvolta nelle sorti di Lauro (avendo sposato Gaetano Pandola, dell’omonima famiglia eminente di Lauro), e come la zia Teresa Sanfelice, che ha addirittura fondato e finanziato una vera squadra di calcio per dare ai giovani la possibilità di avere una disciplina sportiva che formasse il carattere e insegnasse le regole, e che, nello stesso tempo, li tenesse impegnati con una forte passione che li distogliesse soprattutto dal perdersi in cattive abitudini e possibili compagnie malavitose, i coniugi Visconti, entrambi appassionati di musica, hanno pensato che forse proprio quest’arte sarebbe potuta essere la chiave di volta con cui riuscire a dare ai giovani lauretani regole, cultura e passione. Ed ecco quindi la seconda arte ad entrare prepotentemente a Lauro: la musica.
Grazie ad un incontro fortunato con il sindaco, Antonio Bossone, medico prestato alla politica, nonché uomo dalle mille iniziative e grandi aspettative, che ha sposato subito l’idea di un liceo musicale interessando Provincia, Regione e Ministero dell’Istruzione, si è dato vita alla prima classe di questa scuola, tutti convinti immediatamente della portata positiva e formativa per una gioventù che normalmente avrebbe poche opportunità.

In un Paese come l’Italia, dove si chiudono le orchestre e i teatri, Lauro va in controtendenza, riportando civiltà, cultura e spessore alle nuove generazioni. Perché fare musica e studiare musica è una ricerca continua di idee, di stimoli, di creatività, di nuovi orizzonti.

La musica è, come il francese o il latino, una “lingua straniera” che contribuisce a sviluppare un alto grado di apprendimento; forma e articola il pensiero; impone regole e disciplina, perché senza disciplina è impossibile fare musica. Ma è ancora di più: quello della musica è un linguaggio spirituale che parla all’anima dell’uomo; è un linguaggio che non ha bisogno di traduzione in qualsiasi parte del mondo, perché è un’arte che va direttamente al cuore dell’ascoltatore ed è compresa con la stessa intensità in Paesi di lingue, usi e costumi diversissimi. 
In un’epoca, dove le differenze di civiltà portano alle tragedie che quotidianamente leggiamo sui giornali, imparare un linguaggio universale che unisce e non divide è una vera speranza per il futuro. Oltretutto, la musica è passione; è trasporto alla conoscenza dell’arte e del bello; è formazione perché è sviluppo intellettuale. Chi sa fare musica, poi, avrà gli strumenti per poter fare tutto il resto con un cervello diverso, più formato, disciplinato e strutturato.

Un liceo musicale dà ai giovani gli strumenti per poi muoversi in maniera autonoma non solo nel mondo dei suoni, ma in quello sociale delle persone e del lavoro, in quel mondo che si troveranno davanti una volta terminato il liceo.

Non a caso Platone scrisse: “La musica comprende l’insieme delle arti alle quali presiedono le Muse. Essa racchiude tutto quello che è necessario all’educazione dello spirito”.
Il liceo musicale è situato, da due anni, all’interno del Palazzo Pignatelli, già sede del Museo Umberto Nobile, il celebre esploratore ed ingegnere, noto soprattutto per le due trasvolate del Polo Nord per le quali costruì i famosi dirigibili “Norge” e “Italia”, che nacque proprio a Lauro. Il Palazzo Pignatelli è uno dei luoghi più indicati dove potersi dedicare alla musica, se non altro per la bellezza e la particolarità delle decorazioni a grottesche, rinvenute casualmente nel 1980 e riportate alla luce con un importante lavoro di restauro. Questo tipo di decorazioni, che vedono volti mostruosi, fauni e arieti, motivi floreali, animali antropomorfi e figure allegoriche, erano già note nella Roma imperiale, ma vennero sviluppate nel Rinascimento da illustri pittori come Giorgio Vasari.
I programmi musicali per il prossimo futuro vedono l’organizzazione di una master class di due giorni, tenuta dalla violinista Susanna Pisana, allieva del celebre Norberto Brainin (tra l’altro fondatore del celebre quartetto Amadeus) alla scuola di musica di Fiesole, e specializzata all’Accademia Chigiana. Si chiuderà con un piccolo concerto tenuto dagli allievi, che avranno così l’opportunità di potersi esibire in pubblico. Nella stessa data verrà organizzato un open day per presentare il liceo e far conoscere nel dettaglio il programma della scuola.

Ma Lauro non è solo questo: è anche storia, architettura e monumenti, con le sue chiese, i suoi palazzi, la villa romana del I sec. d. C. con il suo bellissimo ninfeo e il castello Lancellotti che domina il paese. Per questo Lauro andrebbe valorizzato e preservato, facendo in modo di attirare i turisti ad ammirare le sue bellezze.

Per fare questo, è necessario riportarlo allo splendore, curando i murales, riaprendo i musei, ricominciando ad organizzare eventi ed iniziative, innalzando il suo spessore culturale. Bisogna fare in modo che i tanti che non conoscono Lauro desiderino scoprirla avendo, così come accaduto a noi, una inaspettata sorpresa.

Sfere-Fine-Pagina

 

ANTONELLO DA MESSINA VERSUS HIERONYMUS BOSCH di Enrico Malizia – Numero 6 – Ottobre 2016

art_malizia-copertina
cat-arte
cat-cultura
cat-sud

ANTONELLo da messina versus hieronymus bosch 

 

soprannome di Antonio di Giovanni de Antonio, nato a Messina nel 1430 e ivi morto nel 1479, è il più grande pittore del Mezzogiorno d’Italia non solo del 1400 ma, secondo me, di tutti i tempi.

La sua arte riesce a fondere ed equilibrare la luce, l’atmosfera e la meticolosità dei dettagli, propri della pittura fiamminga, alla costruzione prospettica degli spazi, desunta essenzialmente da Piero della Francesca e Guido d’Arezzo, nonché alla maestosità delle figure e dello scenario, assimilato da Giovanni Bellini.
La sua profonda conoscenza dell’arte fiamminga risale al 1450, quando lavorava da apprendista a Napoli nella bottega del pittore Colantonio, ove ebbe modo di conoscere molti maestri fiamminghi (oltre agli spagnoli e ai provenzali), che lavoravano in quella metropoli, specie nella corte angioina prima e aragonese poi; inoltre, nei palazzi reali e della nobiltà ha potuto ammirare capolavori di quelle scuole. Dallo studio attento di quei Maestri, particolarmente di Petrus Christus, Hans Memling, Jan van Eyck e Jean Fouquet, apprese a dipingere su tavola, ad usare (uno dei primi in Italia) la tecnica a olio e la loro costruzione della ritrattistica.
La tecnica a olio, consentendo di stendere trasparenze di colore in successione, ottiene effetti di luce, luminosità, morbidezza e precisione che non si possono realizzare con la pittura a tempera.
La scuola fiamminga non orienta i ritratti di profilo (come la nostra pittura), ma di tre quarti, il che consente di effettuare una profonda analisi fisica e psicologica dell’effigiato. Rispetto ai Maestri fiamminghi che lo avevano preceduto e di quelli a lui contemporanei,

 

 

Professore, il suo è un nome internazionalmente noto nel campo della medicina, come mai ha scritto un poderoso libro su un pittore, per di più fiammingo?

Fin dai primi anni di scuola ho avuto una grande passione per le discipline umanistiche, che ho coltivato leggendo, viaggiando molto e trascrivendo le osservazioni, le meditazioni e i pensieri su carta, con il risultato che ho pubblicato trentaquattro volumi oltre a un gran numero di articoli. 
Bosch, come spiego dettagliatamente nell’introduzione, mi ha abbagliato dal 1966. Ho visto tutti i suoi dipinti e molti disegni, e ho ricercato sul posto tutti i documenti reperibili, approfittando di essere stato consulente della Comunità Europea per circa due anni e di essere stato insignito della laurea honoris causa per i risultati delle ricerche scientifiche mediche.

Professore si sente totalmente italiano o parzialmente contaminato da altre nazionalità?

Mi sento profondamente italiano, lucano da parte di padre e romano di madre. Non posso però dimenticare di essere cittadino europeo e di tutto il mondo. La bellezza, la cultura e la verità sono universali. Il Presidente Ciampi mi ha insignito della medaglia d’oro cui tengo di più tra le tre ricevute: “Benemerito della Scienza, della Cultura e dell’Educazione”. La mia nascita mi colloca prevalentemente nel meridione della Penisola, al quale ho sempre riconosciuto grandi qualità che un regno sempre arretrato rispetto al resto dell’Italia non ha consentito di far sbocciare come merita e come dimostrano le eccellenze fiorite nel Sud, come Antonello da Messina, oggetto del mio ultimo saggio. Dopo l’Unità di Italia, specie con l’istaurazione della Repubblica, si sono fatti grandi passi avanti rispetto alla storia precedente. Sono certo che in futuro si riusciranno a integrare le due parti dello Stivale, anche se il processo sarà lungo e complesso, soprattutto perché non favorito dalla legislazione delle regioni e delle province.

 

Professore, ci parli adesso del suo volume e perché ha scelto Antonello da Messina come eccellenza da confrontare con Bosch.

Si tratta di un volume alla II edizione dopo 7 mesi dalla prima, di 532 pagine, di cui 138 illustrazioni a tutta pagina, 99 di esse a colori: un’introduzione, ventidue capitoli, un commento descrittivo, note al testo e catalogo delle opere. Bibliografia, una nuova prefazione del Prof. Strinati e una nuova presentazione del Prof. Massari. Ho esposto tutte le notizie storicamente documentate e le ho fuse con quelle da me intuite sulla base dei dipinti, della storiografia della sua città natale Hertogenbosch delle Fiandre e di tutta Europa dal 1450 al 1516. Ho scritto in prima persona, come se fossi il pittore, e al presente storico. Ho espresso tutta la narrazione sotto forma di vivaci dialoghi che rispecchiano il pensiero dei suoi tempi di transizione tra Medioevo e Rinascimento, affidandomi a vari personaggi, in primis a Erasmo da Rotterdam, che aveva studiato nella sua stessa scuola e di cui, come desunto dalle rispettive opere, condivideva molti argomenti, quali la follia, il libero arbitrio, la critica alla decadenza morale, specie del clero, e il rigetto del riformismo delle sette. Ho acquisito notizie complete sull’albero genealogico che mi hanno consentito di farlo dialogare con tutti i suoi familiari. Ho ritenuto che nella genesi delle incredibili visioni giocasse oltre a una fantasia eccezionale l’uso delle droghe vegetali dette delle streghe, di cui ho riportato ricette e meccanismo di azione. Infine ho descritto nel capitolo X un compendio di alchimia, nel capitolo XII di magia e stregoneria, desunto dai resoconti di processi inquisitori per queste pratiche; di simbolismo poi ho parlato in tutto il volume, come dei proverbi fiamminghi.
Per quanto riguarda la scelta di Antonello da Messina per un confronto con Bosch, questa non è stata motivata dai contenuti visionari che nelle opere del pittore siciliano non compaiono, ma dall’aria di mistero e dalla costruzione delle figure e dallo stile, che in Antonello non si limita all’arte fiamminga, ma la fonde con rara abilità alla prospettica spaziale della scuola italiana, come del resto ho spiegato nel saggio.

 

Grazie professore

 

Antonello dedica minore attenzione al dettaglio, privilegiando la caratterizzazione psicologica e umana, come avverrà nelle opere di Bosch, esprimendo all’esterno – specie nel volto – quello che avviene nell’intimo.

Lo schema compositivo fiammingo del ritratto, in cui Antonello rifulge, è caratterizzato come segue. L’effige è immersa sempre in uno sfondo scuro per farla risaltare maggiormente. II busto viene tagliato sotto le spalle, la testa girata verso destra, gli occhi guardano direttamente lo spettatore, cercando di ottenere un contatto psichico con lui, la luce illumina il lato destro del volto, lasciando il sinistro in un’ombra misterica, proprio come quella che avvolge le figure boschiane. Di Antonello si ammirano svariati splendidi ritratti, eseguiti con quest’archetipo; da notare che dopo “L’uomo di Cefalù” (1460) il Maestro aggiunge, come i fiamminghi, una balaustra in basso, su cui appoggia un cartiglio che riporta firma e data, tipico elemento fiammingo.

Nel 1460 Antonello da Messina dipinge la Crocefissione detta di Sebiu (si trova nel Museo d’Arte di Bucarest), molto interessante sia perché consente di confrontare la tecnica italica con quella fiamminga, non ancora fuse tra loro, sia per comparazione con opere analoghe di Bosch.

Il dipinto, come individua il Longhi, va diviso in due parti: l’inferiore, di netta concezione fiamminga, è priva di profondità spaziale, ma splende di colore, di espressività delle figure e di meticolosità nei dettagli (v. Crocefissioni e immagini del Golgota in H. Bosch di E. Malizia (1) tav. 4A, 5B, 19, 40, 61). La parte superiore, di chiara concezione italica, mostra una perfetta costruzione dello spazio e dei volumi, ponendo le croci alle quali sono infissi i due ladroni, in posizione ortogonale rispetto a quella del Cristo. La discrepanza stilistica tra le due parti fa ritenere, come pensa il Longhi, che la parte superiore sia stata aggiunta alla inferiore successivamente, mediante un accostamento ligneo delle due tavole, senza una riequilibrazione architettonica e concettuale. Una diversità di stili che non si osserva sia nelle successive Crocefissioni di Anversa e di Londra sia nella coeva, la cosiddetta Madonna Salting, in cui l’iconografia e lo stile fiammingo sono equilibrati da una perfetta costruzione prospettica e volumetrica.
Tra il 1465 e il 1470 circa realizza il Ritratto d’uomo di Cefalù.

 

Negli anni successivi Antonello risale l’Italia, toccando Roma, la Toscana e le Marche, venendo sicuramente a contatto con le opere di Piero della Francesca, dalle quali mutuò la salda monumentalità e la capacità di organizzare lo spazio secondo le regole geometriche della prospettiva lineare.

A seguito di questo incontro, Antonello perfeziona e amplifica la spazialità prospettica, come si desume dall’Annunciazione del 1474 conservata nel Museo Bellomo di Siracusa. In questa tavola lo spazio è unificato dalla prospettiva (con la presenza del punto principale alla sinistra dell’angelo) e dalla costruzione modulare dell’inquadratura, basata sull’interasse delle colonne e sul sottile digradare della luce verso il fondo della prima stanza.
Sempre nel 1474, il Maestro si reca a Venezia, dove entra in contatto con la pittura di Giovanni Bellini. Nel Salvator mundi, la sua prima opera firmata, e datata 1475, l’iconografia è ripresa dai fiamminghi, ma la piega dello scollo bassa e la mano benedicente in avanti accrescono la spazialità della composizione, accorgimento usato anche da Bosch (v. in E. Malizia (1) tav.9A e 48, particolari Cristo Giudice).
Del 1475 va ricordato in primis il San Girolamo nello studio, ora alla National Gallery di Londra. La scena, inquadrata in un arco di trionfo, è architettata in modo da far coincidere

 

i raggi luminosi con quelli prospettici; il loro centro è rappresentato dal busto e dalle mani del santo al lavoro nel suo studio, ingombro di libri e di oggetti, meticolosamente rappresentati. Oltre ai libri e ai simboli (come il pavone in primo piano) va anche rilevata la costruzione dello spazio, illuminato da diverse fonti di luce secondo l’esempio fiammingo.

Nella penombra si scorge il leone che si avvicina al portico. Di particolare significato è il pavimento, che richiama quello della Madonna del cancelliere Nicolas Rolin di Jan van Eyck. Contrariamente non vi è alcuna affinità con il S. Girolamo di Bosch (v. (1) E. Malizia, parte centrale del Trittico Pala degli Eremiti, tav.54), che invece si avvicina alla tavoletta S. Girolamo penitente (1461), conservato nel Museo di Reggio Calabria.
Sempre del 1475 è l’Ecce Homo del Collegio Alberoni di Piacenza firmato e datato, un volto che ricorda, come profondità e dolcezza di espressione, quelli dipinti da Bosch (v. (1) E. Malizia, tav. 4B, 21, 34).
Dello stesso anno vanno annoverate: La Crocifissione e il Ritratto d’uomo della National Gallery di Londra, la Pietà del Museo Correr, il Ritratto d’uomo, detto il Condottiero del Louvre e il Ritratto d’uomo della Galleria Borghese.
Tra il 1475 e il 1476 esegue la Pala di San Cassiano (mutilata, ma per fortuna rimangono intatti conservati a Vienna la Vergine sul trono rialzato e quattro santi a mezzo busto), dipinto ispirato dalla Sacra Conversazione di Giovanni Bellini per la chiesa dei Santi Giovanni e Paolo andata perduta. Nell’opera di Antonello risalta però non solo un impianto più distanziato e solenne, che dà maggior respiro e soprattutto crea dalla luce gli effetti atmosferici che illuminano il dipinto, rendendo più vive le figure. 
Del 1478, o del ’75-76, è il San Sebastiano di Dresda, parte centrale di un trittico smembrato: la figura monumentale del santo, accentuata dal punto di vista ribassato, ruotata leggermente a destra, costituisce l’asse del dipinto. L’influenza di Piero della Francesca è evidente nella disposizione vitruviana degli elementi e nel pavimento messo di scorcio in prospettiva che conduce lo sguardo verso il piazzale in fondo (v. il S. Cristoforo di Bosch, tav. 6 A e S. Giovanni a Patmos di Bosch, tav. 9 B su E. Malizia). 
Antonello da Messina dopo il suo ritorno in Sicilia nel 1476 realizza L’Annunciata di Palermo: Maria, distratta dalla lettura, è colta nell’attimo in cui interloquisce con l’Angelo che le sta dinnanzi. La sua mano destra sembra volerlo fermare; dalla sagoma geometrica del manto emerge il perfetto ovale del volto; la piega del manto sulla fronte giù fino all’angolo del leggio forma un asse – forse casuale – della composizione; il lieve girare della figura e il gesto della mano rendono naturale tutto lo scenario.

 

Per la sua bellezza senza tempo, il colore del manto e lo sguardo, questo dipinto può essere ritenuto un’opera misteriosa ed enigmatica, come quelle di Hieronymus Bosch, e di buon diritto rappresenta uno dei traguardi fondamentali della pittura rinascimentale italiana. La bellezza formale, lo sguardo magnetico e la mano sospesa in una dimensione astratta ne fanno un capolavoro assoluto.

Dello stesso anno è il ritratto d’uomo, detto Ritratto Trivulzio, del Museo Civico d’Arte Antica di Torino, in cui l’incarnato si accorda perfettamente al colore rosso della veste. Un dipinto che piacque talmente anche a Galeazzo Maria Sforza da indurlo ad invitare Antonello più volte a Milano senza risultato.
Tra il 1476 e il 1478 dipinge la Pietà del Museo del Prado; il paesaggio intorno è caratterizzato da teschi e tronchi secchi a significare la morte, mentre in secondo piano la città e il verde della natura simboleggiano la Resurrezione. Il corpo di Cristo morto, sorretto da un angelo, è ripreso da temi di origine nordica; è dipinto realisticamente, sia nel costato sanguinante che nel volto sofferente, probabilmente ripreso dalla tavoletta del Cristo alla colonna (1476 circa) del Louvre, in contrasto con la bellezza idealizzata di quello angelico.

 

Nel 1479 muore a Messina, ove viene sepolto nella Chiesa di Santa Maria Superiore. Le sue opere, sparse tra i più importanti Musei e collezioni di tutto il mondo, lo faranno rivivere in eterno.

OndeFineP
Antonello-Da-Messina
malizia

 

IL SUD ESPORTA INTELLIGENZE Editoriale di Francesco Serra – Numero 6 – Ottobre 2016

cat-sud

 

Grande_fuga

Tra 50 anni solo un italiano su quattro vivrà nelle regioni meridionali. Il grido d’allarme, lanciato dal rapporto Svimez 2015, non ha lasciato indifferente il Governo, ma la risposta a questa enorme ondata migratoria sta muovendo solo ora i primi passi.

 Il Sud non solo si sta svuotando, ma sta trasferendo altrove la qualità delle sue risorse. Secondo il rapporto Svimez, ad abbandonare il Mezzogiorno sono in particolare laureati, giovani, donne. Tra coloro che scelgono di vivere definitivamente altrove, la stragrande maggioranza sono proprio i giovani, il 40 per cento dei quali con un percorso universitario alle spalle. Al Sud si studia, ma non si trova lavoro: i laureati hanno un tasso di occupazione pari al 31,9 per cento, i diplomati pari al 24 per cento. Sono dati che fanno sprofondare il Meridione nelle classifiche europee. Per fronteggiare questa situazione, Matteo Renzi, nel novembre dello scorso anno, ha lanciato un Masterplan per il Mezzogiorno, indicato come un progetto fortemente innovativo: non più soluzioni calate dall’alto, ma interventi per “far leva sulle capacità e sulla voglia di mettersi in gioco dei cittadini e delle istituzioni meridionali”. In sostanza, il Masterplan è stato immaginato come uno strumento operativo finalizzato a mettere in movimento la società civile del Mezzogiorno in un contesto di “politica industriale e di infrastrutture e servizi che consentano di far diventare le eccellenze meridionali veri diffusori di imprenditorialità e di competenze lavorative, attrattori di filiere produttive in grado di garantire la ripresa e la trasformazione dell’economia del Mezzogiorno”. 
Sulla carta il progetto è molto ambizioso: si punta alla ripartizione di responsabilità tra le diverse amministrazioni, con l’obiettivo finale di costruire 16 Patti per il Sud con le 8 Regioni meridionali, le 7 città metropolitane (tra cui Napoli, Bari, Palermo e Cagliari) e il contratto di sviluppo di Taranto. 
A un anno dal lancio del Masterplan come si sono tradotte in pratica le indicazioni del Governo per il rilancio del Mezzogiorno e per fermare la fuga di cervelli?
Ad aprile Renzi ha fatto un tour del Meridione (Reggio Calabria, Catania, Palermo, Matera) al grido: “Si frulla per sbloccare l’Italia”. Buona volontà e propaganda per sostenere misure i cui risultati si potranno valutare solo a partire dai prossimi anni. A fronte della mancanza di interventi nella legge di stabilità del 2015, si è andati un po’ meglio in quella del 2016 (20% del Fondo di garanzia delle Pmi, il credito d’imposta sugli investimenti produttivi, interventi ad hoc per Bagnoli e Ilva di Taranto), per giungere, finalmente, allo stanziamento di circa 40 miliardi nella riunione del Comitato interministeriale per lo sviluppo il 10 agosto. 
In alcuni casi si tratta di riprogrammazione di risorse già disponibili e non utilizzate nel corso del tempo, piuttosto che di nuovi finanziamenti. Tuttavia, al di là dell’inevitabile perplessità per una comunicazione in generale propagandistica e sopra le righe, va riconosciuto che il metodo per la definizione dell’elenco degli interventi da finanziare (“Patti” tra Governo, Regioni, Città) rappresenta una novità interessante in termini di bilanciamento degli interessi nazionali e regionali. Altra cosa, invece, la valutazione delle scelte compiute, in alcuni casi non propriamente strategiche. 
A volte è la stessa narrazione trionfalistica del Governo a non sposarsi con la realtà. Un’oggettiva difficoltà nasce dal rapporto spesso conflittuale con le Regioni, ma anche il grande risultato di aver smaltito la quasi totalità dei fondi europei, non ha dato esattamente i frutti sperati: fino a oggi, si è trattato perlopiù di spese sostitutive di interventi già previsti con altre risorse. Il punto, in sostanza, dovrebbe essere non solo quello di non restituire i fondi europei, ma di accertarsi che gli stessi vengano utilizzati per ridurre gli squilibri e non solo per tappare i buchi. 
La notizia positiva viene invece dal finanziamento dei singoli Patti regionali e dalla firma del primo patto territoriale, quello con la Campania, che impegna il Governo e la Regione a realizzare interventi per 9,6 miliardi di euro, conteggiando i fondi già messi in conto nei diversi cicli di programmazione. L’intento è quello di mettere nero su bianco un elenco di azioni prioritarie su cinque macrosettori (infrastrutture, ambiente, sviluppo, turismo e sicurezza) entro il 2017. In caso di mancato raggiungimento dell’obiettivo fissato, il Patto prevede il ritiro del sostegno economico all’opera in oggetto. 
Il dato più interessante è certamente quello rappresentato dal finanziamento (circa mezzo miliardo) per 88 cantieri della cultura nelle cinque principali regioni del Sud. Il Cipe ha approvato il Piano di Azione e Coesione Complementare (Pac) 2014-2020 che costituisce l’ultima tranche del Piano operativo nazionale (Pon) Cultura e sviluppo del Mibact. 
Gli interventi sono tutti di rilievo. Tra gli altri, quelli per il Museo archeologico di Napoli, i parchi archeologici di Cuma, Velia e Paestum, la Reggia di Caserta, la Real Tenuta di Carditello, i musei e i parchi archeologici di Sibari, Locri e Scolacium, Castel del Monte, i Castelli Svevi di Trani e Brindisi, il Castello di Carlo V a Lecce, il parco archeologico di Venosa, il museo archeologico di Metaponto, il parco della Valle dei Templi di Agrigento e il parco archeologico di Gela. Misure che dovrebbero anche essere finalizzate a creare nuova occupazione e a contrastare la fuga di cervelli.
Da segnalare, infine, la rilevanza delle risorse messe a disposizione per il Contratto di programma RFI e le azioni previste per l’ulteriore rafforzamento dell’Accordo di partenariato sia per le aree interne, sia per i programmi complementari in materia di “Ricerca e innovazione” e delle “Città Metropolitane”. 
Come sempre, tuttavia, l’efficacia dell’intero programma si giocherà sull’effettiva disponibilità delle risorse e sull’efficienza dei diversi centri di spesa, questioni sulle quali, anche nel recente passato, la macchina amministrativa, ai diversi livelli istituzionali, non ha di certo brillato.

 

simbolo2

IL SUD ESPORTA INTELLIGENZE

 

serra
Senza titolo-5

 

 

ESULI NAPOLETANI A TORINO di Francesco Antonio Genovese – Numero 6 – Ottobre 2016

art_genovese-copertina
cat-storia

ESULI NAPOLETANI A TORINO

cat-cultura
cat-sud
Francesco-Antonio-Genovese
esuli_napoletani

1.In tempi di Riforma Costituzionale viene spontaneo richiamare esempi luminosi e lungimiranti di azione politica. Mi riferisco al tempo in cui i costruttori del nuovo Stato (principalmente, Cavour e quel personale politico che, sinteticamente, si sarebbe oggi chiamato il «cerchio sabaudo») cominciarono a comprendere come la scienza giuridica poteva e doveva essere un’alleata, non un’antagonista!

E’ il caso di richiamare la vicenda di tre «fondatori» di quel connubio tra scienza giuridica e politica, tutti napoletani

il Pisanelli, si era stabilito a Napoli nel 1830, dove aveva acquisito una solida cultura giuridica e letteraria, dove si era laureato (nel 1832) in giurisprudenza, a soli venti anni, e dove si era inserito perfettamente nella società civile, frequentando i salotti della capitale borbonica, in particolare quello di Carlo Poerio,

Nonostante la capacità di cimentarsi nella materia civile, sarà un’altra opera di dottrina penalistica a segnalare il suo nome, poiché solo un anno dopo pubblicherà l’opera, adesiva della tesi abolizionista, Sulla pena di morte (Napoli 1848), in seguito più volte ristampata e divenuta un vero e proprio cult ante litteram.

Insomma, Giuseppe Pisanelli era passato, per merito delle sue sole capacità – e quando la scuola era ancora un ascensore sociale -, da piccolo provinciale salentino a fine e brillante giurista, a buon grado un intellettuale europeo, cresciuto culturalmente nella Napoli capitale preunitaria (allora, ancora la più grande città italiana), specie quando, in ragione di alcune note vicende politico-costituzionali di cui si dirà, «passerà il Rubicone» trasferendosi a Torino: la città del grande Cavour.

3. In quella stessa Napoli, con qualche anno di meno, aveva cominciato i suoi studi letterari un giovane irpino, Pasquale Stanislao Mancini, al liceo del Salvatore di Napoli – seguito, però, in tali studi da uno zio materno, l’avvocato Giambattista Riola, un personaggio non trascurabile.

Mancini, che mentre frequentava i corsi di giurisprudenza nell’ateneo napoletano si sbizzarriva anche in esercitazioni letterarie e poetiche, si laureerà in giurisprudenza nel 1835, a soli 18 anni, avviandosi subito alla professione forense e, qualche anno dopo (1840), al pari di Pisanelli, anche all’insegnamento privato del diritto

– oltre che alla cura, fin dal 1838, di un periodico di divulgazione, Le Ore solitarie, che, dal 1842, mutata la testata in Giornale di scienze morali, legislative ed economiche, ospitava prestigiosi interventi di altri intellettuali (in particolare P. Galluppi, A. Scialoja, M. De Augustinis, K. Mittermaier), su temi giuridici e amministrativi, ed informava sulla cultura napoletana, sulla filosofia, ecc. e che, successivamente, si era sviluppata ulteriormente in una Biblioteca di scienze morali, legislative ed economiche, con argomenti concernenti i più vari rami del sapere giuridico, in una prospettiva nazionale.
Mano a mano, Mancini era venuto ad occupare un ruolo di primo piano nel dibattito nazionale nelle scienze giuridiche e morali, come ci si avvide quando, nel 1841 pubblicò la sua corrispondenza con T. Mamiani Della Rovere, in un volume, Intorno alla filosofia del diritto e singolarmente intorno alle origini del diritto di punire: lettere di Terenzio Mamiani e Pasquale Stanislao Mancini (Napoli, 1841), che ebbe una notevole eco.

Di tutto questo, ovviamene, la monarchia borbonica mostrava di non comprendere né la grandezza né il possibile beneficio per se medesima – come ha scritto, di recente, sulle colonne di questa stessa rivista Cesare Imbriani,

a proposito dell’esperienza del 1821 (cfr. C.I., La costituzione mancata a Napoli, in Myrrha, n. 3) -, diversamente da qualcun altro (il Regno del Piemonte), dove per merito di Cavour e dei suoi cooperanti, si stava acquisendo una ben diversa capacità prospettica ed egemonica, capace di saper bene utilizzare quegli ingegni e di coinvolgerli nell’opera riformatrice.

4. Accadde, infatti, che con l’avvio, nel 1847-48, dei moti costituzionali, i nostri tre intellettuali si immersero completamente nella vicenda politica.
Pisanelli, ad esempio, che pure si riconosceva nella costituzione concessa da Ferdinando II il 3 febbraio 1848, eletto nel primo Parlamento napoletano (nel maggio 1848) non vi poté svolgere un ruolo significativo perché lo stesso Parlamento venne sciolto subito, il 15 maggio dello stesso anno. Rieletto in giugno, cercò di dare il suo apporto innovativo con la proposta di legge per l’abolizione della pena di morte, quella per la riforma della legge comunale e provinciale e con il celeberrimo progetto per l’istituzione di un giurì (per i reati di stampa e quelli politici). 
Ma, ancora una volta, Ferdinando II non capì e fu solo svelto a veder corto e sciogliere il Parlamento, nel marzo 1849, sopprimendo le libertà costituzionali.

– nel senso di intellettuali cresciuti e formatisi a Napoli, per quello che allora Napoli rappresentava per l’intero mezzogiorno continentale (Abruzzo incluso): Antonio Scialoja (1817), forse l’unico napoletano vero, essendo il discendente di una famiglia procidana, poi trasferitasi a S. Giovanni a Teduccio – oggi un popoloso quartiere di Napoli, ma allora un comune orientale confinante, da quel lato, con la città, assieme a Barra, Ponticelli ed altri piccoli casali che verranno inglobati definitivamente (e perderanno perciò la loro autonomia) solo con la riforma della città, con la creazione della Grande Napoli da parte del fascismo, nel 1925; Giuseppe Pisanelli (1812), un salentino – essendo nato a Tricase, ora in provincia di Lecce, ma allora nella provincia di Terra d’Otranto – e Pasquale Stanislao Mancini (1817), di origini irpine – essendo nato a Castel Baronia (Avellino) -, ma trasferitosi assai presto a Napoli, per gli studi.
Tutti avevano studiato a Napoli, nella medesima facoltà di giurisprudenza, traendone grande profitto e successo.

 

2. In particolare, il più grande dei tre,

 

esponente del liberalismo costituzionale appena tornato dall’esilio, legandosi in amicizia a molti futuri esuli risorgimentali, tutti ritrovati a Torino, come Giuseppe Massari, Pasquale Stanislao Mancini e Antonio Scialoja.
Pisanelli aveva maturato anche una non comune capacità professionale-forense tanto che, come di solito avveniva, dopo aver coltivato anche interessi letterari e filosofici (che gli saranno non poco utili negli anni a venire), nel 1837 aveva pubblicato numerose arringhe e allegazioni forensi – com’era proprio degli avvocati di una certa capacità ed eleganza – ed una monografia giuridica penalistica – Sul problema della punibilità del mandante nei reati di sangue -, che aveva avuto anche un certo successo. Egli aveva anche cominciato ad esercitare la professione forense, prevalentemente in materia civile e, con discreta fortuna anche l’attività di insegnante privato – che era propriamente quella maggiormente gettonata nella Napoli preunitaria -, al punto che, nel 1839, aveva fondato, insieme a un altro brillante giurista napoletano, Roberto Savarese, una scuola privata di diritto, rimasta attiva fino al 1847, ossia alla vigilia dell’esilio.

Molti parlamentari furono arrestati, ma Pisanelli riuscì fortunosamente a imbarcarsi da Napoli, da dove raggiunse prima Genova e poi Torino – subendo, nel 1853, la condanna in contumacia a venticinque anni di reclusione e alla confisca dei beni.


Qui animò, insieme ad altri fuoriusciti napoletani, alcuni circoli politico-culturali di orientamento liberale e patriottico e da qui, nel giugno 1850, partì per un viaggio a Londra e a Parigi (dove entrò in rapporto con un gruppo di intellettuali: Vincenzo Gioberti, Guglielmo Pepe, Ruggiero Bonghi), per sensibilizzare le opinioni pubbliche degli Stati nazionali più sensibili, quelle inglese e francese, sulla situazione del Regno delle Due Sicilie. Tornato a Torino ritrovò Mancini e Scialoja, che erano già entrati in rapporto con l’entourage cavouriana e gli proposero di collaborare al famoso Commentario al codice di procedura civile per gli Stati sardi, un’opera di ampio respiro – in molti volumi – che non solo avrebbe dovuto sostituire i manuali stranieri in uso nei diversi Stati italiani, ma avrebbe dovuto offrire i materiali per la prossima codificazione, quella che sarebbe stata la base del processo e dell’organizzazione dell’Italia unita, su cui è cresciuta la nostra cultura giuridico-istituzionale, anche contemporanea.
Nel 1857, sempre a Torino, insieme a Massari e Scialoja, pubblicò un giornale legale, L’archivio, un vero e proprio deposito di idee giuridico-istituzionali che ancora attende di essere studiato ed esaminato.

Non c’è allora da meravigliarsi se troviamo Pisanelli attivo collaboratore nel processo di riordinamento delle Università di Modena e Bologna, coordinato, nel 1859-60, da Luigi Carlo Farini, il governatore provvisorio delle province dell’Emilia e, dall’estate 1860, a seguito della spedizione dei Mille e del tracollo della dinastia borbonica, tra quegli esuli napoletani ai quali Cavour si rivolge per contrastare Garibaldi nella transizione verso l’unificazione nazionale.


Eccolo allora ritornare lì da dove era partito esule, ma stavolta come ministro della Giustizia (nel governo provvisorio insediato da Garibaldi all’inizio di settembre 1860), nella ricerca di far estendere al Mezzogiorno lo Statuto albertino e i codici del Regno di Sardegna e per divenire, di lì a poco, professore della prima cattedra di diritto costituzionale istituita all’Università di Napoli (29 ottobre 1860), poi nuovamente Guardasigilli nel governo del luogotenente Luigi Carlo Farini, autore di una interessante legge di ordinamento giudiziario, che non era affatto la replica – pura e semplice – di quello sardo del 1859.

5. A sua volta, Antonio Scialoja, che era stato nominato (già nel 1846) professore di Economia politica all’università di Torino e che nel 1848, quando Ferdinando II aveva concesso lo Statuto, aveva fatto ritorno a Napoli dove era diventato ministro dell’Agricoltura e del commercio, ma poi era stato arrestato, dopo la restaurazione dei Borbone (nel settembre del 1849), e condannato a nove anni di reclusione, commutati nell’esilio perpetuo dal Regno di Napoli – per intercessione di Napoleone III. Cosicché,

tornato a Torino, l’economista napoletano era stato subito officiato di diversi incarichi e – avendolo Cavour in grande stima – perciò impiegato nell’opera di rinnovamento del Piemonte e che aiutò non poco gli altri esuli nella considerazione del grande statista Piemontese.



Sicché, tornato anch’egli a Napoli durante la «dittatura» di Garibaldi, aveva ricoperto la carica di ministro delle Finanze, da dove aveva cominciato una rilevante carriera ministeriale – come segretario generale del ministero dell’Agricoltura, industria e commercio (1861), segretario generale del ministero delle Finanze (1861- 1862), ministro delle Finanze (1865-1866 e 1866-1867), ministro della Pubblica istruzione (1872- 1874).

6. Anche per Mancini, l’esilio torinese (dopo aver difeso alcuni colleghi deputati colpiti da varie accuse per i fatti del 15 maggio) si rese necessario per il suo coinvolgimento personale nel processo e poi la condanna a 25 anni di carcere in contumacia. E anche lui era fuggito (1849), con la nave francese “Ariel”, con l’intenzione di espatriare in Francia, lasciando a Napoli la moglie e cinque figli. Ma una volta a Genova decise di rimanere nel Regno di Sardegna e, soprattutto lo Sclopis (un importante giurista ed intellettuale torinese), lo aveva convinto a stabilirsi a Torino, dove gli giungerà la notizia della privazione della cattedra di diritto naturale – alla quale l’ateneo napoletano lo aveva chiamato due anni prima.

A Torino, dove trovò un gruppo di altri esuli (R. Conforti, G. Pisanelli, V. Lanza, tra gli altri), si rivelò provvidenziale la rete di conoscenze che aveva coltivato negli anni precedenti che gli resero più facile l’inserimento nell’ambiente subalpino (C. Balbo, M. d’Azeglio, ecc.) dove venne presto chiamato ad importanti incarichi

– ad es., dalla presidenza del Consiglio, per un Progetto per la creazione di una scuola diplomatica che si proponeva di fornire alla carriera degli Esteri una nuova classe dirigente, che non fosse solo di provenienza aristocratica. 
Mancini, infatti, era convinto che i Piemontesi avevano “una grande missione e una grande responsabilità insieme” e che da loro dipendeva il futuro dell’Italia e il mondo cavouriano gli riconobbe, dopo un lungo dibattito in entrambi i rami del Parlamento, con un regio decreto (14 nov. 1850), una cattedra di diritto pubblico esterno e internazionale nell’Università di Torino, dove cominciò le sue lezioni con una prolusione dal titolo Della nazionalità come fondamento del diritto delle genti (Torino 1851), che ebbe un grande successo.

Ma, accanto all’insegnamento ed al lavoro intellettuale, Mancini portava avanti anche l’attività professionale, sia quella forense sia quella di studio:

era divenuto un avvocato di fama (un decreto del 2 giugno 1851, concedendogli la cittadinanza sarda, gli aveva fornito il prerequisito per esercitare la professione legale sia in tribunale sia in Cassazione ma era servito a integrarlo anche psicologicamente nel sistema piemontese).
Inoltre, gli arrivavano incarichi ufficiali: nel 1850, il suo inserimento in una commissione creata per rivedere le leggi civili e criminali (su impulso del guardasigilli G. Siccardi); e, poco dopo, l’elezione a membro della Commissione per la statistica giudiziaria. Senza dire della collaborazione con U. Rattazzi nella preparazione della legge sulla soppressione delle corporazioni ecclesiastiche, promulgata nel 1855 nel Regno sardo.
Si è poi già detto dell’incarico particolare di studio della legislazione ordinamentale e processuale, in collaborazione con G. Pisanelli e con A. Scialoja, e con l’ausilio di alcuni giuristi piemontesi: il Commentario del Codice di procedura civile per gli Stati sardi, con la comparazione degli altri codici italiani e delle principali legislazioni straniere, I-VIII, Torino 1855-57.
Anch’egli – considerato a Torino il giurista più esperto nelle questioni dell’organizzazione statale e nei problemi di diritto internazionale -, fu perciò inviato da Cavour a Bologna e a Firenze per studiare i problemi legislativi, esperienza culminata con quattro relazioni: la base della decisione del governo di estendere la legislazione sarda all’Emilia e alle Marche e di lasciare in vigore in Toscana i codici preesistenti in attesa di una nuova codificazione che armonizzasse le condizioni legislative di tutto il Regno.

7. L’apporto dei giuristi – ed economisti, come lo Scialoja – napoletani, esuli a Torino, costituisce ancora una pagina non completamente esplorata della storia nazionale, ma rappresenta – per quello che è stato accertato – sicuramente un momento alto della cultura istituzionale ed innovativa del Mezzogiorno (con tutti i suoi uomini del foro, dell’Università e dell’insegnamento privato, dei circoli e dei salotti) nella preparazione e nella edificazione del nuovo Stato unitario.

La vita dei suoi protagonisti proseguirà ancora per qualche tempo, ma è in quello snodo di un ventennio circa (dal 1847 al 1865) che i Nostri diedero un contributo rilevantissimo alla nuova codificazione ed alla predisposizione dei fermenti di un’Italia fattasi finalmente Nazione, una realtà istituzionale, culturale e spirituale non chiusa, bensì – anche per il loro grande merito – aperta al dibattito europeo, ossia ad un tema che è ancora decisivo anche per il nostro tempo storico.

simbolo1

 

 

IL PROCLAMA DI TRANI di Umberto De Augustinis – Numero 6 – Ottobre 2016

art_deaugustinis-copertina
cat-storia

IL PROCLAMA DI TRANI

 

cat-cultura
cat-sud
trani

 Le vicende storiche della città di Trani in relazione alle sue istituzioni ed iniziative giuridico-giudiziarie sono di tutto rispetto e di eccezionale rilevanza anche per lo spirito di innovazione e progresso che le caratterizza.

 Gli “Ordinamenta et Consuetudo maris edita per consules civitatis Trani” (ovvero gli “Statuti marittimi”) sono il codice della navigazione nel Mediterraneo, risalgono al 1063 ed all’iniziativa del conte normanno Pietro di Trani. Ma Trani vanta anche l’esistenza di un polo giudiziario (avvocati, magistrati e professori di diritto) che ha costituito per molti secoli un vero motore di impulso, di rinnovamento, di proposta, di novità, con caratteristiche assolutamente peculiari d’avanguardia.

Già tra la fine del XV e i primi del XVI secolo, a Trani operava nientemeno che la prima donna al mondo ammessa ad esercitare la professione di avvocato: di Giustina Rocca è lecito pensare che si parlasse in tutta Europa, tanto che William Shakespeare ne riproduce il ruolo nella Porzia del “Mercante di Venezia”,

dimostrandosi ben consapevole della rivoluzionarietà di una scelta del genere (denunciata, nel caso, dai paludamenti maschili indossati da Porzia nell’esercizio delle sue funzioni). 
La tradizione successiva si rafforzò con la sede della “Regia Udienza” della Provincia, dovuta alla fama di città “innovatrice” goduta da Trani, e con la conferma costante sia del presidio giudiziario di primo grado che della Corte criminale. Nel 1899, la Corte di Trani aveva quattro Sezioni penali ed era considerata la terza corte dell’Italia meridionale dopo quelle di Napoli e Palermo. Era, dunque, un polo giudiziario di rispetto e rilevanza. 
In questo contesto decisamente effervescente e stimolante, nel mese di aprile del 1904, mentre a Roma si svolgeva uno sciopero generale in favore dei tipografi per una maggiore libertà di stampa (che sarà seguito da molti scioperi in vari settori nello stesso anno),

116 magistrati del distretto della Corte di appello di Trani, prevalentemente “pretori”, cioè magistrati di rango “basso”, decisero di predisporre ed inviare al Capo del Governo, Giovanni Giolitti, ed al Ministro di grazia e giustizia, Scipione Ronchetti, un documento con il quale, con toni abbastanza rispettosi, ma molto fermi, si chiedeva una sollecita riforma dell’ordinamento giudiziario,

partendo dalla considerazione dei cosiddetti magistrati in sottordine (i pretori), ai quali si chiedeva di attribuire competenze maggiori nella decisione del contenzioso civile e penale. In quel momento i pretori costituivano una sorta di riserva di base della magistratura, per progredire nella quale era previsto un concorso molto serio. Le osservazioni contenute nel “proclama” erano, tuttavia, certamente condivise anche da buona parte dei magistrati di rango superiore, che intravedevano in esse la possibilità di limitare le ingerenze dall’esterno con incremento del loro potere (ai capi degli uffici era attribuito il potere di redigere “rapporti segreti” sui “magistrati sottoposti” nei quali si parlava anche dei loro orientamenti politici, con influenza sulla carriera).

Il documento tranese, quindi, centrava le sue principali valutazioni sulla necessità di tutelare e garantire l’indipendenza della magistratura con particolare riferimento all’esterno.

A tal fine, memori delle tre ondate di epurazione seguite all’unificazione italiana con pensionamenti e rimozioni variamente giustificati, si esprimevano critiche alla possibilità per il Ministro di trasferire i magistrati con atti, tutto sommato, di motivazione solo apparente, stabilita fin dal 1859 dal Ministro Rattazzi per il Piemonte (r.d. 13 novembre 1859, n. 3781) e poi estesa al Regno d’Italia con il r.d. 6 dicembre 1865, n. 2626. All’epoca, la motivazione del trasferimento era «l’utilità del servizio»; il consenso dell’interessato non era necessario e spesso il trasferimento era solo una punizione, debitamente annotata nel curriculum personale. Il Ministro Ronchetti, che pure era di idee aperte – è sua l’introduzione in Italia dell’istituto della sospensione condizionale della pena – non gradì affatto le espressioni del “proclama”, usando “bastone e carota” e, cioè, promuovendo, da un lato, un centinaio di procedimenti disciplinari, ma, anche, curando, come risposta di “buona volontà”, l’accelerazione dell’approvazione della legge n. 372/1904, che stabiliva ruoli e stipendi degli impiegati pubblici, e riconosceva piccoli miglioramenti economici ai magistrati. Il significato politico della vicenda non passò, quindi, inosservato ed ebbe contraccolpi. All’esterno, solo 5 anni dopo, anche a seguito della pubblicazione sul “Corriere giuridico” del proclama, a Milano, veniva fondata l’Associazione Generale fra i Magistrati d’Italia (AGMI);

il documento, noto come “Proclama di Trani”, si consacrò, così, come l’espressione della prima protesta in forma collettiva della Magistratura (e, certamente, la più forte dal punto di vista dei pubblici funzionari) e, soprattutto, la premessa dell’associazionismo giudiziario.

La effettiva rivoluzionarietà degli eventi innescati a Trani nel mondo giudiziario, a riprova del fermento colto dai magistrati tranesi nel “proclama”, si coglie molto distintamente nelle successive valutazioni di Vittorio Emanuele Orlando, Ministro di grazia e giustizia nel 1909, il quale ebbe a manifestare “dubbi gravissimi sulla possibilità che l’iniziativa produca frutti utili e degni”, perché “la magistratura italiana ha una costituzione rigorosamente gerarchica” e “la gerarchia ne costituisce l’essenza”. Le iniziative caldeggiate nel proclama e sostenute dall’associazionismo giudiziario avrebbero danneggiato “la dignità e l’autorità” dei magistrati di maggior rango, perché anche le associazioni apparentemente apolitiche, “poi nella loro effettiva attività difficilmente vi si mantengono fedeli”.

Orlando coglieva, dunque, il significato politico del processo riformatore avviatosi a Trani, al quale aveva dato risposta con importantissime leggi

(note come leggi Orlando n. 511 del 1907 e n. 438 del 1908, quest’ultima istitutiva di un Consiglio superiore della magistratura). Nelle sue parole si coglie la scelta di assicurare la funzionalità del sistema giudiziario all’azione di Governo attraverso la garanzia derivata dal rispetto della gerarchia giudiziaria (conformemente alle vedute dei gradi più alti della stessa magistratura dell’epoca). Si deve riconoscere, comunque, che, per le sue considerazioni ultime sopra riportate, alla fine, Vittorio Emanuele Orlando è stato, forse, il primo importante uomo politico ad avere intuito lucidamente la possibilità di un ruolo specifico ma anche il pericolo di una possibile degenerazione politica dell’associazionismo, oggetto tuttora di discussioni fin troppo a tutti note.

simbolo1
augustinis