MEDITERRANEI. ROSSELLINI TRA GRECIA E SPAGNA di Giusto Puri Purini – Numero 16 – Febbraio 2020

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MEDITERRANEI. ROSSELLINI  TRA GRECIA      E SPAGNA 

 

Nei suoi ultimi anni, di cui poco si è parlato, Rossellini era e si sentiva al centro di un vasto movimento storico umanista, costruito negli anni con una grande mole di lavoro e il cui unico comune denominatore erano il sapere e la conoscenza.

Su questo tasto aveva sempre battuto ed era convinto che una più ampia diffusione della conoscenza avrebbe lenito le ferite di un mondo lacerato dalla guerra e dalla diversità. 

 

La conoscenza, dunque, come ricerca di metodo, di nuova umanità. Essa, applicata al cinema ed alle sue arti collaterali, quali l’architettura, la scrittura, la fotografia, la pittura, la scienza, ecc., creava un insieme esplosivo,

un laboratorio vivente di arti intrecciate, dove anche la politica come gesto 

e comportamento veniva assorbita.


Questa specularità tra gesto ed opera ha in qualche modo fatto di Rossellini un trasgressivo – e quindi anche la sua grande lezione è stata in parte disattesa – almeno nell’attimo in cui entrava nelle case di tutti attraverso la Televisione,  creando onde d’urto, vedi India negli anni Cinquanta per la RAI, La presa del potere di Luigi XIV, l’esperienza di Houston, l’intervista ad Allende, nonché le lettere ai vari capi di Stato, coloro ai quali sentiva che più vicina fosse la sua intuizione sulla conoscenza, sulla sua evoluzione.

 

Ricordo una notte, in cui mi chiamò molto tardi,

 

io pensavo si trattasse di lavoro, di trucchi, stavo lavorando per lui ad un film che era iniziato con una telefonata: «Caro Giusto, non vorresti domani partire per la Spagna e realizzarmi Atene? Dobbiamo girare il Socrate…»”. E quindi mi aspettavo di tutto, e così fu.

Mi lesse la lettera che aveva scritto a Mao Zedong

 

e voleva la mia impressione. Era una lettera intensa, da un capo “cultura” ad un capo di Stato, piena di attenzione ai movimenti della rivoluzione culturale cinese ed a quelli giovanili europei… fuggire dalla violenza attraverso la chiave del sapere, del conoscere, da mettere al servizio dell’uomo. L’anelito era sincero e la fiducia nel mezzo, il cinema, era totale. Grande mago dei mass-media, fu il primo ad intuire e sperimentare con la propria opera che dietro il ruolo dalla regia ben altre corde di valori universali potessero essere toccate, diffuse e trasmesse.  

 

Questa scintilla, testimone d’una avvenuta e ormai sperimentata fusione tra ambiente e spazio, dove l’uomo, capite e create le regole, dedica il suo tempo all’evoluzione della società che lo circonda, era l’obiettivo non nascosto di Roberto Rossellini.

 

Dice Jean Louis Comolli, ex redattore dei Cahiers du Cinema e autore
del film L’ultima utopia, la televisione secondo Rossellini: 

 

“Il progetto (monumentale, più di 60 ore in previsione, realizzato in buona parte tra il 1963 ed il 1974) si rifà esplicitamente all’ambizione enciclopedica del Secolo dei Lumi.

Rossellini punta alla creazione di un nuovo umanesimo.

 

Dare agli uomini del proprio tempo, almeno a tutti coloro che vanno al cinema e/o guardano la televisione, gli strumenti necessari per impossessarsi della propria storia e, tramite la storia, del senso della propria vita; per ricominciare a pensare al mondo e alla propria condizione, per ritrovare la capacità di immaginare e il desiderio di conoscere; per prendere le distanze (questa, fra le righe, la dimensione politica del progetto) dall’alienazione, prodotta dal divertimento e dallo spettacolo dominato dal consumo e dalla pubblicità”. Non a caso, la sua ricerca storico-umanistica – iniziata con

 

La presa di potere di Luigi XIV (1964), film che sarà determinante

 

nella sua scelta futura – metterà in luce i momenti di trasformazione della storia, rileggendoli non solo come frutto di scontri e battaglie, ma evidenziando le condizioni economiche, sociali, religiose ed ambientali nelle quali gli esseri umani si sono evoluti. Un grande termometro, quindi, per rilevare ad ogni passo la temperatura della storia!  

 

Prosegue (o inizia) questa ricerca con La lotta dell’uomo per la sua sopravvivenza (più di 10 puntate) nel 1966/68, poi gli Atti degli Apostoli, quindi Socrate, Blaise Pascal, L’età di Cosimo de’ Medici, ecc.

Noi, con Gepy e Maurizio Mariani (Gepy era figlio di Marcella Mariani, sorella 

di Roberto), dovevamo quindi disegnare la “Storia” attraverso i famosi trucchi. 

Che progetto affascinante! 

 

Iniziai con gli Atti nel 1968: fui scaraventato da Gepy sul set tra i monti della Tolfa, dietro Civitavecchia. Bisognava girare l’entrata a Gerusalemme di un gruppo di cavalieri romani, attraverso la porta Ovest della città… Ma non vi era città, solo un grande modello di Gerusalemme in scala 1:500 dietro la macchina da presa. Davanti ad essa un grande cristallo inserito in una cornice di 6 metri per 2, sollevato da terra da due colonne laterali in legno, camuffate da “dorico”. Una parte del cristallo era specchiata e vi si rifletteva il plastico retrostante, cosicché la macchina da presa, inquadrandolo, permetteva alla città di incollarsi con il paesaggio frontale. Una delle Porte di Gerusalemme, non avevo lo specchio, e corrispondeva a trecento metri di distanza nel fondo valle, ad un portale ricostruito, che i cavalieri romani attraversavano al galoppo.

 

Avvicinai l’occhio alla macchina da presa, l’insieme era perfetto! 

Ero entrato nel mondo dei trucchi! E Roberto Rossellini era un Mago!

 

Oggi, con il digitale, i  rendering, l’elettronica, il sistema dei trucchi di Roberto Rossellini sembra anacronistico, ma allora questo artigianato tecnologico dava un contributo determinante, tecnico ed (altamente) economico, per sviluppare un cinema della “conoscenza” e del sapere, che oggi purtroppo non esiste più.  

 

Fu con questo Maestro che applicai all’architettura il metodo di rilettura della storia; non mi bastava più il Bauhaus, il movimento moderno, ma volevo risvegliare lo spirito critico che nasceva da questa ricerca, capire quali erano i fili che tenevano o sostenevano l’uomo, dai tempi del mito fino all’oggi, indagare su ciò che andava perduto, sradicare le false certezze,

cercare una via “italiana”, mediterranea del sapere, lontana 

dalle “colonizzazioni” culturali dei tanti movimenti moderni e contemporanei, 

non per disdegnarli, ma per recepire anche gli urli di dolore che provenivano 

dalla gabbia psichica, e costruttiva, che il mondo occidentale si era in parte creato.

Qualche mese dopo, per la Lotta, dovendo girare il funerale del Faraone e tutta la cerimonia, che si svolgeva tra il tempio a valle e la piramide (con il corteo che ne valicava la soglia), proposi, per risparmiare sul budget, le cave di sabbia della Magliana, più vicine a Roma delle dune dei deserti tunisini.

Rossellini ne fu entusiasta e realizzammo forse uno dei trucchi 

più belli e più “metafisici”. 

 

A duecento metri dalla macchina da presa venne creato un piano inclinato, appoggiato ad una montagna di sabbia, che serviva a far entrare nella piramide il corteo del faraone. In basso venne disposto il tempio a valle (in grandezza naturale), poi il cristallo, la macchina da presa e, dietro, il plastico della grande Piramide di Cheope, con i tre colori del rivestimento, in marmi e pietre: porfido rosso la base, calcare la parte intermedia e marmo nero per la cuspide! 

Oltre ai disegni, alle misurazioni, alle varie costruzioni da realizzare, bisognava, sul cristallo, traguardando attraverso l’obiettivo, scontornare con un pastello la proiezione del modello retrostante, perché è quello che andava specchiato… 

Imparai, grazie a Gianni Bonicelli, giovane collaboratore di Roberto ed ex studente dell’Accademia del Cinema, a miscelare le taniche di nitro con altri prodotti, per ottenere gli specchi.

Nessuna imperfezione era permessa, nessuna sbavatura.

 

Spesso si lavorava di notte ed eravamo in ansia, perché gli specchi dovevano essere pronti il giorno dopo, con centinaia di comparse in arrivo e la grande scena da girare… da brivido!  

 

Quando, nel mese di marzo del 2005, Gianni Bonicelli mi ha chiamato per parlarmi del lavoro di Jean Louis Comolli, e per chiedermi di riprendere il mio ruolo di architetto-scenografo e “uomo” di trucchi in un’intervista, ho risposto con entusiasmo. 

Mi sono soffermato con loro soprattutto sul Socrate.

Eravamo nel 1970 e tutto incominciò con una telefonata notturna 

di Roberto Rossellini, in cui mi chiese se ero disposto 

ad andare in Spagna per cercargli Atene.

 

Follie delle coproduzioni, ma affascinato dal senso metafisico, accettai con un entusiasmo, e ci mettemmo alla caccia di un luogo che evocasse con realismo quell’Idealità.

Lo trovammo dopo due settimane, a 70 km a nord di Madrid,

 

in mezzo alle montagne: Patones de Arriba! 

Il grande borgo di pietra era abbandonato: ulivi, rocce, colline, cieli blu, sembrava la Grecia… ed era dall’altro lato del Mediterraneo, culla della nostra storia e area di forti similitudini morfologiche.  

Cercai il punto “X”, quello del totale, con l’Agorà, la piazza da costruire in primo piano, sullo sfondo il Borgo di pietra e sopra, sulla sinistra, l’Acropoli, il “trucco”. 

Dovetti con dolore sradicare degli ulivi, scavare e pareggiare 2 gradoni della montagna.

Per allargare maggiormente lo spazio ne aggiunsi un terzo di almeno 300 mq, 

questa volta sospeso nel vuoto, ancorato a tubi innocenti. 

Avevo così finalmente realizzato la piazza, 

era l’Agorà di Atene

 

(Rossellini mi disse poi, confidenzialmente, che si era trovato a girare in un campo che gli stava stretto! Ma, di realtà virtù). 

La collaborazione con la TVE (Televisión Española) fu ottima, lo scenografo Bernardo Ballester, divertito e spavaldo, non arretrava di fronte a nessuna delle spericolatezze che l’allestimento del set richiedeva.  

 

Quel mondo aveva dei rituali stimolanti. Si formava, soprattutto nel cinema d’équipe di Rossellini, un gruppo di persone molto affiatate tra di loro. I più erano in squadra da tanto tempo ed era ammirevole vedere il loro coordinamento, coadiuvare le intuizioni del regista, i suoi desideri di “inventare” ed improvvisare le scene sul momento, come un work in progress.

 

La sceneggiatura definitiva veniva scritta con La Rochefoucauld solo la notte prima.


C’era il figlio Renzo, regista e produttore, metronomo di Roberto, c’era la mamma di Renzo, la costumista Marcellina De Marchis, l’operatore Mario Fioretti, il Direttore di Produzione Francesco Orefici, il musicista e compositore Mario Nascimbene e tanti altri, attori, macchinisti, una vera corte dei miracoli, votata ad evitare sprechi, coltivare risparmi, ma “eseguire” in grande. Questo rapporto dinamico dell’équipe è stato uno degli insegnamenti essenziali avuti dal Cinema. 

Un DNA che si rivelerà per me fondamentale nel successivo passaggio verso l’Architettura “costruita”, nascosto nei meandri segreti delle mie future realizzazioni.

 

Il cinema presta all’Architettura la sua velocità di esecuzione, affronta lo spazio 

in modo creativo e spavaldo, calibra i vuoti ed i pieni, i campi ed i controcampi

 

e l’Architetto, conoscendo le dinamiche che sovraintendono il realizzarsi dell’opera, deve avvolgere di contenuti la macchina da presa. 

Mentre nel set di Patones de Arriba la natura circostante, le costruzioni, la storia, i templi con i loro colonnati, il Thòlos,

gli edifici in pietra esistenti, resi multicolori, dai toni pastello, i fregi sgargianti 

dei timpani si fondevano tra di loro, misi l’occhio nell’obiettivo: 

in alto nell’inquadratura il modello dell’Acropoli, tutto di nuovo 

si ricompose, come per incanto,

 

ed il giorno dopo Socrate con i suoi allievi fluttuava, nel centro dell’Agorà, in un luogo X del Mediterraneo. E la sfida di Roberto Rossellini continuava.  

 

 

 

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Photo credit direttore della fotografia Mario Moretti

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CASTEL CAPUANO E LA RESPUBLICA DEI TOGATI di Roberto Giovene di Girasole – Numero 16 – Febbraio 2020

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CASTEL CAPUANO E LA RESPUBLICA   DEI TOGATI

 

lo si deve contestualizzare sul piano storico, oltre che su quello sociale, politico e urbanistico di Napoli.

Solo studiando la storia della città ed il ruolo che ebbero il Castello e la zona circostante si possono comprendere appieno le ragioni che spinsero don Pedro de Toledo, nel 1536, a modificarne quella che oggi definiremmo la “destinazione d’uso”, individuandolo come sede dei tribunali, funzione che il Castello ha assolto fino al 2007. Vi ebbero sede la Gran Corte della Vicaria, che era divisa in quattro ruote, due civili e due criminali; il Sacro Regio Consiglio Collaterale di Stato, che giudicava in appello e trattava le cause tra i feudatari; la Regia Camera della Sommaria, che aveva competenza finanziaria e fiscale; il Tribunale della Zecca, che sovraintendeva ai bolli ed alle unità di misura; il Tribunale della Bagliva, che trattava le cause minori.

La città di Neapolis, costruita dai coloni greci che già avevano fondato 

gli insediamenti di Ischia (Phitecusae) e Cuma, ha resistito ad innumerevoli cataclismi, quali terremoti ed eruzioni vulcaniche,


fino ad oggi, quando come è noto è possibile visitarne il centro antico medievale, la cui pianta urbanistica, composta da cardini e decumani, ricalca perfettamente il tracciato greco e poi romano, parzialmente visibile al di sotto dell’attuale piano stradale, per esempio accedendovi dalla chiesa di S. Lorenzo Maggiore. Come ben sanno velisti, pescatori ed appassionati del mare, nonostante la vicinanza della città allo 
sterminator Vesevo, a salvare la città sono stati i venti, che l’hanno preservata sospingendo ceneri e lapilli verso l’entroterra e le costiere sorrentina e amalfitana, come dimostrato dalle rovine della magnifica città commerciale romana di Pompei e di quella di Ercolano. 

 

Alle città di Nola e di Capua conducevano le strade che partivano dalle più importanti porte di accesso alla città, porta Nolana e Porta Capuana, quest’ultima posta al limite est dei due decumani maggiori, che costituivano l’accesso dall’entroterra alla città.

Grande e magnifica Porta Capuana, era stata costruita sul perimetro delle mura aragonesi con alle spalle Castel Capuano, il più antico della città. 


La zona, fortificata fin dall’epoca del ducato bizantino1, quindi prima dell’epoca normanna alla quale tradizionalmente si fa, invece, risalire la fondazione del castello, probabilmente edificato su di una preesistente fortificazione, è stata per secoli il centro politico e culturale di Napoli, che dalla zona greco-romana cominciava ad espandersi verso ovest, fino al punto dove sorse l’altra fortificazione, il Maschio Angioino, che aveva la differente funzione di proteggerla dai pericoli provenienti dal mare.

Non più, quindi, semplice fortezza militare, ma vero e proprio castello,  

nel XII secolo l’edificio assunse la funzione preponderante di residenza reale quando nel 1266 divenne la dimora di Carlo I d’Angiò, 


durante gli anni della costruzione del Maschio Angioino2. Ma fu solo alla fine del 1400 che l’edificio smise di essere anche una fortezza, in conseguenza dell’ampliamento della cinta muraria intrapreso da Ferrante d’Aragona e portato avanti dal figlio Alfonso, che ne determinò l’inglobamento all’interno della cinta muraria.

Erano possenti quanto architettonicamente magnifiche le mura difensive, 


che dall’apice costituito dall’attuale ex Caserma Garibaldi, oggi sede dell’Ufficio del giudice di Pace del Tribunale di Napoli, dove sono ancora visibili le grandi torri cilindriche, scendevano lungo il tracciato di una parte dell’odierna via Rosaroll, in qualche tratto ancora visibili lungo la corte dei palazzi ottocenteschi che le hanno inglobate, per poi piegare fino alla nuova Porta Capuana, anch’essa ricostruita sul finire del ‘400 su progetto di Giuliano da Maiano. Una passeggiata lungo questo tracciato, completamente al di fuori del circuito turistico, pur non essendo lontano dalla celeberrima zona dei decumani, è un’affascinate scoperta di strade oggi popolari, dove si mescolano colori intensi, odori tipici della cucina napoletana e vestigia del passato.

Una delle arterie che maggiormente rispecchia la magnificenza architettonica ed urbanistica raggiunta da questa parte della città nella seconda 

metà del ‘400, è via S. Giovanni a Carbonara 


che, nonostante la presenza di strutture alberghiere e ricettive, non è ancora adeguatamente valorizzata e conosciuta dai visitatori e dai turisti. Come tradizione consolidata in tutte le grandi città del mondo, i nobili ed i ricchi mercanti per secoli hanno costruito i loro palazzi vicino alle residenze reali. Così è accaduto a Napoli, nelle adiacenze di Castel Capuano; in seguito, a via Toledo all’epoca del vicereame spagnolo e alla Sanità, quando dopo la costruzione della Reggia di Capodimonte vennero edificati i palazzi nobiliari tuttora esistenti, lungo il percorso che compivano in carrozza i Sovrani per raggiungere la nuova dimora dal palazzo Reale. Questi edifici vennero realizzati ad una quota rialzata rispetto all’antica sottostante zona, destinata invece alle sepolture fin dall’età ellenistica (i grandi ipogei sono stati parzialmente portati alla luce da recenti attività di scavo). 

 

La chiesa di S. Giovanni a Carbonara, costruita tra la metà del ‘300 ed il primo ventennio del XV secolo, con il monumento funebre di Re Ladislao di Durazzo e la cappella Caracciolo del Sole, edificata nel 1427 dal potente Gran Siniscalco del Regno Sergianni Caracciolo, amante della regina Giovanna II (poi assassinato all’interno di Castel Capuano a seguito di una congiura e quivi sepolto), sono una pregevole testimonianza della prima architettura rinascimentale a Napoli.  

 

Si comprende allora perché, dovendo riunire in un solo edificio le diverse giurisdizioni della città, e dovendo trovare un luogo simbolico, che rispecchiasse la grandiosità del potere regio in nome del quale la giustizia era amministrata, nessun edificio poteva essere più adatto dell’antico castello. Nei sotterranei vi erano le prigioni.

Per l’edificio di Castel Capuano comincia una nuova vita, quella più conosciuta, legata alla amministrazione ininterrotta della Giustizia 

per 470 anni, dal 1536 al 2007,  


anno in cui anche il settore civile, seguendo l’esempio di quello penale che si era trasferito nel nuovo tribunale al Centro Direzionale tra il 1994 ed il 1997, abbandonò definitivamente l’antico maniero. Impossibile nell’ambito di questo breve scritto ripercorrere, anche solo per sommi capi, le innumerevoli storie e cronache legate alla vita dei tribunali e dei  processi.

In esso si svolsero le vicende più importanti di quella che alcuni storici hanno definito la Respublica dei togati, con riferimento al ruolo preminente,

nella vita politica del Regno di Napoli, svolto dal ceto dei togati, 

composto dagli Avvocati e dai Magistrati. 


Anche il Sacro Regio Consiglio Collaterale di Stato, istituito da Alfonso d’Aragona nel 1442, affinché giudicasse in grado di appello sulle più importanti sentenze civili e penali, fu trasferito in Castel Capuano.

In precedenza le sentenze erano inappellabili e solo il Sovrano
poteva riformarle, anche nominando nuovi giudici. 


Venne definito sacro perché presieduto da Re in persona. Poiché il Re non poteva sempre essere presente fu, in seguito, creata la figura del Presidente: “furono in ogni tempo innalzati in tal carica personaggi chiari ed illustri…Il Sacro Collegio non solo rivede i gravami degli altri Tribunali, ma giudica altresì in prima istanza le cause di maggior momento. Esamina le maggiori Cause civili, le cause dè Baroni, e le cause feudali, giudica dello stato delle persone…” 3 

 

In epoca precedente all’800 era spettata al Consiglio collaterale anche “l’appellazione dei decreti dell’Assessore consultore del Protomedico della nostra città, il quale ha giurisdizione civile e criminale sopra le persone che esercitano l’arte medica e altri sudditi che mancano per ragion dell’arte, o esercitano la medicina senza esservi graduati” 4.

Nel 1739 in Castel Capuano fu istituito il Supremo Magistrato di Commercio che riunì le competenza che in precedenza “si agitavano nel Grande Ammirante, nell’Arte della Seta e della Lana; nella delegazione dei cambi…” 5 


Nel castello, che per secoli ospitò la colonna dove per volontà del Vicerè spagnolo il fallito doveva salire a capo scoperto e restarvi per un’ora, esposto al pubblico ludibrio, si svolsero certamente processi sommari e ingiusti, in particolar modo quelli contro gli oppositori politici, ma si sviluppò anche in maniera marcata l’attività di un ceto di Avvocati che non temevano di sfidare il potere costituito, pur di vedere affermati i principi di libertà e di giustizia. Ricordiamo, nel 1850, il processo a carico di Luigi Settembrini, Nicola Nisco, Carlo Poerio, Michele Pironti, Filippo Agresti, tutti componenti della setta “Unità italiana” e imputati per cospirazione contro lo Stato. Il processo si snoda lungo ben 24 udienze e “gli avvocati fanno sentire la loro voce. Si oppongono, protestano contro i testimoni d’accusa Giuseppe Marini Serra, Enrico Cenni, Francesco Bax.” 6.

Ma già in epoche precedenti gli Avvocati napoletani si erano distinti 

per la loro azione in difesa dei diritti contro l’assolutismo regio: 


basti pensare alla Prammatica del regno di Napoli elaborata da Berardo Tanucci nel 1774, poi abrogata con legge del 1791, con la quale per la prima volta viene imposto a tutti i giudici della città di Napoli di motivare le sentenze; e il patrocinio dei meno abbienti introdotto a Napoli in epoca sveva, ad opera dell’imperatore Federico II, che istituì un avvocato dei poveri.

A Napoli fu creata anche una confraternita laicale di avvocati, 

quella di S. Ivo (Ivone), protettore degli avvocati, comparsa 

nel XVIII secolo con esclusivi scopi di beneficenza. 


Nella chiesa dei Santi Apostoli vi è la cappella di S. Ivone, “ch’è la seconda a destra entrando nella chiesa vedesi il deposito del presidente del sacro regio consiglio Vincenzo Ippolito, lavorato dal Sammartino. Quivi trovasi eretta una pia congrega laicale di avvocati, riuniti sotto il patrocinio di S. Ivone, che fu pietoso difensore dè poverelli. I governatori di essa, ricevute le suppliche dè poveri, in pubblica ragunanza mettono a disanima le loro ragioni, e trovandola causa regolare, se ne commette la difesa ad uno dè confratelli, a spese della congrega” 7

 

Fu proprio per tramandare ai posteri la storia di quanti, avvocati e patrioti, si erano battuti contro l’assolutismo, nell’anelito di una società più giusta e di un processo più equo, dove l’accusato potesse realmente difendersi dalle accuse, dinanzi a giudici che non fossero ciecamente obbedienti alla volontà del Governo, che

il 5 marzo 1882 furono collocati in Castel Capuano 13 busti, 


degli avvocati Francesco Ricciardi, Gaspare Capone, Davide Winspeare, Felice Parrilli, Giuseppe Raffaelli, Francesco Maria Avellino, Giuseppe Poerio, Pasquale Borrelli, Domenico Capitelli, Mario Pagano, Giuseppe Pisanelli, Nicola Nicolini e Roberto Savarese, in quello che oggi è denominato “Saloncino dei busti” (tranne quello di Savarese). Fu il primo nucleo di quella sorta di Pantheon dell’Avvocatura napoletana, costituitosi nei decenni successivi, con i busti collocati in quella che fu la grande sala della Corte di Appello di Castel Capuano, già sala della Regia Camera della Sommaria, oggi denominato Salone dei Busti, e quelli della Biblioteca De Marsico, che ricorda le figure di più di cinquanta Avvocati.  

 

Senz’altro la funzione di palazzo di Giustizia ebbe l’effetto di sottoporre l’edificio a continui rimaneggiamenti per far fronte alle esigenze di vita pratica dell’amministrazione della giustizia che ne hanno compromesso la preesistente architettura.

Oggi è in corso, finalmente, un importante progetto di restauro dell’edificio, 


all’interno del quale sono stati riscoperti alcuni ambienti, non ancora restaurati ed aperti al pubblico, come del resto l’intero complesso monumentale, eccezion fatta per alcuni uffici e per la prestigiosa e preziosa Biblioteca degli Avvocati, gestita dall’Ente Biblioteca di Castel Capuano Alfredo de Marsico.

La Biblioteca ha più di un secolo di vita. 


Fu, infatti, ufficialmente inaugurata il 19 luglio 1896, per essere in seguito trasferita dove si trova oggi, vale a dire in una delle più grandi sale del Castello, che fu sede della Gran Corte criminale prima e poi della Corte di Assise, nell’ottobre del 1936.

Un brulicare di persone, giudici, avvocati, cancellieri, testimoni, gente comune, 

nel tempo aveva trasformato il Cortile di Castel Capuano in una vera e propria Agorà, nella quale incontrarsi e discutere non solo di processi e condanne 

ma anche di affari e commerci.  


Infatti l’accesso al cortile era aperto al pubblico e privo di controlli, e cosi è stato fino agli anni ’60, poi a seguito di una sparatoria avvenuta all’interno dell’affollato cortile venne limitato l’accesso e predisposto un controllo all’ingresso. 

 

Un’Agorà che assolveva ad un ruolo molto importante poiché consentiva al popolo, in nome del quale, venuto meno l’assolutismo regio, si amministra la Giustizia, di controllare effettivamente, de visu, lo svolgimento dei processi, rendendo effettiva la pubblicità del dibattimento, uno dei principi fondamentali dello stato di diritto.

E quel popolo, composto da individui appartenenti a tutte le classi sociali, assiepandosi nelle sale, sempre non sufficientemente grandi 

per accoglierlo tutto, non si limitava ad assistere 

ma in qualche modo partecipava 

alla vicenda processuale, 


non mancando di esprimere rumorosamente consenso per una convincente arringa difensiva oppure dissenso per una difesa inefficace o per una condanna ritenuta ingiusta. E’ andata avanti così per secoli, con l’interesse anche venale di chi aveva scommesso su una condanna oppure un’assoluzione, e di quanti viaggiatori, uomini di cultura o semplici curiosi assistevano alle udienze, nel tentativo di comprendere la realtà, difficile, complessa, dalle infinite sfaccettature della città partenopea.

 

 

 

 

 

 

 

 

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! – Cfr. A. Aveta, in Castel Capuano, la cittadella della Cultura  e della legalità. Restauro e valorizzazione, Elio de Rosa Editore, p. 17, che sul punto cita lo storico dell’architettura Giancarlo Alisio. 

2 – B. De Divitiis, in Castelcapuano da Reggia a Tribunale, a cura di Fabio Mangone, Massa editore, p. 33.   

3 – Cfr. Notiziario ragionato del Sacro Regio consiglio e della Real camera di S. Chiara, edito a Napoli il 24 marzo 1802.  

4 – Ibidem   

5 – Ibidem  

6 – M. Tita, in Il potere dei conflitti: testimonianze sulla storia della Magistratura italiana, a cura di Orazio Abbamonte, Giappichelli editore. 

7 – G. Ajello, Napoli e i luoghi celebri delle sue vicinanze, stabilimento tipografico di Gaetano Nobile, volume 1, p. 265. 

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LA PRIMA CABINA di Francesco Ricciardi – Numero 16 – Febbraio 2020

 

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LA PRIMA CABINA

 

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si andava diffondendo in molte città della nostra costa e Salerno non faceva eccezione.

 

Già sul finire dell’Ottocento i primi stabilimenti, con cabine montate su palafitte piantate direttamente in acqua, avevano fatto la loro comparsa, dapprima proprio di fronte alla città vecchia, sulla storica spiaggia di Santa Teresa, poi più ad occidente sull’arenile contiguo al porto.   

 

Sul versante opposto invece, oltre la foce del fiume Irno ad est dell’abitato, fino a quella del Sele e oltre, a Paestum e ai primi rilievi cilentani, un immenso e lunghissimo litorale sabbioso restava ancora deserto. Come lo era stato al tempo di greci ed etruschi, romani e longobardi, normanni, angioini, aragonesi… e via di seguito fino a 50 anni fa.

 

L’entroterra, d’altronde, allora scarsamente abitato e interamente vocato 

alle tradizionali attività agricole, non giustificava certo 

il sorgere sulla costa di iniziative di tipo turistico.


E a nessuno del luogo, salvo forse casi sporadici, veniva in mente di interrompere le attività agresti per trasformarsi in un bagnante nel senso corrente del termine.  Ma c’era qualche eccezione… tra queste quelle legate alle abitudini estive della famiglia dei conti Carrara e della nostra. Tutti a Salerno conoscono la Villa Carrara, un tempo suburbana, posta lungo la S.S. 18 delle Calabrie a un paio di chilometri dalla città e distante un centinaio di metri dal mare. Siamo nei pressi dell’allora villaggio di Pastena, oggi un popoloso quartiere della città. Poco oltre, superata Pastena e le sue poche case, proseguendo verso oriente, c’era la nostra villa, che sorgeva nel cuore di quello che un tempo, per la fertilità della terra, era chiamato

“il Paradiso di Pastena”; era un complesso di costruzioni di tipo misto, 

agricolo-padronale, la cui presenza aveva sempre rappresentato 

un punto “cospicuo” della zona, spesso riportato 

nelle cartografie d’epoca. 


Alla fine dell’Ottocento la proprietà comprendeva, oltre alle case, poco più di 10 ettari di agrumeto ed era nota come “Ospedale all’Argentera e al Mercatello”, nome dovuto alla posizione isolata (ospedale = ostello), alla vicinanza con il torrente Mercatello e ai riflessi argentei delle foglie delle essenze predominanti – i pioppi – che ne accompagnavano il corso al confine del fondo agricolo. 

Di certo i primi bagnanti regolari sul grande e deserto litorale furono dunque 

i miei nonni che, durante la “villeggiatura”, ogni mattina si muovevano da casa 

per raggiungere in pochi minuti a piedi quella che, allora, consideravano 

una sorta di spiaggia privata.  


Lo facevano percorrendo una stradina interpoderale sulla quale, nel tratto finale che attraversava la proprietà del barone Campolongo, godevano di una servitù di passaggio. La chiamavamo la stradina “del ponticello”, per la presenza di un piccolo ponte gettato su uno dei canali di irrigazione, e per un tratto, all’ombra dei pioppi di cui si è detto, essa costeggiava il corso del torrente.  Fin qui mi si potrebbe obiettare che questa è solo una delle tante storie che ci capita di ascoltare sui “bei tempi andati”; ognuno in fondo potrebbe averne una propria da raccontare (“Il ragazzo della Via Gluck” docet). La differenza sta nel fatto – e questa è la ragione di questo breve scritto – che in questo caso del racconto esiste anche una puntuale documentazione per immagini: mio nonno era un appassionato di fotografia… In una foto scattata verso la metà degli anni Dieci lo si vede, un poco discosto dal proprio capanno, guardare verso il mare. In seguito,

a partire dagli anni Venti, in luogo del capanno veniva allestita una regolare cabina 

in legno: la prima cabina di Mercatello, solitaria sullo sterminato arenile.


Nelle tante foto scattate in quegli anni (per lo più lastre fotografiche conservate nelle loro scatolette originali e fortunosamente giunte fino a noi), sullo sfondo di gruppi e momenti privati, si possono scorgere scorci e paesaggi di quel lembo di terra, testimonianze di un ambiente oggi del tutto cancellato dall’avanzare di ciò che veniva definito progresso. È qui che il racconto si fa immagine e una semplice storia familiare diventa documento.

Il punto del litorale eletto da quei pionieri della balneazione estiva 

sulle spiagge orientali di Salerno era presso la foce del Mercatello, 


più o meno dove la stradina terminava, attraversando un passaggio coperto da una volta a botte incorporato in un bel casale colonico intonacato di bianco di proprietà dei Galdo (altra storica famiglia di proprietari terrieri della zona). Al di là del grande portone ad arco passava la già citata Statale delle Calabrie, ai tempi ancora in terra battuta, lungo la quale il casale sorgeva. La si attraversava e si era in spiaggia.  

Negli anni Sessanta anche il Casale Galdo fu demolito


per fare posto agli anonimi edifici della Salerno moderna, ora affacciati sulla grande stazione di servizio che ancora esiste.

Di quella demolizione o di una analoga – non fa una gran differenza – 

parlò anche lo scrittore ungherese Sandor Màrai, il quale dal 1968 al 1980 

abitò, in solitaria riservatezza, a Mercatello, 

a pochi metri dal luogo descritto


Egli, ben prima dei salernitani, aveva avvertito (e non ci voleva molto…) i danni irreversibili dalla speculazione edilizia e nel 1968, in una sua nota di lacerante dolore, scriveva nel suo diario: 
«Mentre eravamo a Roma, nelle vicinanze del nostro appartamento hanno abbattuto una vecchia masseria campana del secolo scorso, era una casa a due piani con degli archi, i proprietari erano contadini-patrizi benestanti. Al suo posto si costruirà una scatola di cemento a sei piani, un casamento, misurato su utile-cubatura. Quando si abbatte una masseria così vecchia, qualcosa dell’Europa si rovina, più di quando demoliscono un edificio sfarzoso». 

Tornando sulla nostra stradina, mentre l’assalto della città e gli espropri degli anni Settanta andavano mutando radicalmente il volto dei luoghi, veniva cancellato per sempre anche quel piacevole itinerario campestre, rimasto in uso per qualche secolo e percorso innumerevoli volte anche da chi scrive.

Un brandello del passato è in verità sopravvissuto e un tratto
di quella stradina 
è oggi compreso all’interno del grande Parco Mercatello 

(realizzato alla fine degli anni Novanta) e ancora costeggia 

il lato destro del torrente da cui il parco prende il nome. 


La nostra villa, invece, è oggi “annegata” tra gli edifici INA Casa del Rione De Gasperi (anni Sessanta) e a quelli più alti ed invadenti del più recente Quartiere Europa (anni Settanta).  Riprendersi dallo shock fu difficile. Tuttavia, pur vivendo altrove ma intimamente legati a questi luoghi, nel corso degli anni vi siamo tornati regolarmente per trascorrere qualche giorno nella nostra vecchia casa di vacanza.

 

«Succede: andando, si torna – per dirla con Beppe Severgnini 

(“Touring”, febbraio 2003) – […] in luoghi dove siamo già stati, 

e la cosa non ci annoia, anzi: ci piace e ci consola. 

Per questo […] torniamo nella città dove abbiamo vissuto, 

o nel posto dove siamo stati bambini». 


Anche noi abbiamo continuato a farlo e poco alla volta quella ferita, pur così dolorosa e sanguinante, anno dopo anno riuscì in qualche modo a rimarginarsi; e se, in senso metaforico, si era passati da un paradiso all’inferno, per me fu di ideale conforto adattare al nostro particolare, la seguente riflessione di Italo Calvino (“Le città invisibili”): 
«Ci sono due modi per non soffrire nell’inferno. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui:   

cercare e saper riconoscere che cosa, in mezzo all’inferno, 

non è inferno e farlo durare e dargli spazio».


Forse, senza accorgercene, è proprio nello spirito della seconda alternativa offertaci da Calvino che abbiamo continuato ad abitare la nostra vecchia casa. 

 

 

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SICILIA. UNA NESSUNA CENTOMILA di Gaia Bay Rossi – Numero 16 – Febbraio 2020

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SICILIA. UNA NESSUNA CENTOMILA

 

 

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“La Sicilia è il puntino sulla i dell’Italia […] il resto mi par soltanto un gambo posto a sorregger un simil fiore”.

Hessemer, come tanti giovani aristocratici che si cimentarono nel Grand Tour, da Goethe a Tocqueville, da Dumas a Ruskin a Maupassant, rimase incantato da questa terra unica, straordinario insieme dei lasciti delle tante popolazioni che qui si stanziarono nell’arco dei secoli: fenici, greci, romani, ostrogoti, bizantini, arabi e normanni, francesi e spagnoli, tanto per citarne alcuni.

Possedere o perdere la Sicilia, l’isola più grande del Mediterraneo,
ha sempre rappresentato l’affermazione o la fine degli imperi
e delle civiltà che si sono incontrate con lei.


Grazie a questa preziosa miscellanea, la Sicilia può vantare di essere stata il primo Stato al mondo ad avere un Parlamento, istituito nel 1129 dal normanno Ruggero II (quando l’Inghilterra ne vide la creazione solo nel 1264).

 

Un Parlamento che non aveva le rappresentanze solo di clero e nobiltà, 

ma anche quelle delle città libere e che permise la piena collaborazione 

tra le varie etnie e fedi religiose.  

 

Non dimentichiamoci che la Cappella Palatina a Palermo è l’unico luogo di culto che mette insieme due religioni: la cristiana (nei due riti, cattolico e ortodosso) e l’islamica. Uno spirito di tolleranza religiosa e civile che nel resto d’Europa sarà riconosciuta solamente nel 1598 con l’editto di Nantes di Enrico IV di Francia. Si può tranquillamente affermare che il regno normanno-svevo in Sicilia ha posto le basi dello Stato moderno nell’isola.

In Sicilia è nata la letteratura italiana per mezzo della scuola siciliana.  

 

Dante fu un estimatore della lirica siciliana e del volgare con cui si esprimeva, tanto da commentare nel De Vulgari Eloquentia: “Il volgare siciliano si attribuisce fama superiore a tutti gli altri per queste ragioni: che tutto quanto gli italiani producono in fatto di poesia si chiama siciliano; e che troviamo che molti maestri nativi dell’isola hanno cantato con solennità”. La poesia lirica della scuola siciliana ebbe anche il merito di aver introdotto il sonetto (inventato da Jacopo da Lentini nella prima metà del Duecento).

Sempre in Sicilia si è avuto il più importante moto popolare europeo, quello dei Vespri del 1282 contro gli Angioini, dominatori francesi dell’isola  

 

(va segnalato che Dante, che in quella data aveva solo diciassette anni, nell’VIII canto del Paradiso indicherà come Mala Segnoria il regno angioino di Sicilia). Quindi, oltre alla capacità di crescita e assimilazione, la Sicilia esprimeva anche forza, carattere e ribellione. 

 

La più arguta e precisa definizione della Sicilia mi è stata data, in un’occasione culturale e conviviale, dal Governatore della Sicilia, Nello Musumeci, che mi ha spiegato che “la Sicilia è l’esagerazione dell’Italia. Nel bene e nel male. Se l’Italia ha la criminalità, la Sicilia ha la mafia; se l’Italia ha bellezze artistiche, la Sicilia ha capolavori straordinari di tutte le epoche, sia in terra sia sotto il mare; se l’Italia ha ottimi cibi, la Sicilia sorprende con tutte le sue variegate specialità.” 

 

La Sicilia è una terra antropologicamente complessa, storicamente e culturalmente divisa in due.

Da oriente a occidente si trovano due Sicilie uguali e contrarie, caratterizzate 

da usi e costumi diversi, ma anche da colori e sapori alternativi 

che pure riportano sempre alla medesima “sicilianità”  

 

fatta di tradizioni, orgoglio, accoglienza, attaccamento alla terra, e di tutto ciò che spinse Giovanni Falcone a dire: “Noi abbiamo avuto cinquecento anni di feudalesimo. Se ci si rendesse conto che il siciliano è prima di tutto siciliano, poi medico, avvocato o poliziotto, si capirebbe già meglio”. 

 

La Sicilia orientale, fu la parte maggiormente influenzata dalla civiltà greca, che ebbe inizio nel 756 a. C. con la fondazione della prima colonia, Zancle, l’odierna Messina. Seguirono Naxos, a lungo considerata la prima colonia greca, Siracusa, Catania, Megara Hyblaea, Gela, Selinunte, Akragas (Agrigento). L’80% di questi territori si trova

nella Sicilia orientale, dove i greci imposero la loro cultura raffinata, 

la loro architettura, le loro abitudini: fu la prima, vera, 

grande rivoluzione culturale del Mediterraneo.  

 

La Sicilia greca ha contribuito a formare dei siciliani lavoratori e imprenditori: se a Catania di notte c’è il terremoto e tutti scendono in piazza, subito dopo arriva l’uomo a vendere i palloncini!  

 

Non dimentichiamo che grandi filosofi e scienziati greci, come Archimede e Pitagora, nacquero in Sicilia e qui diffusero i loro insegnamenti. Mi piace ricordare, e non in tono polemico, la risposta di un siciliano con spiccato senso dell’umorismo ad un noto imprenditore che ha affermato: “Se voglio la cultura vado a Parigi, in Sicilia ci si va solo per il mare e il cibo”. La risposta è stata: “Volevo solo ricordarle che quando io, a Siracusa, discutevo di matematica, geometria, fisica, ottica, idraulica e meccanica, a Parigi vivevano sugli alberi. Distinti saluti. Archimede”.

Tutto questo mentre la Sicilia occidentale era, come dice l’antropologo e scrittore palermitano Franco La Cecla, “tutta presa dagli almeno quindici secoli 

di presenza africana, punica, cartaginese”.  

 

Gli arabi arrivarono in Sicilia nel IX secolo e la loro presenza fu stabile fino al 1492, quando Ferdinando II Il Cattolico, re di Spagna, stabilì l’espulsione per chiunque non fosse di religione cristiana, quindi musulmani ed ebrei. Al contrario, come abbiamo visto,

durante il regno degli Altavilla prima e di Federico II poi, cristiani ed arabi avevano convissuto tranquillamente in un clima fertile e creativo, che aveva arricchito 

e migliorato la Sicilia intera e, in particolar modo, la parte occidentale.  

 

Testimonianze di quella convivenza sono termini linguistici come il nome di alcune località: Alcamo (al-qamah, terra fertile), Marsala (marsa Allāh, porto di Dio), Salemi (salam, pace) ma anche in centinaia di parole siciliane: bagghiu: cortile (da bahah), cassata: il dolce di ricotta (da qashata), mischinu: poverino (da miskīn), taliàri: guardare, osservare (da ṭalaʿa), zaffarana: zafferano (da zaʿfarān) ecc. 

 

Per non parlare degli edifici con la cupola, denominati ‘cuba’, o delle località che iniziano con il toponimo ‘Cal’ (in arabo qalʾat castello o fortezza) come Calascibetta, Calatabiano, Calatafimi, Caltabellotta, Caltagirone, Caltanissetta, Caltavuturo. 

 

A Palermo c’è il palazzo della Zisa (dall’arabo al-ʿAzīza, la splendida) all’interno del parco reale normanno, il Genoardo (sempre dall’arabo Jannat al-arḍh ovvero “paradiso della terra”), che rappresenta uno dei migliori esempi del connubio di arte e architettura normanna e decorazioni e ingegnerie arabe, tanto da essere stato riconosciuto nel 2015 Patrimonio dell’umanità Unesco nell’ambito dell’ “Itinerario Arabo-Normanno di Palermo, Cefalù e Monreale”.

Nei rapporti tra Sicilia e mondo arabo, lo scrittore, saggista e giornalista siciliano Vincenzo Consolo così si è espresso: “Vengo dalla Sicilia, la regione 

più araba d’Italia e una terra fra le più arabe al mondo […]  

 

Con la civilizzazione araba, durata due secoli e mezzo, la Sicilia attraversò una sorta di rinascimento: scoprì le tecniche dell’agricoltura, vide fiorire le arti e la scienze e diffondersi princìpi di uguaglianza e tolleranza”.  

 

Ma c’è ancora un’ulteriore caratteristica da toccare sui risultati delle diverse dominazioni in Sicilia, e riguarda la gastronomia: i grani (oggi qui se ne coltivano ben 52 tipi) sono arrivati grazie agli spagnoli, il cuscus è arrivato dal nord Africa intorno al 1300 (oggi il particolare cuscus trapanese è inserito tra i “Prodotti agroalimentari tradizionali siciliani”), la pesca del tonno con la mattanza è stata introdotta da un Rais, persona di origine araba, la pasta con le sarde è l’invenzione di un cuoco arabo del generale Eufemio da Messina, il vino siciliano ha oggi la sua fortuna perché gli antichi greci spiegarono ai siciliani la coltivazione della vite nel VIII sec. a.C., e la cassata, nata in un convento nel 1400, nei secoli fu integrata dagli ingredienti introdotti dalle varie dominazioni: frutta candita dagli arabi, cioccolato dagli spagnoli e pasta di mandorle dai normanni.  

 

Resta un’ultima fondamentale questione ancora irrisolta nel confronto tra le varie parti della Sicilia: si dice arancino o arancina? 

 

 

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DAI TAPPETI QUASI VOLANTI AL FASHION di Michele Minisci – Numero 16 – Febbraio 2020

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DAI TAPPETI  QUASI VOLANTI AL FASHION 

 

Da piccolo sentivo parlare di un’azienda che fabbricava tappeti e coperte a Longobucco, in provincia di Cosenza, un centro poco lontano dal mio paesino calabrese. E nella mia infinita fantasia ogni tanto immaginavo questi “tappeti volanti” solcare il cielo sopra la piana di Sibari, sfiorando appena le cime degli ulivi centenari o accarezzando le profumate foglie degli aranci…  

 

Sapevo bene come nascevano queste stoffe, questi tappeti, queste tovaglie, queste coperte, perché nel mio paesino c’erano molte donne che avevano un telaio in casa, per i propri bisogni familiari (ma forse lavoravano anche per conto dell’azienda Celestino) e

mi fermavo spesso a guardare, ammirato e stupito, quelle mani velocissime 

e quei gesti quasi magici, come novelle Penelopi, che facevano scivolare 

le spole e i cannelli tra quel labirinto di fili


filati, trame labirintiche che trovavano alla fine sempre la loro via d’uscita per compiere il passo successivo, fino alla fine del percorso a cui dovevano arrivare: la tovaglia da tavola, il lenzuolo, l’asciugamano, le coperte.  

 

E tutto questo nel comune intreccio di trama ed ordito che andavano ad incontrare poi un altro filo, quello del coloratissimo disegno che attraversava orizzontalmente gli altri svariati fili che

davano infine origine, magicamente, al prezioso tessuto.


Ma  questo  l’ho  capito  solo  da grande,  quando ho intervistato per la nostra rivista l’avvocato Caterina Celestino, il deus ex machina dell’omonima azienda che affonda la sua esperienza in secoli di storia.  

 

Come ho immaginato, ancora, ritornando ad interessarmi delle eccellenze calabresi, che

quei timbri e ritmi degli antichi telai che facevano parte dell’antico laboratorio – … tracchete, tricchete, tracchete… – potevano benissimo 

rapportarsi ai ritmi del blues,

 

che io conosco molto bene perché frequentatore di quella musica, quelli che alle origini accompagnavano i canti gospel dei raccoglitori di cotone della Louisiana, con le sue 12 battute, il giro del blues! Come 12 erano le assi che formavano i vecchi telai. Accostamento forse fantasioso e azzardato!  

 

Comunque, con questo particolare background ho avuto il mio primo impatto col mondo dei Celestino. Poi, con la richiesta di una mia intervista, la signora Caterina mi ha preso per mano e nello showroom di Rossano, stupenda città bizantina e rinomata in tutto il mondo per il suo Codice Purpureo, riconosciuto dall’Unesco come bene universale, culla culturale della famiglia Celestino che adotta, anche nel logo, la cicogna, in omaggio al Mito di Antigone, mi ha fatto attraversare tutta la storia della tessitura calabrese e quindi della sua azienda.  

 

E mi ha parlato del nonno Eugenio, che all’inizio degli anni ’20 ha impresso una svolta epocale alla tessitura calabrese arricchendo la varietà e la qualità dei singoli manufatti, i cui prodotti sono realizzati con

filati pregiati in lino, cotone, canapa, lana, ginestra, seta altamente selezionati, impreziositi dagli originali disegni riprodotti sui vari tessuti 

che portano nomi che si richiamano alla storia, alla tradizione, 

alla terra, alle leggende arcaiche della Magna Grecia,


a cui questo territorio continua a fare riferimento, come “Toro cozzante”, da un antico reperto archeologico ritrovato nel sito di Sibari, oppure “Krités”, il giudice, suggestivo disegno di ispirazione bizantina, oppure “Ginestra”, “Liquirizia”, “Spiga”. Ancora il territorio, la terra, le radici!  

 

Eccellenze nella tessitura artistica

che sono valse all’azienda calabrese riconoscimenti da parte del mondo 

dello spettacolo e dell’arte e onorificenze istituzionali 

a livello nazionale ed internazionale:


alla Fiera di Parigi, all’Esposizione di Londra, di Chicago, di Milano, di Firenze, senza dimenticare le numerose ed illustri collaborazioni con i grandi ateliers e con le più rinomate Case di Alta Moda Nazionali, tra le quali Gattinoni, le Sorelle Fontana, ecc. Memorabile il grande poster che campeggia nello showroom di Rossano Calabro con la foto di Ava Gardner con un vestito realizzato dalla Bottega d’arte Celestino e una delle sorelle Fontana che dà gli ultimi ritocchi alle pieghe, che mi ha rapito e “costretto” ad ammirarlo per diversi minuti!   

 

Ma Caterina Celestino mi ricorda che i suoi

tessuti, che accuratamente elaborati da abili stilisti dell’Alta Moda Italiana 

hanno dato vita a confezioni destinate alle Case Reali, alla Città del Vaticano 

ed a Musei di tutto il mondo, oggi si incontrano con lo spirito innovativo 

delle nuove generazioni.


Ma il lavoro a cui la signora Caterina tiene di più è sicuramente Katherina, of course, un’originale collezione della Maison Celestino, che è stata presentata negli anni scorsi in svariate location prestigiose, riscuotendo grande successo. Atmosfere d’altri tempi accompagnano lo straordinario omaggio alla donna contemporanea attraverso le creazioni ideate ancora dalla designer Flavia Putignano ed inneggianti alle grandi donne con questo nome, come Caterina d’Aragona, Caterina Cornaro, Caterina de’ Medici, Caterina La Grande, Katharine Jeffert Schori, Caterina Ferrucci, Katherine Hepburn, Catherine Deneuve, Caterina Caselli (con una imperdonabile dimenticanza: Caterina Sforza, la leonessa di Forlì, la città in cui vivo!).

 

Questi i miti ispiratori per la nostra Caterina: indiscusse protagoniste di un omaggio alla donna che la Maison Celestino propone oltre il tempo e la storia.

Oggi l’azienda Celestino coinvolge decine e decine di lavoratrici in conto terzi,  

una folta schiera di sarte, tessitrici, esperte ricamatrici, non solo 

per tutta una serie di prodotti per la casa riferiti ad uso quotidiano (tovaglie, coperte, soprammobili, biancheria varia, ecc.), 

ma anche per l’alta moda,


avendo però di fronte un mercato nazionale con alcune aziende che propongono per alcuni prodotti prezzi altissimi, realizzati però con materiale non eccelso, mentre le produzioni Celestino di alta qualità hanno dei prezzi molto più accessibili. Disfunzioni del mercato, complice una martellante pubblicità con budget stratosferici!  

 

Sarebbe necessario ampliare questo discorso facendo rete, proponendo sinergie, coinvolgendo altre forze, altre associazioni, altre istituzioni. Problematiche che però in Calabria fanno ancora fatica a svilupparsi. Possiamo dire oggi con certezza che Caterina Celestino ha preso in mano la sua Storia e … l’ha gettata oltre l’ostacolo. Ma non è che l’inizio. 

L’arte della tessitura calabrese strizza l’occhio ormai anche all’Alta Moda Italiana e ha un nome ben preciso: Celestino.  

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UNA VIA ORIGINALE ALLO SVILUPPO DEL SUD di Agostino Picicco – Numero 16 – Febbraio 2020

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UNA VIA ORIGINALE   ALLO SVILUPPO DEL SUD 

 

Il binomio lavoro-emigrazione è oggetto di continuo esame da parte di autorità ed esperti. Un dato di fatto ormai certo, comunque, è che la disoccupazione dell’Italia meridionale è quasi tripla rispetto a quella del Centro-Nord. Quali soluzioni allora configurare a questo proposito?

Un punto fermo ormai raggiunto e comunemente condiviso dai più 

è che la rinascita del Mezzogiorno è affidata alla gente del Sud.


I meridionali hanno finalmente capito di dover essere artefici della propria crescita civile: soggetto e non oggetto di sviluppo. Il Sud dice un no secco all’assistenzialismo statale, che ha prodotto guasti non inferiori a quelli causati dalla criminalità organizzata, che ha espropriato i giovani della cultura della imprenditorialità, che ha generato clientelismi e corruzione.

Già don Sturzo parecchi anni fa ribadiva con forza l’esistenza 

di una “originale via meridionale” allo sviluppo.


Come si sostanzia questa via allo sviluppo dell’area meridionale? Innanzitutto, credo che occorra considerare le risorse specifiche esistenti nel Mezzogiorno, valorizzandole anche con l’impiego di tecnologie industriali avanzate. Si tengano presenti, ad esempio, sia le risorse agro-alimentari e dell’industria del mare (dal turismo alla pesca) sia l’artigianato, che costituisce una ricchezza tuttora non ben sfruttata commercialmente, sia le imprese a dimensioni medie e familiari, più rispondenti al costume e alla creatività delle popolazioni del Sud. 

Non deve mancare anche un occhio di riguardo allo stretto legame tra Sud Italia e futuro dell’intera area mediterranea, dove il Sud viene a trovarsi in posizione chiave. Come il Settentrione d’Italia ha allargato la sua zone d’influenza e di comunicazione verso l’Europa centrale, così  

il Mezzogiorno d’Italia – crocevia geografico e storico degli interessi 

e degli scambi economici e culturali tra Europa, Africa e Asia – 

gode come risorsa di una posizione geografica unica.


In tal modo potrebbe aspirare con successo a diventare “il Nord del Sud”.  Parlare di via originale allo sviluppo del Sud significa anche essere coscienti che la crescita civile del Meridione non può ridursi al solo sviluppo economico, per quanto ovviamente utile e necessario.

È necessario anche insistere sulla priorità di una formazione culturale e di un serio sforzo di preparazione professionale.


Lo smarrimento di certi valori ha prodotto la perdita del senso della socialità e della legalità. Una seria formazione morale e culturale contrasta l’atteggiamento di rassegnazione e di passività, quel senso di vittimismo che finisce poi per favorire la tendenza alla devianza. 

Affermare che l’elemento culturale e formativo occupa un posto importante per la crescita civile della nostra terra significa, inoltre, riconoscere che

la nostra gente è fornita di straordinarie doti creative e intellettive,

come di notevoli risorse umane.


Ciò è dimostrato anche dai nostri concittadini emigranti (in Italia e all’estero) che si sono affermati ai livelli più alti quando hanno trovato strutture adeguate. 

La valorizzazione di risorse finanziarie ed umane, insieme a qualche infrastruttura in più, la soluzione del problema della legalità, premessa indispensabile per lo sviluppo, l’esempio di chi scommette sull’idea di impresa, magari nella forma della cooperativa per competere meglio con il mercato, esprimono la speranza che, eliminate le varie fasi di assistenzialismo, di conflittualità tra le parti, di mediazioni politiche non trasparenti, si realizzi un’esperienza di crescita per tutto il Paese, nella convinzione che soprattutto sulle frontiere del lavoro si giocherà la permanenza dell’Italia in Europa. 

 

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MYRRHA INCONTRA SVIMEZ di Giorgio Salvatori – Numero 15 – Dicembre 2019

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MYRRHA INCONTRA SVIMEZ

 

Giorgio-Salvatori

Cari amici di Myrrha, si cambia. In questo numero i “doni del Sud’’ vengono letti non più, soltanto, estrapolandoli dal loro contesto e messi a fuoco nella loro eccellenza o unicità, ma anche nella cornice, contraddittoria, della storica complessità del Meridione.  

In altre parole ci addentriamo consapevolmente in un’analisi più articolata della realtà del nostro Sud per descriverne anche chiusure corporative e rigidità consolidate. Stiamo parlando di quei comparti immobili, da sempre refrattari ad ogni forma di cambiamento nonché di quelle azioni di contrasto messe in atto da forze storicamente ostili all’evoluzione sociale, economica e culturale delle popolazioni meridionali.

 

In questa nuova prospettiva, Myrrha si apre ad un orizzonte più ampio, 

grazie all’esperienza provvida e illuminante dell’istituzione 

che più e meglio conosce forze e debolezze storiche 

del Meridione: la Svimez,


l’associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno, che studia e analizza i dati che caratterizzano il complesso processo delle dinamiche sociali ed economiche del Sud.

 

È, questa, l’occasione per 

riflettere, con severità, su quali e quanti blocchi strutturali rallentino il lungo processo di integrazione e di fusione reale tra Settentrione e Meridione della Penisola,

 

su quanto e come la mafia, le mafie, riescano a distrarre, a proprio vantaggio, risorse vitali e produttive del Sud e del Nord del Paese e, infine, su quanto l’assenza di un’azione forte e costante, da parte delle istituzioni, contribuisca a comprimere il coraggio e le occasionali esplosioni di protesta, di reazione civile, della stragrande maggioranza delle genti meridionali contro i soprusi delle mafie. 

 

Tra questi due poli, non bisogna dimenticarlo, non c’è soltanto la complicità, l’ignavia o il colpevole cinismo di alcuni politici. C’è anche quell’azione mai compiutamente indagata, ma sottilmente nefasta, dispiegata dai rappresentanti di strati consistenti delle amministrazioni centrali e periferiche che, per non perdere i benefici della propria condizione di intermediari di risorse, fondamentali per il progresso di un territorio, restano arroccati nei propri fortilizi burocratici, elargendo servizi come satrapi che abusano quotidianamente dei propri poteri verso cittadini trattati come sudditi.

In queste pagine leggerete interventi di giornalisti, analisti e studiosi del problema meridionale. Cercheranno di far luce sulle cause delle contraddizioni

 

e degli ostacoli che impediscono al Sud di decollare nonostante le grandi potenzialità, le eccellenze, i “doni’’ particolari, la voglia di “volare” (preferibilmente restando nei cieli meridionali) dei maltrattati giovani del Sud.  

 

In questa specifica circostanza, il mosaico meridionale verrà esposto e interpretato alla luce degli ultimi elementi emersi dagli studi degli esperti della Svimez.

Si parte dall’approfondita analisi dello stato generale della situazione meridionale

 

di Giuseppe Soriero, autorevole membro della Presidenza dell’Istituto. Soriero evidenzia i punti fondamentali del divario Nord-Sud in base ai dati aggiornati del rapporto Svimez 2019 e ne mette in risalto due aspetti fondamentali: non si esce dalla crisi meridionale accentuando lo scontro, dialettico e politico, tra gli assertori della “rapina del Nord a danno del Sud” e quelli del “fardello del Sud sulle spalle del Nord’’ e neppure sottovalutando l’arretramento del più opulento Settentrione rispetto ai sorprendenti traguardi del PIL conseguiti da alcuni Paesi europei.

A questa analisi circostanziata si aggiungono anche le vivaci interpretazioni e le “variazioni sul tema” di due firme note di Myrrha:

 

Carmen Lasorella e Roberta Lucchini. Lavorando sui dati Svimez, la prima ci guiderà a conoscere meglio le valenze soffocate del Sud, in primis la compressa risorsa femminile, e lancerà una sfida a chi, nelle istituzioni, sia finalmente in grado di raccoglierla vincendo una colpevole indolenza. La seconda si tufferà nei numeri e nelle analisi evidenziando criticità, punti di forza, possibili vie di uscita dalla paralisi forzata in cui le forze ostili al cambiamento hanno finora ostacolato il pieno sviluppo delle intelligenze e della creatività dei migliori figli del nostro Meridione. Uno stallo che, di fatto, punisce non solo il Sud, ma l’intero Paese e che dovrebbe rafforzare, all’opposto delle logore polemiche nordiste o delle nostalgie neoborboniche, la volontà di chi si batte per consolidare finalmente l’unità nazionale offrendo ad ogni cittadino dello Stivale pari opportunità e occasioni di sviluppo.

Certamente non ci rallegra il raffronto, spietato, tra la supposta qualità della vita, 

nelle varie città italiane, recentemente stilata dal Sole 24 Ore.

 

Una sfilza di primi posti assegnati, da Milano a Como, per ben 40 posizioni, a città del Nord, e una valanga di ultimi posti, salvo pochissime eccezioni, a decine di città meridionali. In questa classifica Napoli risulta ottantunesima, Crotone e Caltanissetta chiudono l’elenco addirittura alla centoseiesima e alla centosettesima posizione. Opinabile o obiettiva che sia, questa classifica suona comunque come una clamorosa batosta mediatica di cui non si può sminuire l’impatto sociale e psicologico che essa dispiega sulle legittime aspettative di riscatto della società civile meridionale.  

 

Non ignorare, non offendersi, non sottovalutare.

Il Sud può e deve reagire, ma le istituzioni non possono restare a guardare né attendere oltre.

 

Non bastano riconoscimenti di merito individuali né, tantomeno, celebrazioni ufficiali e targhe alla memoria. La rinascita della Nazione ha bisogno del concorso operoso e coraggioso di tutti, cittadini e istituzioni, dal Nord al Sud del Paese

Nessuno si illuda. Non abbiamo un’alternativa.
La disfatta del Sud sarebbe la sconfitta di tutti. 

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L’UNICA VIA POSSIBILE? di Roberta Lucchini – Numero 15 – Dicembre 2019

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L’UNICA  VIA POSSIBILE?*

 

La storia di Anna – non di fantasia – è una delle tante, note vicende che affollano sempre più insistentemente le rubriche dei media dedicate al mondo dell’occupazione, in special modo giovanile.  

Nata ad Adelfia, in provincia di Bari, studi classici, poi laurea con il massimo dei voti in discipline economiche, ottima conoscenza della lingua inglese, tanta voglia di affermarsi e far fruttare i sacrifici suoi e dei suoi genitori, Anna, finisce, a 25 anni per rientrare nel novero di quelle 19,6 mila unità che nel 2017 hanno lasciato la Puglia con destinazione Centro-Nord della Penisola. Cifra che è quota parte del bilancio di 110 mila persone le quali, sempre nel 2017, si sono spostate dal Mezzogiorno verso la più prospera e allettante Italia centro-settentrionale. Come ci ricorda puntualmente il rapporto Svimez 2019,

 

nello stesso 2017 si sono cancellate dai Registri anagrafici meridionali

circa 132.000 persone

 

e, a fronte di tutto ciò, il saldo migratorio è rimasto fortemente negativo, sia considerando l’anno in questione (-68.602 unità) che un periodo più lungo, vale a dire un quindicennio (2002-2017, -852.113); ciò soprattutto senza che si sia potuto compensare il forte drenaggio di soggetti giovani e/o con titolo di studio superiore (i laureati, per intenderci) con una immigrazione di qualità equivalente. E’ un trend tristemente noto, sebbene a leggere questi numeri non si smetta di stupirsi, rabbrividendo: 

dall’inizio del nuovo secolo – ci ricorda la Svimez – ben 2 milioni 15 mila residenti hanno lasciato il Mezzogiorno, la metà di questi con età compresa

fra i 15 e i 34 anni, un quinto con titolo di studio superiore.


Una perdita inestimabile di capitale umano, di forza lavoro, di spinta propulsiva che va ad arricchire tessuti socio-economici distanti, senza un effettivo ritorno di natura finanziaria verso i luoghi d’origine. Questo progressivo dissanguamento confluisce ad alimentare la tendenza, anch’essa ormai riconosciuta, tuttavia non per questo meno allarmante, rappresentata dal progressivo spopolamento, sì, delle Regioni meridionali, ma pure dell’intero Paese, secondo una dinamica chiaramente evidenziata negli studi di organismi dal respiro globale: il Dipartimento degli Affari Sociali delle Nazioni Unite, ad esempio, nel suo World Population Prospects 2019, stima che la popolazione a livello mondiale raggiungerà, nel 2100, oltre 10 miliardi di individui. Il trend di crescita è sostenuto in tutti i Continenti, l’Africa da sola triplicherà i propri abitanti. Tutti avanzeranno. Tuttavia, nella nostra cara, vecchia Europa, pur con qualche significativa eccezione (Francia e Regno Unito, ad esempio), si assisterà ad un importante calo demografico, segnatamente nei Paesi mediterranei e, fra questi, segnatamente in Italia (un inquietante -30%) e, al suo interno, segnatamente nel Meridione… 
 

Anche dal punto di vista demografico, dunque, si verifica quello che la Svimez stessa ha definito come “doppio divario”: la distanza fra Meridione in difficoltà 

nei confronti del Centro-Nord leva produttiva è diventata 

quella del Paese-Italia nei confronti del resto d’Europa, 

se non del mondo.


Tuttavia questo andamento non è certo consolatorio. Stretto nella morsa asfissiante del combinato disposto di emigrazione, invecchiamento della popolazione (anche lavorativa) e calo della natalità, il Mezzogiorno rischia di implodere.  

 

D’altronde, immaginare di poter imbrigliare al Sud braccia e cervelli alle condizioni date è esercizio di pura fantasia. Anna e i suoi colleghi coetanei ne sono la prova tangibile. Con una spesa della Pubblica Amministrazione in costante decrescita dal 2000 in avanti (con maggiore penalizzazione al Sud: la spesa pubblica attualmente è pari a 14.000 Euro pro-capite per i cittadini centrosettentrionali, di 11.000 Euro per i meridionali);  

con un PIL in calo dello 0,2% al Sud rispetto ad un +0,3% del Centro-Nord nel 2019, che ha portato alla contrazione dei consumi dello 0,5% (come si può, d’altro canto, immaginare di produrre ricchezza se la forza lavoro viene a diminuire e, seppure vi siano indicazioni di una lieve ripresa dell’occupazione, la qualità degli impieghi offerti è scarsa, sia dal punto di vista retributivo che della stabilità?);  

con una persistente divergenza del livello dei servizi al cittadino, che senza ombra di dubbio può indurre a parlare di “diritti erosi-impoveriti-defraudati“ per chi vive al Sud rispetto agli altri;  

con tutto ciò premesso e con tutti gli ulteriori, omessi indicatori socio-economici che non fanno bene all’umore, è impossibile immaginare per il Mezzogiorno d’Italia un futuro diverso dalla desertificazione umana.

E’ necessario “rovesciare il paradigma”, secondo una formula
che a noi di Myrrha piace molto e nella quale ci riconosciamo:

 

non più concentrarsi sull’idea di trattenere, quasi che un territorio, piuttosto che luogo delle opportunità, rappresenti una sorta di prigione dalla quale l’evadere sia l’unico, prevedibile corollario; quanto invece favorirne l’attrattività, stimolare il desiderio non solo di restare per chi vi è nato, ma addirittura di trasferirvisi e scommettere su prospettive di benessere e appagamento futuri per coloro che sono alla ricerca di una soluzione.

Una via d’uscita esiste.

 

Tutte le nefaste previsioni di cui sopra e le tante altre qui non riportate hanno tutte un’appendice: accadrà quanto predetto “a politiche invariate”. Bisogna pertanto invertire la rotta, incidere sulle scelte, essendo chiaro che i meccanismi fin qui individuati si sono rivelati inidonei e non è il caso di nascondere responsabilità che risiedono nel Meridione stesso e nelle amministrazioni locali.  

 

Cosa fare, dunque?

Come suggeriscono esperti di ogni settore disciplinare, non esiste la panacea,


soprattutto considerando quanto sopra detto circa quella sorta di sgocciolamento alla rovescia che sta propagando le difficoltà del Meridione nel resto del Paese e che richiede dunque una risposta unitaria all’insegna della coesione, piuttosto che della spinta autonomistica. Fra i tanti possibili spunti di riflessione, quindi, se ne privilegiano qui un paio. Posto che senza lavoro non c’è speranza e neppure una Repubblica, azzardando una lettura a contrario del dettato costituzionale, si guardi anzitutto al buono che c’è e non lo si lasci al proprio destino, dando piuttosto piena attuazione all’art. 3, secondo comma, della nostra Costituzione. Si guardi a tutte le iniziative imprenditoriali che molti giovani e non solo stanno mettendo in atto per far fruttare idee e territorio (significativo, in questo ambito, il sostegno di Invitalia e del programma Resto al Sud, seguito da altre proposte analoghe da parte di Istituti bancari); oppure si considerino le imprese storiche, nei più disparati settori produttivi, dal tessile all’alimentare, che sono e vogliono restare eccellenze meridionali.

Si mettano anzitutto costoro nelle condizioni di promuovere la circolazione, il movimento, il flusso – secondo uno dei principi-cardine che regola la vita dell’Universo, ben prima della nostra Unione europea

 

– e, conseguentemente, di prendere vantaggio dallo scambio, che sia di merci o di persone o di idee o contenuti, operando finalmente con decisione sul sistema infrastrutturale, non solo stradale, ferroviario, aereo o portuale, quand’anche digitale, che, ancora una volta, penalizza il Sud. In questo senso, senza ripercorrere le annose questioni legate alla classificazione della rete viaria italiana, non si può ignorare l’iniziativa Rientro Strade, con la quale, a seguito del D.P.C.M. 20 febbraio 2018, l’ANAS sta riprendendo sotto la propria gestione 3500 km di strade ex statali e provinciali. Orbene: perché non approfittare di questa occasione per dare un segnale forte al Meridione ed alla sua esigenza di ben collegarsi e collegare, limitandosi invece ad interessare di questo provvedimento solo un 40% del chilometraggio complessivo (circa 1220 km), ripartito nelle 6 Regioni peninsulari meridionali, lasciando invece la parte del leone a 5 Regioni del Centro-Nord? Come se non bastasse, l’Anas “restituisce” alla gestione degli enti territoriali meridionali almeno 350 km di strade (non pervenuta la quota di Abruzzo e Molise, che va quindi sommata a tale cifra – cfr. www.stradeanas.it), mentre ciò non accade per le restanti Regioni (tranne che per l’Umbria, 45 km).

Non si dimentichi che il Sud rappresenta il 40% del territorio italiano 

e non si trascuri l’assoluta necessità di uno sforzo manutentorio significativo 

del sistema stradale secondario, in particolare nel Mezzogiorno.

 

Non va dimenticato, infatti, che un’altra ragione della progressiva perdita di popolazione, con altissima incidenza nelle aree interne – anche in questo ambito i problemi del Meridione sono comuni al resto d’Italia, sebbene lì maggiormente amplificati – risiede nel costante deperimento delle vie di comunicazione extraurbane, una delle più gravi conseguenze della riforma tronca avviata con la legge Delrio, che ha privato le Province delle sostanze per intervenire sui molti chilometri di strade di pertinenza. Il ritrovarsi nella difficoltà di circolare agevolmente per raggiungere i luoghi del produrre ha causato negli anni, e sempre di più provoca, un allontanamento dai centri minori, ove lo spopolamento equivale anche ad abbandono del patrimonio edilizio ed ambientale. Ciò assume valenza ancor più significativa nel caso dei piccoli abitati montani e dei magnifici borghi che punteggiano le pendici delle nostre colline e rilievi. A tal proposito, vale la pena di sottolineare come, in maniera crescente,

questi piccoli agglomerati, nei quali al Sud si concentra l’1,6% 

della popolazione, si stiano organizzando in una sorta 

di “resistenza per la sopravvivenza”

 

facendosi artefici di iniziative occupazionali (come le cooperative di paese) e culturali di tutto rispetto, le quali, con l’intento di valorizzare storia, tradizioni, produzioni agricole, costumi locali, personaggi più o meno noti, sono innesco di un fervore turistico e di attenzioni che, di per se stessi, rinfocolano le esigue economie locali.  

 

Secondo spunto di riflessione:

serve agire sul capitale umano, con un investimento di lungo periodo, 

il cui ritorno si godrà dopo un consistente arco temporale.

 

Serve, cioè, intervenire sul sistema di istruzione e formazione, perché sottovalutare o addirittura ignorare i dati sulla dispersione scolastica al Sud, sulla penuria di servizi offerti in questo settore, sui deludenti risultati delle prove Invalsi significa non avere un progetto di sviluppo che intervenga sulle persone. Non già quando esse abbiano raggiunto l’età da lavoro, bensì in una fase decisamente pregressa, in maniera da ridurre, fra l’altro, l’appeal della malavita su soggetti deboli anche culturalmente e fornendo invece strumenti cognitivi, spirito critico e competenze che stimolino un afflato costruttivo e non autolesionistico, consapevolezza di un patrimonio inestimabile e non atteggiamenti passivi se non addirittura ostili al progresso.  

 

Per concludere. Il problema demografico del Mezzogiorno, conseguenza delle tante storture endogene non sanate nel tempo, è esacerbato dalla crisi economica che ha interrotto una possibile convergenza con la zona geografica più avanzata del Paese, oltreché dalla concomitanza di altri elementi esogeni (si pensi, ad esempio, al grande impatto che nell’Unione europea è stato provocato dall’ingresso di Stati con vaste aree rurali e di povertà, bisognevoli di molto sostegno) che la classe politica, centrale e locale, non è stata così lungimirante da saper governare. Tuttavia, un consolidamento delle politiche occupazionali che tendano all’investimento e non al mero assistenzialismo, seppur imprescindibili, non sono sufficienti per colmare il gap, tornando almeno ai livelli economici pre-crisi. 

Ciò che serve davvero è ricordare che dietro le statistiche, 

i numeri, i bilanci, le previsioni ci sono esseri umani,

 

ci sono le tante Anna e i suoi colleghi che, stretti nel loro giovane bagaglio, guardano ad un futuro altrove con il cuore gonfio di tristezza e negli occhi la sconfitta: la partenza deve diventare una libera scelta e non l’unica via possibile. 

 

 

 

*Articolo aggiornato al 20 novembre 2019 

 

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UNA RIVOLUZIONE PER IL SUD di Carmen Lasorella – Numero 15 – Dicembre 2019

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UNA RIVOLUZIONE PER IL SUD

 

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Ogni anno, puntuali, arrivano i rapporti. In testa, quello Svimez sull’economia e la società del Mezzogiorno. Sarebbe stato meraviglioso, ma non ci sono state sorprese: il Sud continua inesorabilmente a scivolare verso il fondo di tutte le classifiche. 

E’ quella scena dei cartoons con il pupazzo baffuto, che usa le unghie e i denti, eppure va giù e poi ancora giù, perché la parete è di vetro ed è bagnata di sapone. Magari però si trattasse di vetro e di sapone! Ci sarebbero trasparenza e pulizia…invece sono l’opacità e la sporcizia, che pesano sul futuro del Sud, con la zavorra pesante di un sistema incapace di riconoscerlo – il futuro – già che non si vuole cambiare.

 

Eppure, qualcosa di nuovo nell’edizione 2019 c’è stata. 

 

Anzi, gli aspetti nuovi sono stati due: uno buono ed uno cattivo. Cominciamo dal secondo.  

 

L’Italia non ha più il tumore endemico del Mezzogiorno, o meglio, non ha più solo quello, perché la metastasi si è estesa all’intera nazione. Sul divario Nord/Sud si è innestato il divario Paese/Europa. C’è da stupirsi? Viviamo una crisi, che, almeno sotto il cielo italiano, dura da più di dieci anni.

Una crisi di valori, di principi; una crisi della politica, incapace di rigenerarsi; 

una crisi economica, che ci ha portato alla stagnazione e poi alla povertà; 

una crisi del sistema sociale, che non sa più includere, 

che non affianca, non sostiene. 

 

Una crisi sgarbata e sgrammaticata. C’è da meravigliarsi, sì, perché viene da chiedersi: come mai non è accaduto prima? Come può il corpo di un paese continuare a vivere con una parte malata? Bisogna curare l’intero corpo, in ogni sua parte, per stare bene. E’ logico! Invece, si è generato il paradosso, che perfino dinanzi all’ovvietà e al ragionamento, nell’evidenza dei numeri, dopo i silenzi dei politici per trent’anni e la rassegnazione dei meridionali per molti anni di più,

i sofisticatori seriali hanno perfezionato la materia condita 

con l’odio e la propaganda. 

 

“Il Nord deve stare per suo conto, viva l’autonomia dei ricchi!” “I poveri del Sud non saranno certo tutti ladri e mafiosi, ma sprecano risorse, non ci sanno fare… Brutti e sporchi, come sono, che subiscano il proprio destino, che si accompagnino agli immigrati, esseri inferiori come loro…”  

 

Hanno sparso veleno ai quattro venti, questi untori dei fatti, e

sono riusciti ad intossicare perfino l’anima di tanta brava gente, 

al Nord come al Sud, che ora pensa di vivere bene 

con un pezzo del corpo del Paese,

 

che con un pezzo naturalmente non potrà farcela e dunque rimarrà impotente ai piedi del patibolo dell’Italia tutta, che scivola giù, nonostante le unghie e i denti, come il pupazzo baffuto.  

 

La previsione degli analisti Svimez, sui livelli attuali di occupazione, produttività e saldo migratorio dicono che l’Italia perderà quasi un quarto del suo prodotto interno lordo e il Sud quasi un terzo in meno di 50 anni. Una previsione catastrofica, se non fosse che l’arco temporale di 50 anni di questi tempi è troppo lungo nel conto delle accelerazioni che segnano la nostra epoca. Ma al di là delle verosimiglianze, non possiamo negare le certezze.

Urge ragionare di soluzioni e soprattutto va evitato il rischio di un’Italia 

nelle mani degli untori, allontanando anche quelle dei criminali.


Veniamo alla buona notizia?  

 

Un fattore: facile, duttile, forte, inesauribile, decisivo, a buon prezzo, che potrebbe cambiare le previsioni disastrose appena accennate. 

 

Il fattore D probabilmente non avrà vita facile e incontrerà scetticismi e paranoie, come sempre è avvenuto in passato, ma la Svimez sul punto è tassativa:

a determinare il futuro del Mezzogiorno sarà l’occupazione femminile. 


Usando un felice acronimo, che mi ha suggerito proprio un recente contatto ravvicinato con il Sud, sarà finalmente   

 

“METODO” ovvero MEZZOGIORNO TOCCA alle DONNE.  

 

Non si tratta di rivincite o di battaglie, rievocando stagioni passate, la questione anche in questo caso risponderebbe solo alla logica e all’evidenza. E’ vero o no che il PIL diminuisce quando diminuisce la popolazione e dunque il lavoro che questa produce? E’ vero o no che scende anche quando questo lavoro non è qualificato ed aggiornato sui parametri correnti? Parlando di donne, cosa significa?

Nel Mezzogiorno, le donne dovranno poter sommare 

il proprio lavoro a quello degli uomini. 


Le donne occupate invece sono oggi in media appena il 30%, mentre in Europa quella media supera il 60; sono in troppe a fare il part-time, imposto e non volontario, che ritorna sul 30% del totale con una perdita evidente di potere contrattuale; bassissimo è il tasso di natalità e così l’abbandono del lavoro nel caso di un figlio; il grado d’istruzione rispetto al centro-nord d’Italia ed agli altri paesi UE è in sensibile ritardo. Allora? Se la percentuale di lavoro femminile cominciasse a salire verso il 60%, se ci fossero servizi per le donne (ausili, asili, ecc.) che favorissero la scelta di un figlio, senza abbandonare il lavoro, con un part-time scelto e non subito, se ci fosse la possibilità di studiare di più e meglio, come oramai non solo le più giovani, in maggioranza, vorrebbero poter fare, diventerebbe straordinaria la spinta al rilancio del Sud!  

 

METODO e aggiungerei tenacia, determinazione, organizzazione. Tutte prerogative femminili. E’ giunto dunque il tempo delle donne al Sud ed alle donne toccherà essere sulla scena, finalmente, da protagoniste.

Qualora gli uomini al potere nel Mezzogiorno e nel resto del Paese 

dovessero ostacolare questo percorso, con fermezza, 

vorrà dire che si cambierà il paradigma. 


Il sì deve essere forte e chiaro. Usando le piazze reali e virtuali, con il supporto convergente – almeno una volta – dei mezzi di informazione. Bisognerà dire basta! E bisognerà dirlo da subito. Le donne oramai devono andare avanti, senza ulteriori indugi, senza le donne la rivoluzione non si può fare e nel Mezzogiorno è diventata inevitabile. Serve uno choc! Non bastano più i passi, forse non basteranno neanche i salti. Ma servono fonti di energia nuova e pulita. Non solo in senso metaforico: è diventato indispensabile in termini letterali!

Al fattore D, considerata leva economica, si aggiungeranno allora altri due fattori: 

il Green Deal e l’Innovazione.  


Ovvero bisognerà puntare con decisione sull’opzione Bio: bioeconomia e biotecnologia. 

 

Il rapporto Svimez ci informa che il valore della bioeconomia meridionale si aggira tra i 50 e i 60 miliardi di euro, più o meno un quinto di quella nazionale. Che i modelli aziendali Nord/Sud nel tempo si sono avvicinati, che è aumentata la dimensione e la superficie media delle imprese agricole, che

si sta costruendo – benché a fatica – un modello di bioeconomia circolare, 

capace di coniugare economia, ecologia e società. 

 

In questo modello si è inserita anche la chimica verde e nell’ambito del cluster nazionale è nata SPRING. La  Primavera  ci  sta,  di  sicuro,  ma  SPRING  è  un  acronimo:  Sustainable Process and Resources for Innovation  and National Growth. SPRING  ha  oramai  5  anni  di  vita  ed  è  diventata  un’associazione no profit, che mette insieme imprese, università e fondazioni. 

 

L’obiettivo prioritario è quello di abbattere all’incirca del 50 per cento le emissioni di CO2 entro i prossimi anni e pare che ogni euro investito nel progetto ne stia restituendo 10, oltre ad avere offerto occasioni di lavoro ad almeno 2 milioni di addetti in tutta Italia.

La prossima tappa sarà quella di aumentare in modo sensibile la produzione, così come gli investimenti, e di migliorare il circuito della sostenibilità.


In Italia, e soprattutto nel Sud, infatti, i nuovi progetti incontrano difficoltà a radicarsi nel contesto meridionale, perché non sviluppano la coesione necessaria tra i vari protagonisti sulla scena, che non si cementano guardando agli obbiettivi, ma si frantumano nei litigi. La politica c’entra… e non solo quella.

Ancora più dinamico si presenta il settore bio-tecnologico. 


Nel Mezzogiorno, in meno di 10 anni, le imprese biotech sono cresciute di una volta e mezzo l’incremento rilevato al Centro Italia e il doppio rispetto al Nord. Viaggiavano su una percentuale addirittura del +70% nel 2016, rallentata però negli ultimi anni, nel solco della flessione economica nazionale. Sono biotech verdi, bianche e rosse, come la nostra bandiera. Ovvero studiate e applicate nei settori commerciali e industriali, in quelli della zootecnia e dell’agricoltura, nel campo medico.

 

Le imprese di questo comparto si avviano a rappresentare il 30 % del fatturato biotech generato nel Mezzogiorno, 

 

che ha trovato la sua punta di diamante in Campania, dove si coltivano progetti di ricerca all’Università Federico II di Napoli, nelle Academy finanziate dalle imprese ed anche nella Scuola Superiore Meridionale, sostenuta dallo Stato. E’ un bell’andare. Fa piacere parlarne… tuttavia ci riferiamo ad ambiti di eccellenza limitati. Sono attività che non fanno sistema. Le Reti della conoscenza e del trasferimento tecnologico potranno senz’altro rendere fertile il contesto territoriale, ma prima bisognerà smuovere la terra e dissodarla in profondità, coinvolgendo oltre le braccia, le teste e i cuori. Se serviranno i caterpillar, si useranno i caterpillar e alla guida ci saranno le donne …. una minaccia? Lo è, perché non se ne può fare più a meno. 

 

 

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QUESTO SUD di Giuseppe Soriero – Numero 15 – Dicembre 2019

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QUESTO SUD

 

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“Rete delle infrastrutture” e “Rete dei talenti” – Due obiettivi impellenti.
“In particolar modo è necessario ridurre il divario che sta ulteriormente crescendo tra Nord e Sud d’Italia.  

A subirne le conseguenze non sono soltanto le comunità meridionali ma l’intero Paese, frenato nelle sue potenzialità di sviluppo” – ha proclamato il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella nel messaggio per il nuovo anno 2020.

Avevamo colto già codesta sua sensibilità quando, il 14 novembre scorso, la delegazione Svimez ha illustrato al Quirinale il recente Rapporto 2019,

 

presentato alla Camera dei Deputati il 4 novembre, alla presenza del Presidente del Consiglio Conte. La rivista Myrrha, presente alla Camera, adesso lodevolmente apre le proprie pagine a commenti sul tema, per ispirare ulteriore fiducia nei doni del Sud. 

 

A ben pensarci,

 

la fiducia nelle proprie energie è stato il filo conduttore del discorso 

del Presidente Mattarella,  

 

poiché a suo avviso “per promuovere fiducia, è decisivo il buon funzionamento delle pubbliche istituzioni che devono alimentarla, favorendo coesione sociale…. La democrazia si rafforza se le istituzioni tengono viva una ragionevole speranza”.  

E’ questo il sentiero irto e stretto lungo cui si muove da anni la valutazione periodica del Rapporto Svimez: nutrire di speranza la battaglia meridionalista, aggiornando continuamente la lettura critica delle difficoltà meridionali la cui soluzione è elemento strategico per il futuro dell’Italia. Il Nord da solo non ce la può fare, l’Italia ha bisogno dello sviluppo del Sud. Non a caso la descrizione quest’anno paventa i caratteri di un nuovo divario tra l’Italia e l’Europa.

Insomma, negli ultimi dodici mesi è aumentato non solo il dualismo tra Nord e Sud, 

ma l’affanno dell’intero sistema Italia rispetto al resto d’Europa. 

 

“Ristagnano soprattutto i consumi (+0,2%), ancora al di sotto di -9 punti percentuali nei confronti del 2018, rispetto al Centro-Nord, dove crescono del +0.7%, recuperando e superando i livelli precrisi”. 

Tuttavia il Nord Italia non è più tra le locomotive d’Europa dacché talune regioni dei nuovi Stati membri dell’Est superano per PIL alcune regioni ricche italiane, essendo quelle “avvantaggiate dalle asimmetrie nei regimi fiscali, nel costo del lavoro, e in altri fattori che determinano ampi differenziali regionali di competitività”  

 

Fatto 100 il Prodotto interno lordo dell’ Area europea (dei 28 Stati membri), dalle ricerche Svimez si desume che tra il 2006 e 2017 il valore della  Lombardia cede da 138 a 128; il Veneto da 121 scende a 112, l’Emilia scivola da 131 a 119; ad Est il PIL sale: a Praga da 170 a 187, a Bratislava da 147 a 179, a Bucarest da 87 a 144.

Queste cifre hanno indotto subito alcuni importanti giornali a titolare che “Il Nord spegne i motori dell’industria e si ferma anche la locomotiva Italia”, 

 

narrando essi anche il raffreddamento dei ritmi di crescita in Germania, il prevalere della Brexit in Gran Bretagna, il crollo dell’export UE che arriva a lambire aree sicure che finora avevano trainato l’economia italiana, dalla Brianza ad alcune zone dell’Emilia.  

 

La crisi internazionale insomma ha clamorosamente squarciato il velo rendendo lo scenario più netto: o le due aree del Nord e del Sud cresceranno insieme o la ripresa dell’Italia rimarrà sempre più tiepida proprio mentre il Mediterraneo è in ebollizione e spinge comunque verso la modifica di secolari equilibri con protagonisti del tutto inediti: la Cina, con ambiziosi investimenti lungo “La via della seta”; la Russia, che impone un ruolo primario nello scacchiere geopolitico; e adesso anche la Turchia, che vota rapida l’intervento militare in Libia per pesare di più nelle acque del Mediterraneo.

 

E l’Italia che fa ?  

 

Mentre le grandi potenze del mondo si misurano su programmi internazionali d’investimento a fini bellici, militari, di egemonia industriale e commerciale, qui da noi continuano le crociate ideologiche sugli egoismi territoriali e prevalgono le polemiche localistiche sul cosiddetto “regionalismo differenziato” e su ipotesi di sviluppo “ a geometria variabile”. E’ questo il portato di una dissennata dispersione della coscienza unitaria della nazione che si frantuma lasciando ampi varchi al sentimento del “rancore” indentificato dal Censis come elemento coagulante di nuovi egoismi territoriali. E’ appena il caso di ricordare che, nell’inerzia del Sud, ripiegato nel trascinamento prevalente di misure economiche assistenziali, la bulimia nordista è riuscita a concentrare solo per le infrastrutture ben 47,5 cinque miliardi nelle aree del Nord, relegando solo 5,7 miliardi alle aree dell’anoressico Mezzogiorno.

Emblematica in tal senso la foto Svimez del dualismo ferroviario. 

 

Adesso finalmente si comincia a discettare da più parti sul rispetto del criterio del 34% nella ripartizione della spesa statale, ma ancora siamo terribilmente indietro. I dati fermi al 28,4% fotografano gli effetti di quella che alcuni commentatori, ironicamente, hanno definito la “Secessione light”, un paradossale gioco delle parti perpetrato cinicamente ai danni della coesione e della comunità nazionale.  

Proprio la ricognizione sull’uso delle risorse europee del QCS 2000-2006 e del QSN 2007-2013 ha messo in evidenza le fragilità del modello. Quanto il meccanismo italiano fosse inceppato è stato, anni fa, ad esporlo il primo Rapporto Fondazione Hume-Sole 24 Ore:

mentre complessivamente, a partire dal 1992, le disuguaglianze nel mondo 

si riducono il differenziale interno nel caso italiano cresce.  

 

E all’origine degli squilibri italiani c’è non solo il divario del PIL, ma “la fisiologia di un sistema economico che non riesce a trovare una via autonoma di creazione e di distribuzione della ricchezza attraverso il mercato, e che dagli anni ’90 resta vincolato a meccanismi di trasferimento della spesa pubblica in via di assottigliamento”.  

 

Non riuscendo lo Stato ad affrontare questi nodi strutturali del modello, solo in Italia, rispetto ad altre esperienze europee,

ogni 3 anni si è preteso di cambiar nome, tipologia e finalità dell’intervento pubblico con la chiusura e la riapertura di Ministeri e Agenzie,  

 

oscillando tra audaci sperimentazioni di funzioni e di poteri che però non sono riusciti a sradicare il pervicace “gattopardismo” diffuso negli apparati burocratici. Hic Rhodus, hic salta! A 160 anni dall’Unità d’Italia, 25 dopo l’abolizione dell’intervento straordinario e della Cassa per il Mezzogiorno, 50 anni dopo l’entrata in funzione delle Regioni e dopo 10 anni di esaltazione acritica della riforma federalista (legge 42/2009) non si riesce ancora a correggere le visioni contrapposte tra le pretese dell’ egoismo “nordista” di riservare per quei territori ingenti risorse e l’autoisolamento che il Mezzogiorno stesso si è inflitto, incapace di debellare il degrado istituzionale, la gestione clientelare dei fondi pubblici e le incursioni del poteri mafiosi in tutti i gangli dello sviluppo economico.

A questo punto un interrogativo è d’obbligo: come è plausibile stoppare 

lo stucchevole conflitto tra Nordisti e Suddisti, in breve tra gli epigoni 

del “Sacco del Nord” e i cantori dello “Scippo del Sud? 

 

Per intanto Svimez si è recata in Parlamento a documentare che le pretese di alcune Regioni del Nord di trattenere per sé il cd. residuo fiscale era non solo culturalmente, ma anche tecnicamente infondato (audizione Commissione Finanze, Camera dei Deputati, 10/12/2019). Le Regioni meridionali finora hanno solo balbettato; Governo e Parlamento si trovano in questi giorni impelagati a dirimere un contenzioso non facile, per correggere, con le proprie funzioni d’indirizzo e di controllo, i guasti indotti sia dal potere centrale che dalle classi dirigenti meridionali.  

 

Il Rapporto Svimez quest’anno, esaminando i costi enormi del divario italiano, insiste segnatamente sul bisogno di strategie di sviluppo che sappiano competere a livello internazionale.

 

E indica tra le priorità almeno due proposte strategiche che attengono 

alla dotazione di nuove infrastrutture materiali e immateriali, 

per rafforzare l’armatura urbana e per connettere in rete 

le tante competenze giovanili. 

 

Il Sud diventa così l’emblema dell’Italia che può innovare, se si considerano le potenzialità incommensurabili delle condizioni logistiche e territoriali, innanzi nell’utilizzo pieno dei grandi porti, da Gioia Tauro a Napoli a Taranto, a Palermo  che consentirebbero al Sud di essere davvero utile anche al Nord e all’Italia, di essere preziosa cerniera tra l’Europa ed il Mediterraneo.

Il Bel Paese dunque non può indugiare oltre in politiche di corto respiro, 

 

deve saper debellare l’arroganza della mafia, ed anche la complice vischiosità di qui settori della pubblica amministrazione che hanno messo a dura prova la voglia di tanti giovani di vivere e lavorare nelle città meridionali. 

 

Solo così forse sarà possibile risvegliare davvero l’anima del Sud e suscitare fiducia tra le forze più innovative.  

 

Quella fiducia che va trasmessa ai giovani – ha ricordato tuttora il Presidente Mattarella “ai quali viene sovente chiesta responsabilità, ma a cui dobbiamo al contempo affidare responsabilità”.   

 

E’ questo un aspetto di evidente rilievo! La rivendicazione di un ruolo da protagonisti scaturisce proprio da una recente indagine Svimez su un campione significativo di circa 400 allievi che studiano nelle tre università della Calabria. La risposta prevalente e perciò confortante è che

 

essi non vogliono scappare; sono pronti anzi a misurarsi, producendo idee 

per lo sviluppo, cooperando tra loro per delineare 

una vera e propria “Rete dei giovani talenti”.  

 

Una struttura cioè che, attraverso l’uso delle nuove tecnologie, sappia fare leva su tutto ciò che di positivo riescono ad esprimere adesso le università meridionali.  

 

Potrà essere una novità di assoluto rilievo, se finalmente Parlamento, Governo e Regioni decideranno di concentrare, per alcuni anni, ingenti risorse, indirizzando così un uso più virtuoso di fondi europei e nazionali. 

 

La rivista Myrrha saprà approfondire questo confronto e già altri commenti in questo numero cominciano a riflettere efficacemente sull’esodo devastante dei giovani e sull’impellente necessità della tutela dell’ambiente. Io concludo con una solo interrogativo a proposito di giovani, formazione e innovazione. L’anno 2020 si apre proprio con la istituzione di un nuovo Ministero per Università, ricerca, alta formazione; e un Ministero certo da solo non può bastare!

Può comunque indicare la direzione di marcia per una incisiva
competizione italiana, culturale e civile, a livello europeo? 

 

 

 

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