QUANDO LA TRECCANI NON CONOSCEVA LA MOZZARELLA di Francesco Festuccia – Numero 7 – Aprile 2017

QUANDO LA TRECCANI NON CONOSCEVA LA MOZZARELLA

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Scrivere una possibile o impossibile storia della mozzarella è come addentrarsi in una materia molle che ricorda proprio la consistenza della mozzarella stessa. Pochi i testi certi, come incerta è la “certezza” del nome, anche se “mozza” deriva sicuramente da mozzato, tagliato.

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     e ricerche, sia sui testi che nello sterminato mondo di Internet, danno risultati contraddittori e, a volte, sorprendenti. Basti mettere a confronto due totem del  passato e del presente.

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Andando a sfogliare le polverose pagine della Bibbia delle definizioni, cioè l’enciclopedia Treccani – che ha fatto bella mostra in tante case importanti, nel suo mobile dedicato – nell’edizione del 1934, alla voce Mozzarella, non si trova nulla. Incredibile a pensare: non esiste nella Treccani di quegli anni – summa di tutto lo scibile umano – la voce “mozzarella”. Insomma, la mozzarella proprio non sembrava aver cittadinanza: anzi, solo cercando più a fondo, alla voce “bufalo”si trova: “La femmina produce 1200/2000 litri di latte all’anno che viene trasformato in mozzarella”. Un po’ meglio se si va al dizionario enciclopedico della Treccani del 1958, nel quale testualmente si legge: “voce meridionale diminutivo di mozza, tipo di formaggio, latticino magro tipico della Campania, prodotto con latte di bufala. La cagliata viene cotta nel siero finché diventi filante poi è tirata in cordone e tagliata a pezzi di circa mezzo chilo da consumare fresca e cotta”. E aggiunge, come “figura regionale”: “essere una mozzarella, persona fiacca e lenta”.

Non solo la mozzarella viene citata poco o niente, ma più che altro passa, anche, come termine derisorio. Se ci pensiamo bene non a torto.

Chi non ha avuto un compagno di scuola o, magari, un parente a cui è stato affibbiato il termine “mozzarella”, perché era un tipo moscio, giusto come una mozzarella. Moscio, diremo morbido, che per una mozzarella vera è una bella cosa, perché si taglia facilmente e altrettanto morbidamente si scioglie in bocca; mentre, certo, per una persona, non è un granché di qualità. Così come si usa nello slang della pallavolo, sinonimo di tiro senza energia… e poi quante volte pensando al colorito di una persona in costume sulla spiaggia abbiamo detto: “è una mozzarella”. A dire il vero, questa ultima derisione sta passando di moda, visto che la tintarella ora è un po’ meno trendy, mentre, per la mozzarella stessa, il bianco è un bel complimento dal momento che se vira al giallastro non è un buon segno di conservazione e se vira al blu, addirittura, va a finire sui giornali come emblematico e, forse, fin troppo rumoroso caso di “avvelenamento”.

Secondo l’enciclopedia internettiana, le prime notizie si hanno in un documento longobardo. Secondo queste fonti, già nel XI secolo, la principessa Aloara, vedova del principe di Capua, Pandolfo Testadiferro, distribuiva una “mozza” – un pezzo di pane – ai monaci dell’abbazia di San Lorenzo ad Septimum, alle porte di Aversa. Secondo altri, la mozzarella l’avrebbero inventata i monaci stessi. Mentre le bufale si trovavano nelle vallate acquitrinose, i conventi erano invece sulle alture; per trasportare meno peso, il latte veniva lavorato con un procedimento veloce direttamente sui pascoli, concentrandolo in un latticino che poi veniva portato su in convento. Secondo altri, invece, gli inventori della mozzarella sarebbero stati i Normanni la cui contea-città era Aversa. Dell’uso della lavorazione e del consumo dei prodotti derivati dal latte di bufala (il casicaballus, il butyrus, la recocta, il provaturo) abbiamo attestazioni in documenti del XII secolo conservati presso l’archivio episcopale di Capua.

Ognuno sembra voler prendere una primogenitura e, allora, prima del famoso cuoco della corte papale Scappi, a cui si deve il primo uso ufficiale nel 1570, ecco ritrovata, nel 1481, una denominazione di “mozza” del fiorentino Paolo Rucellai.

E, allora, andiamo per altre doverose citazioni: prima di t
utte, a fare da
contraltare alla Treccani, quella su Internet di wikipedia che,
anche qui, poco ci
aiuta e, per approfondire, ci rimanda alla voce
mozzarella di bufala campana
.
E qualche cenno sulla storia c’è, anche se la certezza manca.

 

Anche se le denominazioni (mozza-provatura) variano a seconda dell’epoca, in tutte le fonti citate, una sola cosa sembra certa: tutte queste denominazioni hanno voluto indicare sempre quella che oggi viene chiamata mozzarella. E allora, vista la varietà e anche la contraddittorietà delle fonti, andiamo a scomodare illustri dizionari. Dagli Accademici della crusca, che parlano di Mozza come “sorta di cacio fatto con il latte”, al vocabolario della lingua italiana di Scarabilli, secondo cui “così chiamavansi certi piccoli caci chiusi in una vescica e legati a mezzo. Usano massimamente nel napoletano dove la chiamano mozzarella”; dal dizionario Palazzi che, alla voce provatura, dà “formaggio molle fresco che si prepara nel napoletano con latte di bufala” al vocabolario Basilio Puoti napoletano-toscano, che la definisce “qualità che si fabbrica col latte di bufala”; al vocabolario napoletano-italiano di R. Andreoli, che dice “latticino che non usa in Toscana ed al quale dovrà mantenersi il nome di mozzarella derivato da mozza”. E qui, in questa complessa e fumosa storia di definizioni e primogeniture, ci vengono in aiuto le parole di un medico senese – autore di una monumentale opera di divulgazione più volte ripubblicata nel XVI secolo – che dice del latte di bufala “di cui si fanno quelle palle legate con giunchi che si chiamano mozze e a Roma provature” per far comprendere il rapporto mozza provola.

In qualsiasi dizionario della lingua italiana – recente o meno – provola viene fatto derivare da provatura, mentre, a definire il legame mozzarella/provatura, c’è un documento del 1873 – ancora un vocabolario napoletano-toscano domestico – che definisce la mozzarella “piccola forma poco più poco meno di un uovo di provatura fresca”.

A questo punto, vale la pena di citare lo storico Migliorini che descriveva cosa succedeva nella Piana del Sele intorno alla metà dell’800: “le mozzarelle non erano destinate al commercio, ma si confezionavano per uso familiare e il latte bufalino serviva per la lavorazione di provole affumicate per salvaguardare la crosta dal deterioramento”. E qui, continuiamo ad attingere ai pochi dati storici arrivati a noi. Se nel mercato di Capua sembra che fin dal 1500 ci siano tracce di mozzarelle accompagnate dalle provole, i dati archivistici sembrano dimostrare come, nella non lontana Castelvolturno, pervenissero solo provature, Le Assise di Napoli, poi, confermano, per quello stesso periodo, la presenza su quel mercato solo di provature affumicate e fresche; invece, la mozzarella, accompagnata da provole, sembra comparire solo dal 1720, per diventare più frequente dal 1780 in poi. Insomma, chi faceva mozzarella lo faceva ad uso e consumo privato: cibo non povero, ma poverissimo, tanto da non poter essere nemmeno commercializzato e che avrà una trasformazione in prelibatezza solo tanti anni dopo.

E, allora, andiamo per altre doverose citazioni: prima di tutte, a fare da contraltare alla Treccani, quella su Internet di wikipedia che, anche qui, poco ci aiuta e, per approfondire, ci rimanda alla voce “mozzarella di bufala campana”. E qualche cenno sulla storia c’è, anche se la certezza manca.

E, allora, andiamo per altre doverose citazioni: prima di t
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contraltare alla Treccani, quella su Internet di wikipedia che,
anche qui, poco ci
aiuta e, per approfondire, ci rimanda alla voce
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.
E qualche cenno sulla storia c’è, anche se la certezza manca.

 

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L’ISTITUTO ITALIANO PER GLI STUDI FILOSOFICI UNA GRANDE RISORSA PER IL SUD di Francesco Serra di Cassano – Numero 1 – Luglio 2015

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per anni, un faro della cultura filosofica europea. Elena Croce, Enrico Cerulli, Pietro Piovani, Giovanni Pugliese Carratelli e Gerardo Marotta formano il leggendario comitato fondatore che, nel 1975, con una solenne cerimonia all’Accademia dei Lincei, ha dato vita a qualcosa di veramente inedito nel panorama culturale italiano, un’istituzione che da subito si è affermata quale luogo di alta elaborazione e condivisione del pensiero. Non è un caso che lo Stato, nel 1983, gli abbia assegnato come sede i nobili saloni del settecentesco Palazzo Serra di Cassano, da poco rilevato, luogo d’importanti memorie e simbolo della Rivoluzione napoletana del 1799.

L’ISTITUTO ITALIANO PER GLI STUDI FILOSOFICI UNA GRANDE RISORSA PER IL SUD

 

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In quarant’anni di vita, l’Istituto, grazie all’instancabile volontà dei suoi fondatori, ha animato corsi, seminari, congressi con la partecipazione di insigni studiosi, a Napoli, ma anche a Roma, Torino, Parigi, Londra, Poitiers, Tubinga, Monaco, Amburgo, Oxford, Francoforte, Wolfenbüttel, Austin, Rotterdam, Erlangen, praticando l’incontro fra giovani ricercatori e grandi maestri.
Sono approdati a Napoli, negli anni, importanti esponenti delle diverse discipline scientifiche. Vi hanno tenuto seminari e conferenze, tra gli altri, Musatti, Bergmann, Segré, Prigogine, Wheeler, Rubbia, seguendo un indirizzo e una programmazione che avevano, tra i principali obiettivi, l’avvicinamento delle scienze moderne e della filosofia, della teoria e della prassi, oltre che una sistematica ricognizione filosofica della realtà contemporanea. Questo indirizzo fu abbozzato e avviato da quel piccolo solidale gruppo di persone che era animato da una carica ideale senza pregiudizi e da una forte consapevolezza intellettuale e politica. In pochi decenni è stata messa in campo una produttività di gran lunga maggiore rispetto a quella di numerose istituzioni gonfiate e foraggiate dalla burocrazia e dirette svogliatamente.
L’Istituto, raccogliendo nel tempo contributi significativi e riuscendo a coagulare una grande quantità di lavori interdisciplinari, ha promosso anche un importante programma editoriale, che abbraccia secoli di storia e di filosofia (dalla raccolta dei frammenti della Scuola di Platone a un’edizione critica delle lezioni di Hegel), che sono un punto di riferimento per chiunque voglia accostarsi in modo analitico allo studio dei classici. L’attività didattica si è mescolata a quella editoriale, i corsi sono sfociati a volte in vere e proprie lectio magistralis, l’insegnamento ha fatto da guida a un numero sempre crescente di studiosi e di appassionati.

L’Istituto di Napoli ha inteso la promozione degli studi filosofici quale preparazione all’essere cittadini nel senso più alto. Il lavoro compiuto è, dunque, un lavoro per lo Stato in quanto il sapere filosofico occupa concettualmente il medesimo terreno dello Stato, condividendone l’essenza: universalità, oggettività, rifiuto del particolarismo.

In questo senso, può essere considerato una delle realtà più coraggiose e generose di cui la storia della cultura europea abbia saputo dotarsi nel secondo dopoguerra.
Il fattore che rende l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici ancor oggi di vitale importanza è proprio la sua fedeltà alla filosofia come vertice del sapere, da coltivare non con spirito specialistico e “disciplinare”, ma come lievito per la vita collettiva. Questa attività è insostituibile, in quanto rappresenta una barriera contro i pericoli della decadenza e uno stimolo per mantenere alta l’attenzione sulla formazione delle nuove generazioni. Non è un caso che l’Istituto sia stato definito da Giancarlo Rota, eminente matematico del Massachusetts Institute of Technology, un “baluardo di civiltà”.

L’Istituto, nonostante le gravi difficoltà finanziare che lo affliggono, non ha mai interrotto le sue attività né perso la sua autonomia, costruendo un “know-how” irripetibile ed insostituibile nello straordinario “crocevia della cultura mondiale” che è stato Palazzo Serra di Cassano. Un inauspicato arresto di questo patrimonio in continuo divenire si tradurrebbe in un grave colpo per Napoli, per il Mezzogiorno d’Italia e per il Paese.

È infatti un insieme di competenze, di saperi, di rapporti, di conoscenze personali e istituzionali che ha permesso all’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici di promuovere confronti speculativi e scientifici di livello mondiale,

di organizzare scuole di alta formazione, oltre che a Napoli, in centinaia di comuni dell’Italia meridionale, di pubblicare oltre tremila volumi in italiano, ma anche in francese, spagnolo, tedesco, inglese, russo, rumeno, cinese e in altre lingue occidentali e orientali. E tutto questo in quarant’anni di lavoro senza interruzioni, mantenendo sempre alto il livello delle iniziative che, con tale intensità, non trova alcun riscontro, né in Italia né in Europa.
Questa attività, punto di sbocco di un accumulo di competenze insostituibili, non è spiegabile se non si risale all’impegno etico e intellettuale del suo Presidente, Gerardo Marotta, nel quale lo spirito patriottico si è unito all’amore per la cultura e la filosofia e a una particolare attenzione alle sorti dei giovani.
L’opera di ricostruzione di una tradizione di pensiero interrotta poteva essere affrontata solo a partire dalla ripresa di tutti i momenti alti della tradizione filosofica europea. Proprio perché all’atto della sua fondazione l’Istituto ha riconosciuto la mancanza di categorie teoriche risolutive e il generale abbandono dei filoni più vitali del pensiero, esso si è aperto con la massima liberalità all’apporto di tutte le scuole, le 2 accademie, le università, le istituzioni non universitarie ed è riuscito a valorizzare forze intellettuali isolate, ignorate e a volte mortificate dalla cultura accademica.
La convinzione che le manifestazioni della razionalità umana fossero presenti anche nelle espressioni artistiche, nelle conquiste scientifiche, nelle confessioni religiose, nelle attività economiche, negli ordinamenti giuridici e che tali espressioni spesso “spontanee”, implicite, dovessero essere portate a piena consapevolezza riflessiva e quindi filosofica per diventare elementi dinamici di una nuova sintesi, ha portato l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici a sviluppare una quantità sorprendente di iniziative in tutti i settori d’avanguardia delle scienze, della storiografia, delle letterature e delle arti figurative, della vita delle grandi religioni, della civiltà del diritto, della teoria economica.
Se l’Istituto continuerà a vivere sarà un bene per Napoli e per l’intera Europa. L’auspicio è che le istituzioni manifestino la loro presenza con un segnale chiaro, pragmatico che non interrompa il cammino intrapreso in questi anni.

 

BRUJA E ACCABADORA: IN SARDEGNA L’ORIGINE DEL MITO? di Giovanna Mulas – Numero 1 – Luglio 2015

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s’accabadura e che questa resistesse solo tra le persone che, pur con etichetta cristiana, ancora praticavano costumi pagani a debellare i quali ha indubbiamente contribuito il concilio di Trento col rinnovamento della Chiesa cattolica. Secondo Edward Neville Rolfe l’adorazione di Diana era diffusa al punto che, quando il cristianesimo si sostituì al paganesimo, gran parte del simbolismo pagano fu adattato ai nuovi riti e questo rese relativamente semplice la transizione dalla venerazione di Diana a quella della Madonna. E’ da presumere che sia apparsa in Sardegna già dal periodo neolitico, quando popolazioni asiatiche, durante le migrazioni e a ondate successive, approdarono nell’isola. Le loro pratiche conducono ad uno sciamanesimo di tipo siberiano e centro asiatico, confermate dalle tradizioni funerarie e le credenze comuni.

quali le scuole occulte di magia, il Neo-Platonismo, la Cabala, le eresie cristiane, la magia e il dualismo persiani, unitamente ai resti della teologia greca ed egiziana in voga ad Alessandria nel terzo e quarto secolo d.C., nella Casa della Luce nel Cairo del nono secolo,

’esasperazione dell’assurda demonologia del Malleus Maleficarum non fu il logico sviluppo di un’idea religiosa ma il risultato sociale di una rinnovata guerra ideologica e del conseguente clima di paura.

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BRUJA E ACCABADORA: IN SARDEGNA L’ORIGINE DEL MITO?

 

L’Angius si domanda se la pratica alquanto stregonesca dell’accabadura possa provenire dal geronticidio che i figli praticavano anticamente verso i padri settantenni,

e in effetti numerose testimonianze che ho raccolto per il mio ‘Nessuno doveva Sapere, Nessuno doveva Sentire’ fanno riferimento ad un’antica oralità tramandata loro di “montagne di Baunei o Elini da dove venivano buttati i vecchi perché troppo vecchi e malati. Anche ai piccioccheddos maladios (ragazzini, bambini malati o nati deformi – N.d.A.) facevano questa faccenda”.

Una delle tattiche più efficaci adottate dalla chiesa cristiana nei confronti dei convertiti o dei potenziali convertiti che continuassero a adorare i loro dei pagani, era di demonizzare quegli dei affermando che erano effettivamente demoni o il Diavolo stesso. Poiché questa equazione veniva fatta frequentemente, i cristiani cominciarono a rappresentare il diavolo secondo la visione che i pagani avevano dei loro dei.

Questo perché, negli antichi tempi pagani, gli umili non sapevano che tutti gli uomini erano uguali davanti a un Dio, e che anche come schiavi avevano dei diritti sulla terra.

Che molti abusi fossero mitigati ed esistessero santi benevoli non cambia la realtà dei fatti e cioè che in generale, per molti secoli, l’umanità sia vissuta in condizioni peggiori di prima e la causa maggiore di questa sofferenza si potrebbe addebitare ad una nuova consapevolezza dei diritti negati,

Se Edwards e Tendale hanno fatto cenno a uomini dediti all’accabadura, lo Spano include il termine nel suo vocabolario solo al femminile. Scrive: “accabadoras, ucciditrici, uccidenti”. La tradizione lascerebbe intendere che la parte della popolazione più cristianizzata fosse riuscita a debellare 

cosa che rappresenta di per se stessa una tortura. Queste circostanze erano rese più dure dalle prediche continue al popolo: era un dovere soffrire e sopportare oppressione e tirannia, e i diritti dell’ autorità di ogni tipo erano tali da giustificare anche i peggiori abusi. Difendendo l’autorità dei nobili, la Chiesa conservava la propria. L’era della grande caccia alle streghe fu l’epoca delle grandi rivolte popolari nella storia d’Europa, secoli che videro guerre civili religiose e le prime rivoluzioni nazionali dell’età moderna. I disordini terrorizzavano i membri delle classi dominanti di tutta Europa, le loro paure si rispecchiavano nella fantasia del sabba. Alla pari dello stesso diavolo che aveva intrapreso la sua carriera con un atto di ribellione verso Dio, la strega rappresentava la quintessenza del ribelle. I cacciatori di streghe, citando la Bibbia, proclamavano che “la ribellione è come il peccato di stregoneria”, i realisti scozzesi, nel 1661, proclamavano che “la ribellione è la madre della stregoneria”. Alcune credenze di chiara origine pagana, connesse ai culti della fertilità, sono il risultato di sedimentazioni antichissime sulle quali si sono innestate superstizioni medioevali, e stereotipi inquisitoriali. Il culto di Artemide-Diana, successivamente chiamata Herodiade, Heroda, Arada, Holda, Perchta, è giunto fino a noi deformato dalle demonizzazioni effettuate nel corso del medioevo. Alla divinità lunare in periodo cristiano si sovrappose il nome di Sant’Anna, cui vennero dati gli stessi attributi della luna. Nei testi sacri di tutti i popoli a creare l’Universo è un dio maschile: Jhave’, Budda o Brama. Nella stregoneria il principio primordiale è femmina.

Nello straordinario conflitto di correnti contrastanti

possiamo notare che l’uguaglianza della donna rappresentava dottrina prominente. Era Sofia, o Elena la donna affrancata, considerata come il vero Cristo che avrebbe salvato l’umanità.

Dai testi dei concili, dei capitolari e dei penitenziali, vengono indicazioni molto precise sulla modificazione interpretativa del fenomeno magico e dei rituali pagani residui. Si andava affermando un modus operandi che considerava magia e culto del diavolo anche pratiche religiose altre. Nell’alto medioevo i testi giuridici propongono termini come striges, strigae, lamiae: demoni femminili pagani dediti a truculenti rituali notturni, creature accomunate alle cosiddette herbarie. Se studiamo nel suo contesto il rilancio della persecuzione contro la stregoneria nel 1560-1570, possiamo renderci conto che la responsabilità dell’isteria collettiva sulla materia non è esclusivamente dei protestanti o dei cattolici, ma di entrambi; della lotta fra costoro.

La prima edizione del Malleus Maleficarum risale all’inverno 1486, fu stampata a Strasburgo. Fino al 1669 seguirono 34 edizioni, giungendo a più di trentacinquemila copie. Con la lotta alla stregoneria il cristianesimo ribaltava sulle donne del diavolo le imputazioni che il paganesimo aveva rivolto alle prime sette cristiane. Accanto alle accuse ricorrenti di ateismo, empietà, sacrilegio, contro i cristiani non mancarono l’accusa d’incesto, di cannibalismo, di culti orgiastici, scandalosi convegni notturni.

Secondo gli apologisti cristiani, la propaganda anticristiana che ebbe un peso determinante sulle persecuzioni fu dovuta in parte all’ignoranza del messaggio evangelico, quindi della condotta irreprensibile dei cristiani, ed in parte all’odio e al fanatismo delle masse popolari. Tra gli inizi del XIII secolo e la fine del XVII si calcola che siano state inquisite, incarcerate, torturate oltre nove milioni di persone, di cui un terzo finì al rogo.

Deduciamo non la scomparsa di un’accabadura quanto il perseverare del nasconderne la pratica agli occhi alieni.

 

LA RICCHEZZA NASCOSTA NEL POVERO MEZZOGIORNO – PARTE 1 di Carlo Curti Gialdino – Numero 1 – Luglio 2015

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archeologica impietrita nel tempo dalla terribile eruzione del Vesuvio del 79 d.C.; non solo perché tutta la striscia prospiciente il mare della Campania, a partire da Napoli, metropoli sin dall’antichità e le testimonianze delle varie dominazioni, è un concatenarsi di ritrovamenti archeologici noti (Pozzuoli, Paestum) e meno noti (Pontecagnano e i suoi reperti Etruschi); e, saltando alla Sicilia vi sono stratificazioni mozzafiato, di civiltà anche autoctone sovrapposte a civiltà, come la mitica torta sette veli che si gusta a Messina; senza dimenticare che ogni altra Regione meridionale, in varie epoche, ha ospitato vestigia di un glorioso passato. 
Il Mezzogiorno, insomma, è uno scrigno di tesori mai davvero presi in considerazione per diventare volani di sviluppo, Pompei compresa, pur essendo, insieme al Colosseo, il sito archeologico italiano più visitato.

E non solo perché qui c’è Pompei e la sua area 

L’unico problema per il locale a piano terra destinato a coronare il suo sogno era la creazione dei servizi igienici. Lo scolo aveva problemi di riflusso. Per cui, il signor Faggiano arruolò i suoi due figli maggiori per aiutarlo a scavare ed investigare sulle cause dell’inconveniente. Aveva previsto che per i lavori ci sarebbe voluto giusto una settimana. Se solo non avessero impattato in una sorpresa… “Trovammo corridoi sotterranei ed altre stanze, quindi continuammo a scavare” dice il sig. Faggiano, che ha sessant’anni. La sua ricerca del canale di scolo, che iniziò nel 2000, divenne una storia familiare di ossessioni e scoperta.

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LA RICCHEZZA NASCOSTA DEL POVERO MEZZOGIORNO

PARTE I

 

Si organizza il minimo indispensabile, quello utile a tour promozionali in fiere del turismo, dalla milanese BIT ad altre più esotiche, rivelandosi questo tipo di politica arida di risultati, se non per chi se ne va in giro per il mondo a fare il promoter delle bellezze meridionali.
Eppure, all’estero, pur non possedendo neanche la millesima parte dell’intrigante intreccio fra storia, cultura, località godibili del nostro Sud, riescono a fare grandi flussi turistici.
Situata nel tacco dello Stivale italiano, Lecce era un punto nevralgico del Mediterraneo, ambita dagli invasori per tale posizione strategica. Dai Greci ai Romani, fino agli Ottomani, i Normanni ed i Longobardi.
Per secoli, una colonna di marmo del santo patrono di Lecce, Oronzo, ha dominato la piazza centrale della città, fino a che, gli storici, nel 1901, non hanno scoperto un anfiteatro romano che si estendeva sotterraneamente per tutta quell’area ed hanno spostato la colonna per poter fare gli scavi.
“I primi insediamenti a Lecce risalgono ai tempi di Omero, o almeno così dice la leggenda”, dice Mario De Marco, storico e scrittore locale, rilevando che gli invasori sono stati attratti dalla posizione d’oro della città e dalle prospettive di saccheggio. “Ognuna di queste popolazioni è venuta e ha lasciato una propria traccia”.
Severo Martini, assessore alla Pianificazione territoriale e all’Urbanistica del Comune di Lecce, afferma che i reperti archeologici vengono alla luce regolarmente e possono rappresentare un bel problema per la pianificazione urbana. Un progetto per un centro commerciale ha dovuto essere ridisegnato dopo la scoperta di un antico tempio romano sotto il sito del parcheggio. “Ogni volta che si scava un buco” dice “secoli di storia escono fuori come niente”. Come per la famiglia Faggiano.

Tutto quello che Luciano Faggiano desiderava, quando acquistò l’anonimo palazzo a via Ascanio Grandi 56, era di aprire una 

trattoria.

Un nome assai simbolico, in quanto proviene da greco e significa “Vedimi, sono la vita”. “Continuavo a scavare per realizzare il mio accesso alla fogna”, dice. “Nel contempo, però, ogni giorno speravamo di trovare nuovi manufatti”. Gli archeologi spinsero il signor Faggiano ad andare avanti. Oggi, l’edificio si è trasformato nel Museo Faggiano, un Museo archeologico privato, autorizzato dal Comune di Lecce.
Scale in metallo consentono ai visitatori di scendere nelle camere sotterranee, mentre le sezioni di pavimento in vetro servono ad ammirare le stratificazioni storiche dell’edificio. Rosa Anna Romano, una docente operante presso il Museo, è la vedova di uno speleologo dilettante che ha contribuito a scoprire la Grotta di Cervi, una grotta sulla costa vicino Lecce, verso Otranto, decorata con pittogrammi neolitici. Per saperne di più, vi consiglio di consultare il sito www.museofaggiano.it.
Con molta sorpresa, scoprirete che è tradotto in 9 lingue, compreso russo, cinese e giapponese. Certamente, il MiBACT del Ministro Franceschini ha da imparare, con quel suo sito ‘verybello’ che a stento parla inglese! Intanto, però, lo stesso Ministero ha comunicato la disponibilità di Fondi europei 2014 – 2020 per sostenere iniziative culturali nel Mezzogiorno. Ecco la comunicazione divulgata dal Ministero: “La Commissione Europea ha approvato il programma operativo “Cultura e Sviluppo” 2014 – 2020 cofinanziato dai fondi comunitari (FESR) e nazionali, per un ammontare complessivo di circa 490,9 milioni di euro, che vede il MiBACT nel ruolo di amministrazione proponente e Autorità di gestione. Il Programma Operativo Nazionale (PON) “Cultura e Sviluppo” 2014 – 2020 è destinato a 5 regioni del Sud Italia – Basilicata, Calabria, Campania, Puglia e Sicilia –  ed ha come principale obiettivo la valorizzazione del territorio attraverso interventi di conservazione del patrimonio culturale, di potenziamento del sistema dei servizi turistici e di sostegno alla filiera imprenditoriale collegata al settore. Gestito dal MiBACT, il PON dà attuazione alle scelte strategiche ed agli indirizzi definiti dall’Accordo di Partenariato (AdP) tra l’Italia e la Commissione Europea.

Il signor Faggiano trovò tracce di un mondo sotterraneo che risaliva a prima della nascita di Gesù: un tomba messapica (antica popolazione italica stanziatasi nella Murgia meridionale), un granaio romano, una cappella francescana ed altri dipinti dei 

Cavalieri Templari,

dalla vicenda così controversa, perseguitati dal re Filippo il Bello di Francia. Ma quella è un’altra storia. Se vi capita, approfonditela. La trattoria è ora diventata un museo, dove i ritrovamenti sono esposti. ‘Gli uomini di casa’ scoprirono un piano nascosto che portò ad un altro piano in pietra medievale, che portò a sua volta ad una tomba dei Messapi, i quali vivevano nella regione secoli prima della nascita di Gesù. Presto la famiglia scoprì una camera usata per conservare il grano dagli antichi romani e la cantina di un convento francescano in cui le suore, al tempo, preparavano i corpi dei morti alla sepoltura. Le Forze dell’Ordine arrivarono e bloccarono gli scavi, intimando di non addentrarsi in siti archeologici abusivi. Il presunto ‘tombarolo’ rispose loro che stava solamente cercando di costruire un tubo di scarico.
Passato un anno, finalmente gli fu permesso di riprendere la sua ricerca per il tracciamento della fogna, a condizione che i funzionari della Sovrintendenza partecipassero ai lavori. Emerse, così, un tesoro sotterraneo costituito da antichi vasi, bottiglie devozionali romane, un antico anello con simboli cristiani, manufatti del Medioevo, affreschi nascosti ed altro. “Abbiamo trovato – dice Luciano Faggiano – molto vasellame di epoche diverse. C’erano due tombe, ma una era stata svuotata già ai tempi della costruzione dello stabile, nel 1933.
Le poche monete, molto corrose, frutto degli scavi sono ora allo studio della Sovrintendenza. Non so, dunque, di che epoca sono. Mi ha colpito l’anello, che doveva essere un anello da sigillo, tant’è che lo abbiamo ritrovato ancora sporco di ceralacca. Era in oro, almeno laminato su altro metallo, con uno stemma indimenticabile: l’ostia consacrata. E’ impressionante, il disegno richiama molto quello che ora Papa Francesco ha assunto come suo stemma. Sarebbe bello che lo vedesse.
”La casa dei Faggiano ha livelli che sono rappresentativi di quasi tutta la storia della città, dai Messapi ai Romani, dal Medioevo fino all’età bizantina”, dice Giovanni Giangreco, funzionario del Ministero dei Beni culturali, ora in pensione, coinvolto nella supervisione degli scavi. I funzionari della Sovrintendenza, intuendo di essere di fronte ad una grande scoperta, portarono un archeologo sul sito, anche se i Faggiano si sono accollati i lavori di scavo, sostenendone le spese. Il signor Faggiano, cuoco provetto, continuava a sognare ancora una trattoria anche se, ormai, il progetto era diventato la sua Moby Dick. Intanto ha fondato un’Associazione culturale, denominata “Idume”, dal nome del fiume che scorre sotto la città di Lecce.

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L’Accordo individua tra gli obiettivi tematici la protezione, promozione e sviluppo del patrimonio culturale, considerato asset potenzialmente decisivo per lo sviluppo del Paese, sia in quanto fattore cruciale per la crescita e la coesione sociale, sia per gli effetti e le ricadute positive che esso è potenzialmente in grado di determinare nei rispetti del sistema dell’industria turistica.
Il Programma ha una dotazione finanziaria di 490,9 milioni di euro, di cui 368,2 milioni di euro a valere sui fondi strutturali europei (FESR) e 122,7 milioni di euro di cofinanziamento nazionale.
Il PON “Cultura e Sviluppo” 2014-2020 viene attuato attraverso una filiera corta e diretta: il MiBACT Amministrazione titolare del Programma si avvale delle sue articolazioni territoriali (Segretariati regionali, Poli museali, Soprintendenze) nell’ambito di una strategia di raccordo e di coordinamento con le Amministrazioni regionali delle cinque regioni interessate, con le quali saranno sottoscritti specifici Accordi Operativi di Attuazione (AOA)”.
Nulla cambia circa la necessità di coinvolgimento delle autorità regionali, in passato piuttosto inerti in materia, tant’è che ci sono state tantissime volte che si è corso il rischio di perdere i Fondi pur attribuiti, proprio a causa dell’incapacità progettuale delle stesse.
Si spera, invece, che ora, messe sotto il microscopio proprio per gli errori del passato, le Regioni siano più efficienti nella loro azione. Molto si potrebbe fare, però, se i cittadini, pur se attanagliati dalla crisi, fossero più propositivi e meno rassegnati. Propositivi come il signor Faggiano di cui vi ho raccontato.
Da queste pagine, parte un appello affinché vi sia maggiore partecipazione e minore lamentazione.
La filosofia dell’armiamoci e partite, se protratta, non consentirà al Sud di mettere in pista i suoi beni straordinari: un’eredità che è davvero un peccato dilapidare!

 

IL PARCO LETTERARIO CARLO LEVI. UNA PERLA DA RISCOPRIRE di Antonio Genovese – Numero 1 – Luglio 2015

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1. La prima volta che ci ho messo piede, su invito di una professoressa in pensione (che di allievi ne aveva menati tanti, in giro da quelle parti), mi sono chiesto come avessi fatto a non venirci prima. Infatti, avevo letto il Cristo di Carlo Levi, moltissimi anni prima, e quasi pensavo ad un mondo altro da quello in cui pure avevo vissuto negli anni fondamentali della mia formazione, nella Basilicata occidentale, dove l’influenza del pugliese è assai più sfumata e più avvertita quella del campano.
Ma il primo impatto non è stato con la lingua, con uno dei tanti dialetti della Basilicata (ancora non sufficientemente studiati, a mio avviso, nonostante gli studi di Bigalke e di Rohlfs1) ma con il paesaggio, perché, lasciandoci alle nostre spalle Stigliano (e il Parco Regionale di Gallipoli Cognato), siamo scesi verso le valli alluvionali, abbandonando il verde 

IL PARCO LETTERARIO CARLO LEVI. UNA PERLA DA RISCOPRIRE

 

Sembrava quasi di vivere molte delle pagine del romanzo, specie di quelle in cui l’Autore (rispolverate nozioni di medicina, che pensava di non dover mai utilizzare) racconta della sua missione notturna verso la frazione di Pantano, in visita di un malato grave (di malaria) che, purtroppo, non riuscirà a salvare. Il percorso, fra i calanchi in una nottata d’inverno, tra il nevischio, con la luce silenziosa della luna bianca, parla di queste argille che «precipitano verso l’Agri, in coni, grotte, anfratti, piagge, variegate bizzarramente dalla luce e dall’ombra», che poi l’artista ha anche cercato di raffigurare in molte sue opere pittoriche (quelle in terra di Basilicata sono visitabili presso il Museo nazionale d’arte medievale e moderna della Basilicata, che si trova a Matera, e ha sede a Palazzo Lanfranchi3 o, ad Aliano, nella Pinacoteca, che pure il tour del Parco consentirà di visitare) ma che ovviamente vanno vissute, compiendo tali percorsi en plein air, se del caso anche guidati da qualche accompagnatore: il più famoso di tutti è il prete, don Pierino (vero e proprio Virgilio, conoscitore di ogni dettaglio ma che non sempre rivela di buon grado, se non si entra in sintonia con lui).
Anche il visitatore, perciò, dev’essere avvertito che, come tutti i posti piccoli e remoti, non sempre bene indicati (anche quanto a segnaletica stradale), occorre armarsi di quella pazienza e gentilezza che non sembra avere avuto l’autore di un risentito pezzo giornalistico4.

intenso dell’ambiente alto collinare-montano, per calarci, guadando i fiumi Sauro e Agri, in un paesaggio quasi lunare: erano i calanchi2.

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2. La visita della casa di Carlo Levi è una tappa obbligata del percorso. Essa è rimasta la stessa di quando fu lasciata dal confinato politico nel 1936, assai prima di quanto lui stesso pensasse, quando già si era rassegnato a viverci a lungo. Dentro non ci sono oggetti, né suppellettili, né arredi (se si vuole, invece, vedere qualcosa dell’oggettistica del periodo, bisogna farsi aprire le porte del cd. museo della “Civiltà contadina” di Aliano, pure previsto nel tour), essendo rimasta completamente vuota: un vuoto che sicuramente emoziona così come emoziona il paesaggio che da quella porta si ammira e che si può meglio apprezzare dalla terrazza panoramica. 
Qui Levi dipingeva e costituiva l’attrazione di tanti giovani alianesi, oggi dispersisi nel mondo. Una questione che mi incuriosiva, avendo qualche anno prima, avuto tra le mani una pubblicazione del Servizio studi di Cariplo (Il Paese di Carlo Levi: Aliano, cinquant’anni dopo), Bari 1985, pp. 124 (che nel frattempo mi risulta essere stato anche digitalizzato e quindi più facilmente consultabile) dove si mostravano le enormi trasformazioni intervenute nel piccolo comune portato all’attenzione del mondo dal suo illustre ospite (suo malgrado). La distanza può essere ancor meglio misurata leggendo (e scorrendo le belle immagini riportate) il saggio di C. Magistro, Aliano e i suoi protagonisti Il racconto, tra storia e letteratura, dal dopoguerra alla caduta del fascismo, in Basilicata Regione Notizie, nn. 129-130 (p. 142 e ss.)5.
In realtà le polemiche contro l’Autore erano divampate subito, nel primo dopoguerra, dopo la pubblicazione del romanzo, che andava a ruba anche all’estero, come ben documenta Francesca R. Uccella in Cristo si è fermato a Eboli. Gagliano e il parco letterario di Aliano: metamorfosi di una memoria, in Quaderns d’Italià 13, 2008, pp. 147-1606 (l’Autrice studia la relazione e l’interazione reciproca tra Levi, l’opera – il Cristo – e la comunità di Aliano dal 1945, data di pubblicazione del romanzo fino al 2001, anno dell’ istituzione del Parco Letterario Carlo Levi).
Insomma, se da un lato, gli «alianesi» (o meglio, alcune parti qualificate di essi) hanno modificato la propria posizione, passata dall’originaria avversione fino all’inclusione del suo cantore, con l‘istituzione del Parco letterario, dall’altro lo stesso Levi ha fatto diventare l’esperienza del confino così centrale nella sua vita di artista e di politico, da scegliere poi di essere sepolto proprio ad Aliano (e la visita alla tomba dell’Autore è, necessariamente, una tappa per il visitatore che magari, ivi, potrà rileggere proprio i passi del romanzo che narrano delle sue limitate e controllate passeggiate in quel luogo (posto a picco sui calanchi!: resisterà – con il tempo – alla sfida con i fenomeni naturali?) e degli incontri, narrati con un certo interesse umano e letterario.

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3. Certo non è un mistero che Levi preferisse vivere a Grassano piuttosto che ad Aliano: ne parla nel Cristo; ne racconta del ritorno, quasi come un premio al confinato «modello». Vi si reca nuovamente (per terminare di dipingere alcune tele) e richiama alla mente tutti i ricordi della sua prima sistemazione: una realtà sicuramente più vivace e cittadina (che i grassanesi hanno voluto ricordare e far visitare, istituendo anche un proprio, secondo parco leviano7) e che non avrebbe voluto lasciare, se non vi fossero stati i provvedimenti punitivi presi dall’autorità di polizia, per la sua relazione con una donna sposata (ad un noto personaggio) e che lo raggiungeva da Torino per vivere il proprio rapporto, più o meno clandestino, sicuramente non gradito al regime (e forse ai benpensanti grassanesi!).
Resta il fatto che l’omaggio a Grassano, contenuto nel libro, è piuttosto un ricordo letterario (come anche, per certi versi, lo è il passaggio per Matera), ma non segnerà l’Autore nel suo profondo così come lo segnerà Aliano, al punto che il medico e dissidente torinese sentirà il bisogno di farne il centro della sua nuova esistenza, quantomeno come ricordo indelebile e come riflessione continua su quella formidabile scoperta etno-antropologica.
La scoperta ha poi alimentato tutta una vasta letteratura (che, ovviamente, qui non può essere richiamata, bastando solo far rinvio al lavoro, sopra menzionato, di Francesca R. Uccella ed alla bibliografia contenuta nelle note del suo bel saggio) ed ha persino prodotto una ricerca dei discendenti dei protagonisti dell’opera che ha portato ad una documentazione fotografica (di Antonio Pagnotta) di grande rilievo: frutto della ricerca socio-fotografica della sociologa Graziella Salvatore e del foto-reporter Antonio Pagnotta, “La Ruota, la Croce e la Penna”8.
E si potrebbe continuare, ancora a lungo.
Ma forse qui conviene arrestarsi e riprovare a parlarne dopo un tour nella Basilicata orientale.

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 1 cfr. F.R., Le lingue della Lucania, in http://www.regione.basilicata.it/giunta/site/giunta/detail.jsp?otype=1120&id=285326&value=consiglioInfor – 2 se ne veda qualche immagine, anche se solo parzialmente coinvolgenti – dato che l’esperienza va vissuta percorrendo tutta l’area ed immergendosi nella dimensione geologico-naturalistica – nel sito web del Parco Letterario: http://www.parcolevi.it/ – 3 http://www.visitmatera.it/palazzo-lanfranchi.html – 4 http://basilicata.basilicata24.it/lopinione/interventi-commenti/volevo-visitare-luoghi-fu-confinato-levi-cacciato-9791.php. – 5 ora in: http://consiglio.basilicata.it/consiglioinforma/files/docs/32/36/05/DOCUMENT_FILE_323605.pdf – 6 cfr.: http://webcache.googleusercontent.com/search?q=cache:YrOwPaKnjc4J:http://www.raco.cat/index.php/QuadernsItalia/article/download/129463/178846%2Bfrancesca+uccella+cristo&hl=it&gbv=2&&ct=clnk -7 http://www.comune.grassano.mt.it/Parco.php – 8 su cui, vedi http://www.italplanet.it/templateStampa.asp?sez=81&info=4915

 

MEDITERRANEO CENTRO DELLE DIVERSITÀ di Giusto Puri Purini – Numero 2 – Ottobre 2015

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Palestina a Roma, il viaggio di S. Paolo.
Poi, l’esperienza ai “Vivai Del Sud” come Art-Director, in un contraltare di ombre sfavillanti, al design milanese, allora imperante, rigoroso e scarno.
Il mio punto di partenza di questa lunga ricerca senza fine è stato un libro, divenuto un cult degli anni 60, edito in USA, “The Hole Earth Catalogue”, accompagnato da uno splendido “Architettura Spontanea” di Bernard Rudowsky.
Nel Mediterraneo, quell’edificare nuragico, quei trulli di pietra, le Pagliare salentine e tante altre tipologie simili, sprigionavano un fascino che solo una vera armonia con la natura circostante poteva sprigionare.
Il Sud diventava così un osservatorio privilegiato, ed era l’habitat a far scorrere fra le genti quel minimo comune denominatore. Cambia lo scenario e il pensiero va al Nostro Mare, ai 1-10 -100 – Mediterranei, sparsi nel mondo, dove condizioni simili avevano creato Civiltà Simili, fino a raggiungere, nonostante rivalità e conflitti, eccellenze in tanti campi.

Dall’Himalaya quindi, “nuovo” antico centro, verso di noi (occidente) come un sasso in uno stagno attraverso fasce circoncentriche di culture e civiltà complesse, fino al Mediterraneo, alle colonne d’Ercole, superate psicologicamente e storicamente solo nel 1492, dall’altra parte, verso il continente americano, dove le colonne d’Ercole asiatiche rappresentavano per i popoli in movimento un “unicum” terrestre, continuo, e oggi è in distanza reale come da Stromboli vedere Panarea.
In questa collocazione strategica delle cose, come un grande progetto del passato, appare più naturale, originale per noi del Mediterraneo, proporre un viaggio a ritroso dai Greci verso oriente, alla ricerca di quelle tracce unificanti che diano ragione al progredire all’incontrario della storia e delle sue influenze.

immaginare un nuovo centro più “Mediterraneo” degli altri, il più alto, il più forte, il più vario climaticamente, centro di produzione di fonti vitali quali l’acqua, la terra, l’aria e il fuoco.

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MEDITERRANEO CENTRO DELLE DIVERSITÀ

 

Giusto-Puro-Purini

Questa e altre sono

le responsabilità di MYRRHA, raccogliere quelle tracce originarie, per avviarci verso una nuova contemporaneità dei mezzogiorni, che prodotta dal territorio e dalle genti che ci vivono, contribuisca, con quelle nobili origini, alla trasformazione del mondo in direzioni il più possibile sostenibili.

Ma, se similitudini tra le poleis sono una certezza, che nasce dalle analogie delle necessità, diverso è il discorso sulle ideologie, sulle religioni, che dovrebbero essere le cinghie di trasmissione delle varie conoscenze, e dei suoi vari stati di sviluppo, e al contrario offuscano, ora da una parte ora dall’altra, con interventi drastici, l’immagine con la quale hanno assunto il loro ruolo egemonico tra le genti.
Se prevalesse la politica del “senso comune”, quello con la C maiuscola, a dispetto delle faziosità pratiche e della microconflittualità, in un’area come quella del Mediterraneo, rimarrebbero, alla fine, le diversità individuali e culturali sempre più appariscenti e spettacolari, come anche le sfumature e le similitudini… si fonderebbero piramidi con colonne, palme con bastoni, vezzi con potenzialità costruttive, i vuoti con i pieni, le ombre con la luce, i colori, in un infinito gioco delle parti, un crogiolo pieno da cui pescare con passione.

Come un’atomizzazione del territorio, collegati da flussi energetici, così ci appaiono gli insediamenti umani del Mediterraneo ed è questo infine il segno di molteplicità, intesa come scuola, fucina delle esperienze umane, come sviluppo del viaggio e della ricerca, e oltre a noi verso Est, l’immane pianeta oriente, più antico, più vasto, più alto, con altrettanti paradisi,

(French quarter, S. Charles, ecc.).
Immaginare tutto ciò, insieme ad influenze indiane, africane, francesi, inglesi, creole… un altro Mediterraneo e così via… Ed è questo il senso della ricerca (così come appare nell’Oltre il 7), suggerendo di collegare a questi viaggi, ed a questi spunti, un progettare continuo, un essere presente con strumenti adeguati, dubbi e certezze (impermanenze) suggerendo porte da aprire, sguardi da volgere, attivare i nostri sensi, raccontare le storie che fluiscono da nuovi incontri, costruire molteplici direzioni.
E, viaggiando oltre i Greci, quindi, verso la Ionia; l’Asia Minore e oltre; riuscire a far pace con la cultura d’origine, quella Greca, la nostra, nonostante si sia impadronita nei secoli di verità profonde, provenienti dal lontano oriente, e dopo averle acquisite, abbia alzato un baluardo verso quelle culture, considerando barbare le terre dalle quali Alessandro Magno, tanto aveva appreso (per esempio il Dio unico) in così poco tempo.
Scoprire, inoltre, affascinati, le favole dei miti, e, con l’architettura, le loro componenti terrene, come il mito della “Chimera”, drago e leone, sconfitta da Bellerofonte, con un dardo di piombo, con l’aiuto di Pegaso il cavallo alato, e precipitare sui monti della Lycia accanto ad Olimpia, lasciando al suolo 600 bocche di fuoco ancora fiammanti oggi, e descritte da Erodoto, in viaggio via mare da Side verso Alicarnasso, trent’anni dopo l’epica impresa di Alessandro Magno (330 a.C.).

 

Questo “non essere” cultura sedentaria ne ha spinto alcuni, nei tempi più remoti, verso il nord prima, e verso oriente poi, ancora… verso lo stretto di Bering, e le pianure nord americane, determinando la nascita e lo sviluppo di nuovi popoli, allungatisi e frazionatisi in un’infinita migrazione verticale… fino all’australe 

Patagonia…

Il Sud è nel mio DNA e nella mia mente da sempre. Un’attrazione irresistibile per quelle leggende e quei miti! Ho avuto un padre triestino-mitteleuropeo e una madre salernitana. Il Sud è entrato nella mia vita, come longitudine e latitudine, durante i miei studi alla facoltà di Architettura a Valle Giulia, e proseguito come scenografo di Roberto Rossellini con “Gli Atti degli Apostoli”, dove si descrive, dalla 

con centri del mondo come il Kaylas nell’Himalaya, ove il “macro” del pianeta si esalta, e i fiumi fluiscono senza fine verso i quattro punti cardinali della terra, e con loro fluisce il sapere, antichi intrecci, di dialogo cosmico mai interrotto, quel fruscio di qualche cosa che è arrivato anche a noi e forse ad altri.
E poi, oltre l’estremo Oriente, l’America invasa in tempi più recenti ancora dal “suo Oriente”, ma questa volta siamo noi, i popoli dell’occidente, ad avere incrinato l’idilliaco vivere delle popolazioni indiane, ricche di grandi civiltà e depositarie di antichi segreti. Vi abbiamo condotto in catene gli africani, e da questa unione impossibile è nato il nuovo continente, dove il magnifico e l’orribile si sono spesso avvinghiati in furiosi corpo a corpo, per fare sorgere comunque un laboratorio umano d’incredibile spessore, che da questa esperienza sta conducendo oggi la sfida mondiale agli altri continenti e alle vecchie sedimentazioni.
Mi viene in mente, tra gli altri “Mediterranei” il Golfo del Messico con New Orleans, regina in USA della musica, città “entertainment” del passato.

Il fatto di collegare impianto architettonico e giardino attraverso continui confronti e interazioni, ha reso possibile assimilare i segnali di un’architettura filtrante che sdrammatizzasse la severa occupazione di spazio del corpo centrale, con elementi leggeri che ne fossero come un’intercapedine e, quindi, anche matrice di una nuova possibilità di progettazione anche a livello di scale diverse, dai padiglioni effimeri ad interi quartieri di case minute (2 piani) e leggiadre, soffuse di Palladismo e ricche di armonia

Da qui l’idea dei due orienti, se visto dal nostro osservatorio mediterraneo, marginale in qualche modo rispetto al movimento vorticoso delle genti sino, mongole, tibetane.
Esse sono per noi il profondo oriente; quindi diviene “oltre oriente” per noi anche la terra degli maquis sugli altopiani messicani, e gli sciamani di corvo Rosso nelle “Black Hills”.
Le similitudini etniche sono stupefacenti, quelle semantiche e spirituali altrettanto…
Coloro invece che sono rimasti e hanno vegliato nei millenni all’ombra del Kaylas, nel centro del mondo al centro delle vette più alte, lì dove l’impatto della deriva dei continenti è stato più forte (subcontinente indiano con continente asiatico) sono il popolo tibetano, detto per eccellenza “il popolo degli uomini” così come si definiscono gli indiani delle praterie americane.
Questo popolo degli uomini è oggi calpestato come tanti altri popoli in terre ancora più lontane, ad Oriente… e come ci accaniamo contro la foresta Amazzonica, privando la terra del suo ossigeno, così falciamo i popoli antichi, cinghie di trasmissione di quella impertinenza, di cui avremo bisogno, oscurando i pochi fenomeni luce a noi rimasti.
Andare quindi verso oriente in un viaggio orizzontale attratti da un’antica verità, un’origine storico-geografica comune, una culla dei popoli, che attraverso il suo dispiegarsi, illustri come un grafico i movimenti vorticosi degli uomini;

 

L’ALLIEVO FUGGITIVO di Giovanna Mulas – Numero 2 – Ottobre 2015

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giudicati privi di saggezza. Ma la nostra non è società saggia. L’uomo pensante, di norma, viene deriso, ché nel suo costante tentativo di spiegare una realtà che la Massa non riesce a immaginare e quindi metabolizzare, dona l’impressione di voler respingere quella stessa realtà, cosa che in effetti accade, ma che per quanto falsa, rappresenta per la Massa una realtà di tranquilla abitudine, di sicurezza piena. “…Nel mondo conoscibile, punto estremo e difficile a vedere è l’idea del bene; ma quando la si è veduta, la ragione ci porta a ritenerla per chiunque la causa di tutto ciò che è retto e bello, e nel mondo visibile essa genera la luce e il sovrano della luce, nell’intelligibile largisce essa stessa, da sovrana, verità e intelletto…” (Platone, La Repubblica, libro VII, 517 b – c).

L’ALLIEVO FUGGITIVO

 

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In Italia, e soprattutto nel Sud, una parte troppo ampia degli adolescenti è priva delle competenze necessarie per crescere e farsi strada nella vita:

più di 1 minore su 10 vive in condizioni di povertà estrema e aggrava e consolida, come in un circolo vizioso, le condizioni di svantaggio e di impoverimento già presenti nel nucleo familiare. Povertà economica ed educativa si alimentano reciprocamente, trasmettendosi di generazione in generazione. 
In questa nostra Società, in preda ad oscurantismo profondo, formattata e annichilita, sono due le scelte che l’Uomo può compiere attraverso Arte e Cultura: o si esprimono le strutture conservatrici stordendosi e stordendo di Non Necessità individualiste legate comunque ad economia e potere; oppure ci si fa espressione di quella libertà non omogeneizzabile alla tirannia consumistica sostenendo le parti progressive, decretando una rivoluzione nelle coscienze, uno stesso rapporto rivoluzionario fra poesia e vita che smorzino indifferenza etica e insensibilità sociale, disumanizzazione dei rapporti.

Nulla è meglio, per il Sistema, dell’ignorante: chi si renderà conto della profonda ignoranza del Sistema, della sua pericolosità?
Penso all’affascinante mito della caverna di Platone.

è soltanto tra gli sciocchi che i saggi vengono 

Risulta fondamentale levigare, limare la pietra grezza, lavorare sulla coscienza del cittadino comune frastornato da consumo, informazione deviata.

Secondo il nuovo rapporto di Save the Children “Illuminiamo il Futuro 2030 – Obiettivi per liberare i bambini dalla Povertà Educativa”, nel Sud il 48,4% dei minori non ha letto neanche un libro nell’anno precedente, il 69,4% non ha visitato un sito archeologico e il 55,2% un museo, il 45,5% non ha svolto alcuna attività sportiva. La metà delle scuole è priva di un certificato di agibilità e/o abitabilità, il 54% degli edifici non è in regola con la normativa anti-incendio, il 32% non rispetta le norme anti sismiche. A Sud e nelle isole, la percentuale di adolescenti che non consegue le competenze minime in matematica e lettura raggiunge rispettivamente il 44,2% e il 42%, con un picco estremo in Calabria (46% e 37%).
La lettura è indispensabile per crescere, comprendere, per cambiare visione dell’esistenza. Ma siamo sicuri che un lettore sappia distinguere la buona lettura dal puro commercio editoriale? 

Censura dei testi scolastici: addirittura cancellazione, dai piani di studio, di nomi tra i più validi e riconosciuti della Letteratura mondiale, rappresentanti del pensiero puro. Privatizzazione dell’istruzione, uno dei diritti fondamentali dell’Uomo, ogni Uomo.

Chi è privo della filosofia (coloro che sono all’oscuro della verità) sono paragonabili ai prigionieri di una caverna dove sono nati e cresciuti, costretti a guardare in un’unica direzione ché incatenati a terra. Hanno un fuoco alle spalle, tra il fuoco e i prigionieri corre una strada rialzata. Un muro costeggia questa strada, alcuni uomini vi protendono piante, oggetti e animali, i prigionieri vedono soltanto la propria ombra e quella degli oggetti proiettata sul muro dalla luce del fuoco. Dunque i prigionieri considerano queste ombre reali: non hanno cognizione di ciò a cui sono dovute. Se qualcuno degli uomini che trasportano le forme parlasse, si formerebbe nella caverna un’eco che spingerebbe i prigionieri a pensare che la voce provenga dalle ombre che vedono passare sul muro.
Chi riesce a fuggire dalla caverna vede il sole ma prova forte dolore agli occhi: per la prima volta vede le cose come davvero sono, si rende conto che fino a quel momento è stato ingannato da ombre.

Il filosofo, il fuggitivo, sentirà come un dovere, verso i dormienti, indicare la strada per uscire. Troverà molta difficoltà nel persuaderli (è una realtà che loro non immaginano nemmeno), potrebbe addirittura spingere gli altri prigionieri ad ucciderlo, se tentasse di liberarli e portarli verso la luce,

in quanto, per loro, non vale la pena subire il dolore dell’accecamento e la fatica, per andare a guardare le cose da lui descritte. Perciò i dormienti, i prigionieri, rifiutano per loro stessa volontà l’invito ad uscire, a conoscere. 
Il prigioniero liberato sarebbe capace di vedere il sole stesso, invece che il suo riflesso nell’acqua, e capirebbe che “…è esso a produrre le stagioni e gli anni e a governare tutte le cose del mondo visibile e ad essere causa, in certo modo, di tutto quello che egli e suoi compagni vedevano.”. 
Non è accettabile che il futuro dei ragazzi sia determinato dalla loro provenienza sociale, geografica o di genere; in questo preciso momento storico è importante lo sforzo delle librerie indipendenti, la resistenza di associazioni culturali e di coloro che possono favorire il dialogo e l’incontro, il pluralismo. 
E’ ovvio che la privatizzazione del sistema di istruzione mira ovviamente ad una nuova, generale ondata di ignoranza, plagio della Massa già disarticolata, sbandata: il dovere dell’intellettuale, oggi, è dunque di lavorare di costante consapevolezza con la gente e tra la gente. Ovunque. 
Conditio Sine Qua Non è l’operare di teorico-pratica tra il politico, sociale e il culturale tramite gruppi locali multidisciplinari, in costante esercizio di immaginazione, con la capacità di trovare risposte in base alle risorse economiche disponibili. Scorgere, rivelare risorse in tempi, come gli attuali e i prospettati futuri, di intimo limite economico. Le enormi diseguaglianze che oggi colpiscono i bambini e i ragazzi in Italia vanno superate attivando subito un piano di contrasto alla povertà minorile, potenziando l’offerta di servizi educativi di qualità. E’ inoltre fondamentale stringere costantemente alleanze con ulteriori, diverse realtà in grado di arricchire, in termini di cultura e umanità, le altre Comunità: solo ciò che si conosce, non si teme. 
Amo immaginare un legame forte, più forte tra tutti Noi. 
Che arriva al sangue, dove la terra si ferma.

 

UNA MADRE COSTITUENTE PER IL SUD di Carmen Lasorella – Numero 2 – Ottobre 2015

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Nel 1946, una donna trentina veniva eletta con i voti del Sud all’Assemblea costituente. Si chiamava Maria De Unterrichter. Era di cultura tedesca ed aveva sposato un napoletano. 
Contraddizioni? Fu una ricchezza. 
Accaddero tante cose in quell’anno in Italia. Il referendum cancellò la monarchia. Le donne ebbero il diritto di voto. Si lavorò alla Costituzione della Repubblica. Si prese in mano la vita del Paese, che usciva dalla guerra. Non ci furono solo i Padri costituenti, dunque, ma anche le Madri costituenti: 21 donne su 556 deputati. Una pattuglia composta da 9 Dc, 9 comuniste, 2 socialiste e 1 rappresentante del Fronte dell’Uomo qualunque, una formazione di centro-destra.

UNA MADRE COSTITUENTE PER IL SUD

 

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Con le colleghe che vissero quell’irripetibile avventura, condivise la prima battaglia istituzionale di genere, che superò le radici e le ideologie: ottenere il rispetto degli uomini; influire attraverso le scelte politiche sui destini della neonata repubblica in un dopoguerra di sconfitta; occuparsi della condizione femminile, cominciando da quella più emarginata del Sud.

Del Mezzogiorno erano in cinque: due siciliane, due abruzzesi e una pugliese, cui si aggiunse, sesta, la De Unterrichter, che era stata eletta nella circoscrizione lucana (Potenza, Matera), già che suo marito, Raffaele Jervolino, correva per Napoli. Lei veniva da esperienze mittle europee, dalla Fuci, dai movimenti femminili che stavano nascendo, dall’insegnamento e da una realtà profondamente cattolica.

Il Piano Marshall fu pensato per il Nord capitalista, mentre agli imprenditori del Sud non fu offerto lo stesso sostegno, nè condizioni di parità.

L’ambiente intorno non era dei più favorevoli. Per ragioni diverse, ma riconducibili allo stesso pregiudizio maschilista, le donne erano appena tollerate, considerate troppo emotive per occuparsi di politica o di economia, inadatte agli incarichi pubblici, vissute come una minaccia per la stabilità della famiglia. Lo pensavano i democristiani e perfino di più le sinistre, nonostante proprio le donne, durante la guerra, entrando nelle fabbriche e negli uffici, oltre agli impieghi sanitari e scolastici, avessero egregiamente sostituito gli uomini al fronte. Era un sentire diffuso, che il Sud esprimeva in modo radicale. Quel Sud che paradossalmente aveva segnato la più alta percentuale di affluenza alle urne delle prime elettrici (86,2 contro 84,8 elettori, mentre in Sardegna aveva superato l’87 per cento), laddove però le donne meridionali, in gran parte analfabete, avevano votato a maggioranza per la monarchia, condizionate dal retaggio delle tradizioni e dal fascino della corona. 
In un tempo in cui vigeva ancora la patria potestà e la potestà del marito, fuori dalla magistratura e dalla diplomazia, con salari deliberatamente più bassi e in un contesto culturale arcaico, che si imperniava proprio sull’arretratezza femminile,

le prime donne investite di un potere istituzionale pensarono al Sud. E cominciarono naturalmente dalla formazione, seguendo anche il metodo Montessori.

L’equilibrio, appunto. 
Sia per le donne, sia per il Sud non è stato mai cercato. Ai tempi della De Unterrichter sappiamo come è andata. Per le aree depresse del Mezzogiorno, si preferì una riforma agraria, piuttosto che l’industrializzazione. Alla domanda di giustizia sociale, si rispose con la creazione di una debole classe media, che avrebbe arginato le rivendicazioni comuniste e rassicurato “i padroni”, come pure gli interessi d’oltre oceano. Si consolò la miseria con le opere pubbliche e si alimentò il sottogoverno con la speculazione edilizia.

Perfino il Papa, negli stessi giorni, se ne è occupato. Ha espresso concetti forti: le donne devono trovare il posto che spetta loro nella società, la corruzione le sfrutta, i pregiudizi le isolano, peggio, sono ingiustamente demonizzate. Una società che vuole crescere deve trovare l’equilibrio.

In sostanza, deliberatamente, mancò una visione unitaria del Paese. Secondo i codici keynesiani, all’epoca di moda, solo lo Stato avrebbe potuto rilanciare l’economia del Sud. Il Mezzogiorno avrebbe vissuto di intervento pubblico e di ammortizzatori sociali. Sarebbe stata una storia di contributi a pioggia, con la Cassa del Mezzogiorno e di sudditanza ai partiti. Inevitabili le collusioni, l’infezione delle mafie, la sottocultura, la rinuncia al progresso – come teorizzava Pierpaolo Pasolini – per il quale il progresso era una nozione ideale, sociale e politica, molto più importante dello sviluppo, in sé solo pragmatico ed economico. 
Se ci saranno gli stati generali per il Mezzogiorno, come annuncia il governo Renzi, dopo 70 anni – diciamo – di equivoci, bisognerebbe trovare un centro alle mille e una cose da fare.

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Contaminazione di altre esperienze, conoscenza, diritti, valori per incidere la carne morta di quella società, cercando anche di attenuare lo “scambio ineguale” – come lo definiva la semantica marxista – del Mezzogiorno rispetto al Nord Italia. Fu un lavoro eroico, presto condiviso dalle intelligenze locali più evolute, che si impegnarono nell’istruzione e nella sanità, puntando sull’associazionismo, per migliorare le condizioni primarie delle donne, oltre gli steccati della diffidenza o peggio in aperta ostilità. 
Quantum mutatis ab illo! Dovremmo poter dire oggi con le parole di Virgilio. Quanti cambiamenti da allora…Ma se scorriamo gli ultimi dati della Svimez (nel dopoguerra, la Svimez recitò un ruolo centrale nella politica per il Mezzogiorno, insieme alla Confindustria e ai governi filoamericani del tempo) l’ottimismo si arena. Nihil sub sole novum?! Niente di nuovo sotto il sole?! Fino ai 34 anni, al Sud lavora solo una donna su cinque. L’allarme povertà riguarda una persona su tre ed è donna. Due milioni di donne meridionali sono classificate NEET, ovvero non studiano, hanno rinunciato al lavoro e non si aggiornano. Nel complesso, la crescita del Mezzogiorno è stata del 13 per cento in quindici anni (2000 -2015), 40 punti in meno rispetto alla media europea, che segna il 53,6. La Svimez prevede che il divario Nord/Sud continuerà a crescere, che ci sarà uno tsunami demografico a seguito dell’aumento dell’emigrazione e del crollo delle nascite; che al Sud si produrrà di meno, si guadagnerà di meno, pagheranno di più i giovani e le donne.

Domanda: quale altro centro sarebbe migliore della ricerca dell’equilibrio? A cominciare proprio dal ruolo delle donne del Sud, che non sono mai state un problema, ma restano una risorsa? La loro esclusione è un deficit di democrazia.

Su ottomila comuni italiani, ce ne sono solo 200 nel Mezzogiorno, che portano la gonna. Sono i sindaci di piccole realtà, in gran parte di poche migliaia di abitanti. Quasi una famiglia, dunque, e nessuno si stupisce se in una famiglia a governare è una donna. E’ poco. La De Unterrichter scriveva: “Coraggio, bisogna prendere in mano il proprio destino”. La storia però ha dimostrato che non basta, quando manca l’equilibrio.

 

LA RICCHEZZA NASCOSTA DEL POVERO MEZZOGIORNO di Carlo Curti Gialdino – Numero 2 – Ottobre 2015

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‘misteriosa’ villa extraurbana rinvenuta nel 1963, oltre 50 anni fa, per puro caso, nel corso di lavori infrastrutturali. 
E’ completamente lontana dagli itinerari turistici, Casignana, neanche mille abitanti, e la sua collocazione evoca echi inquietanti. Si trova, infatti, nella Locride, in provincia di Reggio Calabria. Un nome spesso ricorso nella cronaca nera, che richiama alla memoria faide senza fine e un sistema malavitoso pervasivo. 
Sotto il profilo amministrativo, al momento, tutto è congelato e i Commissari prefettizi gestiscono l’ordinaria amministrazione, ovvero non si possono avviare iniziative atte a valorizzare questo prezioso tesoro cittadino, azione promozionale e culturale per cui da anni si batte l’on. Pietro Crinò, oggi consigliere regionale. 

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LA RICCHEZZA NASCOSTA DEL POVERO MEZZOGIORNO

PARTE II

 

 

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I mosaici ubicati in località Palazzi di Casignana, molto vicina al Mar Ionio fanno parte di una 

un tesoro preziosissimo, i cui mosaici gareggiano in bellezza, raffinatezza, straordinaria qualità artistica con quelli di Piazza Armerina e di Pompei.

E’ dello scorso 31 luglio, infatti, la delibera del Consiglio dei Ministri di prorogare lo scioglimento del Consiglio comunale di Casignana, per infiltrazioni della ‘ndrangheta. Inizialmente, il provvedimento era stato emanato il 18 aprile 2013. Una realtà sociale e amministrativa bloccata dalla situazione dell’ordine pubblico così degradato, pur avendo splendide prospettive per il tesoro archeologico che custodisce nel suo territorio, qualora se ne sapesse indirizzare bene il marketing territoriale presso le grandi agenzie di viaggio ed i siti turistici…
Ma torniamo al bello che i nostri avi seppero costruire (magari altrettanto ‘inquietanti’ di quelli di oggi nei loro vertici, ed altrettanto avidi, la storia ce lo insegna, ma con l’orgoglio di lasciare un segno alla posterità) e che noi, loro eredi, stupidamente vandalizziamo. 
Ci sono voluti 36 anni affinché, da quei casuali ritrovamenti in Contrada Palazzi, da parte delle maestranze della Cassa per il Mezzogiorno, impegnate nella posa di un acquedotto, il sito di 15 ettari fosse oggetto di una serie di campagne di scavo che ci hanno restituito

Al disvelamento di quest’opera, la Regione, inserendola nei Fondi europei, ha previsto un finanziamento di 2,5 milioni di euro, cifra che, in un paese normale, basterebbe senz’altro a recuperare un simile tesoro.

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L’assoluto isolamento della Calabria dalle rotte di un turismo non stagionalizzato, che non sia quello estivo, balneare, è la dimostrazione che, accanto alle cattedrali nel deserto industriali, esistono quelle culturali, archeologiche, straordinarie eredità di cui sembra non sappiamo cosa farcene. 
Gli stessi Bronzi di Riace che, al loro ritrovamento e nei primi tempi di esposizione, suscitarono clamore e file di turisti, ora sono stati restituiti al Museo da cui provenivano, sottoposto a lunghi restauri, ma a lungo sono stati un ammennicolo del Palazzo della Regione. 
Arrivare a Casignana è difficile. Ma soprattutto è difficile un’opera di marketing territoriale che tenga conto degli svantaggi competitivi dell’area. Manca persino un punto di partenza, ovvero un’amministrazione comunale in carica. Quei 2,5 milioni di euro al momento affidati al SUAP (Sportello Unico Attività Produttive) per realizzarne l’appalto servirebbero per continuare a scavare oltre gli 8mila mq già svelati;

per capire che ci fa un tesoro proprio lì; e di chi fosse quella villa, sorta in un pizzo di mondo piuttosto incongruo nella logica territoriale dell’antica Roma,

anche se si ritiene che essa sia sorta lungo la strada che collegava Locri Epizefiri e Rhegion (l’antica Reggio Calabria); ed è l’unico reperto romano in un mondo magno-greco.
L’attuale parco si compone di oltre 20 ambienti, con un cortile centrale, su cui si affacciano le terme, un giardino ove era collocata una fontana monumentale; i servizi; la zona residenziale vera e propria.
Le terme replicano quelle presenti nell’antica Roma: hanno i loro frigidariumtepidarium e calidarium. Accanto a quest’ultimo, c’è il laconicum, dove c’erano le saune (essudationes), dove il riscaldamento si realizzava attraverso i praefurnia (bocche da forno, collocati sotto il lastricato. Tutto questo sistema si è conservato fino ai giorni nostri ed è visibile ancor oggi.

Le vestigia più pregevoli sono rappresentate dalle pavimentazioni musive. Importantissima è quella della ‘sala delle Nereidi’,

dove, con tessere bianche e verdi viene rappresentato un thiasos marino da cui emergono quattro Nereidi (Ninfe marine), ognuna in groppa ad un animale simbolico: un leone, un cavallo, un toro ed una tigre.
Nella sala d’ingresso a Sud, è emersa l’immagine di un volto femminile, composta a tessere in colori vivacissimi e circondata da girali vegetali. 
Lascia sbalordita la bellezza della Sala delle Quattro Stagioni, ovvero la sala triclinare; ed è in corso di scavo l’anfiteatro. E’ stato altresì rivelato un altro pavimento, con un Bacco ebbro sorretto da un giovane Satiro, che versa vino da un’anfora. Non finisce qui. Vari avvistamenti casuali fanno ipotizzare che proprio lì davanti ci siano reperti in mare altrettanto preziosi. 
C’è anche la vecchia storia della Sfinge, di sofisticata fattura, ritrovata dallo scrittore Axel Munthe, capitato per caso proprio in questo luogo ed ora installata a Capri, a Villa San Michele. Non sarebbe il caso che tornasse a casa?

 

LA CASA DELLE MUSE di Antonio Genovese – Numero 2 – Ottobre 2015

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Sulla collina
Io certo vidi le Muse
Appollaiate tra le foglie,
Io vidi allora le Muse
Tra le foglie larghe delle querce
Mangiare ghiande e coccole.
Vidi le muse su una quercia
Secolare che gracchiavano.
Meravigliato il mio cuore
Chiesi al mio cuore meravigliato
Io dissi al mio cuore la meraviglia.

Ma io che da anni leggo i suoi versi e le sue prose (e li cerco nelle varie edizioni che gli uni e le altre hanno diffuso), sono finalmente lieto di vedere lo sforzo che questo piccolo Comune della Basilicata ha saputo compiere per richiamare, in quella modesta abitazione, in un luogo non comodo dello Stivale, gente di ogni luogo: perché la Poesia di Sinisgalli ha saputo varcare il tempo della sua vita e le aree della sua pratica.

E’ da credere che le Scuole sapranno farvi momento di visita e di studio, ma l’iniziativa degli enti territoriali di Basilicata meritano la sosta di lettori e curiosi di tutte le età.

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LA CASA DELLE MUSE

 

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      Questa estate, ho approfittato dell’ozio da vacanza per fare un’incursione a Montemurro, un centro della (sempre più nota, per i suoi giacimenti petroliferi, che tanto stanno facendo discutere) Valle dell’Agri, in Basilicata. Una valle in cui il fiume (che sbocca sul litorale ionico) trasporta con sé, assieme ad un rilevante carico di acqua (è il fiume più ricco, anche se non il più lungo, della Basilicata), memorie millenarie.

La Valle, che soprattutto nella sua prima parte, è aspra e costellata di monti coperti di boschi (i Belliboschi, a cui Sinisgalli ha intitolato una raccolta di suoi scritti autobiografici e no, che uniti a Fiori pari fiori dispari formano quelle «prose di memoria e d’invenzione», tanto care ai suoi lettori), è cosparsa di piccoli centri di remota civiltà, più o meno arroccati sulle alture, che tendono a fare sistema ed a formare una sorta di Città della Valle (un po’ sul modello della Città del Vallo di Diana, invero da essa non molto distante ed anzi collegata a diverse altezze), con servizi distribuiti e strutture comuni, attività culturali messe a rotazione, santuari religiosi accomunanti le genti valligiane, ecc. (la Moliterno di Petruccelli della Gattina e Giacomo Racioppi, la Montemurro di Giacinto Albini, Marsico Nuovo e Marsico Vetere, la Viggiano di Vito Reale, Sarconi, la Spinoso di Biagio Petrocelli, Tramutola, ecc.) 
Accanto ai monti coperti di boschi ve ne sono altri (ad es. il Vulturino) quasi del tutto nudi, e però assai belli e suggestivi, che fanno da riferimento e da contrasto selvaggio con quelli altri, interamente verdi e ricchi di biodiversità.

Non c’è dubbio che anch’essi facciano parte di quella vera e propria identità comune delle genti della Val d’Agri, che oggi si arricchisce di sempre nuovi tasselli: un richiamo anche per le generazioni che più hanno dato con la loro emigrazione, ed i loro discendenti d’ogni parte d’Italia e del Mondo.

E davvero di Muse (al plurale) si tratta, giacché il Nostro non incarnò solo un’anima ma tante assieme, quelle di: scrittore, poeta, ingegnere, disegnatore, editor, curatore di prodotti culturali, perfino cineasta (autore o coautore di fortunati cortometraggi premiati alla Biennale di Venezia nel 1948 e nel 1950) e sceneggiatore.

Una casa semplice, come quelle di cui il Poeta ha detto nei suoi versi e negli altri scritti, ancora del tutto dispersi, perché affidati alle vecchie preziose edizioni d’epoca, ma ormai necessitanti la formazione di una raccolta completa (ad esempio, un Meridiano, edito da quello che fu il suo editore principale), per il lettore d’oggi. 

Una casa che non ha mai ospitato quel mobilio e quei libri, che il Poeta-Ingegnere ha portato con sé nel suo girovagare (cominciò a farlo a dieci anni) e, soprattutto, nei suoi spostamenti tra Roma e Milano, dove si è svolta – pressoché interamente – la sua vita professionale, non solo di artista (anche visivo) ma anche di direttore di belle riviste, alcune legate al mondo aziendale (dalla rivista Pirelli, alla più fortunata Civilità delle Macchine), di curatore di collane (come «Scienza e poesia»), di collaboratore con l’industria italiana (Olivetti, Finmeccanica, Alfaromeo, ecc.). 

Il museo (che è stato denominato, in maniera suggestiva: la Casa delle Muse) è stato affidato alle cure della Fondazione Sinisgalli (creata dagli enti territoriali di Basilicata, essenzialmente), che organizza mostre, eventi, convegni, incontri di studio (se ne veda l’elenco di quelli tenuti, ad oggi, nel bel catalogo intitolato Leonardo Sinisgalli, la Casa delle Muse e la Fondazione, Villa d’Agri, 2014, pp. 30).

In questo rinnovato interesse per la Valle, s’inserisce la bella novità di Montemurro: la creazione di un museo Sinisgalli, nella casa di famiglia, acquistata e recuperata alla bisogna.

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 In particolare, oggi la sua collaborazione a edizioni editoriali di pregio, con artisti contemporanei (Lucio Fontana, Orfeo Tamburi, Franco Gentilini, Domenico Cantatore, ecc.), ha reso spesso difficili da reperirle persino sul mercato del libro raro e di pregio.

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          La visita della casa di Sinisgalli, consente di ammirare – tra i riquadri della sua Biblioteca (quasi interamente recuperata) e composta di edizioni consultabili – anche una bella tela, acquistata dalla Fondazione Carlo Levi: un suo ritratto (del 1944), a olio, della sua concittadina Maria Padula, un’artista che merita ogni considerazione (anche la sua opera è in corso di catalogazione, grazie all’impegno della curatrice e figlia, la d.ssa Rosellina Leone, che ho avuto il piacere di ritrovare dopo anni). 

Tra libri e mobili del Poeta, è possibile ammirare tanti altri cimeli: abiti, foto, lettere, numeri di riviste, libri, ecc.

Le stanze sono coperte di didascalie, quadri che riportano i suoi principali versi, così che anche chi non ha mai praticato la sua Poesia possa essere in grado di comprendere la misura e la cifra dell’artista.