CARAVAGGIO A NAPOLI di Stefania Conti – Numero 14 – Maggio 2019

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CARAVAGGIO A            NAPOLI 

 

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provenienti da istituzioni nazionali e internazionali, e di ventidue quadri di artisti napoletani influenzati o, forse è meglio dire, travolti dalla sua forza innovativa.

Come si sa, Caravaggio visse per qualche tempo a Napoli. La sua fama lo aveva preceduto ed ebbe importanti commissioni. Non solo,

è proprio nel capoluogo partenopeo che inaugurò 

un suo nuovo modo di dipingere, 

più tormentato.


Fu una grandissima affermazione, un successo che non solo lo fece conoscere nei circoli culturali più innovativi e ricettivi, ma gli fece guadagnare un bel po’ di soldini. La tela delle Sette opere di Misericordia (che faceva parte del percorso della mostra), eseguita per il Pio Monte, dove ancora si trova, gli verrà pagata ben 400 ducati. Una cifra stratosferica per l’epoca.

Nell’archivio storico del Banco di Napoli – uno scrigno fondamentale per gli storici: contiene 450 anni di storia della città e del regno borbonico – sono conservati 

i documenti che ci fanno vivere istante per istante, quasi fosse un film, 

il momento in cui il giovane Merisi riceverà la somma. 


In un foglietto di carta, Tiberio del Pezzo, economo del pio Monte, dà le disposizioni e le spiegazioni del perché si deve pagare l’onorario. 

“Banco di Pietà, 9 gennaio 1607. A Tiberio del Pezzo ducati 370. et per lui a Michelangelo da Caravaggio – si legge negli antichi bancali -, dissero a compimento di ducati 400, dissero per un pezzo di un quadro che ha depinto per il Monte della Misericordia, in nome del quale esso Tiberio li paga. Et per noi il Banco del Popolo”. Senonché quella mattina il Banco della Pietà non ha in cassa i fondi per liquidare Caravaggio. Quando la storia da grande diventa minuta, quotidiana! 

 

Il pittore era noto per non avere esattamente un buon carattere (ma intanto aveva già ricevuto l’acconto di 30 ducati). Non ci è dato sapere come l’abbia presa, ma non è difficile immaginarlo. Fatto sta che – dopo le proteste dell’artista – per ricevere i soldi, il Banco di Pietà lo manda al Banco del Popolo. Anche di questo evento abbiamo memoria nell’archivio storico del Banco di Napoli.

“Banco di Santa Maria del Popolo. Pagate per noi – annotano i ligi scrivani – 

a Michelangelo da Caravaggio ducati 370 al quale si pagano 

per polizza de Tiberio del Pezzo”.


Siamo sicuri che questa volta l’inquieto pittore se ne andrà soddisfatto. 

 

Ma vogliamo parlarvi anche di un altro quadro. In realtà un mistero, uno dei tanti enigmi che hanno costellato la vita del grande Merisi.

Sempre nell’archivio storico si trova una disposizione di pagamento 

di una cifra altrettanto favolosa per una grandiosa pala d’altare,


questa volta commissionata da un privato, un mercante d’origine balcanica, tal Nicolò Radolavich. L’opera è descritta con molta precisione dai “ragionieri” del Banco.

“6 ottobre 1606. A nicolò radovich ducati 200. E per lui a Michel Angelo Caravaggio dite per il prezzo de una cona de pittura che l’ha da fare et consignare per tutto dicembre prossimo venturo d’altezza palmi 13 e mezzo 

et larghezza di palmi 8 e mezzo”.


Deve raffigurare la Madonna col Bambino, insieme ad un coro di angeli e a una serie di santi, tra cui San Domenico e San Francesco. Ebbene, di questa pala non c’è più traccia. Forse non è mai stata finita, forse è stata distrutta in un tumulto popolare, o tagliata e venduta in più pezzi. O chissà cos’altro.

A oggi l’unico indizio di uno dei primi capolavori partenopei di Caravaggio è contenuto solo nel prezioso archivio storico del Banco di Napoli.

 

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 Photo credit giuseppemasci  © 123RF.com

 

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IL MEZZOGIORNO FRA LINGUE E DIALETTI Parte III di Francesco Avolio – Maggio 2019

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IL MEZZOGIORNO FRA LINGUE E DIALETTI

Parte III

 

 

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 Correlato parte I

 Correlato parte II

Tutti sanno, più che altro per esperienza diretta, che tra il napoletano e il siciliano ci sono parecchie differenze linguistiche, al punto che è difficile confonderli, anche per una persona che abiti nel profondo Nord e che non abbia mai messo piede da quelle parti.

Se insomma, per chi vive più su dell’Appennino e del Po, l’Italia peninsulare appare spesso come un territorio omogeneo, senza grandi articolazioni interne, tuttavia la consapevolezza di una qualche differenza, anche linguistica, tra le due più note e popolose realtà del Mezzogiorno non può dirsi rara o poco comune.

Ma perché napoletano e siciliano sono diversi? E dove si colloca, nello spazio, 

la transizione dall’una all’altra di queste aree dialettali?


Cerchiamo di rispondere in breve a queste due domande, partendo, per comodità, dalla seconda, che ci dà elementi utili anche per rispondere alla prima.

2 – Il “ponte” calabrese


Uno dei maggiori motivi di interesse della posizione linguistica della Calabria sta nel fatto che essa appare solcata, nella sua interezza, da una serie notevole di “confini” linguistici, e proprio da quelli che distinguono i dialetti meridionali dal siciliano. Vediamoli più da vicino, muovendo da Nord verso Sud (cfr. anche la Fig. 1): 

1) il limite del vocalismo “siciliano” (linea I), che compare, in Calabria, a Sud di un discrimine che va all’incirca da Diamante, sul Tirreno, a Cassano, sullo Jonio (ma che in realtà esiste anche nel basso Cilento, in provincia di Salerno, a Sud di una linea che collega più o meno Ascea a Vallo della Lucania). Si tratta di un sistema di sole cinque vocali accentate, nel quale mancano le vocali chiuse é ed ó, e diversi suoni vocalici latini originariamente distinti si sono fusi tra loro: filu ‘filo’ < FĪLU(M), come nivi ‘neve’ < NĬVE(M) e come tila ‘tela’ < TĒLA(M) (nap. filënévë, télë), ma bbèddha ‘bella’ < BĔLLA(M); luna < LŪNA(M), come cruci ‘croce’ < CRŬCE(M) e suli ‘sole’ < SŌLE(M) (nap. lunë, crócë, sólë), ma mòrta < MŎRTUA(M). Secondo ricostruzioni ormai accettate dalla maggior parte degli studiosi, un simile sistema sarebbe il frutto del prolungato contatto, in epoca altomedievale, tra le varietà dialettali neolatine e il greco bizantino, una lingua che è stata, per secoli, di notevole prestigio e di largo uso in tutta la nostra area, e che presentava, fra l’altro, come il greco moderno, proprio un notevole conguaglio di vari suoni vocalici sulle vocali estreme i e u

2) la vocale finale neutra -ë per la maggior parte delle vocali finali (come abbiamo visto nello scorso numero), che in genere non va oltre la linea Cetraro-Bisignano-Melissa (linea H); 

3) le assimilazioni dei nessi consonantici -ND- e -MB- (quannu ‘quando’, chiummu ‘piombo’), sconosciute a Sud della linea Amantèa-Crotone (linea G); 

4) l’uso di tenere per ‘avere’, non con il valore di ausiliare: tène e spalle larghe ‘ha le spalle larghe’, diffusissimo dal Lazio in giù, è ignoto già a Nicastro e a Catanzaro (dove si dice ndavi i spaddi larghi e simili; linea F); 

5) il passato remoto come tempo perfettivo quasi unico, ormai evidente a Sud di Nicastro e Catanzaro (capiscisti? o capisti? ‘hai capito?’; linea D); 

6) la scarsa popolarità dell’infinito in diversi tipi di frasi (cfr. oltre, § 3), che comincia a Sud della stessa linea (la E); 

7) i dittonghi metafonetici (vedi il numero precedente), ignoti a Sud della linea Vibo Valentia-Stilo (fèrru vs. fiérru, bbòni vs. bbuóni; linea C); 

8) l’uso del possessivo enclitico, nelle prime due persone, con molti nomi di parentela e affinità (fìgghiuma ‘mio figlio’, fràttita ‘tuo fratello’), che raggiunge la piana di Rosarno e la Locride, ma non lo stretto di Messina (dove si dice, alla siciliana, mè figghiu, tò frati ecc.; linea A). 

Uno dei dibattiti dialettologici più vivaci della prima metà del Novecento – che ha contrapposto la scuola tedesca di Gerhard Rohlfs a quella italiana di Carlo Battisti, Giovanni Alessio e Oronzo Parlangèli – ha riguardato la persistenza e i caratteri della grecità in Calabria, del resto ancora testimoniata, con una varietà di greco arcaica ed assai particolare, ma ormai moribonda, in alcuni piccoli centri dell’Aspromonte meridionale (Gallicianò, Chorìo di Roghudi, Bova). Di tale dibattito e di queste residue comunità grecofone ci occuperemo, però, nel prossimo numero.

 

3 – Il “tacco d’Italia”


La disputa sulla persistenza del greco ha coinvolto anche i dialetti del Salento (parlati a Sud della linea Taranto-Brindisi, cfr. Fig. 2), che, come del resto quelli della Calabria meridionale, mostrano non solo elementi fonetici e grammaticali molto simili al siciliano, ma anche, per l’appunto, un fondo lessicale e tratti sintattici di ascendenza ellenica.

 

Anche al centro della penisola salentina, infatti, esiste ancora oggi un’enclave 

di lingua greca, la cosiddetta Grecìa, di cui fanno parte diversi comuni 

della provincia di Lecce (fra i quali Calimèra, Castrignano dei Greci, 

Corigliano d’Otranto, Sternatìa);

 

qui la parlata locale, detta usualmente grico, seppure in regresso anche netto, non è ancora nelle condizioni preagoniche riscontrabili, purtroppo, in Aspromonte. Fra i costrutti più sicuramente imputabili all’influsso e/o al diretto contatto con il greco, possiamo ricordare la mancanza di avverbi di luogo atoni corrispondenti agli italiani ci e vi (salentino sciamu crai, calabrese merid. jamu dumani ‘ci andremo domani’) e la già vista, scarsa popolarità dell’infinito, che, dopo verbi esprimenti volontà, intenzione, movimento viene sostituito da cu (erede di QUOD) nel Salento, o da mu, mi, ma (dal lat. MODO) in Calabria e nel Messinese, più il verbo al presente indicativo, coniugato in accordo con il soggetto della reggente (cu e mu, insomma, hanno le stesse funzioni che ha in greco (i)nà): nel Salento ulìa cu ssacciu ‘volevo sapere’ [lett. ‘volevo che so’], m’aggiu dimenticatu cu ddumandu ‘mi sono dimenticato di chiedere’, in Calabria vògghiu mu bbìu ‘voglio bere’ (gr. thèlo nà pìo), jìru mi jòcanu ‘sono andati a giocare’, pinzàu mi parti ‘ha pensato di partire’ ecc. Voci salentine del lessico quotidiano, di carattere conservativo, sono fitu ‘trottola’, sòcru ‘suocero’, spècchia ‘mucchio di sassi’, truddhu ‘trullo, casa rurale con copertura in pietra a falsa cupola’, nazzicare ‘cullare’ e altre.

4 – Le parlate siciliane

 

E torniamo ora a rispondere alla prima delle nostre due domande iniziali: perché il tipo linguistico siciliano è così particolare? Uno dei primi dati di fondo da sottolineare è che

 

i dialetti della Sicilia non sono facilmente classificabili, dato che molti fenomeni 

vi si presentano con una distribuzione “a macchie di leopardo”,


conseguenza, fra l’altro, della particolari vicende storico-demografiche dell’isola, caratterizzate da frequenti calamità naturali (terremoti), immigrazioni e anche rimescolamenti e fusioni di popolazioni diverse. 

Una delle poche distinzioni chiare, individuata nel 1951 dallo studioso 

Giorgio Piccitto, è rappresentata dalla diffusione del già visto 

dittongamento metafonetico di -è- ed -ò- ,


per influsso dei suoni originari latini -I ed -U in fine di parola (cfr. Fig. 3 e quanto detto nel numero precedente): questo, assente nelle maggior parte delle parlate occidentali, dal Trapanese all’Agrigentino occidentale (vèntu ‘vento’, pèri ‘piedi’), nonché nel Messinese e in parte del Catanese, è invece ben noto a molte di quelle centrali (Enna, Caltanissetta) e nella cuspide Sud-orientale (vièntu, pièri e simm.). Palermo, con una lunga fascia costiera circostante, che va all’incirca da Terrasini a Cefalù e a Corleone, presenta invece dittonghi non dipendenti dalla vocale finale, come in cuòsa ‘cosa’ e fièšti ‘feste’. I dittonghi metafonetici sono pure assenti in tutta la Calabria meridionale e nel basso Salento, mentre Lecce e Brindisi conoscono l’esito dittongante in –– da – originaria (bbuènu, bbuèni ‘buono, -i’, ma bbòna, bbòne ‘buona, -e’). 

Secondo gli studi condotti negli ultimi quarant’anni da Giovanni Ruffino, fra i pochi fatti tipici delle parlate della Sicilia nord-orientale ci sono la pronuncia rafforzata di b- iniziale (bbucca anziché vucca ‘bocca’), la conservazione dei nessi -ND- e -MB- (quandu ‘quando’, palùmba ‘colomba’, piuttosto che quannu, palùmma) e grecismi lessicali come armacìa ‘muro a secco’ < gr. ermakìa, còna ‘edicola sacra’ < gr. èikon, grasta ‘vaso’ < gr. gàstra, salamìra ‘geco’ < gr. samamìthion

I dialetti del centro dell’isola, ritenuti in genere più conservativi (ma non sempre ciò è vero), appaiono soprattutto caratterizzati dal passaggio di –l- a –n– prima di consonante dentale o palatale (antu ‘alto’, fanci ‘falce’), da quello di nf- a mp– (mpilàri ‘infilare’, mpurnàri ‘infornare’) e da verbi come riiri ‘sollevare’ < ERIGERE, sdruvigliàrisi ‘svegliarsi’, tiddhicàri ‘solleticare’. 

La Sicilia occidentale, infine, si distingue dalle altre zone dell’isola per la presenza di numerosi arabismi, come caddhu ‘secchio’ < ar. qādūs, casiria ‘vaso da fiori’ < ar. qasrīya, e grecismi come mira ‘cippo confinale’ < gr. mòira. Altri termini di origine araba, di più ampia estensione (spesso sono presenti anche in Calabria) e riguardanti soprattutto l’agricoltura, sono poi, tra i tanti, cirana, giuranna ‘raganella, rana’ < ar. ğarān, gèbbia ‘grande vasca’ < ar. ğābiyah, màrgiu ‘acquitrino, terreno non coltivato’ < ar. marǵ, źźagarèddha ‘nastro’ < ar. zahar. 

Dal punto di vista lessicale, i dialetti siciliani, oltre a mostrare interessanti francesismi (custurèri ‘sarto’ < fr. ant. costurier, racìna ‘uva’ < fr. raisin) e ispanismi (criata ‘serva, domestica’ < sp. criada, ormai arcaico, carnizzèri ‘macellaio’ < sp. carnicer, nella zona di Palermo), appaiono dotati, nel loro complesso, di un certo grado di innovatività rispetto alla maggior parte del Mezzogiorno (compresi il Salento e la Calabria settentrionale). Ma su questo dato di fondo – che è, in effetti, alquanto sorprendente, ed ha suscitato anch’esso vivaci discussioni e polemiche – ritorneremo nel prossimo numero.

 

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Le tre carte geolinguistche sono tratte da: F. Avolio, Bommèspr∂. Profilo linguistico dell’Italia centro-meridionale, San Severo, Gerni Editori, 1995, pp. 142-144. 

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 Correlato parte IV

 

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ANTONIO PETITO IL RE DEI PULCINELLA di Fernando Popoli – Numero 14 – Maggio 2019

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ANTONIO PETITO IL RE DEI PULCINELLA

 

ma quello che viene ricordato come il più grande interprete in assoluto è Antonio Petito, un attore e commediografo che fu attivo nell’ottocento e conseguì un successo strepitoso per la sua recitazione.

Antonio, detto Totonno o’ pazzo per la sua esuberanza, era figlio d’arte, il padre Salvatore e la madre Donna Peppa, al secolo Maria Giuseppa Errico, avevano aperto un teatro in una baracca dove rappresentavano i Reali di Francia per il divertimento del popolo napoletano che accorreva numeroso per il gran divertimento. 
 

Il giovane Antonio debuttò all’età di nove anni e gli fu ceduta la maschera di Pulcinella dal padre in giovane età nel teatro San Carlino dove recitava in quegli anni. Modificò le caratteristiche del personaggio che, da popolano, diventò borghese, quasi aristocratico, indossando sulla veste bianca una redingote e un cappello a cilindro, come i veri signori, mettendo da parte il coppolone, quel lungo e morbido copricapo tipico di tutti i suoi predecessori.

 

Totonno o’ pazzo non parla solo in dialetto ma inserisce nelle sue battute 

frasi italiane e francesi ostentando una possibile aristocrazia, 

modifica il personaggio elevandolo di rango 

per dargli una dimensione accettabile 

da tutte le classi sociali.


È umano e non solo buffone, a volte triste e non sempre allegro, sentimentale e anche cialtrone, ha un repertorio vastissimo di battute che incantano il pubblico, pronto a ridere e a commuoversi alle sue performance. La grande tradizione della Maschera viene trasformata e rielaborata. Le sue origini, come si sa, sono antichissime, c’è chi le fa risalire addirittura alle atellane e al personaggio di Maccus, altri lo datano nel Seicento ad opera dell’attore Silvio Fiorillo ma quella che è rimasta maggiormente nella storia del teatro napoletano è di Petito. Totonno o’pazzo non fu solo attore ma anche brillante commediografo,

i suoi copioni sono pieni di errori, sono scritti male sotto l’aspetto grammaticale 
ma sono efficienti, hanno il senso del teatro, della recitazione, della battuta 
e riscuotono successo, applausi a scena aperta, ovazioni.

Un consenso unanime del pubblico che li considera divertentissimi. Tra le sue opere vanno ricordate soprattutto quelle di sfondo sociale:
La lotteria alfabetica, Tre banche a ‘o treciento pe mille, Nu studio ‘e spiritismo pe fa turnà li muorte ‘a l’atu munno. Petito è senz’altro una delle figure più importanti del teatro napoletano dell’Ottocento. Le sue commedie, considerate da molti dopo la sua morte solo dei canovacci, furono in seguito rivalutate e capite da Raffaele Viviani, un altro grande della commedia napoletana, che le riscoprì mettendo in scena So’ muorto e m’hanno fatto turna’ a nascere con il titolo di Siamo Tutti fratelli.
 

Anche Eduardo Scarpetta come Eduardo De Filippo presero spunti e suggerimenti dal Pulcinella di Petito proponendo il personaggio di Felice Sciosciammocca.

Dopo l’interpretazione magistrale di un Pulcinella diverso, ad un certo punto della sua carriera di attore, Petito acquisì un’altra veste: si tolse la maschera per affrontare un nuovo personaggio, tutto suo, quello di
Pascariello col quale continuò a recitare sino alla fine dei suoi giorni alternando i due personaggi. Morì in teatro recitando, la sera del 24 marzo 1876, si sentì male dietro le quinte durante lo spettacolo e fu portato agonizzante sul palcoscenico dove esalò l’ultimo respiro tra gli applausi lunghissimi del suo pubblico che intese così tributargli un ultimo saluto.

È ricordato nella storia del teatro come il più grande interprete di Pulecenella, 
mai eguagliato nel tempo.

Nel 1982 la RAI gli dedicò uno sceneggiato televisivo in sette puntate:
Petito story scritto e sceneggiato da Gennaro Magliulo ed Ettore Massarese.
 
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