IL MEDITERRANEO PROSSIMO VENTURO di Giorgio Salvatori – Numero 4 – Aprile 2016

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A colloquio con Emmanuele Emanuele, il mecenate della cultura condivisa e dell’assistenza solidale.



Sfugge ad ogni facile definizione il Professor Emmanuele Francesco Maria Emanuele, Presidente della Fondazione Roma e della Fondazione Terzo Pilastro – Italia e Mediterraneo.

Il Professore discende da una blasonata famiglia siciliana di antichissime origini ispaniche: un passato familiare illustre che non offusca un presente altrettanto fulgido: avvocato cassazionista, saggista, cultore del bello, esperto di economia e di finanza, ex banchiere.

Sono nate così la Fondazione Roma, alla fine degli anni novanta e, successivamente, la Fondazione Terzo Pilastro – Italia e Mediterraneo. 
“Mi sento un uomo del sud Europa, un cittadino del Mediterraneo. Non ho mai voluto imitare, né ho mai invitato i miei conterranei ad emulare, modelli di sviluppo, di cultura e di visione del mondo, distanti dalla nostra storia, dalla nostra civiltà millenaria. In una parola: il nord Europa è altra cosa da noi. Come italiani dovremmo, invece, promuovere, privilegiare, relazioni feconde con i popoli del Mediterraneo, non evocare, continuamente, esempi acriticamente giudicati ‘superiori’ perché provenienti dal settentrione del continente. Questo sarebbe il miglior antidoto contro la ‘germanizzazione’ dell’Europa e la progressiva marginalizzazione del nostro Paese. Solo ricostruendo pazientemente la rete di rapporti e di scambi economici e culturali con i Paesi del Mediterraneo l’Italia potrebbe acquisire o riacquisire un ruolo centrale in questo grande bacino di civiltà e di spiritualità che è stato, e io auspico possa tornare ad essere, il Mare Mediterraneo.”

Presidente, non la spaventa il bagno di sangue che promana dai territori del sedicente stato islamico?
“Nei secoli passati abbiamo distrutto, ucciso, devastato anche noi occidentali. L’Islam e il medio oriente non possono essere giudicati, oggi, solo per l’odio e la violenza dei fanatici della jihad, peraltro agevolati dal ‘vulnus’ provocato dall’imperizia e dall’avidità di alcuni Paesi occidentali. Ovvio che la furia devastatrice dell’Isis vada in ogni caso fermata e combattuta, dal momento che è difficile interfacciarsi con la cieca esaltazione usando come arma la sola logica. Ma in generale ritengo che

Poi bisognerebbe varare una campagna di rieducazione, di ‘acculturazione’, finalizzata a valorizzare e far fruttare le grandi risorse e potenzialità del nostro Meridione, che non sono poche:

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IL MEDITERRANEO PROSSIMO VENTURO

 

Giorgio-Salvatori

di far sentire il nostro meridione come centro del Mediterraneo e non come periferia, stracciona, dell’Europa continentale?
“La condivido e la sposo senza riserve. Va nella stessa direzione in cui la Fondazione Terzo Pilastro sta lavorando, tenacemente, da tanti anni. Consideratemi uno dei vostri. Stiamo percorrendo la stessa strada.”

Su questa via maestra, il Professor Emanuele ha avuto subito, ben chiari, due obbiettivi: interventi a favore delle fasce sociali più deboli, coerenti con la missione istituzionale delle fondazioni, e una vocazione squisitamente mediterranea.

Non è un caso, e neppure un vezzo, che il Terzo Pilastro, nato da una costola della Fondazione Roma, si chiami proprio così. Terzo pilastro bancario, penserà qualcuno (quello, per convenzione, dedicato alle assicurazioni dei depositi). 
No, non si tratta di questo. 
Terzo Pilastro è un riferimento esplicito sia al terzo settore, quello cioè degli interventi privati a favore del sociale e del pubblico; sia al passo, omonimo delle Sacre Scritture, in cui si fa obbligo morale, per tutti, di esercitare la solidarietà caritatevole nei confronti dei più bisognosi e degli indigenti. 
Ecco allora dipanarsi, come per incanto, una fitta rete di interventi, finanziati dalla Fondazione, negli ambiti più vari della solidarietà sanitaria, assistenziale, culturale, educativa. 
Ne citiamo solo alcuni, ma l’elenco è lunghissimo e spazia dalla erogazione di contributi per progetti ed iniziative nel campo della salute, della ricerca scientifica, dell’assistenza alle categorie più deboli della popolazione, dell’istruzione e della formazione, dell’arte e della cultura, fino alla promozione di mostre, conferenze ed eventi internazionali volti a favorire il dialogo interculturale tra i popoli del Mediterraneo e tra il Nord e il Sud del Pianeta.
Incontriamo il Professor Emanuele nella suggestiva sede della Fondazione, a Roma, a Palazzo Sciarra.
Muovendoci nelle ovattate atmosfere del palazzo, nelle sue sale sontuose, tra pareti splendidamente affrescate, vengono alla mente l’ammirazione, l’invidia o l’adulazione con cui alcuni dipingono il potere del Presidente: “Ottavo Re di Roma”, hanno scritto alcuni giornalisti, dotati di ardente immaginazione.
La prima affermazione del Professore è, comunque, dirimente: “tra l’impiego speculativo del capitale bancario e l’uso a fini sociali e ‘non profit’ delle rendite, garantite dalla legge sulle fondazioni, ho scelto questa seconda strada. Anche perché, e gli eventi degli anni più recenti lo hanno dimostrato, spesso, in Italia, la prima strada è stata percorsa da spericolati capitalisti senza capitale. Il risultato è cronaca dolorosa e recente.”

la cooperazione con i popoli del Mediterraneo e la comprensione del loro diritto a vivere in pace e prosperità, nel solco delle proprie antiche tradizioni, ci deve spronare a fare meglio, e di più, in questa direzione.

Un banchiere atipico, visto che, da anni, si dedica, soprattutto, ad attività filantropiche e culturali. 
Moderna figura di mecenate-manager, poiché a lui si devono alcune delle più importanti mostre d’arte degli ultimi anni; esente, tuttavia, dalla tentazione di far incetta egoistica delle opere migliori. 
Finanziere “sui generis”, perché il suo destino professionale si è incrociato, per un lungo periodo, con quello dei grandi nomi dell’alta finanza nazionale ed europea, ma che ha deciso di scegliere, senza esitazioni, alla fine degli anni novanta, di coltivare la neonata pianta delle fondazioni piuttosto che adagiarsi nel comodo vagone letto di una grande banca.
Ma allora, si chiederà qualcuno, che cosa fa, esattamente, il Professor Emanuele? Difficile, anche qui, darne conto per esteso.

il terreno da privilegiare sia la ricomposizione, la ricostruzione dei rapporti di collaborazione e di scambio. Restituiamo ai popoli del Sud una dignità, un orgoglio di appartenenza alla civiltà e alla tradizione mediterranea. La via d’uscita è questa, la migliore per l’Italia in particolare.”

Provate, innanzitutto, a pensare a quelle persone, poche in verità, che, per un dono naturale, riescono a riposare solo tre, quattro ore, al giorno, e per il resto del tempo pensano, lavorano, si ingegnano per creare nuove opportunità di benessere diffuso che, nel caso del Professore, sono quasi tutte volte al sostegno ‘olistico’ di chi vive ai margini della società dello spreco.

Fedele a questo assunto, il Professore, attraverso la sua Fondazione, ha favorito e realizzato diverse iniziative di cooperazione con i Paesi del Mediterraneo: dalla Conferenza internazionale ‘Mediterraneo porta d’oriente’, organizzata a Palermo insieme con il Censis, al sostegno ad un imponente progetto di irrigazione nelle aree pre-desertiche di Nabeul, in Tunisia; dal restauro del monastero siro-cattolico Mar-musa al Habashi, del VI secolo d.c., alla creazione a Jaramana, sempre in Siria, di un campo di calcio per la comunità locale e per i profughi iracheni ospitati nella stessa località. E ancora: l’imponente ristrutturazione della Basilica di Sant’Agostino di Ippona ad Annaba (uno dei pochi luoghi di culto cattolici ancora presenti in Algeria), in cooperazione con altri Paesi dell’area mediterranea; la realizzazione, negli istituti di istruzione superiore di Aqaba-Eilat, di programmi scolastici di scambio tra studenti palestinesi ed israeliani; la partecipazione dell’Orchestra Sinfonica di Roma al Festival Internazionale di musica nell’anfiteatro di El Jem in Tunisia; la Conferenza internazionale ‘Il ruolo delle donne nella nuova stagione del Mediterraneo’, che ha riunito lo scorso anno a Valencia le più autorevoli esponenti dell’area mediterranea tutta – con una forte rappresentanza dei Paesi del Maghreb – nei campi dell’economia, della cultura e della società civile, e i cui lavori proseguono tuttora on-line, su una piattaforma web dedicata di discussione che la Fondazione Terzo Pilastro amministra, al fine di stilare in futuro il ‘Manifesto di Valencia’ per un nuovo Mediterraneo… e via dicendo.
A suggellare questa vocazione, la scorsa estate, la Fondazione ha cofinanziato la prima pubblicazione che raccoglie, in quasi 500 pagine, le immagini, i suggerimenti, le indicazioni utili per visitare i borghi più belli del Mediterraneo. 
Per il suo personale impegno, profuso a favore del ‘Mare Nostrum’, il professor Emanuele è stato premiato dall’UNESCO a Valencia, in Spagna, lo scorso anno alla X edizione della “Multaqa de las Tres Culturas”, presso il Centro UNESCO Valldigna. Ma se questa è la strada da percorrere, in generale, per i Paesi dell’Europa meridionale, quale è la via d’uscita, in particolare, per il nostro Sud, il vituperato, malandato meridione dello stivale? Il professor Emanuele ha solo un attimo di esitazione:
“Non ho la presunzione di indicare ricette miracolose; tuttavia – afferma – se avessi la facoltà di intervenire in prima persona invertirei immediatamente la tendenza delle erogazioni a pioggia. Queste sono servite, finora, soltanto a strutturare la politica del consenso in cui chi prende i finanziamenti diventa un suddito, privo di volontà e di iniziativa, e chi li elargisce diviene un monarca che distribuisce, a fini clientelari, incarichi parassitari e privilegi. Un rapporto rigido, nefasto, che avvantaggia pochi e scontenta i più, peggiorando la situazione di arretratezza e di sudditanza del Sud rispetto al potere centrale e ai suoi valvassori locali.

clima invidiabile, turismo, industrie di trasformazione agroalimentari, pesca sostenibile e itticoltura, difesa e promozione del territorio, riqualificazione edilizia, urbana e rurale. Qui dovremmo intervenire. Saremmo ancora in tempo per cancellare gli obbrobri delle grandi opere devastanti e modificare gli errori e i fallimenti delle industrie sovradimensionate e inquinanti che, come a Termini Imerese, a Priolo, come a Taranto, sono costrette a chiudere a decine, generando migliaia di disoccupati.”

Ma non è semplice, anche per industrie ‘leggere’, come quelle dell’agroalimentare, e neppure per le nuove e indispensabili infrastrutture, attrarre finanziamenti ‘ad hoc’, sganciati dalle politiche clientelari e mafiose.
“No, è meno difficile di quanto si creda: basterebbe, ad esempio, pensare per il Meridione ad una politica di incentivi e di benefici fiscali, un po’ come ha fatto l’Irlanda in passato, per attrarre capitale nuovo, fresco, vitale. Creare dei porti franchi, ad esempio, dove si godano vantaggi tributari come il non pagare dazi di importazione delle merci alla dogana, farebbe finalmente confluire verso il Sud investimenti nazionali e stranieri.” 
I giovani, però, soprattutto al Sud, sono ancora, troppo spesso, costretti ad emigrare per trovare lavoro. In particolare, i più dotati. Pensiamo soltanto alla notizia, commentata con stupore da molti media italiani, che ci ha rivelato che il più giovane primario neurochirurgo del Regno Unito è un napoletano: Pierluigi Vergara, 32 anni. Uno che, come altri, ha visti riconosciuti i suoi meriti solo all’estero…
“Per questa ragione la Fondazione Terzo Pilastro finanzia, in collaborazione con alcune Università, diversi progetti di ricerca anche nel Meridione, proprio per frenare l’emorragia dei cervelli e favorire la loro permanenza in Italia, preferibilmente al Sud che soffre più del settentrione per questo esodo di giovani. Sosteniamo e finanziamo anche corsi di formazione professionale, di artigianato in particolare, una grande tradizione del nostro meridione che rischia di morire e che pochissimi, a parte la nostra Fondazione, aiutano a sopravvivere e prosperare. Penso sia un dovere morale sostenere i meno fortunati a crescere e ad acquisire una dignità di cittadini del Mediterraneo, a non restare prigionieri del fatalismo e della rassegnazione. Lo ripeto,

Le culture del Mediterraneo, insieme, hanno creato la civiltà dell’Occidente, non dimentichiamolo.”

Una prospettiva che mi ricorda il progetto ambizioso di Federico II di Svevia.
“Grande italiano, grande europeo, grande mediterraneo. Confesso di sentirmi influenzato sin da ragazzo, in molte mie iniziative, dal suo pensiero, dalla sua visione del Mondo, dal suo amore per il diritto, dalla sua inclinazione per la letteratura (creò una lingua, la “romanza”, che avrebbe consentito ad arabi, ebrei, latini e greci di conversare tra di loro), dalla sua idea della centralità politica di un grande Mediterraneo, ed infine da passioni comuni come la caccia e la poesia. Tra l’altro, e probabilmente non a caso, sono stato insignito nel 2002, come penso Le sia noto, del Premio Federichino – da parte delle Fondazioni Federico II di Göppingen, Jesi e Palermo – per aver onorato la mia terra natale con il lungo impegno profuso nel lavoro e dello studio. E proprio a lui, a Federico II, la Fondazione Terzo Pilastro ha dedicato una grande mostra a Palermo. Sì, è una figura prodigiosa, un gigante del nostro passato. Dobbiamo ispirarci anche a lui se vogliamo sperare nella rinascita, nel ‘rinascimento’ del nostro meridione.”

Un’ultima domanda, Professore:

che ne pensa di Myrrha, del nostro progetto di rivalutare la percezione del Sud agli occhi dei lettori;

 

LA “MIRABILE PISCINA” DI MISENO: SCOPERTA E RI­SCOPERTA di Lorenzo Salazar – Numero 4 – Aprile 2016

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Nel corso della visita, la simpatica guida­accompagnatrice introduce un prevedibile parallelo tra il monumento davanti ai nostri occhi e la Cisterna Basilica di Istanbul, fatta costruire da Giustiniano nel VI secolo, che, soprattutto dopo il pregevole restauro completato nel 1987, costituisce una delle principali attrattive della città sul Corno d’oro. 
“E perché non la Piscina Mirabilis di Miseno…?” mi trovo quasi istintivamente a chiederle, suscitando un po’ di curiosità tra gli altri visitatori e la pronta risposta della nostra accompagnatrice, che ben conosce l’altro monumento cui avevo appena fatto riferimento. La ragione è purtroppo assai semplice: la Cisterna di Istanbul è infatti mondialmente conosciuta e riconoscibile e non c’è visita della città che non includa una visita al monumento romano; visita che è peraltro perfettamente organizzata previo pagamento di una somma null’affatto indifferente per gli standard turchi (l’equivalente di quasi una decina di euro).

La Piscina Mirabilis, invece, pur trovandosi a Bacoli, a pochi chilometri di distanza da Napoli, rimane un segreto ben celato all’attenzione del grande pubblico.

Alimentata dall’acquedotto augusteo, che da circa 100 km di distanza portava l’acqua del Serino verso Napoli e sino ai Campi Flegrei, la “mirabile” cisterna era destinata ad approvvigionare la flotta creata da Augusto intono al 27 a.C., la Classis Misenensis (o Classis Praetoria Misenensis Pia Vindex), la più importante dell’Impero, destinata alla sorveglianza dell’intero Mediterraneo occidentale. Gli oltre 12.000 metri cubi d’acqua erano racchiusi in un impressionante involucro scavato nel tufo (72 metri di lunghezza, 25 di larghezza e 15 di altezza), sostenuto da 48 pilastri che formano cinque lunghe navate e danno vita ad uno splendido effetto prospettico. Una più piccola piscina interna, chiamata “limaria”, ricavata sul fondo della cisterna, svolgeva funzione di vasca di decantazione al fine di consentire la sua periodica manutenzione.

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LA “MIRABILE PISCINA” DI MISENO: SCOPERTA E RI­SCOPERTA

 

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Da bambino ed adolescente trascorsi a Capo Miseno lunghe, e mai dimenticate, “villeggiature” (si chiamavano così), per lo più nella bella villa situata a mezza costa del Capo ed oggi trasformata in albergo di lusso; vacanze e villa le cui immagini sono probabilmente rese, oggi, ancora più belle dalla mediazione del ricordo infantile. Ero ospite degli zii, che mi insegnarono l’amore per il mare attraverso mille avventure vissute a bordo di un piccolo gozzo con il quale quotidianamente si affrontava la traversata del canale di Procida. Quel breve braccio di mare di poche miglia mi sembrava racchiudere mille sfide rischiose, per lo più legate alle onde sollevate dai traghetti, che a dozzine lo attraversano, o ai bidoni degli allevamenti di mitili fuori il porticciolo di Capo Miseno, assai insidiosi in caso di rientro notturno o con il mare agitato. Tutto avveniva, senza che ne fossi allora pienamente consapevole, nel mezzo di alcuni dei luoghi più suggestivi e carichi di storia dell’intero Mediterraneo. 
Dopo le molte incursioni compiute nel corso di quegli anni, oramai lontani, ho voluto tornare, in compagnia degli stessi cari zii di allora, a visitare la “Piscina mirabile”, sola tra noi a non recare su di sé visibili segni del tempo trascorso. 
Nulla è apparentemente cambiato: lo stesso dedalo di viuzze prive di indicazioni da percorrere dentro Bacoli, in una gimcana tra vetture parcheggiate disordinatamente ed oscenità edilizie, per poi ritrovarsi quasi d’improvviso ad un angolo di strada nel quale costringere la macchina in un parcheggio spontaneo, come la vegetazione circostante; di fronte un cancello chiuso, contornato da un muro romano, allora servito ad apprendermi la distinzione tra opus reticolatum e opus latericium. L’apertura del sito avviene, come allora, ad opera di una gentile signora avanti nell’età, che solo il ricordo falsato dal tempo può indurmi a riconoscere come la stessa, già allora anziana persona, che veniva ad aprirci quasi 50 anni prima. Appare sul luogo, ora come allora, a seguito di una telefonata.

Benché si tratti, anche in questo caso, di un complesso idrico destinato a svolgere funzioni di cisterna per una adiacente villa romana, l’imprinting adolescenziale, complici probabilmente la compiacente versione fornita dell’adorabile zia e la conformazione del luogo (un susseguirsi di stretti cunicoli scavati nel tufo con canalizzazioni laterali), lo aveva ai miei occhi trasformato in una sorta di lugubre prigione per gli schiavi in attesa di essere imbarcati sulle galere romane, tutti legati alla stessa enorme catena che avrebbe dovuto percorrere, da una “camerella” all’altra, l’intero cunicolo laterale. 
Bellezze straordinarie e nascoste, assai più che dalle ingiurie del tempo, dalle indicibili brutture di una edilizia incontrollata e disordinata, comune peraltro a buona parte dell’Italia meridionale. Monumenti che in altri Paesi sarebbero circondati da attenzioni e pubblicità, rimangono invece offuscati dall’immondizia, dall’abusivismo, dai clacson onnipresenti che impediscono di godere appieno la loro bellezza. Eppure, proprio in questi contrasti stridenti e in questa generale situazione di abbandono riposa forse una parte del fascino dei luoghi, che risorge intatto quando ci si ritrova a tu per tu con gli stessi, senza l’intermediazione di guide, percorsi obbligati, o al seguito di frotte di turisti intruppati.

Nessun biglietto di ingresso e solo all’eventuale, non sollecitato, impulso di generosità e riconoscenza del raro visitatore è tuttora affidata l’eventuale ricompensa per l’aver dischiuso una delle più affascinanti vestigia romane della regione.

A poca distanza dalla “Piscina Mirabilis”, si trova il complesso di “cento camerelle” (o “Centum Cellae”), anche conosciuto sotto il nome de “Le prigioni di Nerone”, altra madeleine della infanzia misenese.

In solitaria compagnia del genius loci, si scoprono luoghi che “misteriosi” erano già quando vennero edificati e che tali hanno avuto la fortuna di restare sino ai nostri giorni;

come se le successive brutture create e sviluppatesi intorno avessero avuto l’effetto indiretto di racchiudere, come in un bozzolo, la bellezza che andavano circondando, così finalmente preservandola dall’invasione delle masse. 
Sembra che, dopo anni di colpevole inerzia ed abbandono, la zona archeologica dei Campi Flegrei possa conoscere in un prossimo futuro rinnovata cura ed attenzione sotto la guida del nuovo responsabile del Parco archeologico. Per ora, il rilancio a breve termine sembra piuttosto affidato ad un bando di concorso pubblico (scadenza 16 aprile 2016) per scegliere la futura bandiera “che meglio rappresenterà l’identità dei Campi flegrei”. Vi è da augurarsi che questo sia solo l’inizio di un processo che, nelle intenzioni degli organizzatori ­ forse ignari della mole di oneri che una tale iniziativa comporterebbe, in particolare sotto il profilo della effettiva tutela urbanistica ed ambientale dei luoghi sottoposti a protezione e recupero -­ dovrebbe portare addirittura a proporre la candidatura della terra flegrea a Patrimonio universale dell’umanità da inserire nella lista dell’Unesco. 
Visitando il sito della Sovrintendenza per i beni archeologici di Napoli, ed arrivando, non senza qualche difficoltà, alla sezione dedicata alla “Mirabile Piscina”, si può leggere un burocratico annunzio “Visitabile feriali e festivi tranne il lunedì, previa richiesta all’assuntore di custodia, Sig.ra …, tel. 333…”. Nulla sembra essere, anche in questo caso, mutato rispetto ai ricordi della mia giovinezza; nulla se non il fatto che il numero da chiamare è ora quello di un telefono cellulare…

 

LA VIA REALE di Tamara Triffez – Numero 4 – Aprile 2016

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LA VIA REALE

 

Mi avventuro sovente, nei reportage, alla ricerca delle antiche radici culturali espresse dagli esseri umani, in vari luoghi del pianeta. Ho seguito in questi anni un percorso che evidenzia le procedure di evoluzione dell’uomo.
Che si manifestano tramite l’arte, i miti, le religioni, questo per affermare pienamente la loro dignità.
Il mio punto di partenza è la descrizione dell’evento, la riflessione sulla vita quotidiana, che si esprime inoltre nelle feste religiose.
E’ dunque partendo da queste premesse che ho deciso di seguire le feste pasquali in Sicilia, con i numerosi eventi che ne conseguono. 
Con entusiasmo e vitalità ho sorvolato la messa in scena delle feste e i protagonisti dei quadri viventi.

Cari amici,   

 

Vi prego di condividere un momento di attenzione attraverso poche mie parole affidate alla cortesia di Tamara. Questa manifestazione si chiama complessivamente l’Italia vista dall’alto, ma, nel caso di Tamara, sarebbe meglio dire “vista da dentro” perché, come tutti i grandi viaggiatori, Tamara è un’artista che si muove per vedere le persone molto da vicino; anzi, per sondare possibilità di identificazione. La sua mostra ha come argomento la Via Reale che vuol dire, in sostanza, la retta via, quella che è, appunto, tracciata dall’Arte. Qui è di scena la Sicilia vista attraverso le processioni, quei momenti in cui particolarmente forte si fa, in ciascuno di noi, la sensazione di un passato che incombe sul presente. Ma, questo passato può essere facilmente visto, almeno dal laico, da due punti di osservazioni opposti e concomitanti: la solennità e il ridicolo. I cittadini che diventano tutti attori della sacra rappresentazione sono vivi e veri ma, nel contempo, assumono parti talmente importanti e preoccupanti da lasciare coloro che li osservano da fuori per lo più esterrefatti. Ci credono veramente? Riescono a identificarsi quelle persone con Cristo, i suoi torturatori, il popolo che assiste, accompagna, soffre e tripudia? Naturalmente la risposta è sì e non è neanche così difficile. La suggestione collettiva è una realtà verificabilissima e commovente. E la nostra Tamara che cosa vede nel suo nitido e pulito bianco e nero con cui scruta le persone a una distanza, appunto, ridottissima? Vede il Personaggio e l’Uomo talmente sovrapposti e indistinguibili da spingerci a credere sul serio a un mondo ancestrale che, nella sua totale inconsapevolezza, percorre la strada del Reale. Tamara Triffez ha dedicato e dedica la sua vita a questo tipo di indagine. Il suo interesse forse più acuto è nel Tibet, in quel tragico paradosso storico che è l’annientamento, o meglio il tentativo di annientamento, di una via Reale che, in nome di una malintesa ideologia, crede di trionfare attraverso la cancellazione. Tamara, come artista, si oppone, e sempre si opporrà, a qualunque ipotesi di cancellazione di retaggi che, pur diversi in diverse parti del mondo, sono intrinseci all’esistenza stessa dell’essere umano. Da questo punto di vista la sua Sicilia e il suo Tibet non sono diversi; e non lo sono perché è l’approccio dell’artista a essere lo stesso. Tamara dà, a chi guarda il suo lavoro, la sensazione di partecipare. La sequenza delle immagini è dentro la processione e non è uno sguardo incuriosito dalla tipicità o dalla stranezza; ma, appunto, è uno sguardo partecipe di chi, evangelicamente, non giudica ma guarda. E vede le grandezze e le debolezze del mondo che si dipanano insieme, perché insieme sono sempre esistite e sempre esisteranno. Certo, i personaggi della processione, in certi luoghi straordinari come Piana degli Albanesi, sono inevitabili citazioni della grande arte figurativa del passato. Le donne loranti sembrano estratte dalle statue lignee del Medioevo e del Rinascimento, il Cristo che passa o giace sembra generato dalla cultura figurativa manierista. Ma questo forse nessuno lo deve sapere, nemmeno l’artista che si aggira tra la gente con la sua macchina fotografica. Quando si avvicina, però, la folla si dirada come se l’atto fotografico fosse un atto sacrale in sé, perché tale da sacralizzare l’incoscienza di chi non sa perché è lì e perché debba assumere atteggiamenti precostituiti. Nella processione tutto è prescritto, tutto è già avvenuto ma Tamara coglie l’espressione di dubbio, perplessità, distrazione, delusione, che trapela nei volti così potentemente connotati di passato da risultare affascinanti in sé. Le foto sono state fatte in occasione della festività pasquale, in tempi recentissimi. Ma la data non importa, perché tutto questo può essere avvenuto sempre, perché è ben probabile che così come lo vediamo nelle foto di Tamara non sia mai avvenuto. Non si tratta di sospendere il tempo, che è impossibile, ma di fare il ritratto alle emozioni con la chiara coscienza che la finzione dell’arte spinge sulla via Reale. Tamara appartiene a quella categoria di persone che vedono l’esistenza solo come energia positiva ma dalle immagini non promana una sensazione di ottimismo inconsapevole. Il fatto è che l’artista è profondamente consapevole di ciò che sta rappresentando e delle sue implicazioni ma non tratta le persone rappresentate come materiale di un esercizio edonistico. Pur nella limpida bellezza di queste immagini, non c’è mai l’impressione della sosta estatica, tale da cogliere quel momento in quanto particolarmente bello o suggestivo. L’avanzata della fotografa dentro la processione procede, invece, con l’intento di farsi spazio entro un mondo che potrebbe respingerci perché non lo conosciamo e forse lo temiamo. Temiamo di urtarne antiche suscettibilità, di non rispettare regole a noi sconosciute ma lì ovvie e scontate; temiamo di mancare di rispetto senza volerlo ma solo per scarsa informazione. Tutti questi timori sono latenti nello sguardo di Tamara ma sono, poi, esorcizzati dalla forza del rapporto tra chi fotografa e chi si trova di fronte alla macchina fotografica. Proprio per questo a noi arriva un senso di pienezza e di dominio della ragione e della spontaneità che, se bene vissute, potrebbero giovarci.   

 

 Con i saluti più cari,   Claudio Strinati

La Sicilia è ancora una terra ricca di tradizioni e di veri rituali ancestrali, che danno tutt’oggi una testimonianza sulle origini mitiche e multiculturali nel cuore del mediterraneo.

L’obbiettivo della macchina fotografica ha seguito la domenica delle Palme, a Piana degli Albanesi, villaggio fondato da una comunità di albanesi secoli fa, che ha conservato la sua tradizione ortodossa, evidenziata, da una quantità di usi e costumi inaspettati, i Pope, le croci… Il Pope sale su di un asino, a ripercorrere l’entrata di Gesù Cristo a Gerusalemme. 
Tra le tante celebrazioni, ho percepito, nella rappresentazione della vita del Cristo di Marsala, la sensazione di un viaggio a ritroso nel tempo; scorci di vita della Gerusalemme di duemila anni fa. La forza evocatrice delle rappresentazioni si rivela grazie alla partecipazione intensa di attori e spettatori, tutti abitanti di città e villaggi.

Sono cerimonie dove ognuno rivive, tramite le rappresentazioni, il proprio percorso di vita ed il suo slancio spirituale. Come negli exempla del Medioevo si tratta di un’esperienza religiosa ed umana fortemente catartica.

Ho seguito inoltre la rappresentazione preparatoria dei misteri di Trapani, dove i giovani figli delle varie congregazioni imparano a portare le vare in miniatura. L’arte del passo ritmato, dell’appoggio, il ritmo del tric e trac, strumento ricorrente nel sud dell’Italia, e quello soggiogante delle fanfare.
Ho documentato le processioni di Palermo, la processione dei Cocchieri, tradizione che si protrae dal XVII secolo; la processione del mercato Ballarò e il Venerdì Santo di San Mauro Castelverde, piccolo villaggio che si arrampica intorno ad un picco montagnoso delle Madonie, dove si può assistere al bacio di Giuda, alla sua impiccagione, alla Via Crucis, alla Crocifissione. Al dolore di un uomo. Durante questa visita la montagna era stranamente avvolta da una nebbia densa e fredda; questa introduceva un senso di sognante inquietudine.
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Ogni evento indica così un percorso tra il sacro e il profano.

La domenica di Pasqua a Ribera, ad esempio, dove gli uomini sfiniti dal lungo percorso e dal peso dei diversi quadri – delle rappresentazioni di Cristo, della Vergine Maria e di San Michele – vengono autorizzati a bere l’acqua santa benedetta, in ricompensa della loro devozione. La bottiglia vola rapidamente da una mano all’altra mentre la folla, commossa, canta e salta. La banda si infervora, la cacofonia dei petardi esplode, nuvole di confetti si liberano nell’aria. Tutto per ricordarci la resurrezione di Cristo.

Le colombe volano tra gli stendardi ed ecco, in questi giorni, riapparire, al di là delle espressioni un pò profane, l’anima ansiosa di conoscenza, il percorso della sofferenza e finalmente la gioia, liberatoria, della resurrezione.

Tramite la scelta di questa antica e profonda tematica ho voluto rendere omaggio alla vita del Cristo, svelando attraverso le sue sofferenze estreme, l’essenza divina, la trascendenza. Ricerca che l’uomo esprime da millenni.

Possiamo ugualmente dire che “la Via Reale”, titolo di questo reportage, è un’espressione che si usava nel modo antico. Indica la via, la strada dritta, con la quale si evitano le deviazioni e i meandri che possono confondere l’anima, approdo simbolico alla Gerusalemme celeste, simbolo del Cristo.

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LA TRADIZIONE ORGANARIA NAPOLETANA di Mario Manzin – Numero 4 – Aprile 2016

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E’ un positivo firmato Domenico Antonio Rossi 1783

Una cengia a picco sul lago Maggiore ospita un antico Santuario sorto per volontà del beato Alberto Besozzi, un mercante del XII secolo che, investito da una burrasca sulla sua barca mentre si recava da una sponda all’altra del lago, e in serio pericolo, si rivolse a Santa Caterina d’Alessandria per avere salva la vita promettendo in cambio una chiesa in suo onore e, per la sua persona, vita eremitica in quell’angolo allora selvaggio del Verbano orientale. Da allora, l’Eremo, dedicato appunto all’invocata santa, è meta di pellegrinaggi e visitato ogni anno da oltre centomila tra fedeli e turisti di ogni nazionalità.

 

 

LA TRADIZIONE ORGANARIA NAPOLETANA

 

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Per le sue qualità, l’organaro venne assunto il 10 giugno 1761 dalla Regia Cappella, con uno stipendio di otto ducati al mese, in luogo del defunto Tommaso De Martino, altra personalità di spicco.

Nell’ambito degli studi condotti da Ulisse Prota-Giurleo e da Stefano Romano su quella scuola, particolare attenzione è stata posta al Rossi la cui tecnica costruttiva emerge dagli organi superstiti, quasi tutti del tipo ‘positivo’.

Conserva opere d’arte pittorica di buon livello e, tra gli arredi,

un organo ‘positivo’ opera di Domenico Antonio Rossi 1783, prezioso cimelio che degnamente rappresenta la tradizione organaria napoletana.

Svolse i suoi compiti con grande serietà e competenza fino al 5 gennaio 1789 quando, a causa dell’età avanzata, lasciava il prestigioso incarico al figlio Francesco Saverio.
Lo strumento, già di proprietà privata, è stato acquistato dal Lions Club Laveno Mombello – Santa Caterina del Sasso e ceduto in comodato all’Eremo per accompagnare i riti.
Ci troviamo di fronte ad un manufatto di rilevante interesse storico ed artistico in quanto uno dei pochi usciti dalla bottega del Rossi ancora conservati a Napoli e fuori Napoli1.
Vale citare in questa circostanza il curioso positivo di Villatorre (CH) attribuito al Rossi, in quanto dallo stesso firmato, mentre, in sede di restauro, è emersa la firma dell’altrettanto celebre Giuseppe De Martino e la data 1721, peraltro quella della morte. Con molta probabilità l’organo è stato successivamente restaurato se non addirittura rifatto dal Rossi che ha cancellato la presenza dell’illustre collega.
Due altri strumenti, rispettivamente del 1768 e del 1776, sono di proprietà privata, un altro ancora giaceva semidistrutto nel Museo degli antichi organi napoletani di Capodimonte. Sono attribuiti alla bottega del Rossi due organi anch’essi di privata proprietà in Germania e nel nord della Svezia.
Lo strumento dell’Eremo varesino si presenta in elegante forma, con un prospetto di facciata composto da 19 canne suddivise in tre campate, 7 – 5 – 7. Bocche non allineate, più basse quelle delle campate laterali, labbro superiore a mitria. La disposizione fonica è composta da Principale 8’, Flauto in XII (dal Fa#2), Ottava, Quintadecima, Decimanona, Vigesimaseconda, Turatutti. Tastiera scavezza con prima ottava corta di 45 note, Do1-Do5,. Corista La 415 Hertz (a 16°), temperamento inequabile. Non c’è pedaliera.

Altra caratteristica sopravvissuta a lungo è quella degli ‘effetti’, quali l’Uccelliera, frequentemente denominata Uccelli, Uccellaia, Rosignoli, oppure Stortae Philomelae, cioè canne ricurve. Il congegno imita il cinguettio degli uccelli.

L’organo si impone anche dal punto di vista estetico in virtù della decorazione della cassa, peraltro una delle caratteristiche di questi positivi. Scultura e intaglio del legno, doratura e decorazione pittorica costituiscono un altro sorprendente capitolo che rileva il talento degli organari partenopei.

Si basa su cannucce ad anima (da tre fino a dieci, quello dell’Eremo varesino ne conta cinque) saldate ad un tubo ripiegato ad angolo retto di cui un braccio è in comunicazione con il somierino sottostante, l’altro regge le cannucce a pelo dell’acqua, immesse in un minuscolo recipiente ovale in piombo, dando aria mediante pomello o stecca: le cannucce soffiano sulla giusta dose d’acqua creando l’effetto del cinguettio.
Il mantice d’alimentazione dell’Eremo, come d’uso, è contenuto nel vano inferiore e sulle portelle di chiusura compare un elegante cartiglio con la scritta: “DOMINICVS ANTONIVS ROSSI / NEAPOLITANVS / REGIAE CAPPELLAE SVAE MAIESTATIS / ORGANARVS FECIT / A D 1783”.

1Un censimento delle opere superstiti curato dallo scrivente ha dato i seguenti risultati:
a Napoli: 
Basilica dell’Incoronata Madre del Buon Consiglio di Capodimonte (1769); S. Giovanni Maggiore (data incerta 17…); 
S. Eligio, Confraternita del SS. Sacramento (1775); S. Maria Incoronatella della Pietà dei Turchini (1776); S. Giovanni Armeno, Arciconfraternita dei SS. Pietro e Paolo (1785), nella celebre via dei presepi, lo strumento si trova collocato nel capellone;
fuori Napoli:
Procida, Abazia di San Michele (data incerta, probabilmente del 1770); Fontanarosa, chiesa dell’Immacolata (1771),
Malta, cattedrale, due strumenti: l’organo maggiore del 1774 è collocato in cantoria nel transetto nord, il positivo, costato 185 scudi, si trova oggi nel Museo della cattedrale; Deliceto, chiesa parrocchiale di S. Antonio (1775);Orsara di Puglia, chiesa di San Nicola (1776) proveniente dalla concattedrale di Troia;Barletta, chiesa di S. Andrea, proveniente dalla chiesa di S. Cataldo (1776);San Sebastiano al Vesuvio, Santuario (data illeggibile); Trento, Conservatorio di Musica (1779); Forio d’Ischia, S. Maria di Loreto (A.D. MDCCLXII); Forio d’Ischia, Santuario S. Francesco di Paola (1781), strumento dotato di un curioso ed elementare sistema di pedali a staffa per l’azionamento dei mantici.

Il lavoro di doratura, ad esempio, viene effettuato con procedimenti diversi, attraverso la mistura sull’argento e l’utilizzo dei fogli d’oro zecchino per creare piacevoli contrasti di lucido e opaco ed ottenere in questo modo affascinanti effetti chiaroscurali.
I positivi presentano un aspetto peculiare dell’originaria napoletana, prodotti in numero imponente di esemplari e destinati alle chiese maggiori, ai piccoli oratori, alle cappelle delle confraternite, ai palazzi nobiliari. Per oltre due secoli e mezzo la tradizione si tramanda e non conosce soluzioni di continuità. Una caratteristica di questi manufatti è la presenza di una canna ad ancia a suono fisso chiamata “zampogna”, particolarità documentata dagli inizi del Seicento fino alla metà del XIX secolo. E’ situata all’interno della cassa ed azionata da una stecca indipendente a tirante. Il timbro non è sempre sonoro e viene utilizzata come pedale armonico per l’esecuzione, ad esempio, di melopee pastorali. Non mancano esempi di zampogna doppia con due canne e due note a distanza di quinta.

Ci troviamo di fronte ad un esemplare che degnamente rappresenta quel barocco che – come scrisse Harold Acton – “ebbe ad esprimersi a Napoli con la stessa gioia di un volo di usignoli liberati da una gabbia d’oro”.

Renato Lunelli, padre dei moderni studi organologici, non nascose il suo interesse per l’organaria napoletana: voleva scoprire anche negli organi il volto della città. “Nei timbri organistici – scriveva – troviamo accoppiata all’impronta mistica una caratteristica storico-ambientale; perché le sonorità dell’organo stilizzano le preferenze di un determinato ambiente musicale per particolari timbri sonori di un certo periodo di tempo”.

Se, da una parte, si è dovuto constatare per anni un saccheggio di questi superbi monumenti sonori, un avanzato concetto di tutela ha consentito recuperi e restauri sotto il controllo di studiosi e di esperti.

E’ stata edita anche una letteratura su queste tematiche, peraltro dibattute in incontri tra organologi di varie estrazioni. All’aspetto tecnico è oggi associato quello musicale e la fruizione di questi positivi è stata anche veicolo per la conoscenza della produzione musicale napoletana – grazie allo spoglio di fonti d’archivio da tempo avviato – eseguita su strumenti che rimandano ad uno degli aspetti più interessanti della cultura di Napoli, permeata da una vivacità intellettuale, com’è nella tradizione, sempre in bilico tra sacro e profano.

 

SAN PIETRO AD ORATORIUM di Roberta Lucchini – Numero 4 – Aprile 2016

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Trovarsi in terra d’Abruzzo in una calda giornata di inverno beffardo. Inverno stranito, addolcito, vestito con insoliti abiti a fiori in rilievo di meli selvatici e violette odorose; abiti confezionati anzitempo dall’atelier creativo di una Natura imbizzarrita, che rifugge sempre più spesso dai canoni stagionali, cadenzati, da queste parti, in termometri sottozero, coltri nevose sulle alture e risvegli pacati.

In effetti, l’impressione è confermata. Spento il motore, lasciata l’auto nel parcheggio, la sensazione è di un mondo sospeso, dove la sola colonna sonora che accompagna l’andare curioso su brecciolino e foglie morte è il cinguettio tra le querce e i cipressi secolari insieme al garrulo scrosciare del fiume Tirino da presso.

La scritta sull’architrave dà l’ulteriore informazione di un rimaneggiamento nell’anno 1100 (anno milleno centeno renovata), avvenuto secondo gli schemi dell’architettura romanica tanto presente in Abruzzo e che, ad oggi, caratterizza impianto e decorazioni dell’edificio sacro. Ai lati degli stipiti due bassorilievi, uno di Vincenzo Diacono, l’altro con capo coronato, che alcuni hanno indicato essere proprio re Desiderio, altri hanno attribuito a Davide. Ma Angelo è ansioso di aprire il portone; e mentre lui armeggia con la serratura, la mente divaga, chiedendosi chi e come abbia scelto, mille anni fa, di aggiungere quegli inserti di greche e intrecci e fiori e animali, posti a caso fra i conci della facciata senza un disegno preordinato, ma con la lungimiranza di lasciare traccia degli ornamenti provenienti dal nucleo originario della Chiesa o da reperti di edifici risalenti ad epoche ancora precedenti.

La mano non sa resistere all’istinto, si protende, sfiora quelle lettere incise nella pietra, ripercorre una ad una le concavità che lo scalpellino ha immortalato sul blocco e il costruttore ha, forse sbadatamente, forse perché analfabeta o forse per qualche ragione inspiegabile, inserito fra i conci capovolgendo la scritta. Ma l’essenza non muta: SATOR AREPO TENET OPERA ROTAS, il Quadrato magico.

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SAN PIETRO AD ORATORIUM

 

Roberta-Lucchini

Trovarsi lontano dal clangore di voci e ingranaggi della tentacolare metropoli da cui conviene, talvolta, allontanarsi, per riconquistare spazi di silenzi e di solitudine che fanno bene all’anima.

Viaggiare alla scoperta di uno dei tanti, sconosciuti luoghi di pregio, forzieri di storia e di arte, che appartengono all’Abruzzo più interno, geloso dei suoi borghi, delle sue chiese, delle sue rocche

Con sorpresa, non è la facciata della Chiesa che si mostra arrivando, bensì le tre absidi circolari con monofore che corrispondono alle tre navate in cui è suddivisa la struttura basilicale. E cresce quindi l’attesa. Finalmente Angelo, il custode – ironia della sorte! – contattato telefonicamente qualche giorno prima, arriva a bordo della sua Ape verde, tipico veicolo per brevi percorsi nei piccoli centri, dove da molti decenni ha sostituito il mulo negli spostamenti fra abitazioni e poderi. Uomo solido, mani da lavoratore. 
Apre il cancello, evviva. Lenta discesa sul viale di gradini bassi e profondi in acciottolato che costeggia, a sinistra, il lato lungo fino alla facciata: lo sguardo voglioso ignora per il momento il primo tratto di parete, sapendo di tornarci a breve, per concentrarsi sul portale. I piedritti plastici, con decorazioni in rilievo non riprodotte simmetricamente, dai motivi naturalistici ad intreccio, accompagnano lo sviluppo verticale fino ai capitelli, le cui foglie sembrano staccarsi dal blocco di pietra. Un bellissimo archivolto con due corone concentriche di palmette, sullo stile di S. Liberatore a Majella, sovrasta l’architrave. A rege Desiderio fondata, vi si legge. Desiderio. A rifletterci, quasi uno stridore. Il fascino garbato di un nome tanto evocativo – etimologicamente riconducibile alla mancanza di stelle (de – sidus), di buoni auspici, di prospettive leggibili, da cui tensione verso l’appagamento – accostato alla figura di un re “barbaro”, l’ultimo dei Longobardi che, giunti in Italia alla guida di Alboino nella seconda metà del VI sec. d.C., imperversarono lungo la penisola nel corso di due secoli, fino alla definitiva sconfitta ad opera dei Franchi di Carlo Magno nel 774. Desiderio. Padre di Adelchi (col quale governò nell’ultimo periodo del suo regno allo sbando) e padre, forse, della sfortunata Ermengarda, data in sposa, forse, proprio a Carlo Magno e da questi, forse, ripudiata nel 771; eppure così reale per l’indimenticabile acconciatura e per lo straziante affanno in letto di morte cantati dal Manzoni. Desiderio, dunque, passò di qui, prendendo sotto la sua protezione, piuttosto che ordinarne l’edificazione (come si ritiene essere erroneamente indicato nell’iscrizione), il primo e più antico corpo della Chiesa, la quale è

menzionata come esistente nel 752 (mentre Desiderio salì al potere nel 756) dal Chronicon Volturnense, una delle testimonianze più valide e importanti per lo studio della civiltà alto­medievale, redatto fra il 1124 e il 1130 dal monaco Giovanni presso il monastero benedettino di S. Vincenzo al Volturno e conservato, nei suoi 341 fogli di pergamena, presso la Biblioteca Vaticana.

ancora distanti dalle corsie affollate del turismo di massa, salvo assurgere all’onore delle cronache quando un passo falso della Madre Terra ne scuote e sconquassa muri e certezze. 
Non si arriva qui per caso. Bisogna cercare attentamente quell’indicazione, sulla Strada Statale 153, che dall’uscita “Bussi sul Tirino” dell’Autostrada A25 raccorda, salendo, la via Tiburtina Valeria con la Strada Statale 17, all’altezza di Navelli. Finché, dopo circa 10 km di percorrenza, nei pressi del comune di Capestrano, trovi il cartello sulla sinistra: S. Pietro ad Oratorium. E la strada asfaltata si stringe man mano, permettendo il passaggio di un’auto alla volta, anche per l’invadenza non contenuta di ginestre e roverelle che si appoggiano ostinate sul manto stradale. Poi, l’asfalto lascia il posto al terreno battuto, e ti rendi conto che stai entrando in una dimensione diversa, troppo lontana dalla quotidianità convulsa lasciata ad un’ora e mezza da qui.

Il portone è aperto: sarà che fuori il sole è alto e caldo, sarà che le mura in pietra isolano dall’esterno, sarà la mancanza di arredi, ma una cortina di aria fredda si para davanti, come impedendo l’accesso.

Poi è subito chiaro. Angelo racconta, quasi sussurrando, del restauro dopo il terremoto, che ha ricostruito il soffitto, palesemente rinnovato nella copertura lignea, che ha rinforzato le colonne e che dovrebbe ripristinare il bel ciborio centrale, a base ottagonale, con tiburio decorato da insolite maioliche in ceramica colorata: ma i soldi sono finiti, per ora non c’è che da accontentarsi. Ecco il gelo, è evidente. Secoli di storia hanno patito lo scossone, e il cemento usato per rattoppare è ancora fresco, troppo fresco, non sufficiente a risanare la crepa, qui come negli altri posti feriti… Per fortuna l’abside centrale attira l’attenzione: l’arcone con gli affreschi di un color rosso quasi monocromo – una particolarità assoluta – in cui è ritratto il Cristo in trono, in stile bizantino, con il tetramorfo ai lati, al di sotto di cui si dispongono i 24 Vegliardi dell’Apocalisse; e la fascia inferiore affrescata con immagini di 6 monaci benedettini, stigmatizzati dalla tonsura del capo e dalla Regola fra le mani, disposti lateralmente alla finestra centrale dell’abside. Pensare che questi affreschi sono considerati una delle primissime testimonianze della pittura romanica abruzzese, ancora così vicina, nell’impostazione grafica, nella fissità degli sguardi, nella linearità dei panneggi, al prototipo dell’iconografia bizantina. Qualcosa, tuttavia, suggerisce di uscire, di tornare sui propri passi, lasciandosi alle spalle, lentamente, quelle colonne massicce, sei per lato, che creano la navata centrale lungo la quale, dal mese prossimo, e dopo la pausa invernale, incederanno fra emozioni e fiori freschi coppie di innamorati che qui decidono di sugellare il proprio patto per la vita. Non c’è esitazione, gli occhi sanno dove cercare. Eccolo, a destra del portale.

Più e più volte letto sui libri, adesso materializzato. Il bagaglio di notizie, in un attimo, fluisce in un’unica immagine onnicomprensiva. Il “latercolo (di forma quadrata), pentadico (con parole di cinque lettere), palindromo (leggibile nei vari sensi)”, secondo la sintesi di Rino Camilleri nel suo scritto del 2004 dedicato a questo argomento, ha affascinato, incuriosito e stimolato la riflessione di studiosi che in tutto il mondo si sono confrontati con questo enigma senza essere riusciti, ancora oggi, a trovarne una spiegazione univoca. Una sola certezza: rispetto ad altri palindromi diffusi nell’antichità, questo è l’unico, rinvenuto negli angoli più disparati del Mondo Antico (solo in Italia presente in almeno 30 siti), ad aver resistito per secoli, inciso su mattoni, vergato su papiri, graffiato sui muri, utilizzato a fini taumaturgici o esorcistici. Perché mai? Cosa vi si nasconde? Qual è la chiave del crittogramma? Il solo tentarne una traduzione è cosa ardua. Le varie interpretazioni proposte convergono sull’idea del Sator quale Creatore, Seminatore (in questo senso il termine è già presente in opere di scrittori latini quali Cicerone, Virgilio e altri), per cui l’idea sarebbe di una Entità che governa (tenet) con fatica (opera) le ruote (rotas), forse riferito alle Sfere celesti.

Ma la logica si incaglia nella parola arepo, dal significato oscuro (nome proprio di persona?, verbo?, radice celtica?),

da taluni considerato solo come un escamotage per garantire la simmetricità del termine opera. Possibile una tale superficialità? Possibile che una siffatta orditura di lettere, riconducibile a scienze esoteriche, legato a numerologia ed aritmomanzia, si perda in una simile leggerezza? Ma sciogliere il nodo non è facile. Ed ancora: il Quadrato è un simbolo pagano? Da escludersi, non conoscendosene di antecedenti a quelli rinvenuti nel 1936 a Pompei (sepolta, si ricorda, nel 79 d.C.) sul muro della Grande Palestra e sulla casa di Proquio Paculo (dove, fra l’altro, l’ordine delle parole è invertito, iniziandosi da Rotas, caratteristica comune ai Quadrati più antichi, superata in epoca medievale ma che si verificherebbe anche qui, a S. Pietro, se capovolgessimo il mattone). È quindi un simbolo cristiano? Probabile, come dimostrano centinaia di ricerche effettuate nel corso dei secoli, che hanno condotto alla sensazionale scoperta, negli anni Venti del Novecento, ad opera di tre studiosi (i quali non si conoscevano fra loro) che anagrammando le 25 lettere si ottiene la parola PATERNOSTER, ripetuta due volte, che si incrocia sulla lettera N (presente centralmente una sola volta e contenente una simbologia antichissima, collegabile fra l’altro alla lettera fenicia nun, segno di acqua o di pesce), lasciando escluse soltanto la A e la O: la cosiddetta tesi Grosser – Agrell dimostrerebbe che il Quadrato racchiude la preghiera cristiana per eccellenza (quindi già diffusa a pochi anni dalla morte di Gesù), con un riferimento esplicito all’alfa e all’omega dell’Apocalisse. Il che comporterebbe una diversa datazione dell’Apocalisse stessa, fino a quel momento ritenuta composta dopo il 100 d.C., dovendosi fare i conti con la ricordata distruzione di Pompei nel ricordato 79 d.C., presupporrebbe la presenza dei cristiani in questa località, suggerirebbe la lettura in chiave cristiana di tutta una serie di rimandi ai culti mitraici, pitagorici, celtici e alessandrini che, scavando, si rinvengono in questa piccola, esigua, griglia di lettere. Esigua?

Come può considerarsi tale se alla base vi è il quadrato, la figura geometrica che da sempre ha incarnato il collegamento fra Cielo e Terra, fra l’uomo e Dio, così nelle Piramidi egizie, come nelle Ziggurat, come nelle Piramidi dei Maja (per i quali la Terra stessa era quadrata), come nel Sancta Sanctorum del Tempio di Salomone, per giungere fino alla prefigurata Gerusalemme Celeste.

Maria Grazia Lopardi, studiosa aquilana dedita soprattutto alla storia medievale, all’architettura dei principali edifici sacri della sua città ed alla simbologia che vi si nasconde, si spinge oltre: nel Quadrato, fra l’altro comune, seppur con differenti segni grafici, a rappresentazioni rinvenute ai poli opposti del globo, come ad esempio nella civiltà Inca, si celerebbe non un semplice – eppur complesso ­ passatempo, ma la “Matrice”, l’Arché, il principio ispiratore dell’architettura sacra che ha permesso per secoli di innalzare templi facendo a meno di progetti scritti e disegnati, affidandosi piuttosto ai rapporti che scaturirebbero dal sistema di griglie che lega le varie lettere dello schema. C’è di più: nel Quadrato magico sarebbe contenuto il mistero costruttivo del Tempio di Gerusalemme, recuperato successivamente dai Cavalieri Templari ed arrivato fino alla Massoneria, i cui simboli si potrebbero ricondurre al Quadrato stesso. Salvo il volerlo considerare privo di significato (come pure qualcuno ha fatto), questo arcano non potrebbe essere un mero esercizio enigmistico, un banale bisticcio di parole, troppe le coincidenze, impossibile la casualità.

Sia che lo si voglia considerare di origine non cristiana, legato cioè a miti pagani, all’esoterismo o più semplicemente all’occultismo, o che si accolga l’idea di una realtà rivelata in esso secretato, forse la trasposizione di quel Verbo, di quella Parola alla radice del Creato, rimane un dato di fondo,

vale a dire l’intrigante gioco di parole che si inseguono, si amalgamano, si uniscono e poi separano in un intreccio senza fine di cui a noi, uomini del XXI secolo, sfugge il senso profondo. “Il mondo è stato creato con delle frasi, composte da parole, formate da lettere. Dietro queste ultime sono nascosti dei numeri, rappresentazione di una struttura, di una costruzione ove appaiono senza dubbio degli altri mondi ed io voglio analizzarli e capirli perché l’importante non è questo o quel fenomeno, ma il nucleo, la vera essenza dell’universo.” Così scriveva Einstein. Forse prima di lui qualcun altro lo aveva intuito. Molto accattivante. 
Le informazioni scoloriscono, però, e si fa strada un lieve senso di invidia per l’Iniziato, per colui che ha avuto la fortuna di sapere e di custodire, insieme a pochi altri, un segreto le cui fondamenta si sono perse nella nebbia dei tempi… Colui che forse non ha dovuto interrogarsi, perché aveva già tutte le risposte. 
D’un tratto le notizie si disperdono, come se il bagaglio si aprisse lasciando cadere indumenti in ordine sparso; o come se un groviglio di fili lanosi e intrecciati si dipanasse creando spazio nella testa, mentre, dopo un veloce saluto ad Angelo, i passi assecondano il richiamo, abbandonano il cortile, risalgono il vialetto, conducono inconsapevolmente verso quel corso d’acqua, così peculiare nelle sue caratteristiche biologiche da essere oggetto di studi e monitoraggi, come indicato nella bacheca di legno che precede l’accesso al bacino: il fiume Tirino inserito in un progetto dell’Unione europea (Aqualife) per la valutazione dello stato di conservazione di ecosistemi dipendenti dal sistema di acque sotterranee, la cui biodiversità è minacciata dalle attività antropiche, per giunta troppo incisive solo pochi chilometri più a valle, ove insiste il polo chimico di Bussi. Il dato scientifico, ancorché interessante, è al momento secondario: un invito troppo forte va accolto, troppo forte l’impulso di immergere la mano nello scorrere limpido e festante, avvertendo quel brivido che scuote i sensi, brivido vitale che per un attimo ti fonde con la natura intorno, cancellando ombre e perplessità. Ed in quell’attimo sembra di avvertire “il nucleo”, quella unità nella diversità spesso millantata, mai veramente assaporata. 
Ma è un momento. Poi tutto torna al proprio posto, nella realtà frammentata e diffratta di una vita di rincorse affannose. E, ripartendo, rimane alle spalle un mondo sfiorato, una Storia millenaria che porta con sé molte domande, spesso non soddisfatte, per lo meno non abbastanza. Qui si chiude il cerchio. Dubito, ergo sum.

 

IL CINEMA A MATERA di Delio Colangelo – Numero 4 – Aprile 2016

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Matera, a partire dal secondo dopoguerra, è stata terra di cinema; più di trenta produzioni cinematografiche sono state realizzate nei Sassi. Una tendenza dominante, da Il Vangelo secondo Matteo di Pier Paolo Pasolini a Cristo si è fermato a Eboli di Francesco Rosi, ha messo in luce la condizione di miseria e arretratezza della Basilicata, influenzata da autori come Carlo Levi ed Ernesto De Martino. Negli ultimi anni, Matera è diventata teatro di opere filmiche – come The Passion di Mel Gibson – che hanno contribuito a formare l’immagine di una città quasi mistica e culturalmente attiva.

La designazione di Matera come città Capitale Europea della Cultura del 2019 sembra essere la definitiva redenzione di una cittadina che per lungo tempo ha suscitato la “vergogna nazionale”.

Tratto dal libro omonimo di Carlo Levi, racconta l’esperienza di confinato vissuta da Levi stesso durante l’epoca fascista. Durante i due anni trascorsi in esilio, Levi, medico progressista torinese, ha l’occasione di entrare in contatto con la civiltà contadina lucana che osserva con meticolosa attenzione e che lo colpisce profondamente. Pur avendo come centro il paese di Aliano, dove lo scrittore ha vissuto, vi sono descrizioni di Matera che, come abbiamo già detto, hanno prodotto grande attenzione mediatica sul destino dei Sassi.

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IL CINEMA A MATERA

 

Delio-Colangelo

Il primo film di finzione interamente girato nei Sassi è La Lupa (1953) di Alberto Lattuada, trasposizione cinematografica dell’omonima novella di Giovanni Verga.

Nonostante non manchino ritardi e sterili polemiche, la città sta attirando la creatività giovanile e rafforzando i propri eventi e manifestazioni culturali. La stagione turistica si allunga, con sempre più frequenti episodi di overbooking, ed è caratterizzata da una crescente dimensione internazionale. Tra le grida di gioia che hanno invaso la Piazza San Giovanni nell’ottobre del 2014, quando il ministro Franceschini ha comunicato la scelta di Matera come capitale europea della cultura, molti parlavano di un importante riscatto per la città. Una città che ha compiuto un lungo percorso per riabilitarsi e che, dopo il risultato dell’iscrizione dei Sassi nel patrimonio Unesco nel 1993, trova, come Capitale Europea della Cultura, il suo compimento. 
Qualcuno ha detto che Matera, prima di essere stata città dell’Unesco e città della cultura, è stata città del cinema e su questo vorrei soffermarmi un attimo. Su come il cinema è stato importante sia per la riflessione sulla condizione della città che per la sua promozione mediatica e turistica.
Dagli anni ’50 agli anni ’70, la produzione cinematografica a Matera, infatti, risente di una vasta riflessione che, da Levi a De Martino, ha posto l’attenzione sui problemi della Basilicata.

In particolare, si può citare una piccola opera di un giovane Antonioni dal titolo Superstizione e diversi lavori, tra cui Magia Lucana e La Madonna di Pierno del regista Luigi Di Gianni, uno dei più importanti rappresentanti del documentario antropologico. 
Un film di finzione, girato in parte a Matera, che raccoglie questa eredità e questo fermento, è Il Demonio (1964) di Brunello Rondi. Il film ha come obiettivo quello di offrire un ritratto autentico della Basilicata, soprattutto in riferimento a quel “mondo magico” che circondava la realtà lucana degli anni ’50 e ’60. A metà strada tra storia drammatica e documentario, il film racconta i riti contro il malocchio, gli esorcismi, le superstizioni. La protagonista, Purificata, non riuscendo a superare una delusione d’amore, cade nella “fascinazione”. La fascinazione, o la possessione, rappresenta il momento di stallo in cui si trova Purificata che non riesce ad accettare la fine di un amore; il percorso di liberazione da questo male, che però la condurrà a una fine tragica, è un susseguirsi di riti liberatori, pratiche magiche, esorcismi, lamenti funebri che il regista inserisce all’interno della narrazione con intento quasi documentale. In alcune suggestive sequenze girate nei Sassi, avviene il conflitto magico: da una parte, Purificata che cerca di minare, attraverso filtri amorosi, la solidità del matrimonio tra il suo amato e un’altra donna mentre, dall’altra, gli sposi che proteggono con alcuni rituali la loro unione dalle forze negative. 
Un “paesaggio” magico che mostra il netto divario esistente tra l’arretratezza della terra lucana e il progresso e il boom economico che veniva vissuto in altre zone d’Italia. 
Questa tendenza rappresentativa, che incomincia a tramontare a partire dagli anni ’70, ha un ultimo e forse più importante esempio nella trasposizione cinematografica del romanzo di Levi a opera di Francesco Rosi.

A metà degli anni ’60, Il Vangelo secondo Matteo di Pasolini inaugura una tendenza ad ambientare nei Sassi di Matera vicende di argomento biblico. I Sassi diventano la Gerusalemme della predicazione cristiana e della via crucis

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L’operazione interessante compiuta da Lattuada consiste nell’usare i Sassi non come sfondo per rappresentare un paese siciliano (originaria ambientazione del racconto di Verga), ma come effettivo luogo in cui si svolgono le vicende raccontate. Il paesaggio mostrato, quindi, porta nel film il suo carico di drammaticità che integra l’opera verghiana. Prova ne è, ad esempio, lo spazio che nella prima parte del film è dedicato alla Festa della Bruna di Matera in cui si snoda la vicenda. L’inserimento nel film di riti e tradizioni tipicamente materani serve proprio a intessere la trama nel nuovo contesto territoriale.
Nel Dopoguerra è intensa anche la produzione documentaristica. Nel 1949 vi è l’esordio alla regia di Carlo Lizzani con il documentario dal titolo Nel Mezzogiorno qualcosa è cambiato (1949). L’interesse verso la realtà materana e lucana coinvolge anche altri registi che, anche sulla scia delle spedizioni etnografiche organizzate da Ernesto De Martino, raccontano i riti e le superstizioni che regnano in Basilicata.

Una ricca produzione documentaristica investe la Basilicata con l’evidente compito di mostrarne le condizioni culturali e sociali.

Il Cristo si è fermato a Eboli (1979) di Rosi è sicuramente uno dei prodotti artistici più rappresentativi dell’identità lucana e racconta con realismo un pezzo di storia della Basilicata.

mentre la Murgia materana è il luogo della crocifissione e della resurrezione del Cristo. Tuttavia, Pasolini, non sceglie Matera in quanto somigliante a Gerusalemme, ma perché è rappresentativa del contesto socioeconomico del sud d’Italia. Così se, da una parte, c’è l’intenzione autentica di sottolineare la forza rivoluzionaria del messaggio cristiano e ricollegarla a un generale senso del sacro, dall’altra, emerge il desiderio di denunciare e mettere in luce i contesti di vita inaccettabili in cui vivevano gli abitanti di questa parte del Sud. La macchina da presa mostra i paesaggi, i volti scavati, con la stessa attenzione dimostrata da Pasolini nei suoi precedenti film sulle borgate romane

Matera, quindi, trasferisce all’interno del film non solo la sua conformazione fisica ma anche la sua specificità sociale, divenendo una metafora di tutta la questione meridionale.

Il tentativo compiuto dall’autore è quello di far emergere l’immagine autentica di un territorio raccontando una storia che non le appartiene.
Dagli anni ’70 in poi, Matera verrà utilizzata per rappresentare la Spagna (L’albero di Guernica), la Sicilia (L’uomo delle Stelle); diventa, quindi, esclusivamente una location cinematografica che avrà particolare fortuna con le storie di argomento biblico. Dopo un King David girato negli anni ’80 e di scarso successo (che però porta Richard Gere tra i Sassi), si apre per Matera l’epoca delle grandi produzioni hollywoodiane. Nel 2004 esce nelle sale The Passion of the Christ (2004), storia della passione di Cristo raccontata da Mel Gibson, i cui esterni sono stati girati quasi interamente nei Sassi. La pellicola, che racconta la passione di Cristo dall’invocazione nel giardino dei Getzemani sino alla resurrezione, ha dato una grande esposizione mediatica internazionale ai Sassi di Matera. Non vi è più riflessione sul contesto sociale né riferimento all’identità culturale; tuttavia, la distribuzione mondiale e il successo del film offrono a Matera un’importante vetrina promozionale. The Passion viene spesso citato come caso di cinema che ha dato un forte impulso al turismo cittadino ed effettivamente, dati alla mano, nei due anni successivi all’uscita del film il turismo straniero è raddoppiato. Probabilmente il film ha prodotto anche maggiore consapevolezza, nei cittadini e nelle autorità, sulla dimensione internazionale di Matera e sulle potenzialità turistiche dei Sassi che, pur essendo già patrimonio Unesco, risultavano ancora inespresse. 
Dopo il film di Mel Gibson, altre grandi produzioni, a tema religioso, si sono fermate a Matera come The Nativity Story (2005), The Young Messiah (2016) o remake di peplum famosi come Ben Hur (2016).

Oggi le strette stradine dei Sassi sono un set a cielo aperto, passaggio continuo di produzioni cinematografiche e televisive, dimostrando la stretta relazione tra il cinema e la città.

 

LA VIA DELLE MEMORIE di Vincenzo Donzelli – Numero 4 – Aprile 2016

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Le cose accadono e spesso non per caso. Ricordo ancora quell’umido pomeriggio di novembre del 2013 in cui ho ricevuto la telefonata del mio amico geologo Gianluca Minin, Presidente dell’associazione culturale Borbonica Sotterranea. Aveva un’importante proposta da farmi e mi aspettava, la domenica successiva alle nove in punto, alla Galleria Borbonica in prossimità del parcheggio Morelli.

Arrivati in cima all’impalcatura, mi ritrovai in un ambiente un po’ polveroso, dove un gruppo di almeno 30 volontari stava scavando … Restai sbalordita davanti a questi ragazzi molto giovani che lavoravano affiatati, con passione e anche divertendosi. A quel punto, Gianluca mi chiese se ero pronta a conoscere la principale ragione del suo invito; mi sorrise e mi chiese di girarmi: dietro di me vidi una lunga scala con decine di gradini che erano stati appena finiti di pulire dai volontari che erano di fianco a me.

Dal 30 gennaio di quest’anno, il nuovo percorso della Galleria Borbonica è attivo e aperto al pubblico con il suggestivo nome di La Via delle Memorie.

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LA VIA DELLE MEMORIE

 

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Gianluca mi guardava divertito e, di colpo, sorridendo, mi disse: “Sei pronta a scavare?”. Ero attonita, quasi sbalordita. Lui non si scompose e sempre sorridendo mi condusse a fare un giro all’interno della Galleria per presentarmi “alcune persone speciali che avevano una sorpresa per me”.

Quella mattina, restai senza parole di fronte a tanta bellezza; ero impressionata dalle opere realizzate dai Borbone e orgogliosa dei ragazzi che avevano ripulito tutto senza alcun aiuto economico. Gianluca mi guardò e mi disse che mi avrebbe portata dove i lavori di rimozione dei detriti e dei rifiuti erano ancora in atto. Dopo l’apertura della parte iniziale della Galleria, infatti, nell’agosto del 2013, lui e il suo socio avevano iniziato a scavare all’interno di una cisterna del Seicento, alla ricerca del passaggio verso il ricovero bellico di Palazzo Serra di Cassano. Quando arrivammo alla cisterna, Gianluca si fermò di colpo e mi disse che ci trovavamo esattamente al di sotto del Palazzo, in un punto limitrofo allo spazio di mia pertinenza. Lo ascoltavo in silenzio, mentre lui mi spiegava tutto il sistema di cunicoli e attraversamenti. Alla fine della spiegazione mi indica il passaggio che cercavano da tempo e che era emerso dai detriti. Quel passaggio consentiva di entrare in una serie di ambienti di epoche diverse, su più livelli, collegati da bellissime scale. Salimmo queste scale e mentre guardavo l’altissima volta che era sopra di me, Gianluca mi rivelò che tutto ciò che vedevo risultava, in gran parte, dal riempimento di detriti derivanti dai resti degli edifici bombardati nella parte alta di Monte di Dio e versati subito dopo la guerra nei pozzi. Era incredibile e il mio stupore cresceva con i suoi racconti. A un certo punto, mi fece salire su un’impalcatura che conduceva ancora più in alto da dove arrivavano i rumori di persone che parlottavano divertite. Ero impressionata dalla quantità di materiale che era stata spostata.

Non solo la Galleria fu restituita al patrimonio culturale di Napoli, ma la scoperta di diverse cavità non censite ubicate in aree limitrofe alla Galleria, ha permesso di migliorare la conoscenza del sottosuolo dell’area di Monte Echia e di studiarne i movimenti, utili a prevenire possibili smottamenti e altre calamità.

Non avevo idea di cosa volesse propormi, il solo pensiero che mi venne è che potesse chiedermi una collaborazione tra la sua associazione e l’associazione artistico culturale Interno A 14, che, da lì a poche settimane, avrei aperto, in un locale di proprietà della mia famiglia a Palazzo Serra di Cassano. Ero davvero curiosa e quella domenica mattina mi recai all’appuntamento con un pizzico di ansia. Conoscevo quella parte di sottosuolo che partiva dal parcheggio Morelli perché ne avevo sentito molto parlare, ma non l’avevo mai visitata. Quando arrivai al cancello della Galleria Borbonica, Gianluca era lì ad accogliermi. Già all’entrata, rimasi colpita dalla maestosità delle cavità che si ramificavano da quel punto in varie direzioni e poi, entrando, dal susseguirsi di giochi di volte, scavate nel tufo, e dagli archi di grandezze diverse.

“Questo – mi disse Gianluca senza scomporsi – è il nostro piccolo miracolo napoletano”! Era la storia di decine di volontari che ogni domenica mattina andavano a lavorare alla Galleria per rimuovere a mano tutti i materiali che ingombravano gli ambienti.

Durante il tragitto mi raccontò la storia della Galleria e di come lui, e il suo socio – e collega – Enzo de Luzio, avessero trovato tutto quello che, con grande sorpresa, stavo ammirando. Mi parlò dei rilievi statici che faceva nelle cavità del sottosuolo di Napoli che, dopo alcuni mesi, lo avevano condotto all’interno della Galleria Borbonica – che era in uno stato di totale degrado e abbandono, invasa da rifiuti e detriti sversati abusivamente negli ultimi 30 anni. Gianluca, tuttavia, non si scoraggiò. Cominciò subito i rilievi e i lavori di pulizia, coinvolgendo decine di volontari. Dopo cinque anni di interventi pazienti e impegnativi, tutta la città ha potuto ammirare la bellezza di un’opera civile totalmente dimenticata. Si trattava di un piccolo miracolo napoletano, dovuto alla capacità e alla tenacia di geologici, tecnici, studiosi e al lavoro di tanti ragazzi e ragazze della città.

Mi disse che le scale terminavano proprio sotto il pavimento del mio spazio. Rimasi di sasso.

Nel periodo bellico, per consentire il ricovero degli abitanti durante i bombardamenti, qualcuno aveva ampliato la scala già esistente nel Rinascimento che collegava il Palazzo con i suoi ambienti sotterranei. Restai in silenzio, osservando tutto ciò che mi circondava. Guardavo i volti dei ragazzi e lo sguardo di Gianluca e degli altri volontari dell’associazione Borbonica Sotterranea che quella mattina erano lì e che con tanto amore e passione avevano per anni scavato per riportare alla luce una simile bellezza. Gli dissi che ero onorata di poter collaborare con loro e di ripristinare il passaggio chiuso dopo la II guerra mondiale, che univa due realtà importanti come il Palazzo Serra di Cassano e la Galleria Borbonica. Da quel giorno sono passati due anni di intensi lavori di scavo e di prolungate attese per i permessi. Finalmente, il 14 novembre 2015 abbiamo potuto eliminare l’ultimo diaframma che impediva il congiungimento tra il Palazzo e il sottosuolo, restituendo così alla città di Napoli un percorso che, senza alcuna retorica, rappresenta l’orgoglio dell’iniziativa privata e del volontariato.

Da quel giorno, chi proviene dal sottosuolo può seguire il percorso di Palazzo Serra e sbucare con sua grande sorpresa all’interno del mio spazio polivalente dedicato alle arti e alla cultura – chiamato Interno A 14. In questi spazi abbiamo allestito un’area con una mostra permanente fotografica in onore dei volontari della campagna di scavo dell’associazione Borbonica Sotterranea dove si possono ammirare anche delle teche con alcuni degli oggetti ritrovati nel sottosuolo.

 

SALENTO LE PIETREFITTE di Giusto Puri Purini – Numero 5 – Luglio 2016

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Mediterraneo

“La vita è dono degli immortali, dono della filosofia, è vivere bene. Fu la filosofia ad erigere tutti quei torreggianti casamenti, tanto rischiosi per chi vi dimora? Credimi, felice età fu quella, prima dei giorni degli architetti, prima dei giorni dei costruttori”.

Negli ultimi anni, queste strutture sono diventate prelibate ed accattivanti per tanti compratori venuti da fuori che, nei limiti delle regole restrittive che le governano, le hanno trasformate ed adattate, creando comunque un nuovo mercato edilizio, ad uso soprattutto dei mesi estivi.
Nella nostra operazione, abbiamo, con l’architetto Nicolardi, cercato di bypassare questo passaggio del “dolore”, rendendo la masseria sostenibile e fruibile oggi, con l’uso di materiali biocompatibili, con tecniche innovative per l’approvvigionamento energetico, come l’uso di infissi a taglio termico in legno, di serpentine riscaldanti sotto il coccio pesto alimentate da una pompa di calore, mantenendo gli interni con la loro configurazione, fatta di volte a botte, nicchie, sporgenze, camini inseriti nello spessore delle pareti.
Il tentativo, insomma, è stato quello di mostrare anche alla popolazione locale, alle autorità che legiferano, alle Belle Arti che pontificano, come arrivare, attraverso un restauro conservativo, a migliorare la già vasta (intellighenzia) di queste strutture, in un passaggio ambizioso che dal “dolore” portasse al “piacere”, in questa miriade di Genius Loci presenti nel territorio”, affondati tra gli Ulivi sgargianti e maestosi…i terreni coltivati e gli orti..grondanti di prodotti…e di bontà.

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SALENTO. 
LE PIETREFITTE

 

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Così scriveva Seneca in una lettera all’amico Lucilio (frase tratta da “Le Meraviglia dell’Architettura Spontanea” di Bernard Rudofsky). Evidentemente, con acuto senso del paradosso, Seneca scriveva riferendosi a quella fase pre-storica in cui le esigenze primarie e l’uso di materiali locali (pietra) spingevano l’uomo, dopo una lunga fase nomadica, a stabilizzare la propria esistenza, diventando “costruttori” casuali, espandendo le loro già acquisite capacità artigianali e manifatturiere. Era una casualità relativa, perché, invece di costruire siti legati ad una logica economica espansionista, seguivano le antiche leggi della natura, legate ai cicli delle stagioni, dalla semina ai raccolti, all’accumulo di riserve alimentari per le stagioni difficili ed improduttive.

L’uso della pietra, quasi sempre locale, trovava una simbiosi con il fluire di un arcaico rapporto “religioso-emozionale” rappresentato dai simboli astrali, appartenenti al mito, e le raffigurazioni geometriche in terra,

quali Menhir, Dolmen, cripte votive con gigantesche coperture in lastroni di pietra e Tombe dei Giganti, con preziose geometrie ricurve e piccoli archi aperti, ritagliati dove le pietre toccavano terra (pietrefitte), ad evidenziare il rapporto con il cielo dell’anima del defunto (il KA-BA ). L’Area del Mediterraneo era un gigantesco crogiolo di civiltà diverse che interagivano tra di loro come i semi delle piante trasportate dai venti. E così in Sardegna, nella Tomba dei Giganti, appare evidente l’influenza dell’antico Egitto (KA-BA), così nelle antiche mura megalitiche dei Messapi di Puglia – antichi abitanti del Salento – con i tagli delle pietre puliti e precisi, ritroviamo influenze forse pre-celtiche (Stonehenge), che dalle aree del Maelstroem, il grande gorgo nel Nord…..giù, giù…attraverso Corsica e Sardegna, scivolavano nel Mediterraneo. Cosicché, da un lontano miscuglio Mito-Storia, il racconto delle pietre, come interfaccia nel dialogo cielo-terra, si compiva.
Qui, in Salento, i prodi Messapi dall’area di Manduria, nel nord del Salento, fin giù a Leuca, occuparono stabilmente e civilizzarono quasi tutte quelle terre, così in Sardegna e Corsica le culture nuragiche progredivano, fino alla costruzione di grandi insediamenti urbani, come sa Barumini, di inni architettonici dedicati alle preziose acque, le Fonti Sacre. Un’unica visione cosmica si affacciava nel Mediterraneo. In quella Valle Messapica, a ridosso di Leuca, il detto di Seneca, con cui inizia questo articolo, diventava “Fatto”.

I Contadini-Guerrieri, su quel letto di pietra che è il Salento, realizzarono quell’architettura “pre–storica” caduta quasi nel dimenticatoio, con somma creatività, immaginazione, capacità geometriche e riferimenti geografici, assi e rapporti cosmici, in uno splendido Feng-Shui messapico.
Furono architetti eccellenti e le loro capacità progettuali ed artistiche non furono disattese dai loro eredi, fino a quasi la soglia dei giorni nostri.

Un Miracolo? Usando ancora i materiali dei loro terreni, stratificazioni di pietre che da morbide tufacee diventano dure – il capraio – realizzarono, con tecniche antiche, fascinose costruzioni (Pagliare), masserie contadine, depositi per i raccolti, complessi ed articolati muri di cinta con massi giganteschi, tagliati e levigati, in un continuo variare di tipologie, forni, muri a secco dovunque, ed osservando le architetture dei proprietari terrieri si lanciarono nelle volte a stella, a botte, architravi sagomate, archi in pietra e colonne.
In una di queste masserie contadine del basso Salento ora vi abito io con mia moglie Tamara, da circa un anno, liberatici parzialmente di quell’ingombrante peso tra la “La Grande Bellezza”… e “La Totale Inefficienza”… che oggi rappresenta Roma…(vi sono nato…è da sempre nella mia mobile vita di architetto, la base di lancio per tante avventure in molteplici direzioni).
Con l’aiuto di Vito de Giovanni (che ci ha trovato la Masseria), dell’Impresa di Stefano Russo, erede delle “conoscenze” strutturali, e soprattutto dell’architetto Luigi Nicolardi, per almeno 10 anni sindaco di Alessano, abbiamo realizzato un restauro conservativo di una di queste architetture contadine, dove le pietre stesse raccontano, una ad una, la difficoltà degli scavi, della posa in opera, della costruzione delle volte, del coccio pesto a terra e così via, testimoniando in modo didascalico e “rosselliniano”, se posso dire, il progredire del loro tempo, dei loro usi e costumi.

Erano tempi duri ed i figli dei primi costruttori e gli attuali nipoti e pronipoti le hanno chiamate le case del “dolore”.
La vita ed i raccolti erano duri e faticosi.

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Luigi Nicolardi

I “LUOGHI DELL’IDENTITÀ SALENTINA”

 

PALMIRA. LA SPOSA DEL DESERTO di Paola Pariset – Numero 5 – Luglio 2016

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Gli-Occhi

parlavano più delle parole – in un grande archeologo come lui, avvezzo alla pacata e fruttuosa ricerca degli scavi, che nei decenni resuscitarono Ebla, la sua biblioteca, i tesori fascinosi dell’antica Mesopotamia – a proposito della drammatica distruzione di resti intangibili di Nimrud e di Palmira, nell’incontro del 15 febbraio “Il Tempio distrutto. Una questione cosmopolitica”, all’Istituto Svizzero di Roma, in via Ludovisi.

Gli occhi specchio dell’anima di Paolo Matthiae tradivano l’immanità della tragedia e della barbarie di oggi, in cui le opere d’arte sono divenute – come, in tanti altri casi, il corpo brutalizzato delle spose, delle madri, delle sorelle – oggetto di ricatto e mercanzia bellica, che brucia al militare più delle proprie ferite e della propria morte.

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PALMIRA.

LA SPOSA

DEL DESERTO

 

Paola-Pariset

 E basterà ricordare (ma mai nessuno dimenticherà) la fiera resistenza dell’ottantaduenne direttore del Museo Archeologico di Palmira, Khaled Asaad, che, per non rivelare i luoghi di collocazione protetta dei reperti museali, ha subìto tortura e atroce decapitazione nell’agosto 2015, per mano dell’ISIS. Perciò, dinanzi a questo regresso della civiltà, il direttore dei Musei Vaticani Antonio Paolucci, in occasione dell’intervista alla SIAE per la sua firma su “Unite for Heritage” e la presentazione dei Caschi Blu della Cultura, il 16 febbraio scorso affermò: “Sarò qui…

credo che ogni operazione fatta per la cultura abbia in sé una valenza pacifica, anche se i cani della guerra sono più forti di qualsiasi buona intenzione”.

Infatti nessuna costruzione a volta o a cupola qui tradisce la monumentalità dell’estetica imperiale romana: ovunque, nella rettilinea via colonnata simile a quella di Damasco, nel Teatro Romano di impianto ellenistico col favoloso proscenio a edicole, nel Tempio di Baal di tipo ionico-corinzio, trionfano la limpida geometria, il rapporto delle perpendicolari, la rettilineità ellenica. Su questo olimpico universo interferirono nel secolo III dopo Cristo il mondo partico, sassanide, iranico, coi loro simbolismi astratti e metafisici, appartenenti alla religione di Ahura Mazda: le coeve sculture funerarie palmirene, di livello artistico molto alto, palesano questo impossibile eppure realizzato connubio. Fu questo il periodo in cui prosperò il potente Regno di Palmira, retto dalla ricchissima e bellissima regina Zenobia, che osò muovere contro Roma proprio dopo la terribile disfatta dell’esercito dell’imperatore Valeriano da parte del sassanide Shapur I a Edessa, nel 270: ma solo l’imperatore Aureliano sconfisse e catturò Zenobia in fuga sull’Eufrate, conducendola a Roma per il proprio trionfo, stretta in catene d’oro, come il quadro tardoromantico di Herbest Schmalz testimonia, con immaginaria fedeltà. Sappiamo che anche Diocleziano e Giustiniano misero mano a fortificazioni della città di Palmira, che restò base militare romana e poi bizantina, prima di venire definitivamente abbandonata.

Paolo Matthiae ricordava, e dinanzi ai suoi occhi scorrevano i decenni serviti a riportare alla luce antichissime città e i pochi minuti per seppellire il Tempio di Baal e l’intero santuario di Baalshamin a Palmira, nella polvere di un’enorme e letale esplosione. Palmira, la Sposa del Deserto: il suo manto nuziale non è candido, è color sabbia, e tale è rimasto dall’origine dell’umanità, da quando essa iniziò ad accogliere le infinite carovane in sosta, lungo il viaggio tra Occidente e Oriente, per lo scambio di mercanzie, stoffe seriche, spezie.

Palmira era l’oasi fresca delle palme che le diedero il nome, fresca per la sete di centinaia di migliaia di uomini, in lento cammino.

Oggi essa vive di ricchezze archeologiche, perpetuanti fra le sue sabbie desertiche lo splendore della Grecia antica, anche se nella storia precristiana di Palmira rientrano le mitiche fortificazioni di Salomone, di cui nessuno conosce le fondamenta. Quando essa fu raggiunta dall’espansionismo romano, divenne provincia orientale di Roma, pur mantenendo l’autonomia che già possedeva nel periodo ellenistico seleucide.

All’imperatore Adriano, profondamente cólto, che dal mitico centro mediorientale rimase affascinato, risalgono quasi tutti i reperti archeologici monumentali di Palmira giunti fino a noi, che recano il segno del di lui amore per la Grecità classica ed ellenistica.

Un fascino unico promana da queste inclite mura, che ascendono come fiori dalle sabbie desertiche, del cui colore si ammantano: qui ebbe luogo la fusione culturale fra Est e Ovest, fra il mondo classico greco e quello bizantino e medievale.

Perché questo fu il ruolo storico di Palmira. Ma essa dal 2015 non è più come prima. Gli scempi perpetrati dall’Isis hanno sollevato lo sdegno mondiale, ma non hanno fermato il Califfato. Ed allora gli occhi smarriti del professor Matthiae si sono armati di nuova energia: e la sua opera si indirizza – come quella dei suoi colleghi internazionali e dell’ICCROM – a sostenere l’operato di chi vigila sui beni rimasti in situ, dai livelli direttivi all’usciere, visto che, nel frattempo, altri 15 custodi e funzionari sono rimasti uccisi per difendere il patrimonio artistico e il loro ruolo non si svolge affatto nella sicurezza. “L’ICCROM – afferma il direttore Stefano De Caro – è figlia delle distruzioni, ma si sa bene che la soluzione è il dialogo, anche coi Talebani. Intanto, teniamo corsi di preparazione alla guerra, al pronto-soccorso dell’arte, ad impacchettare i monumenti”. Matthiae, dall’alto dei suoi 76 anni, ha compreso che a ciò conduce “l’odio dell’altro”, come ai tempi di Costantino e Teodosio, ma anche della Francia di Luigi XVI (pochissime le statue di lui rimaste), e non finisce qui.

Questo, dunque, non è più il momento di nuovi scavi, della conquista di nuove conoscenze, ma quello pratico della salvaguardia, delle ricostruzioni

con criteri filologici o meno, per mettere infine i popoli – dice ancora Matthiae – “in condizione di fare da sé, di gestirsi da sé. E non sotto tirannide”.

 

I “LUOGHI DELL’IDENTITÀ SALENTINA” di Luigi Nicolardi – Numero 5 – Luglio 2016

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Se solo volessimo immaginare quale fosse l’immagine del paesaggio salentino anche solo agli inizi del secolo scorso, molto probabilmente dovremmo pensare una grande distesa di banco roccioso che costituiva la crosta terrestre. Ancora oggi, basta fare una passeggiata nella campagna, ormai abbandonata, per rendersi conto della enorme quantità di pietre che vi sono depositate. Ovunque intorno si vedono pietre. La maggior parte sotto forma di muretti a secco che delimitano le proprietà, definiscono confini, disegnano terrazzamenti; oppure sotto forma di ricoveri temporanei, fabbricati monocellulari pajare, lamie, caseddhe, furneddhi, ancora ammucchiate l’una sull’altra a costituire enormi “specchie”, o come imponenti blocchi monolitici, dolmen e menhir.

 

I “LUOGHI DELL’IDENTITÀ SALENTINA”

 

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La pietra, dunque, domina incontrastata il paesaggio salentino. Pietre mute all’apparenza, ma, per chi le sa ascoltare, parlano e raccontano storie di dolore, di sacrifici e di sofferenze di intere generazioni

impegnate a strappare alla dura crosta porzioni sempre più ampie di territorio da destinare dapprima ai coltivi e poi alla propria residenza.
Lo aveva intuito bene Maria Brandon Albini, quando nel 1959, nel suo “Viaggio nel Salento”, così si esprimeva: “la campagna svela subito la sua struttura di altopiano leggermente digradante verso il mare che lo cinge da tre lati; ossatura antica, petrosa, bianca, sulla quale è posato un sottile strato di terra, trenta centimetri circa, rossa e argillosa.

Lo scheletro della penisola salentina par quello di un mammuth pietrificato, che si scuota di dosso la terra che le piogge d’autunno o il badile del contadino tentano di buttargli addosso. La lotta millenaria del contadino contro la natura è scritta, a ogni passo…”.

Maria Brabdon Albini, prima ancora di Ernesto De Martino con la sua “Terra del Rimorso”, ci restituisce, fissandola in una sorta di grande dagherrotipo, l’ultima immagine di una civiltà contadina che non era ancora stata toccata dalla modernità; ormai ridotta allo stremo, provata e privata da lunghi secoli di soprusi e di sfruttamento; tutta arroccata su se stessa, sui suoi riti e sulle sue tradizioni, sui suoi miti e sulle sue leggende; scavata nei volti e nell’animo delle sue genti, che fondava la propria esistenza sui principi di solidarietà, di accoglienza, di tolleranza e di condivisione tra le genti. Una civiltà che fondava la propria esistenza sui principi di solidarietà, di accoglienza, di tolleranza e di condivisione tra le persone e sul mito dell’autosufficienza famigliare, incentrato sul rapporto utilitaristico con la natura, che le consentiva di non estinguersi e al tempo stesso di superare le avversità.
Lo studio dell’Antropologa rappresenta l’inizio della fine della civiltà contadina; da quel momento in poi, la storia non sarà più la stessa, il Salento viene aggredito dalla modernità. Gli anni che seguiranno saranno caratterizzati in particolar modo dal progressivo abbandono della campagna da parte dei “popliti” che, fino ad allora, l’avevano vissuta secondo due modalità: da un lato, l’emigrazione verso il nord Italia e verso il nord Europa; dall’altro, lo spostamento di quelli rimasti nei piccoli paesi, alla ricerca di maggiori comodità e di una vita più consona per sé e per i propri figli, che la campagna non era più in grado di offrire perché incapace di produrre reddito.

Sul finire degli anni ottanta, quella civiltà contadina – con i suoi riti, i suoi miti, le sue credenze, le sue superstizioni, le sue tradizioni che erano alla base dello studio della Brandon Albini – era quasi del tutto scomparsa.

Quel mondo arcaico fatto di panare, lamie, furneddhi, pozzi e pozzelle, dolmen e menhir, muretti a secco, masserie, di licurda, di cicidi e tria, di acqua e sale, di ficandò, di diavulicchi e di municeddhi, di Santi, di tarantate e di pizzicate si era completamente dissolto come neve al sole nel giro di due decenni.
La scomparsa della civiltà contadina aveva lasciato dietro di sé “innumerevoli segni”, scolpiti nella pietra, che nel corso di secoli si erano depositati sul territorio e che i nostri padri e le nostre madri avevano in fretta e furia abbandonato perché considerati “i luoghi del dolore e della sofferenza”.

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Passeggiare nella campagna salentina abbandonata vuol dire ripercorrere quella “civiltà di pietra” così tenacemente radicata in quel sottile strato di argilla, fare i conti con questo recente passato.

Dopo secoli di soprusi, di sofferenze, di delusioni, quei “luoghi del dolore” sono diventati il simbolo di una rinascita culturale dell’identità salentina. Per una sorta di nemesi storica la nuova identità salentina si fonda proprio sulla riconoscibilità di quei caratteri che per secoli hanno rappresentato la subalternità. E’ bastato scrostare appena la polvere che ricopriva quel recente passato per scoprire che sotto c’era il fuoco ardente della passione di un popolo che aveva tanta voglia di rinascere.

Il veleno della taranta, che pure aveva alimentato tante storie, tante illusioni, tante paure, tante credenze popolari custodite gelosamente dentro le mura domestiche, ritorna a scorrere ancora dentro le nostre vene e dentro le vene dei nostri padri;

solo che, questa volta, non provoca più convulsioni, ma la gioia di un popolo che – liberatosi dalle catene della storia che, per secoli, l’avevano tenuto relegato ai margini delle vie dello sviluppo – non ha più paura del proprio passato.
Tuttavia, se, da un lato, tutta questa attenzione al passato ha consentito il recupero di una memoria che rischiava di perdersi; dall’altro, ha provocato una frattura tra presente e futuro.
Oggi le condizioni sono cambiate: ai tempi di internet non è più necessario affidare alle ali di una rondine il canto d’amore per l’innamorato/a nella campagna abbandonata al suo inesorabile declino, la taranta non morde più i piedi scalzi delle contadine costringendole a lunghe ed estenuanti danze di guarigione. Di ben altri antidoti ha bisogno la società contemporanea per curare i suoi mali: non basta più ballare fino allo sfinimento per liberarsi dalle tossine. Ben altri veleni la affliggono, ma, ancora una volta, sicuramente il più mortale di tutti è quello della perdita della memoria. Questo presente, ancora una volta è incapace di prefigurare un futuro, ma sta prendendo le distanze dal suo passato. I “luoghi dell’identità salentina” stanno diventando “non luoghi”, sacrificati come sono alle regole del mercato capitalistico che li svuota dei propri significati. Oggi, la campagna, lungi dall’essere il luogo del lavoro e dell’incontro di un popolo, sta diventando sempre di più un “luogo dell’eterotopia”, sempre più avulso dal contesto sociale, dove si va solo per trascorrere brevi periodi di riposo senza più nessun rapporto con essa.

Oggi più che mai occorre impegnarsi per continuare a tenere unito quel filo rosso che lega il passato al futuro; non più solo per esorcizzare il veleno del ragno, ma per continuare a esorcizzare i nuovi veleni che la società contemporanea ci propina

quotidianamente, che sono legati alla incapacità di accoglienza nei confronti dei migranti, allo sfruttamento del lavoro nero e clandestino, alla perdita del lavoro e al progressivo impoverimento di una parte cospicua della popolazione; al nuovo senso di estraniamento che ha colpito il ceto medio della nuova società capitalistica.

La campagna deve tornare ad essere il luogo entro cui depositare i nuovi progetti della trasformazione urbana con un occhio al passato, ma con lo sguardo dritto verso il futuro.

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Giusto Puri Purini

SALENTO. LE PIETREFITTE