PASQUALE SCURA – Di Michele Minisci – Numero 8 – Luglio 2017

cat-storia
cat-sud

PASQUALE SCURA,

 

Un Arbëresh protagonista del Risorgimento Italiano

 

michele_minisci_tit
pasquale_scura
il_popolo_vuole

Erano queste le chiare ed inequivocabili parole che chiamavano il popolo delle provincie continentali dell’Italia meridionale al plebiscito indetto l’8 ottobre 1860 per l’unificazione col resto d’Italia.

Parole coniate dal Guardasigilli Pasquale Scura e verbalizzate da lui stesso nel decreto che promulgava il plebiscito promosso da Vittorio Emanuele e dal Dittatore dell’Italia Meridionale, Giuseppe Garibaldi, controfirmato dal Prodittatore Giorgio Pallavicino Trivulzio, dal Segretario Di Stato degli affari esteri Francesco Crispi, da Luigi Giura – ministro dei lavori pubblici, da Amilcare Anguissola – ministro della guerra, da Raffaele Conforti – ministro dell’interno e dallo stesso Pasquale Scura, nella veste di ministro di grazia e giustizia.

 

Un personaggio, quindi, di primo piano nella storia del Risorgimento italiano, Pasquale Scura, nato nel piccolo paesino calabrese di Vaccarizzo Albanese, di origini arbëresh – gli albanesi arrivati in Italia 

a metà del ‘500-, e morto a Napoli il 12 gennaio del 1868.

 

E nel 150° anniversario della sua morte, a gennaio del 2018, il piccolo Comune arbëresh vuole rendere omaggio al suo illustre concittadino con tutta una serie di eventi politici e culturali, con il coinvolgimento dell’Università della Calabria, della Regione, del Ministero di Grazia e Giustizia e quello dei Beni Culturali, nonché di noti personaggi della cultura e di studiosi della storia d’Italia come Paolo Mieli e Stefano Rodotà, quest’ultimo proprio di origini arbëresh.

 

Un evento che vuole essere non solo testimonianza ma soprattutto analisi degli ideali e della cultura liberale che disegnava l’Unità d’Italia, magari anche in senso federalista, plurale, ma unita, come sognava il Cattaneo e non solo.

 

Un personaggio illustre, lo Scura, la cui conoscenza è oggi favorita dagli studi e dalle ricerche compiute da studiosi come Francesco Perri (autore di un volume a lui dedicato di 447 pagine) o Vincenzo Librandi, entrambi nativi di Vaccarizzo Albanese, i quali, avendo fatto luce su quelle parti della sua biografia che sono rimaste in disparte, trascurate o ignorate, hanno contribuito a ricomporre questa figura nella sua pienezza e complessità. 

 

Queste celebrazioni su Pasquale Scura possono e devono essere lette nelle sue variegate modulazioni, senza enfasi, dopo aver ricordato certamente le grandi speranze di una vera unità d’Italia, ma con compiutezza e severità, inquadrandole oggi anche nell’annosa “questione meridionale”, perché i difficili tempi che stiamo vivendo lo richiedono con forza. E vogliono in un certo qual modo riparare al torto subìto dalla figura dell’illustre personaggio. 

 

Ciò che accade molto spesso è che non sempre c’è chi mette in evidenza i meriti di personaggi importanti e spesso determinanti nella storia di una nazione, di un popolo. “Ma specialmente nell’ottica di quell’arduo progresso attuativo del nostro Mezzogiorno – come ci suggerisce il professore Pietro de Leo, ordinario di storia medioevale presso l’Università della Calabria – non semplice e facile, atteso che ancora oggi è plausibile chiedersi se Cristo sia ancora fermo sui binari…a Eboli o presso la contigua autostrada”.

 

 

 

 

 

 

simbolo1

 

UN GIGANTE DI PIETRA – IL CASTELLO DI CORIGLIANO D’OTRANTO di Gianluca Anglana – Numero 8 – Luglio 2017

Castello di Corigliano
cat-arte
cat-storia

UN GIGANTE DI PIETRA

 

Gianluca-Anglana
il_castello_di_corigliano

«È il vento», disse Matilda, «che sibila tra i merli della torre lassù: l’hai udito migliaia di volte»

Quando, nel 1764, consegnò alle stampe Il Castello di Otranto, dando così avvio alla fortunata stagione letteraria del romanzo gotico, Horace Walpole immaginò anche sulle residenze fortificate del Meridione italiano la coltre di oscure atmosfere tipica dei manieri inglesi.

 

In realtà, i numerosi castelli piantati qua e là come enormi bulloni sulle pianure salentine hanno assai poco a che fare con l’estetica un po’ dark dei territori di Sua Maestà. Essi sono giganti di pietra, immersi nella luce del Mezzogiorno, piuttosto che trappole di sassi, ove vagano gli spettri di vegliardi o di monache sanguinolente[1]. Tra tutte queste fortezze, spicca, per fascino e grandiosità, una in particolare: quella di Corigliano d’Otranto. Le origini di questo borgo sono molto antiche e tuttora dibattute. Di certo Corigliano, forse messapica di nascita, fu risucchiata nell’orbita della Magna Grecia, per non uscirne di fatto mai più:

 

Corigliano è tuttora grika. È parte della cosiddetta Grecìa Salentina ovvero di un territorio il cui linguaggio tradisce una inequivocabile connotazione ellenofona.

 

Lo stesso toponimo sembra derivare dal vocabolo “χωρίον”, che significa podere. E in effetti, nel corso del Medioevo, Corigliano fu un casale. Nel suo passato remoto, il Salento era un coacervo di casali, cioè gruppi isolati di case rurali sparpagliati un po’ ovunque. Solo più tardi questi aggregati abitativi mutarono pelle, irrobustendosi in paesi e centri più o meno grandi e, in alcuni casi, incastellandosi[2]. Le cause, che innescarono il processo storico di mutazione del tessuto socio-urbanistico, furono molteplici e di variegata natura, in particolare strategico-militare, economica e soprattutto politica. Ad una prima epoca, basata sul sistema della proprietà fondiaria o della curtis (unità produttiva fondata su un intreccio di rapporti sociali e politico-giuridici, facenti capo alla nobiltà laica o alla gerarchia ecclesiastica), ne seguì una seconda, denominata signorile. La cerniera tra queste due fasi si situerebbe intorno all’Anno Mille[3].

 
 La signoria feudale «raggruppa in castelli e villaggi una popolazione il cui capo – il Signore – riunisce nella sua persona funzioni di direzione economica dei contadini (…) e poteri di comando»[4]

Con il concentramento delle popolazioni in villaggi e paesi, i Signori – che si erano gradatamente impossessati di territori più o meno vasti – avrebbero avuto maggiore facilità vuoi nel controllo dei laboratores vuoi nell’esercizio del loro potere sul contado. Dal X secolo in avanti, l’Occidente europeo conobbe una stagione d’impetuosa fioritura economica, soprattutto in ambito rurale[5]. Questa lunga fase di congiuntura favorevole vide in Corellianum un indubbio protagonista, in grado non solo di imporre la propria leadership su tutta l’area circostante, ma persino di rivaleggiare con la stessa Otranto nella competizione per il ruolo di traino economico locale. Nel 1465 l’intero feudo coriglianese venne ceduto alla Famiglia dei Monti. Proveniente da Capua, il clan dei Monti giunse in Italia al seguito degli Angiò: anch’esso seppe esprimere, com’era d’uso allora tra le dinastie più blasonate, i suoi capitani coraggiosi, illustri uomini d’arme messi a servizio di questa o quella signoria italiana e spediti a combattere sui campi di battaglia di mezza Europa. Francesco de’ Monti, come diremmo noi oggi, seppe farsi notare: divenne uno dei condottieri più fidati della corona aragonese «che lo utilizzò come ambasciatore in Ungheria (…), in Germania (…) e presso la corte pontificia»[6].   Francesco fu anche ospite nel celebre castello milanese di Ludovico Sforza, presso il quale era stato inviato nel 1498 nel quadro di una complessa missione diplomatica[7]. Si distinse per ardimento durante gli scontri con la potenza turca. Nel 1480, Otranto era stata espugnata dalle forze di Maometto II. La città era così divenuta un nido di vipere, un avamposto da cui scatenare razzie e terrore nell’entroterra: nel Febbraio del 1481, assieme a Galatina e a Soleto, anche Corigliano fu saccheggiata dagli invasori. Fu proprio durante una di queste aspre battaglie che Francesco venne fatto prigioniero e ridotto in schiavitù, per poi riscattarsi tempo dopo[8].

 

Si devono proprio a lui la risistemazione e l’ammodernamento del castello medievale, «il più bel monumento di architettura militare

e feudale in Terra d’Otranto ed (…) il modello più compiuto
del trapasso dalle torri quadre a quelle rotonde»[9].


Le torri, a base scarpata e a tre livelli di fuoco, sono dedicate a quattro Santi e ingentilite dalla raffigurazione allegorica delle virtù cardinali: Michele Arcangelo e la Fortezza; Antonio Abate e la Temperanza; Giorgio e la Prudenza; Giovanni Battista e la Giustizia. Il cortile interno è semplice e austero. Il fossato è ancora esistente. Il corpo centrale e più antico è riconoscibile per la presenza di beccatelli e merlature. Del parco marchesale, un tempo assai esteso, non restano che poche tracce: la sua vegetazione doveva però apparire lussureggiante se, nel 1525, stregò l’umanista bolognese Leandro Alberti. Nella sua Descrittione di tutta l’Italia[10], costui annota che, durante la sua visita a Corigliano, fu condotto da Giovanbattista de’ Monti, figlio di Francesco, nel «giardino, molto vago e bello, pieno di cedroni, aranci e d’altri alberi fruttevoli»[11]: ad accogliere lui e il suo compagno di viaggio, con il loro Signore, «molti nobili huomini a cavallo molto ben vestiti»[12] e i suoi due figliuoli «altrimenti addobbati, et parimente i cavalli, da quel che avanti erano».

 

Quando la famiglia de’ Monti si estinse, Corigliano divenne proprietà di un’altra casata, cioè i Trani, signori di Tutino (oggi un rione di Tricase). Costoro decisero di trasformare la rocca in dimora gentilizia e di intervenire soprattutto in facciata. Realizzata nel 1667 sotto
la direzione del mastro coriglianese Francesco Manuli[13],

 

essa riporta un balcone con decorazioni barocche: doveva essere una sorta di manifesto, una dichiarazione di fedeltà alla corona spagnola. Così venne abbellita da una rassegna di busti dedicati a personalità che contribuirono a fare grande la Spagna (tra loro si ammira anche un ritratto di Cristoforo Colombo).

 

Nei giorni nostri, Corigliano si è riappropriata del posto che le spetta e che dopo tutto ha sempre avuto: quello di riferimento cui guardare in un’ottica, a lunga gittata, di sviluppo del territorio.

 

Oggi il Castello, che è scrigno e tesoro al tempo stesso, è un luogo di aggregazione e sperimentazione. È un centro propulsore del sapere: oltre a custodire una biblioteca, ospita manifestazioni
culturali, mostre, concerti e spettacoli teatrali.


Ma è quando si abbassano le luci, quando le stelle tornano a spiare la terra dal davanzale dell’universo e la notte stende il suo manto di velluto sopra i sogni degli uomini, è solo allora che, nel buio, il gigante sospira e riaccende le sue pietre pallide al chiarore degli astri. E quando la luna soffia il suo lucore tra i rami degli alberi, tramutandoli in ricami neri; quando l’eco delle ultime voci si è ormai sbriciolata come uno sciame di scintille e si ode solo il ronzio degli insetti, è solo allora che, nel giardino muto vecchio di secoli, le sagome scure delle piante tornano a mormorare nel vento come fantasmi e a reclamare ancora il ruolo di testimoni di questa storia antica. 

 

E nell’aria lieve della sera, sotto la cupola delle costellazioni, si può indovinare appena, nel silenzio, il fulgore di quelle ricchezze
che tanto abbagliarono i visitatori venuti da lontano.


«In the hanging garden please don’t speak. In the hanging garden no one sleeps»[14]

 

 

simbolo-onde-blu

 [1] Gli spiriti di Alfonso ne Il Castello di Otranto di Horace Walpole e di Beatrice de las Cisternas, la Monaca Sanguinante, ne Il Monaco di Matthew G. Lewis.

[2] Cfr. Raffaele Licinio, Castelli medievali, Ed. Dedalo (1994), p. 30 e, sul web, http://www.perieghesis.it/casali.htm.

[3] Jacques Le Goff, Il Medioevo, Ed. Laterza (1996), p. 27.

[4] Jacques Le Goff, Il Medioevo, Ed. Laterza (1996), p. 28.

[5] Jacques Le Goff, Il Medioevo, Ed. Laterza (1996), p. 59.

[6] Mario Cazzato, Guida ai Castelli Pugliesi – 1. La provincia di Lecce, Congedo Editore (1997), p. 58.

[7] Dizionario biografico Treccani, www.treccani.it.

[8] Mario Cazzato, Guida ai Castelli Pugliesi – 1. La provincia di Lecce, Congedo Editore (1997), p. 58 (il Cazzato lascia intendere che, proprio a seguito di questi eventi, Francesco si accattivò i favori dei Sovrani aragonesi di Napoli).

[9] Mario Cazzato, Guida ai Castelli Pugliesi – 1. La provincia di Lecce, Congedo Editore, p. 60. Quelle qui riprese sono parole di G. Basile di Castiglione.

[10] Si tratta di un’opera che l’Alberti scrisse dopo aver percorso l’Italia intera e che egli dedicò ai sovrani francesi Enrico II e Caterina de’ Medici.

[11] Leandro Alberti, Descrittione di tutta l’Italia (1568), p. 406.

[12] Leandro Alberti, Descrittione di tutta l’Italia (1568), p. 405.[

13] Mario Cazzato, Guida ai Castelli Pugliesi – 1. La provincia di Lecce, Congedo Editore, p. 60.

[14] The Cure, The hanging garden, 1982, Fiction Records.

 

SALENTO ARCHITECTURES – THE DEFENSE TOWERS by Giusto Puri Purini – Numero 7 – Aprile 2017

cat-arte
cat-storia
Giusto-Puro-Purini-storia
simbolo1

SALENTO ARCHITECTURES: THE DEFENSE TOWERS

 

Santa Sophia became the “Great Mosque” and a new, great, cultured and aggressive superpower emerged from the Eastern Mediterranean, and quickly came into conflict with the Republic of Venice that, until then, had freely sailed from the Adriatic Sea to the Aegean Sea, with its merchant flows and countless placements and dominions, from Dalmatia to Asia Minor and beyond.Puglia became a strategic knot for Ottoman raids and, despite the occupation of the peninsula in 1484 by the Venetians (that arrived in Taviano), the latter could no longer bend their impetus.Algerian Khaided-Din (called Barbarossa), in 1537, destroyed Castro and Marittima and, on the ionic side, the ancient Ugento.The defense system of Puglia, and in particular of Salento, was unprepared and precarious; between works dating back to the ancient Romans, then to the Byzantines (to defend themselves from the Longobards and Aragoneses), built in the previous centuries in the form of fortified towers and fortified farms, it was no longer up to the task.At this point, in the European context, the fierce conflict between Francis I King of France and Charles V of Spain came to favor the latter and led him to govern a large part of Europe.

The history of Salento is dotted with a myriad of invasions: at first, by populations who became stationary, such as the Messapi and the Japigi; then by the Greeks; Incursions of Saracen pirates, attacks and looting, up to the great danger of the Ottomans which, among other things, cherished in the idea of reuniting the Roman Empire of the East with Rome. It was therefore under the Empire of Charles V that in 1532 the Viceroy of the Kingdom of Naples, Pietro de Toledo, promoted an impressive and strategic first line of defense along the Adriatic and Ionian coasts of Puglia, with the vast promontory extended in the heart of the Mediterranean. As a defense system urbanist he made a project where every tower could see and report dangers to the next one. Horns and bells, or visual alarms such as smoke (in daylight) and fire (at night) were used as an alarm. A second line of defense were the fortified farmhouses and, more inward, imponent castles, among which the Acaya one still stands out today. The ordinance of the Viceroy was strengthened in 1563 by the decree of Don Pedro Afan de Ribera.

This Italy, stretched and bathed by the waters almost everywhere in its circumnavigation, “offered” and acted as attraction and magnet for other populations.

The biblical exodus that millions of people carry out daily in recent years, puts in motion old grudges, fears and imbalances, and there is the need for a new conscience that will bring the great States (colonisers) to develop jobs and margins for a potential growth in the original places, in order to bring our Mediterranean back to being, as it was, a place for merchants, economic-financial exchanges, culture, religion, thought and work.

In 1529, after other conflicts and finally an agreement with Pope Clement VII, Charles V received the recognition of his “sought-after” possessions in Italy, among which the Kingdom of Naples, that included the beloved Puglia (where, morover, he never arrived).

The cost of this endeavour had become so high that, through competition announcements, titles were awarded to those who were willing to build towers, assigning it the title of “Captain of Tower”, who, besides reporting raids and defending with cannons and archibugs, could also collect duties. Whoever did not pay was denied the “right” of defense.

The Towers were then also used to contrast smuggling, that was partially tollerated, to prevent abusive salt trade that was big in those times, given the poverty of peasant populations, and to intercept slave traffic. Those constructed by Charles V, made of regular tuff quarried stones, generally had square or circular planes, with a sloping base; inside there usuallt were 2 levels, and a covered terrace; slits and gratings completed the facade. The Towers were provided with an underground cistern to collect rainwater. In some cases, today, they belong to port authorities and are still efficient whilst many are just ruins (unfortunately) and others have been restored. As Mario Muscari Tomajoli says, “The building of Fortified Observation points has been reported since Plutarch (125-50 BC) and was also made by the Romans, whose trade was put into crisis by pirates until 67 BC, when the Gabinia law allowed Pompey to arm a fleet against ravagers and made the Mare Nostrum calm.”

But this defense system does not exist only in Puglia and in the lower Salento, but in all of Italy’s and many other coasts of the Mediterranean, and marks, as a punctuation in the maps, 

the relationship of love and fear that the great sea carried brought.

Italy’s primacy of civilization, history, fertility of nature and costume imposed the need for self-defense systems, and today 

these wonderful constructions, in the rhythmic flow 

of landscapes, become indelible signs of history.

Samsung foto 5220
The_disaster

 ITA | ENG | FR

 

PALERMO CAPITALE DELLA CULTURA di Ilaria Borletti Buitoni – Numero 7 – Aprile 2017

cat-cultura-1
cat-storia
cat-economia
_10517961_773752452647352_5436783679495188675_n

PALERMO CAPITALE DELLA CULTURA

 

urnbanistica

Nessuna strada o tratto del cammino umano è mai obbligato. Esistono sempre delle alternative. E se la politica riesce a fare il suo mestiere queste alternative le disegna per poi suggerirle per la scelta libera del popolo. Ciò vale anche in campo culturale. Per questo la vittoria di Palermo come Capitale Italiana della Cultura per il 2018 mi sembra molto significativa.

 

Palermo è stata certo premiata per la qualità informativa del dossier presentato al Ministero, per la significatività del progetto e per la sostenibilità del progetto stesso. Ed il riconoscimento di Capitale Italiana della Cultura è un riconoscimento alla capacità di progetto, 

e non solo alla città più bella o ricca di storia.

 

 

Un progetto che ha un fiore all’occhiello: Palermo ospiterà infatti nel 2018 MANIFESTA12, una fra le principale biennali di arte contemporanea su scala mondiale. “Nel 2018” ha dichiarato il sindaco di Palermo, Leoluca Orlando, “la nostra città sarà di fatto una capitale dell’arte contemporanea e la possibilità di abbinare le attività con quelle di Capitale Italiana della Cultura rappresenta una grande opportunità non solo per Palermo, ma per tutto il nostro Paese. La Capitale italiana potrà diventare un palcoscenico, facendo di quello che sarebbe un evento nazionale, un grande evento internazionale. La visibilità internazionale data da Manifesta sarà uno straordinario strumento per venire incontro alla volontà del Governo di diffondere il valore della cultura come volano per la coesione sociale, l’integrazione e lo sviluppo”.

 

Dunque non di sola bellezza parliamo. Palermo infatti non primeggia così tanto rispetto agli altri finalisti ­Alghero, Aquileia, Comacchio, Ercolano, Montebelluna, Recanati, Settimo Torinese, Trento e l’Unione comuni
elimo-ericini – e non solo Palermo meritava di vincere.

 

 

Lo ha spiegato del resto assai bene il Sindaco del capoluogo siciliano Leoluca Orlando quando, andando al microfono per ringraziare e dichiarare la propria gioia per la vittoria, ha subito “costretto” tutti gli altri sindaci a salire sul palco con lui, perché “questa è una vittoria di tutti”, e “nessuno può vincere da solo”.

 

 

Ma piuttosto Palermo ha vinto perché con Palermo vince e afferma la sua forza un modello di cultura che si è fondato nei secoli sulla capacità
di essere crocevia tra diverse civiltà, ­con un’impronta indelebile
lasciata da quella araba­ e diversi popoli, 

 

 

piuttosto che sulla capacità di erigere muri sempre più alti, come sembra purtroppo essere la moda odierna. Muri la cui altezza è direttamente proporzionale all’incapacità di stare nel mondo del territorio recintato. 

 

 

Palermo ci parla invece della forza e della vitalità che viene dal sapersi mescolare in spezie e pensieri, in tratti artistici e tratti somatici, 

in caratteri linguistici e musicali.

 

 

Questa capacità di attrazione ­- questa e non altro – è il vero segreto per una forte capacità di innovazione anche economica, come dimostra la resistenza che sta opponendo la Silicon Valley ai propositi isolazionisti del neo Presidente Trump. Su questo si è basato il segreto della prosperità di Palermo, da cui si è irraggiata la sua grande cultura e da cui, ­non a caso, è nata anche la nostra lingua italiana. Non appena anche a Palermo si sono cominciati ad erigere muri, essa ha cominciato a spengersi. Teniamolo a mente.

 

 

PalSolo cercando di governare i processi storici e vincendo paure
e superstizioni, una nazione può prosperare. E il mondo
diventare un po’ più sicuro. 

 

 Grazie Palermo.

 

 

 

 

 

 

simbolo-art-marr-pall
ilaria_borletti_buitoni
foto_tamara_triffez

 

QUANDO LA SICILIA INCONTRÒ D’ANNUNZIO di Franca Minnucci – Numero 7 – Aprile 2017

11305729_m

QUANDO LA SICILIA INCONTRÒ   D’ANNUNZIO

cat-storia
cat-cultura-1

A questa pubblicazione non era estraneo l’interessamento del poeta che aveva conosciuto il giovanissimo studente, all’epoca poco più che ventenne, e ne aveva avuto grande stima e ammirazione. Il poeta aveva trovato l’analisi dei suoi lavori geniale e particolarmente interessante; e forse è per questo che, terminato il suo furore creativo, finita la tragedia – La figlia di Iorio – nel bucolico soggiorno a Nettuno, il primo pensiero del poeta, in quei giorni di fine agosto, fu di invitare lo studente e proporgli la traduzione del dramma in siciliano. Ce lo racconta in un articolo sul Corriere della Sera lo stesso Borgese: “D’Annunzio, compiuta la tragedia pastorale, mi telegrafò ch’io andassi a visitarlo a Nettuno; e lì volai; lì, dov’era già de Karolis, fui suo ospite fra i lecci di Villa Borghese che Fausto Maria Martini chiama ampollosi; lo vidi la mattina cavalcare un cavallo scuro di nome Pertinace; e nel pomeriggio udii dalla sua voce d’araldo La Figlia di Jorio.

 

Era cosa fresca e bellissima, un Aminta davvero agreste, un melodramma tutto pieno di musica senza bisogno di strumenti musicali; a me parve  miracolosa; e meraviglioso dono mi parve l’invito del poeta a tradurre il poema per la compagnia siciliana di Grasso nel mio dialetto nativo,

 

 

e a dargli “la seconda vita”, come egli poi troppo benevolmente mi lodò di aver fatto dedicandomi il libro”. Il giovane siciliano si impegnò moltissimo nella traduzione e come dichiarò egli stesso: «stesi giù una Figghia di Joriu in un siciliano illustre e colto che ricalcava anche nei versi e nelle assonanze il testo originale». Le prove con la compagnia Grasso iniziarono a Roma nel maggio del 1904, sull’onda del successo che La figlia di Jorio stava avendo con la compagnia Talli, in tutti i teatri d’Italia, da quella prima memorabile al Lirico di Milano del 1° marzo, così raccontata da d’Annunzio: «Quando La figlia di Iorio andò in scena a Milano, io, ad inizio di spettacolo, mi allontanai dal teatro. Ero, al solito, sereno; e solo ero veramente curioso di vedere che avrebbe pensato del mio pastore mistico e allucinato e della mia fola abruzzese, tanto diversa, e dei suoi riti, il pubblico milanese, il pubblico della ricchezza e del lusso, dei salotti e dei teatri. Mi aspettavo burrasca. Come mi parve che il primo atto fosse per finire, consultai l’orologio e tornai in teatro. Entro in palcoscenico e vedo un attore con la testa insanguinata: era caduto, credo per epilessia e si era ferito alla fronte: era Talli. L’atto era, però, finito proprio all’ora. Oltre il sipario, nel pubblico un silenzio: un silenzio sepolcrale come una pausa. Pensai, mi chiesi rapidamente: non è piaciuto? E allora scoppiò un tuono, un applauso solo, impressionante».

 

 

   L’edizione siciliana della Figlia di Jorio andò in scena invece solo qualche          mese  dopo, al Costanzi di Roma. Era il 17 settembre. La prima lettura      sembra che si sia svolta sul palcoscenico dell’Adriano e le prove
furono molto laboriose; Giovanni Grasso e gli attori emozionati
fino alle lacrime, tanto che d’Annunzio dichiarò che non aveva mai visto interpreti intenerirsi tanto della loro parte ad una semplice lettura.

 

 

Erano infatti schierati i più grandi attori siciliani come Mimì Aguillia, Maiorana, Angelo Musco e tanti altri. D’Annunzio aveva una grande ammirazione per Grasso e non nascose mai un giudizio esaltante sulle sue capacità attoriali. Lo spettacolo, nonostante le tante difficoltà, parve a tutti bellissimo; il pittore Pietro Sassi aveva allestito straordinarie scene e l’introduzione del poeta Martoglio, sostenuto da una base musicale, aveva dato il via ad uno spettacolo – melos – intensamente vicino all’anima dell’Isola che fonde in un’armonia di suoni, di colori, di sapori, la dolcezza e la forza, la violenza e la delicatezza.

 

   Una traduzione dove i motivi popolari venivano cantati con dolcezza e     armonia e dove le nostre incanate erano diventate delle nenie ossessionanti
e violente e dove, ancora con un grande colpo di genio teatrale, si erano riportate integralmente le lamentazioni delle prefiche ancora in uso
nelle provincie di Catania e di Trapani.

 

 

D’Annunzio fu chiamato in proscenio tantissime volte e si trascinò sul palco un riluttante giovanissimo Borgese a ricevere i meritati applausi di un pubblico tra l’altro competente ed esigente: basti pensare che in platea erano seduti personaggi come Mascagni, Franchetti e lo stesso Edoardo Scarpetta, arrivato per l’occasione da Napoli. Grande merito, quello di Borgese, di aver risvegliato, attraverso le parole di d’Annunzio, quelle muse sicule che lo stesso Virgilio invocava e di aver ricondotto la lingua siciliana ai suoi fasti letterari più alti e nobili Questo “file rouge” che ci unisce alla Sicilia credo che dovrebbe essere più conosciuto e più amato sia dai concittadini abruzzesi che da quelli siciliani, perché solo attraverso queste comuni radici ed esperienze si può ritrovare il senso e il valore della nostra civiltà. E, come scriveva Eleonora Duse proprio da Palermo, ritrovare proprio nell’azzurro di quel mare, che è anche il nostro, la vita e l’amore.

di-Franca-Minnucci

Infatti il 1° e il 16 settembre 1903 sulla Nuova Antologia erano apparsi due articoli di un giovanissimo Giuseppe Antonio Borgese, dal titolo L’opera poetica di Gabriele d’Annunzio il primo, e Dal Canto Novo alla Laus vitae l’altro.

simbolo1

«Chi legge le “Laudi” vive nel centro di un cerchio al di là del quale non v’è che il dubbio e il nulla. Vive dunque in un capolavoro»

 Gabriele D’Annunzio – Foto dai libri Meyers Lexicon scritto in lingua tedesca. Collezione di 21 volumi pubblicati tra il 1905 e il 1909.Diritto d’autore a href=’httpsit.123rf.comprofile_nicku’nicku 123RF Archivio Fotografico

dannunzio_borgese

 

MOULIN: IL PITTORE EREMITA di Pierluigi Giorgio – Numero 7 – Aprile 2017

moulin

MOULIN:   il pittore eremita  

 

cat-arte
cat-storia

 

 

“Qui non vi è altro che l’opera della natura selvaggia e incontaminata! Vorrei riuscire a tradurre in delicati pastelli, riflessi e trasparenze…. e in ogni sua mirabile mutevolezza, tutta, tutta la luce delle Mainarde….”

 

Ebbene sì, sono a caccia di fantasmi dall’alba, stimolato per caso da una vecchia rivista del 1960 con un articolo a firma Maurizio Costanzo, ove si riferiva della strana vicenda di un pittore francese, vincitore di prestigiosi premi e votato ad una gloria che mai perseguì: Charles Lucien Moulin, nato a Lille nel 1869 e deceduto in Molise nel 1960, che – dando un calcio a galleristi e mercanti d’arte – scelse di vivere quasi metà della sua non breve esistenza, ritirandosi in una sorta di eremitaggio artistico e creativo, nelle alte terre del Volturno. Eccomi a rintracciare questo riflesso di Francia tra i risvolti della montagna e i vicoli del borgo per inseguirne nonostante il tempo andato, il pensiero, la filosofia di vita semplice, del tutto personale eppur così umana, significativa: maggiormente oggigiorno, in tempi di crisi identitaria e relazionale: un messaggio di pace e d’equilibrio sereno con tutte le cose, la natura, gli uomini, gli animali:

 

“Ciò che mi guida, è l’amore, il bello; ma tutte le cose hanno una ragione d’essere; “L’arte dà il segno del divino che è in te. Tu lo intuisci,
lo cerchi – se vuoi. Nella natura, nella comunione di spirito con essa,
lo vivi… Questa sola è la mia verità: l’amore per il prossimo,
la natura e tutto, tutto ciò che è bello!…”

 

“Mio zio lavorava in Francia” mi fa Mimì Coia, un anziano impettito signore, “conosceva Moulin e quando seppe che sarebbe venuto a Villa Medici per un lungo periodo, grazie alla borsa di studio vinta per i suoi meriti artistici, gli disse di fare un salto a Castelnuovo a trovare il fratello che qui in piazza aveva una rivendita di vino e generi diversi. Mio padre se lo vide arrivare a piedi un pomeriggio con una gran barba lunga e folta, addosso un vestito dimesso ed ai piedi le ciocie. Pensando che fosse un vagabondo in cerca di elemosina, o al massimo uno zampognaro di passaggio lo invitò a bere un bicchiere di vino. Il pittore gli rispose con un sorriso e con un italiano misto ad accento francese: “Tu sei Giovanni Coia, vero? Io sono Charles Moulin!”. Al mio papà per poco non gli veniva un colpo: il fratello gli aveva anticipato in una lettera l’arrivo di un “gran professore”, ma non certo così conciato!….”

 

Era persona colta, saggia, paziente, disponibile. Tra l’altro, aveva studiato presso l’Orto botanico di Parigi l’uso delle erbe medicinali
e curò gratuitamente tanta gente, beccandosi una denuncia
da parte del medico locale: nessuno andava più da lui!

 

Roberto Fiocca mi parla della sua natura artistica: Moulin nasce con l’educazione naturalistica di Lille, si perfeziona con questa alta precisione fatta di creazione di vita e di bellezza ideale. Il soggiorno a Castelnuovo al Volturno, è un approdo: egli vede quello che ha sempre sognato: la “bellezza” di Bougherau, suo insegnante d’accademia, la trova nella realtà attraverso lo studio approfondito della natura…. Non seguì nessuna corrente pittorica in particolare: possedeva la rara capacità di afferrare l’anima delle cose; di tutte le cose…. Nei suoi dipinti, vibranti di luce, nella gamma variegata dei colori, si avverte l’alito divino della sua anima… I soggetti ed i delicati paesaggi – tra armonie di tinte e sfumature di colore, luci ed ombre – hanno lo stupore, la meraviglia dell’uomo appena creato; della natura che si scopre alla sua prima alba, venerata come una dea per mostrarla agli uomini in tutta la sua divina bellezza e sacralità…

 

“Il mio metodo è di trovare la composizione che meglio permette di chiarire il sentimento di ogni soggetto; l’ora si intende come luce: passata l’ora, è passato l’incanto… Non cerco mai la stranezza nell’originalità: faccio e agisco solo secondo coscienza. Ho potuto conservare la mia libertà e non mi è costato. Ho sempre sentito di non poter diventare ricco e di non veder chiaro nei miei problemi di pittura che in solitudine e molto tardi: adesso comincio a capire il perché delle cose.

 

Se il fine della vita è l’aspirazione alla felicità, l’Arte deve, in misura dei suoi mezzi, contribuire a questo fine, seminando serena commozione e splendore di bellezza… Il principio ed il dovere dell’artista è di essere l’archetto del violino delle anime e di farle vibrare: è d’essere un germe di felicità.

 

La felicità della pittura moderna invece, consiste proprio nel non riuscire a scoprire nessun perché: essa è piena d’inquietudine e incertezze, è una pittura da sbandati, che rispecchia il male del secolo, dell’uomo moderno che cerca di salire sulle proprie spalle per non essere schiacciato nel vuoto che ha nel cuore…”.

 

Incontrando la gente tornata stanca dalla campagna, chiedeva spesso se poteva fare un ritratto: qualcuno a volte restava perplesso, sapendo che Mssiù li avrebbe fatti posare a lungo e non per una sola volta… Al termine, donava il dipinto e si condivideva quel che una misera tavola poteva offrire: una minestra, un piatto di fagioli o di patate. Non chiedeva mai nulla; si accontentava di poco…  “I Castelnuovesi sono buoni e generosi perché hanno il sole; quando il sole riscalda l’uomo non ha bisogno di lottare: la natura non dà mai cattivi consigli”.

 

M’informo sull’eremitaggio di Moulin: la baracca è lì, proprio in cima a Monte Marrone: l’ha costruita con le sue mani, pietra su pietra; lì è vissuto per qualche anno di erbe, radici, decotti e un pò di cibo offerto dai pastori, tra lupi e camosci e – come la gente del luogo narra – in compagnia di spiriti, streghe e folletti. “Qui non vi è altro che l’opera della natura selvaggia e incontaminata! E’ tutto grandezza e magnificenza!… A chi gli chiedeva se avesse mai visto l’orso, rispondeva: “Ma certo! Ogni mattina quando mi guardavo in uno specchio rotto…”. Era un convinto assertore della filosofia di Jean-Jacques Rousseau da lui tradotta in vita pratica: la civiltà, origine dei mali e le infelicità dell’uomo; la natura, invece, depositaria delle qualità positive… Un’esistenza da condurre in totale simbiosi con la natura stessa; per sentirsi parte viva di essa con animo genuinamente primitivo, con lo stupore autentico di un bambino che conserva ancora il suo spontaneo incanto.

 

“Non si deve rompere l’equilibrio con la natura, ma lasciare il mondo così come è stato creato… Il progresso porterà al regresso, alla corruzione, all’autodistruzione dell’uomo. Ma il mondo non finirà: esso si trasformerà in caos, ma nel caos ci sarà sempre la vita
e tutto risorgerà…  E poi, allo scadere del ciclo – ci saranno altri cicli,
di milioni, miliardi di anni – di nuovo e ancora il caos…”
 

 

Tina Castrataro mi accoglie nella sua casa piena di gatti: “Ero affascinata da quel vecchio, ne ero forse innamorata, in senso spirituale, come può esserlo una bambina; provavo ammirazione, tenerezza. Ricordo che parlava in modo gentile, a frasi brevi, secche, con voce bassissima ed una particolare inflessione francese. Era un uomo fantastico, mite, grande! Credeva in qualche cosa di assoluto e indirettamente credeva in Dio, poiché confidava nell’arte, nel sublimare tutto in essa, affetti, religione. “Non è per virtù mia che mi vengono le idee… è una forza, un’energia superiore che me lo manda: il mio Dio? La bellezza, la natura, l’arte, l’intelligenza… Un Creatore che chiamano Dio, Allah, Geova e altri nomi ancora… Vivere secondo i principi morali della religione, di qualsiasi religione, è per me vivere secondo natura, nel rispetto di tutte le creature, nell’accontentarmi di quanto mi è stato dato, nell’accettare la vita com’è…”

 

21 Aprile 1960: una suora lo assisteva già da tempo per le cure necessarie. Ormai novantunenne, allettato e nonostante gli acciacchi, volle ritrarla… D’un tratto, la mano scivolò sul foglio, inerte…….  Se ne andò via così Moulin, proprio quando la luce con le sue sfumature, si risveglia dal lungo sonno invernale: sì, se ne andò così… il primo giorno di primavera…

 

È l’alba…. attratto da una forza irresistibile, ai piedi del monte, gli scarponi inzuppati di rugiada, fiatone in gola, passo dopo passo, m’inerpico lungo una ripido sentiero, ingoiato da un immenso bosco di faggi secolari. Un paio d’ore tutte d’un fiato per arrivare in cima… e finalmente il rifugio in pietra, tra quattro rocce e basse chiome di faggio contorte dal vento! Eccomi qui, eremita anch’io nell’antico ricovero in pietra, nello scenario dei momenti più significativi, nello spazio delle emozioni e del pensiero più segretamente intimi dell’artista…. Come posso descrivere ciò che sento? Moulin provò la prima volta le stesse emozioni che ora avverto io?…  Sì, Moulin è qui; è sempre stato qui!… Tutto è permeato della sua Energia: colma i risvolti della montagna, le variegate sfumature della luce, il canto del vento, il ciangottio del torrente, avvolge la mia stessa anima…. Sì, tutto questo è Moulin!…

 

Abbraccio tutto con lo sguardo… Su questo baratro infinito, credo di comprendere la scelta del pittore, tra impegno e abbandono, coinvolgimento e distacco, ma non fuga dal mondo, no!… La comprendo e compenetro, in uno stato di profonda empatia – quasi tra sovrapposizione, fusione e sdoppiamento: lui e me – in questa ricerca di un deliberato, intenso contatto con l’artista, con il suo pensiero, con il modo d’essere e di vivere… Nel desiderio unico di riappropriarsi, di riaccordarsi con se stessi… Nell’appagamento semplice di un richiamo, di una voce interiore; nel bisogno ritrovato di salvaguardare la meraviglia, lo stupore, l’incanto del bambino; per proteggere il patrimonio dei valori profondi che l’uomo – che ognuno di noi – ha dentro di sé; nello scrigno segreto del proprio cuore… Senza inquinamenti né contaminazione, senza disperderli nel cicaleccio del mondo; scimmiottando il mondo… Un’appartenenza a sé, che lui avrebbe perso forse tra galleristi famelici, mercanti d’arte, le luci ammalianti del successo: sì, è l’amore la sua scelta: il motivo fondamentale, la vera opera d’arte della sua vita; un amore ideale, puro, universale; un’esistenza attuata secondo coscienza… tradotta in dipinti, parole, saggezza e spiritualità: nella sublimazione totale nell’arte: proprio tutto, anche il sentimento per una donna…

 

“La donna è una creatura sublime, soggetto d’arte: io avrei dovuto scegliere o l’una
o l’altra e ho scelto l’altra; nessuna avrebbe mai potuto capire fino in fondo la mia vita
e sarebbe stato ingiusto da parte mia imporgliela. Lega tra loro due uccelli: avranno insieme quattro ali, ma non potranno mai volare…”.

 

Si racconta che in gioventù partì per l’Italia con una delusione nel cuore: Emilìe, conosciuta poco tempo prima di andare in sposa ad un altro uomo. Fu un amore reciproco, mai dichiarato, ormai non più possibile… Quel filo impalpabile tra i due non si spezzò mai; una notte, dopo svariati anni, lui la sognò: qualche tempo dopo venne a sapere che Emilìe era morta proprio nello stesso istante… Un attimo prima dell’ultimo viaggio, le anime che non hanno età, si erano incontrate per l’ultima volta: la candida anima dell’una si era accostata a quella dell’altro, per un tenero, estremo commiato…

 

M’incammino per scendere giù in paese… Non so che ora sia e cosa del futuro mi aspetti; ma non me ne importa proprio niente!…

 

Giù, dalla valle, echi di zampogna….

 

Pierluigi Giorgio è autore, attore, regista. Ha girato: “Moulin, il poeta del pastello”, film – documentario che si può richiedere contattandolo su Fb.

 

 

 

Pierluigi-Giorgio
MOULIN

Mi appare all’improvviso e sovrasta il paese. Castelnuovo al Volturno, in territorio d’Isernia, è incollato lì, come un presepe aggrappato alla roccia, quasi per timore di scivolar giù nelle acque del fresco torrente alle pendici del monte; e come presepe che non si smentisce, è paese di validi zampognari. “Per Monte Marrone esiste un sentiero?…” chiedo a due che incontro per strada: resto letteralmente di stucco quando uno di loro, s’informa se sto cercando la capanna di Mssiù Mulè il pittore e, nel pronunciare il nome, si fa il segno della croce come stesse parlando di un santo.

fine-t-blu
simbolo-onde-blu

 

IL BATTISTERO DELL’ANIMA. CASTEL DEL MONTE di Nicola Primo Zema – Numero 7 – Aprile 2017

foto1
cat-cultura
cat-storia
Nicola-Zema-storia
titolo

La “folgorazione” è avvenuta a cavallo delle ultime feste 2014 – 2015. Stefano Benazzo, Ambasciatore d’Italia, fotografo, scultore e modellista architettonico, che mi onora della sua amicizia, aveva allestito in Doglio, un luogo delizioso quanto mai adatto ad ospitare la bellezza, una Mostra intitolata “Dialogo” in cui venivano esposti modelli architettonici di chiese cristiane, una moschea ed una sinagoga. Tra questi luoghi esplicitamente di culto, al centro della Mostra, spiccava un modello in scala di Castel del Monte.

simbolo1

IL BATTISTERO DELL’ANIMA. CASTEL         DEL MONTE

 

Si va da posizioni “negazioniste” di qualunque valore simbolico del Monumento, a derive estreme che affermano realtà esoteriche nascoste alluse da elementi simbolici: cercherò di stare nel mezzo, non tanto perché “in medio stat virtus”, quanto perché mi sembra, in definitiva, una posizione più plausibile. Divido la riflessione in tre parti: Ipotesi sulla funzione del Castello; un monumento disegnato dalle mani del Sole; percorso attraverso alcuni simboli presenti, simulando un itinerario iniziatico.

Da svariati decenni si è discusso sulla reale “funzione” del Castello: è un dibattito ancora aperto.

Il prof. Giorgio Masetti della Università di Bari, Facoltà Lettere Antiche, afferma che di tale termine esistono ben sette significati, tutti validi in funzione del contesto. Tra questi, si possono citare “lastricato” o come pavimentazione, o come lastrico solare, cioè una copertura, il che porta a considerare l’intervento come completamento di una struttura già esistente; oppure, indicante, genericamente, “materiale edilizio da costruzione”, per un’opera da completare o da iniziare, quindi, nello specifico, potrebbe indicare la costruzione ex novo del Castello. Dubito di questa ultima interpretazione, proprio sulla base del documento riportato: 

 

– Se actractus significa genericamente materiale edilizio da costruzione, allora diventa pletorica la specificazione actractum ipsum in calce lapidibus et omnibus aliis oportunis…“questo actractus con calce, pietre e tutto il necessario”…

 

– Diventa incomprensibile l’esecuzione totale di un’opera così importante affidata ad un funzionario di una giurisdizione territoriale diversa, licet de tua iurisdictione non sit “benché esso non stia nel distretto della Tua giurisdizione”; si può capire questo incarico solo con carattere di estemporaneità, per un intervento urgente e di completamento. Dunque il Castello, di cui si ignorano il nome dell’architetto, l’impegno economico e, in definitiva, il primo committente, era un fabbricato preesistente, completato da Federico II solo per un intervento marginale.

cat-arte
foto-di-stefano-benazzo
fine-t-storia

Ipotesi sulla funzione del Castello. 

Chi ha costruito il Castello? 

Sembra una domanda oziosa dalla risposta scontata: Federico II di Svevia. Non sembra così certo.

Per ogni Castello che Federico II intendeva costruire sono documentati il luogo scelto, il nome dell’architetto e la somma di denaro destinata all’opera1. Per Castel del Monte si ha soltanto un mandato del 29 gennaio 1240 dell’Imperatore Federico II, inviato da Gubbio al giustiziere di Capitanata, Riccardo di Montefuscolo, in cui viene prescritto: «Cum pro castro, quod apud s. Mariam de Monte fieri volumus per te, licet de tua iurisdictione non sit, instanter fieri velimus actractum, fidelitati tue precipiendo mandamus, quatinus actractum ipsum in calce lapidibus et omnibus aliis oportunis fieri facias sine mora; significaturus nobis frequenter, quid inde duxeris faciendum.». «Poiché per il castello, che abbiamo intenzione di costruire vicino a Santa Maria de Monte, vogliamo che venga subito eseguito tuo tramite – benché esso non stia nel distretto della Tua giurisdizione l’actractus, ti incarichiamo, quale nostro fedele, di predisporre senza indugio questo actractus con calce, pietre e tutto il necessario, in attesa che Tu ci tenga continuamente informati di ciò che intendi fare in questa faccenda…»2

Cosa è l’actractus.

Ipotesi di studiosi che si fondano sul simbolismo esterno e sui simboli ancora visibili all’interno del fabbricato stesso, attribuiscono la originaria proprietà del Castello ai Templari: Castel del Monte, come vedremo nella seconda parte, è come disegnato dalle “mani del sole” caratteristica tipica delle costruzioni templari.

In proposito, nella terza parte, relativa ai simboli presenti, ne citerò due tipicamente templari e trarrò interessanti sviluppi su uno di essi. Il prof. Giorgio Masetti, succitato, definisce actractus in questo modo: canalis in quam aqua actrahitur “canale nel quale si attira l’acqua”. Si tratterebbe, quindi, della esecuzione di un’opera accessoria per una struttura esistente. E qui si apre il pregevole e convincente contributo di due docenti del Politecnico di Bari, Facoltà di Architettura, prof. Ubaldo Occhinegro e prof. Giuseppe Fallacara che hanno redatto un saggio: Castel del Monte: Nuove ipotesi sull’utilitas del monumento, accessibile per via informatica e che invito caldamente a leggere. Castel del Monte non è un’opera militare e questo si può chiaramente dedurre sulla base degli elementi di architettura militare e logistica non rilevabili nel Monumento. In estrema sintesi, il Castello è una costruzione per la raccolta dell’acqua piovana e di falda per il loro trattamento finalizzato alla cura del corpo e dello spirito.

Dicono i nostri Autori: “Castel del Monte è stato progettato per essere il “battistero” per la redenzione del corpo in primis, ma anche dell’anima dell’Imperatore stesso, alla strenua ricerca dell’Immortalità”.

In effetti, il Castello era impiegato per gli stessi scopi anche per ospiti importanti dell’Imperatore, siano essi alti funzionari che Cavalieri che intraprendevano come un percorso iniziatico. “In esso, concepito come ideale battistero del corpo e dell’anima, lavoravano medici ed alchimisti…”I nostri Autori espongono, in modo puntuale, l’organizzazione degli spazi interni del Castello riconducendoli alla loro funzione e ipotizzando i trattamenti che vi avvenivano leggendo le geometrie interne e segni lasciati dai residui secchi di prodotti alchemici, senza entrare, però, per onestà intellettuale, nella interpretazione dei simboli presenti di cui il castello è pieno. I percorsi sono obbligati ed indicati dalla struttura dei portali: riccamente decorati sul prospetto di entrata, nudi nella parte posteriore, come a “vietare”una via di ritorno, assimilabile ad un ripensamento di chi ha intrapreso il “viaggio”.

Si accede obbligatoriamente nel cortile ottagonale al centro del quale è testimoniata la presenza di una grande vasca anch’essa ottagonale, monolitica, di marmo, con sedile periferico interno3, riempita d’acqua e con getto centrale a mo’ di sorgente: la forma di questa vasca ricorda un “battistero”. L’inizio di un lavacro purificatore per il corpo
e per lo spirito.

I vani finemente decorati originariamente con marmi, stucchi e mosaici, fungevano da “tepidari”e “calidari”, con pavimenti più bassi, soglie di separazione delle sale più alte, rispettivi camini e servizi igienici con acqua corrente: i pavimenti, come negli hammam islamici, sarebbero invasi di acqua più o meno calda adatta alle diverse cure del corpo. L’edificio è munito di cinque cisterne pensili di raccolta di acqua piovana, di 28 m3 l’una, non a servizio diretto dei cinque servizi igienici delle torri, ma comunicano, per il troppo pieno, in altre direzioni, ma soprattutto con una cisterna posta sotto il cortile ottagonale della capacità di 250 m3; questa ultima riversa il troppo pieno entro una ultima cisterna interrata posta a 20,00 m dall’edificio. I recenti restauri, inoltre, hanno rilevato la presenza di pozzi profondi 60,00 m che raggiungono falde ricche di acqua sottostanti il castello. Chiudo questa sezione con una osservazione sintetica degli autori citati, raccomandando, ancora, di accedere al loro lavoro:

“Studiando il progetto dell’edificio, dalla planimetria generale sino ai più piccoli elementi di decoro architettonici, il castello risulta essere una enorme macchina di raccolta, smistamento ed utilizzo delle acque piovane.” E, come detto sopra: “…concepito come ideale battistero del corpo e dell’anima…”.

(Seguirà la seconda parte: Un monumento disegnato dalle mani del Sole).

1 Cfr. Aldo Tavolaro, Castel del Monte e il santo Graal, EDIZIONE GIUSEPPE LATERZA di Giuseppe Laterza, 2004, p. 30 e segg. 

Traduzione di Dankwart Leistikov , da un opuscolo AndriArte curato da R. Ruotolo – P. Petrarolo, Sveva Editrice, Andria, 1993, pagg. 33-42

Completamente demolita da vandali nella seconda metà del XIX secolo.

foto2 (1)

 

ARCHITETTURE DEL SALENTO: LE TORRI DI DIFESA di Giusto Puri Purini – Numero 7 – Aprile 2017

cat-arte
cat-storia
Giusto-Puro-Purini-storia
simbolo1

ARCHITETTURE DEL SALENTO: LE TORRI DI DIFESA

 

Santa Sofia diventa La “Grande Moschea” e nasce nel Mediterraneo Orientale una nuova, grande, colta ed aggressiva superba potenza, che entrerà velocemente in conflitto con la Repubblica di Venezia, la quale, fino ad allora, aveva liberamente solcato i mari dall’Adriatico all’Egeo, con i suoi flussi mercantili e le innumerevoli postazioni e domini, seminati dalla Dalmazia fino all’Asia Minore ed oltre. La Puglia, diventava un nodo strategico per le scorrerie Ottomane e,nonostante l’occupazione della penisola nel 1484 da parte dei veneziani (lo sbarco a Taviano), questi ultimi non riuscirono più, a frenarne l’impeto. L’Algerino Khaized-Din (detto il Barbarossa), nel 1537, distrusse Castro e Marittima e, sul versante ionico, l’antica Ugento. Il sistema di difesa della Puglia, ed in particolare del Salento, era impreparato e precario; tra opere risalenti prima agli antichi Romani, poi ai Bizantini (per difendersi da Longobardi ed Aragonesi), costruite nei secoli precedenti sotto forma di torri costiere e masserie fortificate, esso non era più all’altezza del compito. A questo punto, nel panorama europeo, l’aspro conflitto tra Francesco I Re di Francia, e Carlo V re di Spagna, si risolse in favore di quest’ultimo portandolo a governare una gran parte d’Europa.

La Storia del Salento è costellata da una miriade di invasioni: all’inizio, da parte di popoli divenuti stanziali, come i Messapi ed i Japigi; poi, da parte dei greci; incursioni di pirati saraceni, attacchi e saccheggi, ed ora il grande pericolo degli Ottomani, che tra l’altro cullavano l’idea di riunificare l’Impero Romano d’Oriente con Roma. Fu dunque sotto l’Impero di Carlo V che il Vicerè del Regno di Napoli, Pietro de Toledo, nel 1532, promosse un’imponente e strategica prima linea di difesa lungo le coste Adriatiche e Ioniche della Puglia, con quel vasto promontorio che si protende nel cuore del Mediterraneo. Come un’urbanista dei sistemi di difesa, fece realizzare un progetto dove ogni torre potesse vedere e segnalare alla successiva i pericoli incombenti. Come allarme si usavano i corni e le campane, o allarmi visivi, come il fumo (di giorno) ed il fuoco (la notte). Una seconda linea di difesa erano le masserie fortificate e, più all’interno, imponenti Castelli tra i quali spicca, ancora oggi, quello di Acaya. Il provvedimento del Viceré fu rafforzato nel 1563 dall’ordinanza di Don Pedro Afan de Ribera.

Quest’Italia, protesa e bagnata dalle acque quasi in ogni punto del suo periplo, “offriva” e fungeva da attrazione e calamita per altre popolazioni.

Oggi l’esodo biblico che milioni di genti compiono quotidianamente in questi ultimi anni, rimette in moto antichi rancori, paure e disequilibri, e deve nascere una coscienza nuova che induca i grandi Stati (colonizzatori) a sviluppare nei luoghi di origine lavoro e sviluppo, per riportare il nostro mare ad essere, come da sempre, luogo di mercanti, di scambi economico-finanziari, di cultura, direligione, di pensiero e di lavoro.

Nel 1529, dopo altri conflitti e finalmente l’intesa con il Papa Clemente VII, Carlo V ottenne il riconoscimento dei suoi “ambìti” possedimenti in Italia, tra i quali il Regno di Napoli, che includeva l’amata Puglia (dove tra l’altro non arrivò mai).

Il costo economico di tale impresa era diventato così alto che, attraverso bandi di concorso, si conferivano titoli a chi s’incaricava di costruire torri, assegnandogli il titolo di “Capitano di Torre”, il quale, oltre a segnalare scorrerie ed ad approntare difese con cannoni ed archibugi, poteva anche riscuotere dazi. Agli insolventi veniva “duramente” negato il diritto di difesa.

Le Torri, in seguito, serviranno anche per contrastare il contrabbando, in parte tollerato, per impedire il commercio abusivo del sale molto in voga in quei tempi, data la povertà delle popolazioni contadine, e ad intercettare il traffico degli schiavi. Quelle edificate da Carlo V, costruite con conci di tufo regolari, sono generalmente a pianta quadrata o circolare, con il basamento scarpato; all’interno, ambienti normalmente su 2 livelli ed un terrazzo merlato di copertura; feritoie e caditoie completano la facciata. Le Torri sono fornite di una cisterna sotterranea per raccogliere l’acqua piovana. In certi casi, oggi, sono delle Capitanerie di Porto ancora efficienti; molte sono solo ruderi (purtroppo) ed altre sono state restaurate. Come dice Mario Muscari Tomajoli “La costruzione di Osservazioni fortificate è riportata fin da Plutarco (125-50 a.C.) e fu realizzata anche dai Romani, il cui commercio venne messo in crisi dai pirati sino al 67 a. c., quando la legge Gabinia consentì a Pompeo di armare una flotta contro i predoni e rendere tranquillo il Mare Nostrum”.

Ma questo sistema di difesa non esiste solo in Puglia e nel basso Salento, bensì in tutte le nostre ed in tante altre coste del Mediterraneo, e segna, come un’immane punteggiatura nelle mappe, il rapporto di amore e di paura che il grande mare portava con sé.

Il primato della civiltà, della storia, della fertilità della natura, del costume, le imponeva anche sistemi di autodifesa, ed ecco che, oggi, queste mirabili costruzioni, nel ritmico fluire dei paesaggi, diventano segni indelebili della storia.

Samsung foto 5220
IL_DISASTRO

 ITA | ENG | FR

 

TRANI – LA BELLA ADDORMENTATA SUL MARE di Giannicola Sinisi – Numero 7 – Aprile 2017

cat-storia
cat-arte

 

 

TRANI
LA BELLA ADDORMENTATA SUL MARE

 

 

 

Negli Stati Uniti d’America, Walt Disney ha materializzato questo binomio realizzando, dal nulla, luoghi incantati, costruendo parchi di divertimento nei quali la magia immaginaria delle fiabe diventava una realtà possibile.

TRANI3
FOTO2
TRNI2
Giannicola-Sinisi
simbolo-fine-p-ond

 In Italia e, più in particolare in alcune città del Sud, una millenaria attitudine alla bellezza, ed una ricca sovrapposizione di vicende epiche,
sono state artefici della costruzione, 
quasi come se fosse opera
di un unico grande architetto senza tempo,
di luoghi egualmente fantastici, 

ma assai meno noti.

 

 

La città di Trani ne è un esempio, adagiata sul mare con architetture realizzate dalla mano dell’uomo che, viste dal mare, competono con la bellezza e la grandezza della natura. Ma la stessa umanità che ha lanciato questa sfida al Creato, non ha saputo mettere il suo genio al servizio dei bisogni di questo tempo, e non è stata capace, fino ad ora, di trasformare questo grandioso patrimonio collettivo in benessere al servizio di tutti. Alcuni dei suoi monumenti potrebbero essere alla base di una nuova economia, se le timide iniziative di oggi potranno diventare un’impresa sfacciata come quella del principe che baciò la bella addormentata, destandola dal suo lungo sonno. 

  

La Cattedrale di trani. Un piccolo gruppo di imprenditori turistici di Trani
si sta organizzando per ottenere, con il consenso della Curia,
il riconoscimento della Cattedrale di Trani quale
“patrimonio UNESCO dell’umanità”.

 

Nel Mediterraneo, e probabilmente nel mondo intero, non esiste un’altra Cattedrale medievale edificata sul mare. Nel XII secolo dovette sembrare quanto meno azzardato costruire un imponente edificio religioso sul mare. Il mare, infatti, in quell’epoca costituiva più una fonte di pericolo per le invasioni e le guerre, che le religioni ispiravano ed alimentavano, piuttosto che un’opportunità di pace e di coesione tra i popoli. Eppure quella sfida coraggiosa, ed in qualche misura fondata sulla capacità della sua gente di costruire legami attraverso il mare, piuttosto che conflitti, ha retto per quasi un millennio ed oggi rappresenta un esempio meraviglioso di purezza di stile, oltre che un inimitabile simbolo di pace. Oggi che il mare Mediterraneo assiste ad una nuova epopea di migranti, armati solo della loro disperazione, muovendo da terre attraversate da mille conflitti, e dove le religioni vengono ancora prese a pretesto per saziare l’avidità di potere di qualcuno, la Cattedrale di Trani, che su quel mare si affaccia, può essere una testimonianza viva di come questo mare, il nostro mare, ci consente di prosperare solo se siamo capaci di vederlo come una ricchezza, e non come una minaccia.

 

Il Polo MusealeNella stessa piazza della Cattedrale, all’interno di palazzo Lodispoto (sec. XVIII), è stata realizzata la sede del Polo Museale di Trani. Già l’edificio, per l’eleganza della sua architettura e la spettacolarità
del suo affaccio sulla piazza e sul mare,
è un’inaspettata sorpresa.

 

Un’accorta trasformazione dei suoi spazi interni ha consentito di realizzare una struttura efficiente che ospita il museo della macchina da scrivere ed il museo diocesano, oltre a degli efficienti e moderni servizi per conferenze e convegni. È una rara quanto apprezzabile sinergia tra un privato collezionista e la diocesi di Trani, proprietaria dello stabile. Lì si trovano esposti il patrimonio capitolare ed i reperti lapidei di cui è titolare la diocesi, ed una rara collezione di 400 macchine da scrivere appartenenti ad un imprenditore locale, che ha costituito la fondazione SE.CA. che gestisce questa interessante impresa culturale. Va apprezzata non solo l’originalità del progetto, ma anche la straordinaria qualità espositiva, in teche e supporti ben realizzati, che formano percorsi culturali di grande effetto.

 

Il Monastero di Colonna. Su un altro promontorio della città di Trani,
a poca distanza, si erge, anch’esso affacciato sul mare, un monastero
dell’XI secolo che ospitò i benedettini fino al XV secolo
ed i francescani fino al XIX secolo.

 

 

Oggi è di proprietà del comune di Trani che ha in animo di realizzarvi un museo archeologico, sotto l’egida della competente soprintendenza, per ospitare i reperti frutto dei ritrovamenti della civiltà dei Iapigi che abitarono questi luoghi sin dall’età del ferro. Una consistente opera di restauro, appena terminata, ha consentito all’ente locale di deliberare un indirizzo per un bando di gara che ne stabilisce la destinazione come museo archeologico, prevendendone la concessione in gestione da parte di privati, che potranno realizzare delle economie non solo dai biglietti d’ingresso, ma anche da ogni altra forma di utilizzo compatibile.

 

 

La città gode di innumerevoli ulteriori risorse artistiche, storiche, culturali, che possono essere al centro di una nuova economia, aperta verso flussi di viaggiatori che cercano la bellezza, ed amano la storia

 

 

LE MINNUZZE DI SANT’AGATA di Hilde Ponti – Numero 7 – Aprile 2017

LE MINNUZZE DI SANT’AGATA

 

cat-storia
cat-arte
cat-cultura-1

È indiscusso il coraggio dimostrato dalla giovane Agata – nata a Catania nei primi decenni del III secolo – che, eludendo ogni lusinga del prefetto romano Quinziano, non si concede, fedele ai suoi convincimenti, e viene, quindi, torturata nelle parti negate, fino a staccarle i seni, per, infine, perire, martire annoverata del cristianesimo primitivo.

SANTAGATA
hildeponti
simbolo-blu

Il suo è un esempio unico che ci perviene da fonti storiche, intrecciate a una forte tradizione popolare. Tuttavia, la dedizione per la strenua fanciulla – eletta più tardi patrona di Catania –  si è espressa quasi subito. Prova ne danno gli Atti dei Martiri.

   

Quinziano, respinto, ordina di far rotolare Agata nuda, su lapilli incandescenti. Proprio in quell’istante un violento terremoto
scuote la città. La popolazione, convinta che il sisma fosse punizione divina, si precipita inferocita al pretorio,
costringendo Quinziano a sospendere l’esecuzione. 

Ad Agata sono rimaste solo poche ore.

 

“Sant’Aita, Sant’Aituzza bedda”, presero a invocarla subito, in quell’idioma musicale, i suoi concittadini: a tutt’oggi, più che mai, presente nella memoria collettiva di Catania e della Sicilia; supplicata, persino, dai Giudei e da altre confessioni. I miracoli attribuiti per Sua intercessione sono davvero tanti: il primo si verifica a un anno dalla sua morte, il 5 febbraio 252 d.C. L’Etna, l’imponente vulcano che circonfonde Catania e la pianura sottostante, emette una forte eruzione. 

   

Gli abitanti – sapendo che l’avanzare della lava significa sempre distruzione – tentano il tutto, invano, e, non rassegnati, si avviano incontro a quell’inferno con il Velo della Santa: e il prodigio avviene. La colata, molto vicina alla città, si arresta
solo davanti all’antico cimelio di Agata.

 

Da questo evento, ha inizio l’inestinguibile devozione di Catania verso la sua Santuzza. E così, dalla storia –leggenda testé evocata, l’Etna, Sant’Agata, Catania e i suoi cittadini si sono accomunati in parallelo per sempre. Tanto che, per ricordarla, hanno istituito due feste annuali: una di tre giorni in febbraio, l’altra in agosto. Nel 2002, l’Unesco ha dichiarato queste festività “Patrimonio dell’umanità”.

 

Inoltre, proprio per non smarrire l’umano senso del possesso, 

i siciliani hanno arricchito il loro pregevole valore gastronomico con un dolce ormai classico, proprio in onore della loro beniamina: le cassatelle di Sant’Agata (Minne di vergine).

 

Per delineare verità remote e leggenda ci rifaremo ai racconti degli storici: l’eruzione del 1669. Lava e lapilli incandescenti erodevano i fianchi della montagna, devastando ogni dove: migliaia senzatetto. La colata arrivò, via via, fino alla città: Catania si spopolò. Eppure, anche allora, avvenne qualcosa di straordinario: la lava, arrivando nei pressi della Cattedrale, scansò luoghi ritenuti tappe del martirio di Agata. Dopodiché, il magma raggiunse il mare, proseguendo la corsa per altri tre chilometri. Anche oggi è visibile quel reperto pietrificato dai secoli: va da Catania a Acireale, ed è chiamato La Costa dei Ciclopi, riferendosi al litorale descritto svariati secoli prima da Omero nell’Odissea.
 

Altra cronaca riguardante Sant’Agata, evocata nel tempo per via orale, narra quando Papa Innocenzo III nominò re di Sicilia l’imperatore di Germania, Federico II e buona parte 

degli isolani non si trovò d’accordo.

 

Allorché lo svevo ne venne a conoscenza, decise di stabilire, in qualsiasi modo, la sua sovranità. Com’era solito fare – stupor mundi: voleva stupire sempre – prima di passare ai fatti meditava. Capitando in una chiesa a Catania, diede inizio alla sua riflessione pubblica, e, in barba alla prosopopea, dovette lui meravigliarsi: all’istante, sotto i suoi occhi, vide materializzarsi alcune lettere: N.O.P.A.Q.V.I.E. – frase in latino, il cui acronimo riferiva “Noli offendere Patriam Agathae quia ultria iniuriarum est” (non offendere il paese di Agata, perché vendicatrice di ogni ingiustizia). L’episodio fece desistere Federico II dal vendicarsi. A tutt’oggi, sulla facciata barocca della cattedrale, nella finestra ovale – lato sinistro di chi guarda – si può leggere l’acronimo in una formella, mentre alla destra se ne trova un altro oggetto di culto, menzionato negli Atti del Martirio.
 

Ma i segni barocchi di Catania sono sparsi un po’ ovunque.

 

Seguendo, per esempio, il tracciato delle mura, si arriva a Palazzo Biscari: come non ci si può soffermare davanti alla fastosa facciata? Essa è movimentata da decorazioni: putti, cariatidi grottesche e altri fregi inneggianti al barocco. Palazzo Biscari si affaccia anche su via Museo Biscari, da cui si accede a Palazzo Platamone: i cortili all’interno sono teatro di luoghi magici, illustrano magistralmente le varie stratificazioni storico-architettoniche di Catania, dove la tradizione riconosce, nei resti sotterranei di domus romane, la casa natale di Sant’Agata, della quale, sulla via adiacente, un’edicola settecentesca rievoca proprio il culto. Il palazzo, in epoca Medievale e Rinascimentale, era residenza dell’importante famiglia Platamone, che – in età aragonese e fino a Carlo V – ricoprì importanti incarichi politici. Distrutto dal terremoto del 1693, venne ricostruito nel ‘700 da architetti che facevano rivivere la città rappresentando rari esempi di barocco. E poi il castello Ursino, fatto edificare da Federico II, su un magnifico promontorio circondato dal mare, simbolo della città. Obbligatorio non tralasciare la visita al magnifico quartiere liberty, un po’ dismesso, testimone di splendori epocali. 
 

Edifici monumentali, vestigia storiche, attestanti culture 

di varie età, ma anche devozione per Sant’Agata 

della sua città e della Sicilia, condivisa anche 

dalle nuove generazioni.

 

E fa davvero meraviglia, pur non trovando motivazione unica: curiosità? Tradizione? Folclore? Fede? Diventa per tutti un collante quando  si tratta di gusto e squisitezze. La preparazione dalle forme morbide – gonfie di ricotta di pecora, zucchero, gocce di cioccolato miste a canditi profumatissimi – incanta.
 

E l’accostarsi alle Cassatelle di Sant’Agata 

(Minne di vergine) è, per tradizione, l’interloquire tacito trasformato in realtà, Epifania per i fedeli 

e i cultori del gusto.