UN PAESE LA SCUOLA LA MERICA Parte I di Tommaso Russo – Speciale aglie fravaglie – Maggio-Luglio – 2020

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UN PAESE, LA SCUOLA, LA MERICA 

 

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raccontano che in quel decennio, per effetto di un lungo e lento processo di crescita, Avigliano era diventato un importante paese in provincia di Potenza.  

Contava 19.010 abitanti nel 1881, scesi a 18.841 nel 1901. Quello scarto di 169 abitanti non riuscì a compromettere la trama del suo territorio.

 

La campagna estesa ed ampia con più di ottante frazioni, con la sua economia degli orti e della pastorizia, con quella del seminativo e dei boschi, apparteneva a un principe, venuto da Genova, di nome Doria-Pamphili.

 

Egli ne aveva concessa molta parte a grandi affittuari borghesi e a piccoli contadini. Questi ultimi che mal sopportavano la burbanza feudale per difendere la loro dignità spesso lo trascinavano in giudizio oppure scioperavano. Per fortuna che quando finivano in tribunale erano difesi gratuitamente da avvocati socialisti o liberal massoni.

Il centro del paese aveva tutt’altre caratteristiche. C’era la pretura, 

in cui bene o male, si amministrava la giustizia.


Dai paesi vicini e dalle campagne vi accorrevano avvocati, imputati, testimoni, familiari. Paesani e forestieri con la loro presenza animavano una fitta rete di negozi, di forni, caffè, osterie, trattorie, alberghetti. 

 

Nelle strade cittadine avevano bottega orafi, sarti, calzolai, falegnami, figulai, bottai, maniscalchi. Nelle loro forge essi ferravano zoccoli per cavalli, per asini e muli, predisponevano ruote per carri, carrozze e carriole e per tutto ciò che potesse servire a spostare uomini, donne, famiglie e merci. Famose poi erano quelle botteghe in cui si fabbricavano e si vendevano coltelli a scatto con manici finemente intarsiati e lame affilate e luccicanti. Questo particolare artigianato aveva alimentato la leggenda che gli aviglianesi fossero uomini seri, onesti ma bravi di mano e veloci di coltello quando qualcuno veniva meno alla parola data.

A vivacizzare il paese provvedevano pure vari sodalizi, quello di mutuo soccorso, quello di previdenza e lavoro; poi la società agricola e quella di tiro a segno. 

 

Avvocati, medici, dottori fisici, farmacisti, maestri, e poi braccianti, contadini, scalpellini, muratori, operai, erano iscritti e tutti impegnati in azioni di solidarietà, di mutualismo e cura.

 

Don Giustino Fortunato, grande intellettuale e meridionalista, 

le volte che veniva colto da un qualche attacco di ipocondrìa 

era solito vedere nero. E in genere non sbagliava. 

Così, quando in Basilicata, negli anni Ottanta dell’Ottocento, si trovò di fronte a una opaca rete di banche popolari, di cooperative di credito, tuonò contro di esse dicendo che la misura era colma e che presto a quel carnevale bancario sarebbe sopraggiunta la quaresima. E così fu. Naturalmente Avigliano non sfuggì alla punizione divina. Era successo che ricchi borghesi pur di improvvisarsi banchieri, avevano chiesto prestiti al Banco di Napoli e li avevano garantiti ipotecando i loro beni immobili e fondiari. Così quando il tribunale dichiarò il fallimento della banca aviglianese, l’istituto di Via Toledo ne incamerò i beni. Su di essi, e sugli altri pervenuti in possesso del Banco per gli stessi motivi, vigilava attento e severo Nicola Miraglia, valente uomo della Terza Italia e meridionale di Lauria, che giustamente e a certe condizioni voleva immettere quote di quel patrimonio sul mercato per movimentarlo.

 

Fiore all’occhiello e vanto di Avigliano era il suo sistema scolastico.

 

L’istruzione domestica impartita da eruditi locali o da preti, quella funzionante nel convento e quella che si svolgeva nella scuola pubblica costituivano i pilastri di un solido edificio dove ogni mattina entravano frotte di bambini e bambine. Era il tesoro vivente del paese. I genitori avevano investito molto sul successo scolastico dei loro figli, così pure avevano fatto l’amministrazione locale e i nuclei borghesi che la governavano. Un caso raro in cui nessuna di quelle tre componenti aveva pensato che l’istruzione producesse spostati di capa, ma tutti ritenevano che da quell’edificio potessero uscire solo teste ben fatte come desiderava un filosofo francese Michel de Montaigne. 

 

Ad Avigliano Gioacchino Murat, nel 1809, aveva voluto istituire il Real Collegio, un istituto pubblico per la formazione della classe dirigente regionale, ma aveva ordinato anche l’apertura delle scuole primarie maschili e femminili. La frequenza era gratuita ed il reclutamento delle maestre e dei maestri era in capo al Comune. Iniziava così il lungo, lento e difficile cammino della laicità della scuola elementare.

 

 Nel 1851 Ferdinando II di Borbone volle aprire un ospizio-convitto 

per trovatelli, orfani e per i figli di molti padri e di una sola madre. 

Re-Bomba volle che fosse consacrato 

alla Madonna della Pace. 

E così fu. 

Col passare dei decenni quel convitto diventò una bella istituzione educativa e formativa con tanti ragazzi bravi ed anche altri che diventarono importanti. In più il collegio mise in piedi una banda musicale che allietava le iniziative pubbliche delle società e dei sodalizi aviglianesi e le funzioni religiose. 

 

Negli anni ‘70 dell’Ottocento gli amministratori comunali tentarono di aprire un ginnasio comunale ma le numerose difficoltà prima di tutto quelle economiche ne impedirono la partenza. 

 

Dalla Scuola di Arti e Mestieri uscirono validi artigiani, orafi, falegnami, ebanisti, intarsiatori, sarti che poi andavano a Napoli a perfezionarsi in altre istituzioni pubbliche o private, fare ritorno al paese oppure emigrare. L’aviglianese Emanuele Gianturco, deputato a volte moderato, più spesso reazionario, l’aveva presa sotto la sua protezione per cui, a quella Scuola, arrivavano libri, calchi in gesso, materiale didattico e di laboratorio, abbonamenti a riviste specializzate. Supporti di tutto rispetto per stare aggiornati e al passo con i tempi. Nelle sue aule studiarono e si addestrarono fianco a fianco ragazzi di Avigliano e ospiti dell’ospizio-convitto offrendo un bell’esempio di integrazione, di reciproco apprendimento e di tolleranza.

 

Mentre ancora tuonava il cannone nelle campagne tra Turbigo, Boffalora s/Ticino 

e Magenta, in quel giugno del 1859, e i feriti facevano ritorno nelle retrovie 

come li dipingeva Giovanni Fattori, il conte Camillo Cavour 

chiamò a sé l’amico milanese conte Gabrio Casati.

 

Di lui si fidava più che di Carlo Cattaneo, di Giuseppe Ferrari, o di Francesco Domenico Guerrazzi e non si fidava per nulla di Giuseppe Fanelli, Saverio Friscia, Carlo Gambuzzi. Ordinò al suo amico di mettere giù un testo di legge per le scuole del nuovo Regno. Per la verità il nobile piemontese ignorava ancora quali sarebbero stati i confini della nuova Italia, ma l’idea di fare le scarpe a quel plotoncino di federalisti, di repubblicani e di mazziniani del Nord, Centro e Sud Italia lo eccitava. Casati, forse in omaggio al modello istruttivo, di quello che diverrà in seguito il triangolo industriale, mise giù un testo di oltre 300 articoli dai toni autoritari e accentratori. Venne premiato diventando suo malgrado ministro della pubblica istruzione dal 24 luglio 1859 al 15 gennaio 1860. Lo schema della legge era semplice. Il regio ginnasio e il liceo erano statali (a prescindere dai comunali) perché servivano a preparare la nuova classe dirigente italiana. Una parte consistente dell’istruzione tecnica, commerciale, agraria era affidata al Ministero di Agricoltura Industria e Commercio. La scuola elementare invece veniva graziosamente regalata ai Comuni che su di essa dovevano vigilare, reclutare maestri e maestre, trovare i soldi e l’edificio, arredarlo, riscaldarlo, tenere in ordine e conservare l’archivio scolastico. Delle migliaia di Comuni meridionali non pochi fecero ciò che la legge dettava loro. Avigliano tra essi.  

(continua…) 

 

 Parte I

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FRANCESCO ADORNO VIAGGIO ATTRAVERSO LE ORIGINI di Aurora Adorno – Speciale aglie fravaglie – Maggio-Luglio-2020

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FRANCESCO ADORNO VIAGGIO ATTRAVERSO LE ORIGINI

 

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Francesco Adorno ha contribuito alla conoscenza del pensiero dei filosofi greci e del rapporto tra il pensiero classico e la cultura cristiana.

Letterato e umanista con studi e interessi estesi anche al Medioevo, è stato già ricordato da Myrrha in occasione della recente pubblicazione della biografia firmata da sua nipote, Aurora Adorno. In questo numero, il suo profilo viene idealmente tracciato dalla compagna della sua vita che descrive sensazioni, incontri e suggestioni del rientro del filosofo a Siracusa dopo anni di permanenza a Firenze, città dove insegnò a lungo. 

Ricordi, Francesco? Correva l’anno 1962, esattamente il 5 Agosto.


Lo ricordo perché fu il giorno in cui morì Marylin Monroe suicida nella sua camera da letto. Allora non si parlava d’altro. 

Partimmo da Fregene, perché eravamo in vacanza da mia sorella Olga in provincia di Roma, si passò dal Cilento per vedere la costa e si dormì vicino Paestum. 

Visitando i templi mi canzonavi, chiamandomi “la baccante che vaga tra i templi”. 

L’indomani visitammo anche la maestosa grotta di Palinuro. All’epoca non si accorciavano i viaggi volando in aereo e quel tempo che scorreva lento, trascorso guardando attraverso il finestrino, cantando canzonette e raccontando storie, colorava la mente di immagini e bei ricordi.

 

Quando giungemmo a Villa San Giovanni – il cielo era limpido e si poteva ammirare bene Messina – ti mettesti subito ad urlare “l’isola, l’isola!”. Parevi un bambino.  


Eri sempre contento di ritornare dove le tue radici avevano dato i loro frutti ed eri nato. 

Corrado Adorno, tuo padre, era stato insegnante di disegno e pittore; dopo averne fatto richiesta, era stato preso ad insegnare alla scuola media di Firenze. 

La tua famiglia si trasferì quando eri ancora molto giovane, ma il legame con la Magna Grecia aveva colpito irrimediabilmente la tua immaginazione, consacrando la passione verso la filosofia e i filosofi, verso la culla della nostra cultura e la genesi del pensiero.

Con la Cinquecento bianca stipata di borse – con noi c’era 

nostro figlio Eugenio – arrivammo a Siracusa, 


nel centro storico collegato da un ponte all’isola, precisamente in Riva della Posta, dove abitava la tua famiglia. “Beh, Marylin Monroe s’ammazzò!”, disse in dialetto Tina, la figlia di Santino, parente della Lucietta Adorno, appena ci vide. 

Santino girava ancora in calesse e frequentava il circolo dei nobili vestito di bianco; allora andavano tutti al Tropical, un caffè concerto per la gente bene. Difatti, ai tempi c’era ancora molta divisione di classe, purtroppo. 

Mio figlio insisteva per andare al cinema Marconi che faceva il doppio programma, ma ci venne detto che era da scugnizzi e che sarebbe stato scandaloso frequentare un locale di basso livello! 

Ricordo anche un fatto divertente: Annamaria Corpaci, che allora era una bambina, figlia dell’avvocato e di Giuditta Adorno, volle fare una cena a lume di candela perché lo aveva visto fare in un film. Ma la zia Lucietta se ne uscì dicendo “queste candele saranno quelle della mia bara!”, rovinando la festa. Anche l’avvocato era un tipo intelligente e spiritoso, si chiamava Armando ed era di battuta facile.

L’aria che profumava di aranci rallegrava le piccole viuzze del centro 

ed inevitabilmente ci scontravamo con quelle belle chiese 

che pur noi, atei, non resistevamo al desiderio di visitare.

Allora, entrandovi, per rispetto toglievamo il cappello di paglia che proteggeva il capo dal sole e con gli occhi verso l’alto, rapiti, respiravamo il senso di sacro, ammirandone l’architettura. 

L’elegante facciata barocca del Duomo di Ortigia custodiva il prezioso tempio di Atena… Ah, che bello, che grandi cose è capace di fare l’uomo! 

Sfilavamo sul lungomare, davanti a quella cornice bianca di marmo che recita:  

 

Passeggio Adorno 

Cittadini, questo passaggio ottenne per voi il cavalier Gaetano Adorno, sindaco il quale negli ordini nuovi difese la patria, la resse con sapienza: degno per questo che il consiglio comunale gli decretasse nel 1865 titolo di benemerenza e questa memoria 

1868

E tu, fiero, ci raccontavi di quegli avi lontani, dai quali, ne eri certo, avevi preso 

il carattere e il coraggio che ti hanno sempre contraddistinto,


come anche la forza di ragionare sempre con la tua testa e non farti trasportare da mode passeggere. 

Ti appassionavi molto agli alberi genealogici della famiglia e li custodivi geloso. Tu solo riuscivi a capire qualcosa in quelli che a me parevano solamente dei nomi e delle date scritte a china dentro dei cerchi, sospesi come foglie sopra i rami. 

Lo sguardo smarrito correva verso il mare che si estendeva davanti ai nostri occhi, respirando l’aria salmastra che, come un balsamo purificatore, ci riempiva i polmoni.  

 

Il legame col mare era qualcosa che sentivi dentro, nelle profondità della tua anima che spesso si agitava, mentre altre volte era calma, proprio come le onde che si dibattevano sulla battigia e come il vento che leggero soffiava sulla nostra giovinezza… Che nostalgia, marito mio!

Si dice che chi è nato nelle località marine provi una sorta di malinconia andandosene. Me ne rendevo conto quando vi tornavi,


la gioia riempiva di luce il tuo sguardo spesso cupo, sovrappensiero, e in me sorgeva la speranza che tu fossi felice. 

Andammo in visita anche sul fiume Ciane. Ti piaceva fare sfoggio di quella lingua che tanto amavi studiare, e così dicesti: “Kyanòs significa verde azzurro”. E di questo colore erano le acque smeraldine.

Ritenevi che la scrittura greca avesse sviluppato il grande desiderio di conoscenza in termini razionali a causa della sua scrittura, che era alfabetica e quindi implicava il decifrare di volta in volta i segni. Inoltre, l’uso dell’alfabeto composto dai suoni che consuonano con gli altri rende il linguaggio interpretativo e attivo, diversamente dagli ideogrammi egizi o cinesi, che invece stimolavano una maggiore contemplazione statica e non storica.

 

Si fece merenda al sacco, con i piedi scalzi nell’erba e le acque 

che scorrevano lente dinnanzi a noi. 


Erano famosi i papiri che allegri nascevano sulle rive del fiume, rendendolo celebre.  

 

Io fui Cyane azzurra come l’aria. 

L’acqua sorgiva mi restò negli occhi; 

la lenta corrente mi levigò.  

 

Citavi il D’Annunzio nell’Alcyone, e noi intenti a divorar panini e a bere un goccio di buon vino, apparecchiati nella natura su di una leggera tovaglia di lino, sciacquando poi la bocca col gusto dolce delle susine. 

La Tina ci riempiva di quelle domande che fanno gli adolescenti, distraendoci dalla musica del fiume che scorreva lento.

E, nel nostro peregrinare da turisti, amavi citare anche Mario Adorno, un avvocato discendente dall’antica famiglia patrizia e dogale genovese,


vissuto a cavallo tra il Settecento e l’Ottocento, che aveva partecipato ai moti carbonari, capo degli insorti di Siracusa, e che dopo aver accusato il governo borbonico della diffusione del colera venne giustiziato insieme al figlio Carmelo. 

Difatti, come amavi spesso raccontare a nostro figlio Eugenio, l’antica dinastia degli Adorno, in seguito ad una guerra con i Doria, potente famiglia genovese, lasciò la Repubblica Marinara e si stabilì prima ad Avola, dalla quale prese il secondo nome Avolio, ed in seguito nella splendida Siracusa, dove tuo padre Corrado era nato. 

Il tuo essere comunista cozzava con il tuo sentirti nobile, con quel “sangue blu” – ciano, appunto – che sentivi fortemente scorrere nelle tue vene, intridendoti delle tue stesse origini.

Ognuno di noi è ciò che è, quello che le proprie esperienze 

lo hanno fatto divenire e come ha scelto di interpretarle. 


Abbiamo avuto un’infanzia diversa, una famiglia borghese la mia, diversa la tua, in quegli obblighi e nel dover dimostrare sempre chi si è e da dove si viene, in quello sguardo alto, sospeso verso il cielo, di chi cerca sempre di non deludere la propria stirpe, e in quello stemma che ti sorprendevo spesso ad osservare, quasi rispecchiandoti in esso. 

Dietro ogni persona esiste una storia e, se si vuol conoscerla fino in fondo, si deve tacere ed ascoltarla. 

 

 

 

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AGLIE FRAVAGLIE FATTURA CA NUN QUAGLIA di Fernando Popoli – Speciale aglie fravaglie – Maggio-Luglio – 2020

 

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AGLIE FRAVAGLIE FATTURA CA NUN QUAGLIA

 

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ripetono in molti dentro di loro per giustificarsi, così come recitava il titolo di una famosa e divertente commedia di Peppino De Filippo per raccontare la superstizione, i pregiudizi, la scaramanzia e la credulità di una famiglia napoletana dove si preferiva dare in sposa la figlia ad un gobbetto pur di acquisire ricchezza e benessere.

In questo anno bisestile, tristemente inaugurato dalla pandemia (si direbbe con un altro proverbio “ ‘a mala nuttata e ‘a figlia femmina”, cioè due guai in un colpo solo),

 

anche Myrrha ha pensato di inserirsi sulla scia del “non è vero ma ci credo” 

e, scaramanticamente, ha deciso di traghettare la rivista dal numero 16 

al numero 18 sostituendo il “numero della sfortuna” (l’innominabile!) 

con la formula magica di Pappagone.   

 

A Napoli, ma potremmo dire in buona parte del Meridione, tra le persone acculturate, vige la regola di non dare importanza a “uocchie, maluocchie e frutticell rind’ all’uocchie”, apparentemente, salvo poi munirsi di corna e bicorna e recitare “sciò sciò ciucciuè” per mettersi al sicuro dalle maledizioni e da chi “fa ‘a seccia” (fa la seppia, agisce da jettatore).  

 

Del resto, nel corso della storia, anche intellettuali e uomini di cultura non sono rimasti indenni dalla suggestione della superstizione. “Non credo alla jella, perché credere alla jella porta jella”, diceva Benedetto Croce, così come Eduardo De Filippo riteneva che “essere superstiziosi è da ignoranti, ma non esserlo porta male”, per citarne solo alcuni.

“Aglie, fravaglie, fattura ca nun quaglia!”, vale a dire aglio, fragaglia, 

fattura che non quaglia, che non prende.  

E’ la formula contro il malocchio 

 

che ripeteva “Aitano” Pappagone, il famoso personaggio creato da Peppino De Filippo, spesso rafforzata da “corna, bicorna, capa r’alice e capa r’aglio”. Il rituale magico era basato sulla capacità dell’aglio di allontanare i vampiri (l’aglio infatti purifica il sangue rendendolo insipido) che, unitamente alla fragaglia, cioè ai piccoli pesci (i pesci non solo sono simbolo di Cristo, ma rappresentano anche abbondanza, dunque sono benauguranti) destinati solitamente alla frittura, e, all’occorrenza, alle corna, con le loro punte respingenti il malocchio, impedisce alla jettatura di ottenere un risultato positivo.    

 

Io scoprii quanto fossero radicate certe credenze anche tra i giovani da ragazzino. Con un amico che passava per essere il più bravo della classe, andavamo al primo appuntamento con due graziose ragazze quando, nell’attraversare la strada, vedemmo un gatto nero che stava per passarci davanti tranquillo e pacifico. Il mio amico, impaurito, si bloccò di colpo. Il gatto, a sua volta, si fermò. L’amico dunque riprese l’attraversamento, ma anche il gatto cominciò a proseguire ed egli si fermò di nuovo impietrito.

“Non possiamo passare dopo che il gatto nero ci ha tagliato la strada”, 

affermò, “il nostro appuntamento ci andrebbe a buca”. 

“Ma queste sono superstizioni”, affermai io. 

“Sarà pur vero, ma è meglio essere prudenti”.


Riprendemmo ad attraversare la strada sicuri di avercela quasi fatta quando il gatto, quasi per dispetto, avanzò sino al centro della carreggiata. A quel punto il mio amico mi costrinse a fare un lungo tragitto diverso per evitarlo. Arrivammo all’appuntamento in ritardo e delle ragazze nemmeno l’ombra: stanche di aspettare, se n’erano andate, dandoci giustamente buca.

 

Il corno rosso, di tutte le misure, è un amuleto capace di tenere lontano maledizioni e uocchie cattive. Mio cugino, quando comprò la sua prima spider bianca, molto elegante e desiderata dai giovani, si munì del celebre “curniciello” che attaccò sotto il cruscotto in bella vista e che strofinava, recitando il fatidico

 

“scio sciò ciucciuè!”, per tenere lontana l’altrui invidia

 

quando girava per Via dei Mille. Mia madre, che era molto religiosa, mi raccomandava di non raccontare ad alcuno i miei primi successi professionali per non suscitare gelosie, dicendomi “ponn’ chiù l’uocchie che ‘e scuppiettate”, ed era un’esponente della buona borghesia.  

 

Giovanni Leone, quando era presidente della Repubblica, rispose a certe invettive che gli mossero degli studenti facendo un bel gesto con le corna, immortalato da tutta la stampa dell’epoca. Un mio conoscente affermò che egli, il venerdì 17, tassativamente, non usciva di casa per alcun motivo, costi quel che costi. Una mia amica bella e simpatica era cresciuta senza padre e sperava in un bel matrimonio.

Per ingraziarsi la fortuna, come poteva, accarezzava qualche gobbetto
con qualsiasi scusa e in qualsiasi situazione.
Trovò un marito molto ricco che l’adorava

 

dal quale ebbe due figli e visse una vita nella grande agiatezza abitando case di lusso e comprando abiti firmati. Ancora oggi, quando vede un gobbetto, fa di tutto per toccargli la gobba.  

 

Il principe De Curtis, in arte Totò, in un celebre film tratto da un racconto di Pirandello, La patente, avendo fama di grande iettatore, voleva farsi riconoscere “il titolo” da un tribunale per esercitare professionalmente questo mestiere.

 

E sempre Totò dedicò una poesia alla figura dello “schiattamuorto”, 

il becchino, la cui sola vista stimolava immediatamente i napoletani 

a compiere gesti scaramantici e scongiuri di ogni tipo.  

 

Un imprenditore fece una società con un marchigiano anni fa e l’attività andò male. Essendo un uomo molto capace, e non ammettendo questo insuccesso, si appellò ad un vecchio detto: “meglio un morto in casa che un marchigiano dietro la porta”.  

 

Nel periodo di quarantena imposto dal Coronavirus, durante il quale ogni attività è stata interrotta e molti si sono trovati impossibilitati a risolvere anche gli ordinari problemi domestici, il detto

 

“puózze tènere ‘e maste â casa!”, cioè la maledizione di avere i muratori in casa (senza offesa!), paradossalmente potrebbe invece essere diventata un lieto augurio! 

 

La superstizione a Napoli si diffuse maggiormente nel Settecento, quando alla corte di Ferdinando IV arrivò l’archeologo Andrea de Jorio a far visita al sovrano. Questi era molto conosciuto come jettatore e la sua fama si consolidò quando dopo poco Ferdinando morì prematuramente. 

Intanto da Napoli arrivano notizie contrastanti. Da una parte seguono la messa del Papa al mattino da Santa Marta, appellandosi a Dio per sconfiggere la pandemia, dall’altra c’è chi recupera “curnicielli” e ferri di cavallo da appendere dietro la porta di casa, per scaramanzia. 

Alcuni li adoperano come portachiavi o li appendono alla cintura tenendoli sempre a portata di mano per toccarli. 

E’ un periodo terribile, al Coronavirus si aggiunge l’anno bisestile e molti sperano nell’intervento di San Gennaro per salvarsi.

“San Genna’, pienzace tu!”,

 

per tornare alle invocazioni della tradizione popolare che uniscono i napoletani di ogni censo e grado di cultura davanti alle difficoltà della vita. Il due maggio c’è stata la prima liquefazione a porte chiuse; si scioglierà anche a settembre il sangue in segno di benessere e prosperità per il popolo?  

Nel frattempo, i cittadini premono sul fantasioso sindaco De Magistris affinché la costruzione di ‘O corno

 

la gigantesca scultura di ferro di sessanta metri di altezza e trenta di base 

di colore rosso approvata dal consiglio comunale, abbia inizio 

per tenere lontano pandemie, peste, colera e Coronavirus.

 

“E’ il simbolo della città conosciuta nel mondo per la superstizione”, ha affermato il Sindaco convinto. “E ci proteggerà tutti!”, ha aggiunto in coro il popolo, esclamando “Sciò, sciò ciucciuè, jatevenne da casa mia!”

 

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In collaborazione con Giulia Muti

 

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IL PREZZO DELL’ONESTÀ PASQUALE JULIANO di Francesco Antonio Genovese – Numero 16 – Febbraio 2019

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IL PREZZO DELL’ONESTÀ.  PASQUALE JULIANO 

 

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Tra le personalità di rilievo del Mezzogiorno d’Italia non ha ancora trovato il posto che merita un uomo che mostrò grande coraggio ed onestà in tempi difficili (come diremo):

parlo del commissario di Polizia Pasquale Juliano, originario della Puglia, ma a lungo vissuto a Matera, in Basilicata, dove aveva cominciato la sua carriera in Polizia, dopo aver svolto la professione di avvocato; professione a cui fu costretto a tornare nel 1980.

 

Vale la pena di ricordare le sue vicende personali, 

perché di grande insegnamento, ancor oggi. 

 

Ma è necessario andare indietro nel tempo, di circa cinquant’anni, ossia nel 1969; ora che – come si è detto di recente1 – la verità non è monopolio dell’autorità ma è, piuttosto, figlia del tempo. 

 

Ebbene, secondo la consuetudine storiografica sul terrorismo italiano postbellico2, l’inizio della lunga stagione che avrebbe insanguinato l’Italia (e che è divenuta celebre come quella della strategia della tensione: così ebbe a battezzarla The Guardian) è individuabile

nella giornata del 15 aprile 19693, quando a Padova, nottetempo, 

una bomba esplose (con gravi danni, per fortuna solo alle cose)  


nello studio del Rettore dell’Università patavina: il prof. Enrico Opocher, uno dei maggiori filosofi del diritto del novecento italiano, ebreo e tra i fondatori del Partito d’Azione in Veneto. 

 

L’indagine sul quel primo misfatto, nell’ambito della Questura di Padova (dove pure operava un’articolazione più specifica: il cd. Ufficio politico) venne affidata al capo della squadra mobile,

 

il dr. Pasquale Juliano, che – a 37 anni e, senza tirarla troppo per le lunghe, con provata puntualità e capacità – arrivò a individuare i responsabili 

in un nucleo di estremisti neri che da qualche tempo 

cospirava con armi ed esplosivi.  


Tra i leader di quel gruppo vi era un neolaureato in giurisprudenza, che aveva avuto come relatore (con una tesi su Platone) proprio il prof. Opocher: si trattava di Franco Giorgio Freda (detto Giorgio, non Franco, come poi è invalso nella pubblicistica nazionale), seguace di Julius Evola, che da poco aveva, a sua volta, cominciato un’attività editoriale (con la sigla Ar: “Aristocrazia ariana”) ed aveva aperto anche una libreria (la Ezzelino) dove gli estremisti solevano riunirsi, specie in ore serali.

Juliano decise di far sottoporre l’utenza di Freda ad intercettazioni telefoniche: intercettazioni di cui si perderanno però le tracce, proprio a seguito 

delle vicende che colpirono il Commissario,   


salvo a recuperale qualche anno dopo, da parte del giudice istruttore di Treviso, Giancarlo Stiz (attento e coraggioso magistrato, scomparso da pochi anni) che assieme a Pietro Calogero (sostituto procuratore, allora a Treviso), per qualche tempo ebbero le mani, molto abili ed efficaci, sull’inchiesta che poi dovettero trasferire a Milano. 

 

Oltre alle investigazioni sulle conversazioni telefoniche,

il commissario Juliano cercò di penetrare nel cerchio chiuso dei cospiratori 

per mezzo di informatori che, tuttavia, si resero disponibili – come successivamente sarebbe emerso – solo allo scopo di metterlo in condizioni di impotenza,


preparando una trappola in suo danno (tanto era la potenza, la protezione e l’arroganza di quel gruppo di criminali). Uno di loro, infatti, dopo avergli dato le prove del possesso illecito delle armi da parte di un appartenente al gruppo, così da guadagnarsi la fiducia dell’investigatore, farà sì che, al momento del fermo di un altro di loro colto nella flagranza del possesso di un ordigno, il fermato farà una callida dichiarazione menzognera: “La bomba me l’ha data Juliano”.  

 

Così l’uomo che aveva individuato la pista nera nella progressione degli attentati dinamitardi che, a partire dal 15 aprile 1969 insanguineranno l’Italia, e che, unico tra gli uomini delle forze di polizia del Paese, aveva cominciato l’attività di assicurazione delle prove per inchiodare i responsabili alle accuse che loro competevano, finiva nel tritacarne di una giustizia matrigna.

 

Il commissario Juliano, infatti, si vedrà scippare l’inchiesta, che verrà insabbiata, 

e Lui stesso finirà sotto processo, accusato di aver costruito 

le prove contro i terroristi.   

Un potente funzionario dell’UAR del Ministero dell’Interno4, il dr. Elvio Catenacci, viene appositamente a Padova per chiedergli di dare le dimissioni dalla Polizia. Al suo rifiuto, viene sospeso dalle funzioni e dallo stipendio (evento allora rarissimo, se non unico). 

 

Un teste genuino che avrebbe dovuto testimoniare di circostanze utili a scoprire la macchinazione (il povero Alberto Muraro, un ex carabiniere divenuto portiere dello stabile di piazza Insurrezione, a Padova, dove abitava Massimiliano Fachini, legato al solito gruppo nero) morirà precipitando inspiegabilmente nella tromba delle scale, e così

 

al testimone chiave dell’inchiesta condotta dal commissario Juliano contro il gruppo Fachini-Freda-Ventura, che avrebbe dovuto testimoniare solo due giorni dopo, viene chiusa definitivamente la bocca. 


Da Ruvo di Puglia dove è costretto a trasferirsi perché privato del lavoro (e dove viene accolto a braccia aperte dalla famiglia della moglie5), il commissario di Ps Pasquale Juliano invia al giudice padovano, Ruberto, un memoriale difensivo nel quale riferisce di essere stato informato da quel confidente che esisteva una organizzazione, responsabile di attentati, che faceva capo a un «certo avvocato Freda da Padova» e a un bidello dell’istituto Configliachi di Padova (Marco Pozzan); ma

gli occorreranno ben dieci anni per dimostrare completamente 

la sua innocenza, che trionferà solo nel 1979,  


quando  sarà  assolto  da tutti  i capi d’imputazione  e la stagione delle bombe avrà quasi concluso il suo tragico corso.  

 

Quando verrà reintegrato nelle funzioni di poliziotto, Juliano chiederà di tornare a lavorare laddove era partito, a Matera.

ma non resterà a lungo in Polizia, anche perché quel blocco di carriera, 

gli ha fatto passare avanti troppi colleghi ed anche gente 

che non ha avuto la sua onestà intellettuale  


nell’adempimento del dovere, svolto – per lui sì, si può dire – con disciplina ed onore, come raccomanda l’art. 54 della Costituzione. 

 

Un’onestà intellettuale che manifesterà anche quando, intervistato sulla prevaricazione subita, dichiarerà di aver capito fino ad un certo punto di aver individuato una cellula terroristica dalle profonde innervature (cfr. M. Dianese-G. Bettin, La strage, cit., p. 119). 

 

Al giornalista dell’Avvenire, Antonio Maria Mira, che per primo lo intervisterà dopo tanto oblio racconterà: «Ancora oggi ricevo telefonate anonime con minacce e insulti»;

«Avevo già intuito che dietro Freda e Ventura ci doveva essere qualcun altro.
Lo capii dalle protezioni che scattarono in loro difesa. Anche politiche. Italiane 

e straniere, come sta emergendo dall’inchiesta del dottor Salvini»6. 


Era ben informato Juliano, perché seguiva con attenzione – come avrebbe fatto meglio a fare la Procura della Repubblica di Milano – il lavoro del giudice milanese, che finalmente gli dava ragione. «È arrivato là dove stavo arrivando anch’io. E io non avevo i pentiti. Magari li avessi avuti. Avevo solo dei confidenti, ma a questi allora si credeva poco».

 

Nel 1980, tornerà a svolgere quella professione che aveva lasciato per entrare 

in Polizia: l’avvocatura, nel foro di Matera, laddove lascerà definitivamente 

il suo posto proprio il 15 aprile (una data fatale) 1998, 

morendo ad appena 66 anni;

 

lo studio legale passerà così a uno dei figli, Antonio, che prosegue tutt’ora la sua attività forense giustamente orgoglioso di colui che gli ha lasciato il testimone (se ne veda l’intervista in calce al volume A. Beccaria-S. Mammano, Attentato imminente, cit.). 

 

Aspettiamo tutti ora che una strada di Padova, di Milano o di Matera sia intitolata al suo illustre nome. 

 

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[1] E. Deaglio, La Bomba. Cinquant’anni di Piazza Fontana, Milano, 2019, p. 115 e ss. 

[2] Da ultimi: M. Dondi, 12 dicembre 1969, Bari, 2018, p. 24 e ss.; La strage di Piazza Fontana, a cura di A. Carioti, Milano 2019, p. 223; M. Dianese-G. Bettin, La strage degli innocenti, Milano 2019, p. 114 e ss.; P. Calogero, La strategia della tensione e piazza Fontana, in L’Italia delle stragi, a cura di A. Ventrone, Roma, 2019, p. 3 

[3] In realtà altri episodi violenti vi erano già stati a Padova: il 5 febbraio 1969 vi era stato un attentato dinamitardo al quotidiano Il Gazzettino, che aveva cagionato un incendio alla sede del giornale, e il 29 marzo 1969 vi era stato uno scoppio di ordigni nei pressi della sede del Siulp (cfr. M. Dianese-G. Bettin, La strage, cit., p. 115).

[4] Sul quale apparato: cfr. G. Pacini, Il cuore occulto del potere. Storia dell’Ufficio affari riservati del Viminale (1919-1984), Roma, pp. 234

[5] cfr. M. Dianese-G. Bettin, La strage, cit., pp. 117-118; A. Beccaria-S. Mammano, Attentato imminente, 2009

[6] Sull’enorme lavoro svolto dal Giudice Istruttore Guido Salvini si veda ora l’importante volume, anche in parte autobiografico: G. Salvini-A. Sceresini, La maledizione di Piazza Fontana, Milano 2019, pp. 611

 

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AGRICOLTURA IN ROSA UN PRIMATO DEL SUD di Stefania Conti – Numero 16 – Febbario 2020

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AGRICOLTURA IN ROSA UN PRIMATO DEL SUD

 

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Secondo una ricerca della Coldiretti su dati dell’Unioncamere, Sicilia, Campania, Puglia sono in testa alla classifica delle imprese guidate da una donna.

 

A dire il vero, è un fenomeno che si registra in tutto il Sud. L’Istituto di servizi per il mercato agricolo e alimentare – ISMEA – rileva che

 

a fine 2018 la quota era superiore al 50 per cento, con 109 mila imprese


(su 214 mila iscritte al registro delle imprese). Dato confermato nel 2019 dalla Coldiretti, grazie ad una ricerca dell’osservatorio dell’imprenditoria femminile dell’Unioncamere-Infocamere. Al primo posto, la Sicilia con oltre 25 mila aziende, seguita dalla Puglia con quasi 24 mila e dalla Campania con più di 22 mila. Coldiretti ci segnala anche che nel Mezzogiorno il rapporto tra uomini e donne è di 1 a 2, mentre al Nord è 1 a 4. Non è finita, perché nel meridione (nel 2018) si è registrata la maggior nascita di nuove iniziative femminili. Ben 5 mila e spiccioli, il che ha riequilibrato il rapporto generale tra nuove iscrizioni e cessazioni di impresa.  

 

Leggendo tra le righe delle fredde cifre, si osservano fenomeni sociali interessanti.

Intanto, queste imprenditrici rurali sono donne che hanno scelto di esserlo.

 

Sono poche quelle che hanno ereditato il campicello dal padre, o vivono la campagna come un ripiego alla mancanza di un altro tipo di lavoro. Addirittura ci sono casi di fior di professioniste che lasciano le comodità dell’ufficio per la vita all’aria aperta.

 

E questo è un cambiamento sociale e di costume non da poco.

 

Fino agli anni 70 del ‘900 (o forse anche più in là) “mogli, figlie e nuore lavoravano nei poderi per i maschi, le mondine per il mediatore, le braccianti per un caporale” (Marta Boneschi, Santa pazienza, Mondadori 1998). Mondine a parte, il resto era quanto mai vero in un Sud patriarcale quale era; e per quelle che lavoravano in famiglia, non c’era neanche la paga. 

Adesso a comandare sono loro.  

 

Il pianeta rosa si è dimostrato il più preparato a recepire i cambiamenti.

 

Fantasia e innovazione, differenziazione dei prodotti e dei servizi 

sono state le armi vincenti.

 

In Puglia per esempio, le imprese femminili rappresentano il 23 per cento del totale delle nuove iscrizioni al registro delle imprese e secondo la Coldiretti Puglia – Donne Impresa, è “perché risultano capaci di adeguarsi alla richieste del mercato e dei consumatori, cambiando, se necessario, addirittura attività produttiva”. Stesso discorso per la Sicilia e per la Campania, dove solo nella provincia di Benevento – tanto per fare un esempio – le imprese “rosa” lo scorso anno rappresentavano il 19% del totale regionale.

Infatti il boom dell’agriturismo, soprattutto al Sud, è dovuto proprio a loro,

 

che ne gestiscono il 62 per cento contro il 38 degli uomini. Ed è un fenomeno in continuo aumento: ad oggi la crescita – in Puglia – è del 39 per cento contro il 35 del 2009, secondo i dati Istat. Ce lo dice una indagine condotta da Agriturismo.it, il sito leader del settore, fatta con la collaborazione dei Coldiretti-Donne Impresa.

 

Il fatto è che l’universo femminile ha rivoluzionato quello agricolo.

 

Dagli agriturismi siamo passati agli agriasili, alle fattorie didattiche, dove i bambini di città vanno a vedere dal vivo animali che hanno visto solo alla televisione o sul web. Agli orti didattici, dove le signore della terra insegnano a quelle dell’ufficio come nasce una patata. Ai percorsi rurali di pet-therapy, dove si possono esprimere i bambini meno fortunati.

Coldiretti ci fa notare che le donne sono anche leader nell’agricoltura 

a basso impatto ambientale, nel recupero delle piante 

e degli animali in via di estinzione.

 

Nell’attività imprenditoriale agricola le donne – evidenzia la Coldiretti – hanno dimostrato capacità di coniugare le sfide del mercato con il rispetto dell’ambiente, la tutela della qualità della vita, l’attenzione al sociale, a contatto con la natura, assieme alla valorizzazione dei prodotti tipici locali e della biodiversità.  

 

C’è da tener presente che la gestione dei campi e degli agriturismi consente ad una donna di badare ai figli più agevolmente. E che tradizionalmente, la donna cucina.

 

L’imprenditrice agricola ha imparato dalla mamma e dalla nonna a fare arancini e orecchiette. E la buona cucina, si sa, è uno degli atout negli agriturismi.

 

Ma la rivoluzione dell’altra metà del cielo non si è fermata qui. Sono nate le associazioni delle signore del vino che hanno giocato la carta della sostenibilità, della tutela ambientale e della bellezza del paesaggio. E pure quella dei prodotti cosmetici a base di uva. Hanno puntato anche sull’estetica della bottiglia. In questo modo, in Campania, tanto per citarne una, in poco tempo le imprese agricole femminili sono passate dal 34,8% al 37,6% (la media nazionale si attesta intorno al 29%). E’ facile capire perché il 94 per cento si ritiene soddisfatta a livello personale e il 44 anche a livello economico. 

 

 

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ROBERTO MUROLO IL FINE DICITORE di Fernando Popoli – Numero 16 – Febbraio 2020

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ROBERTO  MUROLO IL FINE DICITORE

 

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La guerra era terminata da poco e la gente aveva voglia di divertirsi, di riprendere vecchie abitudini, di trascorrere giornate liete e allegre. Il compleanno di mia madre cadeva il cinque gennaio e mio padre, che era innamoratissimo di lei, faceva di tutto per festeggiarla nel modo migliore.   

 

Egli era il cugino di Amilcare Imperatrice che suonava il contrabasso con Roberto Murolo,

il fine dicitore che incantava tutta Napoli con le sue dolci melodie,


sussurrate con la sua voce seducente e intonata come uno chansonnier del passato. Attraverso questo cugino, Murolo, Continisio e lo stesso Imperatrice venivano invitati a casa nostra per cantare e suonare in onore di mia madre che era una donna molto romantica. Ricordo che prendevano un cachet di centomila lire che, all’epoca, era una cifra considerevole per una serata in famiglia, ma l’atmosfera che si creava e le canzoni che venivano cantate e suonate erano meravigliose. “Munasterio ‘e Santa Chiara”, “Scalinatella”, “Reginella”, risuonavano nel nostro salotto con quei versi stupendi che ancora ricordo… T’aggio vuluto bene a te…Tu m’è vuluto bene a me! Mo’ nun ‘nce amammo cchiù, Ma ‘e vvote tu distrattamente pienze a me! Reginè quanno stive cu mmico… Intorno ai tre musicisti c’eravamo noi sette figli tutti piccolini e alcuni parenti, in rigoroso silenzio,

 

ammaliati dalle parole, dai suoni, dalle melodie che vibravano nell’aria

 

e ci affascinavano, ci coinvolgevano, ci incantavano, per portarci lontano e cullarci in un mondo di dolci sensazioni, come da lievi flutti marini.  

 

Murolo era figlio d’arte, il padre Ernesto era stato un grande poeta dialettale, a sua volta questi era figlio illegittimo di Eduardo Scarpetta, il padre dei tre fratelli De Filippo.

Egli si era formato nei salotti di Salvatore Di Giacomo, Libero Bovio, 

Ferdinando Russo e Raffaele Viviani, respirando arte e poesia.

Da giovane era stato un ottimo tuffatore, conquistando importanti riconoscimenti, ma poi, dopo aver studiato chitarra, formò il “Mida Quartet” con Enzo Diacova, Alberto Arcomone e Amilcare Imperatrice e girò per otto anni in Europa, dal 1938 al 1946, esibendosi tra teatri, teatrini e caffè musicali per campare alla meglio.

Tornato in Italia, affina il suo repertorio con le su citate canzoni e si esibisce con grande successo al Tragara di Capri e in altri posti alla moda conquistando il pubblico napoletano.Inizia anche ad incidere dischi, per la Telefunken Durium,

 

e la radio, allora regina incontrastata delle famiglie, diffonde la sua musica 

di continuo diventando ben presto un beniamino degli ascoltatori.

 

Anche il cinema si accorge di lui e interpreta alcuni ruoli in “Catene”, “Tormento”, “Menzogna”, “Saluti e baci”, dove alterna parti recitate a parti solamente cantate, insieme ad Amedeo Nazzari, Yvonne Sanson, Nilla Pizzi, Yves Montand.  

 

Un brutto episodio lo segnò a tal punto che decise di ritirarsi dalle scene e vivere nell’ombra. Poi, lentamente, la passione per il canto e la musica presero il sopravvento e riprese la sua carriera mietendo grandi successi con il pubblico che riconobbe in lui il fine dicitore di un tempo.

 

Si dedica quindi alla registrazione di album monografici ispirati ai grandi poeti napoletani che erano stati suoi maestri: Salvatore Di Giacomo, 

Ernesto Murolo, Raffaele Viviani e Libero Bovio.

 

Vince come autore il festival di Napoli nel 1959 con la canzone: “Sarrà chi sa”, interpretata da Teddy Reno e scrive altri testi di successo.  

 

Studia con il chitarrista Edoardo Caliendo il grande repertorio della musica napoletana a partire dal milleduecento sino ai suoi giorni e pubblica una Antologia cronologica della canzone napoletana che resta un testo basilare per la comprensione e la conoscenza di quest’ arte.  

 

Nell’ultimo periodo della sua attività canta,

si esibisce e incide insieme a Mia Martini, Enzo Gragnaniello, Fabrizio de André 

e alla Nuova Compagnia del Canto Popolare, Lina Sastri, Edoardo Bennato, Daniele Sepe, Amalia Rodrigues venendo riconosciuto come

il più grande interprete della canzone napoletana.

 

Nel 1995 viene nominato Grande Ufficiale della Repubblica dal presidente Scalfaro e nel 2002 Cavaliere di Gran Croce da Ciampi. In quest’anno, al festival di Sanremo, gli viene consegnato il prestigioso premio alla carriera. Per il suo novantesimo compleanno, Renzo Arbore realizza lo special: “Roberto Murolo Day, ho sognato di cantare”, prodotto da Raisat.  

 

Nel 2003 lascia la vita terrena e assurge definitivamente alla gloria dei grandi interpreti di Napoli e va a riposare per sempre al cimitero di Poggioreale. La sua casa in Via Cimarosa, al Vomero, è sede della Fondazione Murolo. 

 

 

anni di rinascita dell’Italia, di speranze e di sogni. 

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ADORNO FILOSOFO DA SIRACUSA A FIRENZE di Aurora Adorno – Numero 16 – Febbraio 2020

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ADORNO  FILOSOFO    DA SIRACUSA A FIRENZE 

 

dalla ricorrenza della morte di mio nonno Francesco Adorno, nato nel ‘21 nella bella Siracusa da sua madre Laura e dal padre Corrado Adorno Avolio, 

erede di un’antica e nobile famiglia, e morto a Firenze il 19 settembre del 2010, dopo pochi mesi dall’aver “dato le dimissioni da tutto ciò che era”, come lui stesso mi disse, con quegli occhi tanto intensi quanto azzurri, da far invidia al cielo.  

 

Quattro mesi dopo, Luciana Bigazzi, sua preziosa moglie, segue l’adorato marito, sua ragione di vita, lasciando nella nostra famiglia un vuoto significativo al quale, forse inconsciamente, ho cercato di dare un senso con la stesura di un libro

 

Francesco Adorno. Un filosofo a Firenze –

 

in cui la mancanza delle nostre chiacchierate, dell’intreccio delle nostre scoperte, dello scambio di pensieri e di stimoli, mi ha spinta a ricercare un dialogo interiore con la mia cara nonna, dando vita alla voce narrante di una biografia, o raccolta di memorie, comunque la si voglia chiamare.  

 

La ricerca della saggezza, della verità intesa non solo come insieme accademico di conoscenze, ma come un valore totale al quale tutti dovremmo aspirare, è il leitmotiv di quella mia piccola opera, ed è anche l’eredità che Luciana e Francesco ci hanno lasciato: saper pensare con la propria testa, rimettere sempre tutto in discussione e saper criticare gli eventi storicamente.  

 

Ho usato i vocaboli che essi usavano, liberato i loro pensieri da minuscoli blocchetti di appunti dalle pagine sbiadite dal tempo,

indagato sulla loro sofferenza, sulla gioia e sul dolore di un amore 

che nasce durante la seconda guerra mondiale,

 

sboccia e diviene un legame unico, speciale, nella cornice di una città d’arte come Firenze, colpita dalle bombe prima, infangata dall’alluvione poi, i ricordi intrisi di un’infanzia vissuta a Siracusa dove Francesco Adorno nasce e si forma come pensatore.  

 

Francesco e Luciana proseguono con forza la loro vita.

Dopo i primi anni passati a Siracusa, dalla quale egli viene significativamente 

colpito e che lascerà in lui un forte fermento creativo, 

Francesco si laurea in un bunker nel ‘44


e negli anni a venire diviene professore, pensatore e scrittore, oltre che il direttore della “Colombaria” (Accademia Toscana di Scienze e Lettere di Firenze) per molti anni. Le lettere e le poesie raccolte nel libro fanno luce sulla sensibilità e la ricerca interiore di quest’uomo che per suo stesso dire custodiva in sé due facce: quella del “poeta” (sul quale la terra d’origine aveva avuto un forte richiamo), sensibile ed esteta, e quella del “freddo pensatore”.  

 

In tutta la sua vita egli ricerca un equilibrio tra queste due differenti facce di una stessa medaglia, nata forse la seconda per proteggere la prima. 

Un carattere duro con chi non lo conosceva abbastanza, quella fede cieca nelle regole e le contraddizioni di un giovane dalle idee marxiste, che ostentava però le sue nobili origini, i dogi a Genova e le forti radici siciliane di cui egli si ricordava sempre e di cui incarnava i colori e i profumi, il carattere fiero.  

 

Dalle rovine greche, il Tempio di Apollo, il Teatro greco che amava ricordare, era nata la passione per quell’antica civiltà costellata da grandi pensatori e da divinità e miti che hanno contribuito a costruire il nostro e il suo pensiero.

Ed ogni volta che in quella terra baciata dal sole egli faceva ritorno, 

ogni volta giunto a Villa San Giovanni egli la vedeva comparire all’orizzonte 

ed esclamava contento come un bambino che ha fatto ritorno a casa: 

“L’isola, l’isola!”. 


Allungava il braccio, la indicava con l’indice e Siracusa gli sorrideva baciata dal sole e dal profumo degli aranci, così poi alla fine della stagione egli la salutava con quel velo di malinconia negli occhi di chi lascia la propria terra e non sa quando vi farà ritorno. 

Ma egli non è solo in questo suo percorso, ha vicino a sé una donna magnifica nella sua semplicità, dotata di spiccata intelligenza e di una genuina saggezza che completano il giovane pensatore. Luciana è stata gli occhi di Francesco quando i suoi non funzionavano più, le sue gambe quando quelle del marito non rispondevano ai comandi del cervello, correggendo lei stessa le bozze, il braccio proteso sempre pronto a sostenerlo quando lui smarrito in “quel mondo delle idee” a lui tanto caro, inciampava e cadeva.  

 

Nonostante le malattie e la fragilità fisica, egli, grazie ad una grande forza d’animo e di carattere tipica delle sue antiche radici sicule, riesce a studiare andando oltre:

si occupa di tradurre le opere dei grandi filosofi greci, quelli che nella sua infanzia 

ha potuto ammirare attraverso i resti custoditi nella bella Sicilia,


si interroga sulla condizione dell’uomo, sul saper pensare e criticare storicamente, sull’ethos e la politeia, prendendo a modello la maieutica di Socrate ed educando, dal verbo educere, cioè tirando fuori dai suoi studenti la loro verità, in quel fare tipico della maieutica socratica che ormai aveva fatta sua. 

Non gli interessava, come lui stesso diceva sempre, “la lezioncina imparata a memoria”, ma il poter constatare nei suoi studenti una capacità dialettica, la sveltezza nel ragionamento.

“Ognuno deve pensare con la propria testa” è uno dei moniti 

che egli ci ha lasciato in eredità 


insieme a quella sete di sapere e di conoscenza di noi stessi e delle cose tutte che hanno segnato la sua vita e quella delle persone a lui vicine.  

 

Nelle lettere degli anni della guerra, nei diari e nelle riflessioni troviamo sin dagli scritti giovanili una struggente propensione verso il mettersi e rimettersi in discussione sempre, ogni giorno, in un continuo divenire.

 

L’incontro e scontro con l’adorata moglie Luciana si combatteva sul campo della ragione:

l’intelligenza colta, raffinata ed esteta di Francesco trovava il suo completamento 

nella mente saggia e brillante della moglie che spesso e volentieri 

lo spronava a ragionare in maniera più semplice e concreta.


In questo rispecchiarsi l’uno nell’altra, nel crescere insieme da quel primo sguardo tra i banchi di un corso di dattilografia, attraverso le lettere scambiate tra il filosofo innamorato e la sua amata durante il tempo di guerra, seguendo i fiumi dell’alluvione fino ad arrivare alla vecchiaia ed infine alla morte, insieme, sempre.  

 

A Luciana ho dedicato il libro, a quella donna riservata ma schietta, dagli occhi color nocciola che sempre lasciavano intravedere la verità, a una giovane donna che voleva lavorare, ma alla quale non è stato concesso, poiché ai tempi “non stava bene”, e che per cercare lo scopo di tutta la sua vita si dedica al marito e al volontariato. 

Non è solo la spalla del lavoro mentale e di studioso del marito, ma ne è lo stimolante artefice, arrivando lei dove lui non arrivava e viceversa, correggendo e rileggendo insieme ogni parola, verso per verso, opera per opera. 

Lasciamoci ispirare dalle grandi biografie di uomini che mossi da alti ideali hanno fatto la storia della nostra cultura, dall’amore vero che arriva là dove ogni uomo da solo non riesce ad arrivare: oltre la vita e la morte, oltre il dolore e la sofferenza.

Francesco Adorno ha apportato il suo significativo contributo
come promotore e organizzatore di cultura: 


negli anni ‘50 ha collaborato con la Nazione, con il Museo e Istituto Fiorentino di Preistoria, con l’Ente Cassa di Risparmio, la Società Toscana per la Storia del Risorgimento, ha diretto il Dipartimento di Filosofia d’Ateneo, l’Accademia delle Arti del Disegno e, oltre che a Firenze, ha dato il suo contributo all’Unione Accademica Nazionale e all’Istituto per il Lessico Intellettuale Europeo, portando la sua competenza nei centri di cultura internazionali.  

 

Tra le tante opere e traduzioni, ricordiamo il celebre manuale di storia della filosofia redatto con Tullio Gregory e Valerio Verra per la casa editrice Laterza nel 1973, sul quale tanti di noi si sono formati durante gli anni del liceo e dell’università

Conoscere la vita dei grandi uomini significa conoscere le origini del pensiero 

di questa nostra bella Italia, 


significa guardare per le strade e saper immaginare una cartolina in bianco e in nero con le immagini del passato, quel passato che ci ha resi così come siamo divenuti e al quale dovremmo ogni tanto fermarci a guardare, prendendo esempio e spunto da chi, durante tutta la sua vita, si è occupato del significato delle cose e si è interrogato sul perché ed il percome di questa grande avventura chiamata esistenza.  

 

 

 

 

 

  

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NAPOLI MON AMOUR di Giuditta Casale – Numero 16 – Febbraio 2020

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NAPOLI  MON AMOUR

 

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“È con sincera convinzione che diamo ad Alessio Forgione il benvenuto nella categoria dei veri scrittori”, 

lo afferma Ernesto Ferrero, come si legge sul retro della bellissima copertina del secondo romanzo, Giovanissimi, per la collana La Stagione della casa editrice milanese NN Editore, la stessa con cui lo scrittore napoletano ha esordito nel 2018 con Napoli mon amour, che nel frattempo è diventato anche un progetto teatrale per il Teatro Mercadante di Napoli con la regia di Rosario Sparno, oltre ad aver vinto il Premio Berto 2019.

 

C’è una stretta, e nello stesso tempo originale, continuità e contiguità tra i due romanzi, soprattutto attraverso i rispettivi protagonisti: il trentenne, precario e asfittico, Amoresano, e l’adolescente e acerbo Marocco.  

 

Già in Napoli mon amour Marocco gioca un ruolo da comparsa come ricorda Forgione:  

 

c’è un rapporto evidente tra Amoresano e Marocco, descritto in “Napoli mon amour” stesso, di cui Marocco è un personaggio, nella prima parte, che entra in un bar e dice delle cose riguardo la situazione del Napoli e Amoresano è insofferente, perché le reputa delle sciocchezze. Poi Marocco scompare, Amoresano va avanti e scompare anche lui e torna Marocco, che diventa il protagonista di “Giovanissimi”.

 

Ma ancora più interessante è il dettaglio che Forgione aggiunge:   

 

in “Napoli mon amour” Amoresano parla di un racconto che ha scritto e in cui ci sono due ragazzini che spacciano. E se quel racconto fosse diventato un romanzo? L’autore di “Giovanissimi” è Amoresano?

 

E se provassimo davvero a considerare il protagonista di Napoli mon amour 

come l’autore di Giovanissimi, al posto di Alessio Forgione?    

 

Non solo si potrebbe crederlo, ma è affascinante l’idea di leggere Giovanissimi come il romanzo, finalmente pubblicato, di Amoresano, sollecitato a scrivere in Napoli mon amour dal suo idolo letterario: La Capria, che fortunosamente incontra in uno dei passi più memorabili del romanzo.   

 

«Mi disse che i miei racconti gli erano piaciuti moltissimo.» 

«Lei ha stile, Amoresano» continuò «e, cosa ancora più rara, lei possiede una voce. Un buon narratore, cos’altro è se non una voce che ti sussurra all’orecchio? E lei quella cosa ce l’ha».  

 

Il limite che La Capria riscontra nella scrittura di Amoresano è la mancanza di contemplazione, perché rimprovera al giovane di essere troppo immerso nella storia. Amoresano tenta una giustificazione: come scrittore di “persone povere” (e in Giovanissimi ritorna l’attenzione alle fasce più disagiate, non solo in termini economici ma anche sentimentali e sociali) l’immersione potrebbe essere una cifra stilistica per rendere la scrittura più credibile. Sulla questione, però, La Capria è irremovibile: «Non penso, Amoresano. Vede, la buona narrazione è fatta tutta alla stessa maniera».  

 

In Giovanissimi, Alessio Forgione (forse proprio perché nella voce di Amoresano?) riesce a trovare un equilibrio perfetto e suggestivo tra l’immersione nella storia, già presente in Napoli mon amour, e “la visione aerea” suggerita da La Capria ad Amoresano, la capacità sorprendente di «innalzarsi sulla storia. Come se ci volasse sopra», nonostante la narrazione in prima persona del protagonista.

 

Un altro forte elemento di unione tra i due romanzi è il quartiere napoletano 

in cui entrambi sono ambientati: Soccavo. 

 

Un elemento di continuità non solo voluto, ma studiato anche nelle differenze stilistiche con cui è trattato.  

 

In Napoli mon amour il quartiere appare poco, – evidenzia Forgione – in Giovanissimi è a tutti gli effetti un personaggio; uno dei più importanti a dire il vero. Ricordo una mail che scambiai con Eugenia Dubini, ch’è l’editore e anche la persona che mi accende la luce e mi consente di guardare alle cose che faccio con più chiarezza. Lavoravamo alla revisione di Napoli mon amour ed Eugenia mi disse che c’era poco del quartiere, che appariva sfocato e che non si capiva bene che funzione avesse e perché nominarlo se poi non ne parli davvero. Le risposi che nel prossimo libro, ovvero Giovanissimi, avrei chiarito la faccenda del quartiere, che non potevo toglierlo e doveva fidarsi.

Che la presenza così viva del quartiere sia dovuta allo sguardo “aereo” 

di Amoresano, che scrive del giovane Marocco? 

 

È ad Amoresano, che vive a Soccavo come Marocco, che Alessio Forgione ha affidato la descrizione del quartiere, che invece in Napoli mon amour era rimasto volutamente sottotraccia, perché Amoresano ne era il protagonista e non l’autore?  

 

Nella rappresentazione della città di Napoli attraverso Soccavo, Alessio Forgione dimostra la raggiunta maturità di sguardo, consapevolezza letteraria e voce stilistica. Un passaggio necessario e voluto, un rimando e un superamento che unisce strettamente l’esordio alla seconda prova.

Ad unire, ancora, i due romanzi, c’è l’amore e la donna: Nina per Amoresano, 

Serena per Marocco. La forza salvifica e l’emozione di sentirsi vivi e trasformarsi 

in esseri desideranti, mentre la vita con le sue angustie 

vuole soffocare ciò che si vorrebbe essere. 

 

Nell’amore entrambi i personaggi provano a trovare sé stessi, a dare un senso a ciò che vivono, a lasciare una traccia. Napoli mon amour e Giovanissimi potrebbero dunque essere due capitoli, di certo indipendenti ma che letti in successione si illuminano e riverberano l’uno nell’altro, riuscendo a spiegare con forte immediatezza e senza edulcorazioni ciò che siamo a trent’anni oggi e ciò che siamo stati “per la prima volta” a quattordici.  

 

Un romanzo di formazione il primo, dalla parte dei trentenni che si scontrano con la realtà liquida e flessibile dei nostri tempi; e un romanzo di formazione il secondo, che ci riporta al passato, per rintracciare dei fili, introspettivi ed emotivi questa volta, che si tendono verso il futuro.

Ancora più affascinante pensare che Alessio Forgione nel dipanare questi fili da Napoli mon amour a Giovanissimi abbia voluto sperimentare la sua voce 

nel raccontare di Amoresano, e quella di Amoresano nel raccontare di Marocco.

 

In questo gioco raffinato di specchi letterari, potremmo persino credere che Amoresano sia l’alter ego di Forgione, come Marocco di Amoresano, e che tutti e tre in questo preciso momento se ne stiano in un bar con una birra ghiacciata in mano a discutere del Napoli e della tattica di gioco.  

 

«Dicono che i napoletani parlino al passato remoto, ma è un’idea sbagliata» le dissi […] «secondo me è più che vedono il futuro, il presente e il passato come un’unica striscia dritta, come se esistessero tutti nello stesso istante e quindi sapessero che niente potrà mai davvero cambiare». 

 

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SAPERI SCIENTIFICI NEL MEZZOGIORNO PREUNITARIO di Tommaso Russo – Numero 16 – Febbraio 2020

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SAPERI SCIENTIFICI NEL MEZZOGIORNO PREUNITARIO 

 

Premessa 

 

La pubblicazione di un libro di Maurizio Lupo (vd. bibliografia) costituisce motivo per un sintetico excursus nella trama culturale del Mezzogiorno preunitario.  

È un viaggio che si sviluppa su direttrici poco frequentate 

dal gran tour storico-ricostruttivo, diaristico e narrativo. 

 

Si va dalla cattedra di economia politica al laboratorio delle Società economiche. 

Si prosegue dalle rotte di “Ponti e Strade”, alle scoperte scientifiche applicate al sistema produttivo.

 

Non trascurando medicina e scienze naturali

 

si può vedere come la loro evoluzione fosse finalizzata a conoscere l’uomo e la natura nella veste della guarigione per il primo, del rigore classificatorio per la seconda.  

 

Questa nota deliberatamente non intende esaurire tutte le sedi organizzative e gli ambiti disciplinari in cui lievitò la cultura scientifica meridionale per evidenti ragioni divulgative e di spazio.

 

La “sì grande, e sì studiosa gioventù del Regno” 

 

Una vulgata molto diffusa attribuisce a Benedetto Croce la responsabilità di aver operato una profonda frattura tra saperi scientifici e saperi umanistici. Senza entrare nel merito di questa antinomia, presunta o reale e della sua maggiore o minore paternità crociana, l’esito è stato quello di aver reso quasi invisibile, a gran parte dell’opinione pubblica, l’universo dei saperi scientifici, le strutture in cui si organizzarono e vennero elaborandosi. In molti, infatti, hanno ritenuto e ritengono il Mezzogiorno la culla solo dei saperi umanistici e giuridici.

 

Il 16 marzo 1754 Bartolomeo Intieri, con 7500 ducati e una rendita di 300 ducati, finanziava l’apertura “nella nostra università [di] una scuola di commercio 

e di meccanica, da insegnarsi in lingua italiana”.

 

L’ateneo napoletano istituiva così, primo in Italia, una cattedra di economia politica affidandone l’insegnamento, per volontà del suo benefattore, ad Antonio Genovesi (1713-1769). L’asse centrale della riflessione laica dell’abate salernitano faceva ruotare intorno a sé alcuni concetti fondamentali: la critica alla separazione tra lavoro intellettuale e lavoro manuale; l’apprezzamento per un sapere pratico, tecnico, scientifico utile a superare le arretratezze nel Regno. Scritto nel “domicilio delle Muse”, la splendida villa di Intieri a Massa Equana,

nell’autunno del 1753 esce il “Discorso sopra il vero fine 

delle lettere e delle scienze”.

 

Un libricino aureo ma bisognoso di un interprete per decodificare un periodare lungo e contorto. In esso Genovesi individua tre mezzi per superare i limiti della produttività in agricoltura: motivare, premiare, incentivare (con interventi fiscali e pubblici) i proprietari; coinvolgere i sacerdoti come veicoli di consenso e conoscitori delle realtà locali.

 

Infine, investire sulla “sì grande, e sì studiosa gioventù del Regno” concepita quale grande speranza e profonda frattura generazionale necessaria 

a svecchiare antiche consuetudini e inveterate pratiche di lavoro. 

 

Molta parte dell’eredità del pensiero economico genovesiano la si ritrova filtrata nelle attività delle Società economiche. Distribuite nei capoluoghi di provincia, esse videro la luce nel luglio 1812: nel cuore del Decennio francese. Loro scopo principale era la modernizzazione in agricoltura da conseguire attraverso sperimentazioni e istruzione agraria, diffusione di testi e stimoli alla competizione. Erano composte da soci ordinari preposti alla programmazione, da soci onorari, soci corrispondenti. Questi costituivano la vera armatura delle Società, l’anello più solido della catena centro-periferia. Di quest’ultima, infatti, ne conoscevano il territorio in tutte le sue sfumature climatiche, geomorfologiche e produttive. Di conseguenza le loro memorie, corrispondenze e atti contenevano sempre concrete proposte, per esempio, sui prati artificiali, sui criteri della rotazione, sulle marcite, sulla fienagione. A Picerno la famiglia Gaimari, nei suoi possedimenti, tentò la coltura del riso e della barbabietola da zucchero sebbene con risultati deludenti.

Le Società sostennero la pubblicazione di proprie riviste a carattere divulgativo. 

 

Negli edifici dove erano allocate impiantarono biblioteche specifiche e aggiornate. A Potenza, in località Santa Maria, la Società costruì una piscina per uso irriguo. L’edificio dove i soci si riunivano per discutere, leggere, commentare ben presto divenne un piccolo luogo della civiltà delle buone maniere.  

 

Negli anni ’50 dell’800 la dinastia si impegnò nella realizzazione di un podere modello con un palmento, un apiario, macchine moderne per lavorare la terra, sementi, aiuti tecnico-pratici agli agricoltori e prestiti con la Cassa di Prestanza. Nasceva il famoso istituto agrario di Melfi nel 1853 che, con alterne vicende, si è trasformato nell’odierno ITCG. Altri tentativi della dinastia di prosciugare le zone paludose e malariche non ebbero esiti felici a causa delle ridotte risorse economiche investite nei progetti. Le difficoltà a cui andò incontro la bonifica del Fucino ne sono prova evidente.

Il governo dello Stato unitario, con proprio decreto del dicembre 1866, liquidò quell’esperienza con tutto il patrimonio materiale e immateriale accumulato. 

 

Uguale motivo: la scarsità di fondi pubblici condizionò la realizzazione di non pochi lavori progettati dal Real Corpo degli Ingegneri di Ponti e Strade. Istituito nel 1808 doveva essere lo strumento principale per la politica delle opere pubbliche nel Mezzogiorno. Nel 1811 venne affiancato dalla Scuola di Applicazione mirata alla formazione e preparazione dei futuri ingegneri. Le due strutture sono da considerare il primo Politecnico in Italia. Nel 1826 un decreto organico le trasformò in Direzione Generale di Ponti e Strade, delle Acque, Foreste e Caccia. Con Carlo Afan de Rivera la DG raggiunse fama europea.

Nella persona di Luigi Giura (1795-1864), “gloria dell’ingegneria partenopea”, 

sono riassunte le conquiste tecnico-pratiche, gli approdi teorici 

dei saperi scientifici del Politecnico meridionale. 


Appena ventenne Giura ebbe il suo battesimo del fuoco in quella straordinaria rete di canali per irreggimentare le acque e prevenire le inondazioni nota come “Regi Lagni” tra Napoli e Caserta (oggi una cloaca). Sempre tra Caserta e Napoli, il lucano progettò la costruzione di un grande canale di irrigazione e navigazione per un importo di 130mila ducati. Dopo un viaggio in Europa (metafora della circolazione dei saperi e delle idee)

 

Giura, con i colleghi che l’avevano accompagnato,acquisì 

una prospettiva culturale di dimensione europea.

 

Con l’esperienza maturata, con la sua genialità, col lavoro di gruppo procedette alla costruzione di un ponte sospeso a catene di ferro sul fiume Garigliano. Ultimato nel 1832 rimase intatto fino alla seconda guerra mondiale quando conobbe i bombardamenti tedeschi. Un secondo ponte venne costruito sul fiume Calore. Lavorò inoltre alla sistemazione dei porti mercantili del Tirreno e dell’Adriatico. Fu merito di Garibaldi la sua breve nomina a ministro dei LL.PP. sul finire del 1860.  

 

Nel libro di Lupo, prima richiamato, si delineano il nesso tra invenzioni e loro applicazioni al processo produttivo per un verso e quello tra ricerca e cultura. L’analisi si snoda nel sistema delle privative “altrimenti detti privilegi o patenti, [che] possono considerarsi progenitori del nostro brevetto industriale.”

Il lavoro, unico nel suo genere nel Mezzogiorno preunitario, 

affronta le questioni della legislazione di settore

 

evidenzia i criteri con cui venivano approvate o bocciate le privative e i contrasti tra le istituzioni politiche preposte. Il volume termina riportando il “Repertorio delle Privative”. Si tratta di un lungo elenco di brevetti che ben mostra il legame tra scoperte e loro applicazione ai settori produttivi.

Tommaso Cappiello (1778-1840), medico di Picerno, nella sua autobiografia 

scritta in età matura, ricorda il suo giovanile studentato 

presso l’ospedale degli Incurabili a Napoli.

 

Nel tracciare la differenza tra l’iniziale impressione negativa e la successiva (fine anni ’90) scrive: “Presentemente l’Incurabili è ben organizzato, ben regolato per li studenti a Collegio e per l’infermi a ricevere cure” (fg.5 cap. II). E continua con un elogio: “A(ntonio) Sementini, uomo di rarissimo talento, di prima classe nell’ordine de Medici Filosofi, razzionatore analitico sottilissimo cui la Fisiologia deve progressi e vedute primordiali” (fg.6). La riorganizzazione del sistema ospedaliero avvenne durante il Decennio e interessò sia gli ammalati che l’assistenza e la beneficenza.

Nel 1812 negli Incurabili vennero aperte “quattro sale cliniche universitarie”: 

medicina, chirurgia, ostetricia, oftalmia. 

 

La medicina vantò grandi nomi fra cui: Domenico Cirillo, Domenico Cotugno, Michele Sarcone, Domenico Serao.  

 

Altri medici che accompagnarono i tornanti dell’800 borbonico non ebbero buoni rapporti politici con la dinastia come Domenico Lanza o, in certo qual modo, Antonio Palasciano. Alfiere medico dell’esercito borbonico questi venne maturando l’idea del soccorso umanitario sui campi di battaglia. Emergeva, seppure a fatica, l’obbligo morale e naturale di curare i feriti quale che fosse il loro schieramento. Palasciano metteva le basi per quella che sarà la funzione della Croce Rossa. Anche lui dovette andare via da Napoli perché non gradito al generale Filangieri.  

 

Altra figura emblematica del difficile rapporto dinastia – intellettuali è Guglielmo Gasparrini (1803-1866). Il suo percorso si snoda tra l’ateneo e le istituzioni. Fu, per esempio, socio corrispondente delle Società economiche di Capitanata e Terra di Bari.

L’800 europeo è segnato da due giganti: Jean Baptiste Lamarck 

e Charles Darwin. Gasparrini che non è un “fissista”, 

non ignora l’evoluzione della natura.

 

Dialogando con questa cultura europea ne subisce l’influenza ma la arricchisce con i traguardi scientifici che raggiunge con la sua amata botanica, in cui riversa un minuzioso lavoro di analisi, di classificazione. Insieme con Giovanni Gussone e Michele Tenore, Gasparrini fa dell’Orto di Napoli (e del Boccadifalco di Palermo) un avamposto italiano della botanica.

 

Nel 1845 si svolge a Napoli il VII congresso degli scienziati.

 

Con una punta di veleno Giacinto De Sivo annota che oltre 600 vi giunsero e “tenner seduta nella sala mineralogica dell’università”. Gasparrini svolse una relazione sulla fecondazione e sull’origine “dell’embrione seminale nei vegetali”.  

 

L’Alta polizia (oggi si direbbe la Digos) borbonica da tempo lo teneva d’occhio insieme ad altri medici, filosofi, intellettuali. La nota che lo riguarda riporta questo giudizio: “Di pessima condotta politica, morale, religiosa”. Dopo il ‘48 fu costretto ad andare via. Trovò accoglienza presso l’ateneo pavese di cui divenne rettore. È merito di Garibaldi se fu nominato a Napoli ordinario di botanica e direttore dell’Orto.   

 

Considerazioni finali ma non definitive  

 

L’esposizione schematica non è ostacolo ad alcune considerazioni e a una domanda.

La stagione dell’Illuminismo meridionale, nelle sue molteplici articolazioni 

fecondò un’idea nuova di uomo

 

in grado di prendere nelle mani il proprio destino al fine di migliorarlo e di umanizzarlo. La speranza nelle nuove generazioni, nei processi istruttivi ne era una prima manifestazione. Una seconda, pur affermandosi con lentezza giunse a metà ‘800 a riconoscere la salute e la guarigione come diritti di natura che oltrepassavano le brutalità delle guerre e della coppia amico/nemico.  

 

Infine. È ben vero che i Borbone lesinarono i finanziamenti per opere pubbliche all’intero Mezzogiorno a causa di una infausta visione napolicentrica. È però altrettanto vero che le opere realizzate hanno sfidato i secoli. Alla base di quella ingegneria c’è una concezione olistica della natura e del suo rapporto con l’uomo.

 

Solo smettendo il suo atteggiamento predatorio trova legittimazione 

alla sua esistenza nella universalità dei diritti di natura.


Fin da allora, per esempio, l’economia del bosco, per quel suo intimo carattere di universalità e di libertà, fu alla base di un lungo conflitto sociale (le famose lotte per la terra).   

 

Il periodo che va dagli anni ’30 al 1848 diventa così l’arcata cronologica in cui i saperi scientifici, in un rapporto dialettico con i loro fratelli umanistici, danno i frutti migliori della loro stagione.  

 

Il Mezzogiorno si presentò al 1860 con questo bagaglio culturale e politico. Quanto di esso fu disperso o ignorato, e perché? 

 

 

fregioArancio

 BIBLIOGRAFIA 

 

Cappiello Tommaso, Cronichetta di mia vita, (Manoscritto di fogli 176). 

Di Biasio Aldo, in giro per l’Europa. Il viaggio di istruzione di Luigi Giura, in Le vie dell’innovazione, Lugano, Giampiero Casagrande ed. 2009. 

Genovesi Antonio, Discorso sopra il vero fine delle lettere e delle scienze, (a c. di) Nicola D’Antuono, Angri, edizioni Gaia, 2014. 

Lupo Maurizio, Il calzare di piombo, Mi, Franco Angeli, 2017. 

Venturi Franco, (a c. di), Illuministi italiani. Riformatori napoletani. Mi-Na Ricciardi-Mondadori, v. II t. I,1997. 

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AL SUD LA BELLEZZA VUOL ESSERE LEGGE di Sergio Spatola – Numero 16 – Febbraio 2020

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AL SUD LA BELLEZZA Vuol ESSERE LEGGE

 

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ho pensato quando in una delle riunioni di redazione è stata data notizia del progetto di una “Legge sulla bellezza” della Regione Puglia.

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Da quando Myrrha era in gestazione – ormai quasi cinque anni fa – si è sempre condiviso che, tralasciando gli obbrobri, il Mezzogiorno è un dono.


Adesso, come se Myrrha avesse espresso un desiderio dopo aver spento una candelina, una delle Regioni più attive del Sud tira fuori dal cilindro la sua legge sulla bellezza.  

 

Se essa è intesa come «la qualità capace di appagare l’animo attraverso i sensi, divenendo oggetto di meritata e degna contemplazione»1 e la Regione Puglia avesse avuto questa come idea ispiratrice, non potrei, da orgoglioso meridionale quale sono, esserne più felice. 

Mi si dirà che è ancora una proposta; deve superare l’iter legislativo; deve, soprattutto, essere eseguita, prima, e nella maniera corretta, poi; la bellezza è un concetto relativo. Non possono di certo ignorarsi le eventualità di insuccesso, ma deve evidenziarsi la novità che un’operazione culturale di questo genere comporta.  

 

In fondo, si tratta di un primo esperimento, evidente e concreto, che tenta di superare uno degli ostacoli del Sud: la troppo spesso diffusa bruttura. Peraltro, questo superamento è

uno dei pilastri tematici della mission culturale di Myrrha: il progresso economico 

del Mezzogiorno non va ricercato replicando gli strumenti del Nord produttivo, ma valorizzando le abilità proprie del Sud

 

quelle abilità che si attagliano alle genti che vi abitano e che solo essi conoscono. Quel know-how esclusivamente meridionale che distingue il Sud dal settentrione d’Italia.  

 

A questo fa pensare il tratto del Manifesto sulla legge. Vi si afferma come «la globalizzazione non ama la bellezza» perché «è di fatto una globale uniformizzazione», il cui «connotato è la semplificazione».

 

Occorre, infatti, rassegnarsi: il Mezzogiorno – come l’Italia tutta del resto – 

non è semplificabile come i Paesi non dotati di millenaria 

stratificazione storico-culturale.

 

Esso, infatti, ha un’identità poliedrica e talmente multipla da necessitare misure ad hoc per inquadrarla, coordinarla e, poi, valorizzarla. Di questa difficoltà il progetto di legge è consapevole quando si propone di costituire l’identità antropologica e memoriale del «Mosaico pugliese».

 

Ancora una coincidenza. Myrrha ha voluto, fin dall’inizio, rappresentare, anche graficamente, il mosaico dell’immenso giacimento culturale del Sud, con colori, riferimenti decorativi e “tratti”, ispirati alle culture mediteranee.  

 

Di recente, contro il tentativo di normare la bellezza, si sono elevati cori di tecnici, preoccupati della impraticabile esecuzione di una siffatta legge nel territorio pugliese. Essi hanno consigliato di raccogliere le disposizioni attualmente in vigore per creare un quadro chiaro della disciplina urbanistica della Regione. Ad essi è stato risposto che l’esperimento deve essere attuato con norme di dettaglio che possano renderlo effettivo. 

Tutti i commenti sono decisamente opportuni. L’importante è che non siano interessati, come spesso accade, da fini che esorbitino dallo scopo della legge: restituire bellezza al territorio pugliese.

L’ossatura della proposta è fatta di misure generali di diritto urbanistico 

che prevedono l’abbattimento o il recupero dei “detrattori di bellezza”,

 

cioè edifici abusivi, ecomostri e vuoti urbani per realizzare nuovi spazi urbani ed edifici performanti senza consumo di suolo. 

Il concetto è semplice e lo deve essere anche la sua realizzazione. È il momento di far fruttare quella sussidiarietà orizzontale che consente di avvicinare i cittadini e gli operatori di buona volontà a ciò che veramente importa:

 

ridare dignità alle zone più colpite dal degrado.

 

Quali gli strumenti che la legge di prefigge di utilizzare? La semplificazione normativa, la formazione culturale sul patrimonio architettonico e urbanistico sia di tecnici che di professionisti, l’individuazione delle identità territoriali e paesaggistiche e molti altri strumenti, che saranno finalizzati a pianificare le trasformazioni dei luoghi «interessati da condizioni di degrado fisico, sociale, culturale, ambientale e paesaggistico» (art. 9 del progetto).  

 

Quali obiettivi vogliono raggiungersi con questi strumenti? La norma, sempre all’art. 9, precisa come all’obiettivo generale di rigenerare le aree urbane e di valorizzare i centri storici (lett. a), si affiancano quelli particolari di

riqualificare le periferie e le aree agricole periurbane, da un lato, il paesaggio 

e l’ambiente delle infrastrutture, dall’altro, e le aree produttive degradate,

 

dall’altro ancora (lett. b), c) e d)); di manutenere e riusare i beni edilizi e rurali (lett. e)) e di tutelare e valorizzare le aree di attrazione naturale e della biodiversità (lett. f)).

 

Naturalmente, per invogliare cittadini e operatori a collaborare sono previsti incentivi fiscali (riduzione del contributo di costruzione) e rimborsi delle quantità edificatorie (c.d. crediti edilizi). 

Sono norme di carattere generale, lo si ripete, che portano con sé una speranza: quella che tutto possa andare per il verso giusto (e la Puglia ci ha stupiti parecchio negli ultimi anni) e che la legge possa trovare un’applicazione piena degli strumenti che prevede e conseguentemente vedere realizzati gli obiettivi che si è posta.

L’esempio deve essere di quelli che sollecitano l’emulazione 

da parte di tutti gli altri territori 

 

che non si accontentino di scimmiottare passivamente ciò che va più di moda oggi. Il PIL non deve e non può essere il solo indicatore dell’andamento del Mezzogiorno, che evidentemente necessita di tempi e di strumenti diversi per emergere dal grigiore di nullità cui troppo spesso lo si associa.

 

Il coraggio di risalire deve passare anche dal superamento di quel senso 

di incapacità che troppo spesso il Sud si auto-attribuisce

 

e che, col troppo affermarlo, si imprime nelle menti di chi, invece capace, si arrende per un luogo comune.  

 

Noi di Myrrha saremmo felici di contraddire coloro che pensano come, anche questa volta, si tratti della solita dichiarazione di intenti senza futuro pratico.

 

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