PESCHICI LUOGO CELESTINIANO di Teresa Maria Rauzino – Numero 15 – Dicembre 2019

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PESCHICI  LUOGO  CELESTINIANO 

 

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Silone frusta le gerarchie affermando che l’utopia è il rimorso della Chiesa. 

 

Il potere non è mai salvifico, lo è la rinuncia ad esso, come affermazione di libertà e purezza della coscienza: “Servirsi del potere? Che perniciosa illusione! E’ il potere che si serve di noi”.  

 

Il messaggio siloniano sceglie la spoglia forma teatrale per attingere definitiva efficacia, esprimendo un protagonista con un’idea forte, coscienza che sovrasta la persona. Siamo in un’atmosfera francescana, tra echi gioachimiti; “serpeggia nell’aria l’offesa inferta all’eredità spirituale del poverello d’Assisi”. Si avvertono fermenti di rinnovamento. Pietro Angelerio scende dal regno dell’utopia lungo i sentieri del mondo, un mondo che non conosce, nel quale si muoverà con impaccio. Profetico e ammonitore era stato lacopone da Todi che, mettendolo in guardia dai cardinali, assetati di ricchezze per sé e per il parentato, esprimeva il suo dolore per l’accettazione del pontificato.

 

Celestino V, dopo tante ambasce e interiori tormenti, compie l’estremo atto di rinuncia al pontificato, destinato a rimanere l’unico nella storia bimillenaria della Chiesa. 

 

E. tornato fraticello, amato e seguito dai fedeli, viene braccato e incarcerato. In una buia torre soffoca la sua utopia; ma continuerà a brillare la luce della sua coscienza intollerante del compromesso, che ha additato nel potere sotteso all’istituzione religiosa il nemico più pericoloso.  

 

Nel dramma di Silone una versione scenica efficace lascia a certi scorci abruzzesi il palpito dell’arte, unito al sentimento della antica terra madre. Un Abruzzo che non ha niente di turistico, di realistico e visibile in senso esteriore, in cui il seme della predicazione di San Francesco è ancora fecondo.

 

Si svolge una lotta impari tra i fraticelli spirituali, perseguitati dalle autorità 

perché chiedono il ritorno al modo di vivere cristiano, alla povertà 

e semplicità evangelica, e le ragioni della Chiesa. 

 

La notizia dell’abdicazione di Celestino V colpì in maniera dirompente proprio i francescani spirituali, provocando un disorientamento profondo che si risolse in un vero e proprio atteggiamento di rivolta. Costoro, che avevano trovato in lui l’appoggio nella lotta contro i conventuali, si trovarono spiazzati dal fatto eccezionale della sua rinuncia. Pietro da Fossombrone (Angelo Clareno) non accettò di rientrare nell’ordine francescano dopo la soppressione, ad opera di Bonifacio VIII, dei Pauperes Heremite Domini Celestini e con un gruppo di confratelli fuggì in Grecia, mentre Ubertino da Casale contestò la liceità dell’abdicazione, considerando la successione di Bonifacio un’usurpazione.

 

La presenza nel Gargano di “fraticelli” spirituali al seguito di Celestino V 

trova un’eco letteraria ne L’Avventura di un povero cristiano di Silone

Sarebbe stimolante vagliarne l’ipotesi storiografica. 

 

Analizziamo ora il testo della scena V del dramma siloniano. L’azione si svolge in una località impervia, raggiungibile solo in barca, tra Peschici a Vieste, sulla costa meridionale del Gargano. La scena rappresenta un’ampia semigrotta, incavata a mezza costa d’un promontorio roccioso, quasi a strapiombo sul mare. Attorno alla grotta crescono piante di fichidindia e qualche olivastro; davanti vi passa un sentiero che si allarga a forma di terrazzino. Alcuni grossi sassi fungono da sedili. Un fontanile è vicino.

 

Il tempo del racconto è un sereno pomeriggio del mese di maggio 1295. 

Sono passati sei mesi dall’abdicazione di papa Celestino e dall’inizio 

della sua fuga per sottrarsi alle ricerche degli agenti di Bonifacio VIII 

e dei loro concorrenti francesi.  

 

Pier Celestino riposa all’interno della grotta illuminata dal sole ponente; è seduto su un pagliericcio, con la schiena e la testa appoggiate alla roccia, gli occhi chiusi. Due giovani frati, per motivi di prudenza, in abiti civili, aspettano che si svegli per comunicargli le ultime novità: il priore di San Giovanni in Piano ha messo a disposizione una barca con un paio di pescatori per andare in Grecia, nell’isola di Acaia (golfo di Corinto), dove ritroveranno gli amici che li hanno preceduti. Aspettano, per partire, che il vento sia favorevole. Fra Tommaso da Sulmona è giù con i pescatori per definire le ultime questioni pratiche.  

 

Presa la decisione dell’esilio, Celestino ne spiega i motivi ai due fraticelli che gli sono rimasti accanto, dopo che gli altri sono stati imprigionati e pochi sono riusciti a riparare in Grecia: “Figli miei; guardate questa terra, queste pietre, il mare, il cielo; riempitevi l’anima di queste immagini; per ripensarle da lontano.

 

Bisogna amare la propria terra, ma, se essa diventa inabitabile per chi vuole conservare la propria dignità, è meglio andarsene. 

 

La nostra giustificazione non é spregevole poiché non ci viene suggerita dalla pigrizia, ma dalla missione che ci rimane.”  

 

Nel successivo dialogo fra Tommaso e Pier Celestino, c’è il riferimento alla località di Peschici, dove da parte di alcuni marinai si “mormorava” sul povero fuggiasco:  

 

Fra Tommaso: “Mi dispiace d’insistere, ma è meglio sbrigarsi: A Peschici qui vicino, si mormora su di voi Uno dei pescatori: che adesso è tornato di lí è stato interrogato da un gendarme.”  

 

Pier Celestino (rompe gli indugi): “Meglio evitare il rischio, partiamo subito.”  

 

L’azione riprende nel medesimo quadro, un mese più tardi. Vari particolari mettono in evidenza che la grotta è abitata e che è trascorso del tempo dalla scena precedente: alla primavera è succeduta l’estate. Sul sentiero che sale dalla costa, appaiono Matteo il tessitore e la figlia Concetta che, banditi dal Morrone per le loro idee religiose, finalmente, dopo innumerevoli disagi di viaggio, via mare hanno raggiunto i fraticelli di Celestino nell’impervia località garganica. All’improvviso arrivano dal sentiero grida di gioia: appaiono correndo fra Gioacchino e fra Clementino. L’incontro è molto affettuoso, con prolungate e ripetute strette di mano.   

 

Riportiamo alcuni stralci del dialogo:  

 

Concetta: “Sappiamo del naufragio. Dunque, vi eravate imbarcati per la Grecia, e il mare vi respinse. Poi?” Gioacchino: “Al ritorno fummo informati che a Peschici, qui vicino, era giunta una missione per catturare Pier Celestino.”  

 

Clementino: “Dovete sapere che ogni suo minimo spostamento veniva seguito e controllato. Era difficile per lui nascondersi Tuttavia le autorità locali non osavano mettergli la mano addosso per non sfidare la collera dei fedeli.”  

 

Gioacchino: “Per ultimo, però, un capitano della dogana delle pecore aveva avvertito i suoi superiori che Pier Celestino si era rifugiato qui nel Gargano. La denunzia arrivò fino al re che, a dire la verità, si preoccupò di togliere alla cattura ogni aspetto odioso. Ne diede l’incarico a un prelato che ha il titolo di patriarca di Gerusalemme e a vari gentiluomini con le loro famiglie. La delegazione doveva presentarsi a lui come per rendergli onore. Ma Pier Celestino rifiutò la finzione e si consegnò prigioniero.”  

 

Concetta: “Perché non fuggì? Perché voi non vi opponeste alla sua resa?”  

 

Clementino: “Discutemmo parecchio con lui. Ma non ci fu verso di persuaderlo ancora una volta alla fuga, benché i nostri amici di qui la presentassero come assai facile…”  

 

(…) Gioacchino: “Appena soli, ci siamo buttati a capofitto nel lavoro da lui indicatoci. Stiamo costituendo qui, nel Gargano, una base di scambi di messaggi e documenti con gli esuli rifugiati in Grecia e coi nostri amici delle varie province. Stiamo cercando di camuffare questa attività sotto apparenze non sospette, mercantili. Vari barcaioli ci aiutano. Il nostro Clementino è appunto tornato ieri dalla Grecia con scritti del Clareno e di Fra Ludovico. Stasera ve ne leggeremo dei brani: sono di una forza spirituale commovente. Abbiamo già cominciato a farne delle copie per gli amici delle province. (A Concetta): Per farli arrivare a destinazione, potreste approfittare dei prossimi grandi pellegrinaggi; ne discuteremo il modo…”

 

Dopo la rinuncia al pontificato, Celestino si era diretto verso il monastero 

di San Giovanni in Piano, presso Apricena, che seguiva il suo ordine religioso. 

Quattro settimane furono necessarie perché il priore gli procurasse 

un imbarco a Rodi Garganico, il porto più vicino. 

 

La costa a quel tempo appariva sufficientemente attiva nel piccolo cabotaggio per il trasporto delle merci, particolarmente derrate cerealicole e sale, dall’interno; scali abbastanza efficienti e attivi erano Rodi, Peschici e Vieste, che non trascuravano un traffico su più vasta scala con i porti dalmati e con Venezia. Il fuggitivo si imbarca per la Grecia, dove probabilmente intende raggiungere la comunità degli spirituali di Clareno, ma la nave naufraga a quindici miglia da Rodi e a cinque miglia da Vieste.  

 

La località dove egli trascorre nove giorni, prima di essere individuato e consegnato agli emissari di Bonifacio VIII, non è stata individuata precisamente dai biografi coevi (Analecta Bollandiana, Vita C). Due storici locali, Giuliani e Aliota, la localizzano rispettivamente nella spiaggia di S. Maria di Merino, presso Vieste e nell’Abbazia benedettina di Santa Maria di Càlena, a Peschici. 

 

Fonti orali , che si riflettono nella toponomastica dei luoghi, riferiscono 

che Celestino V si rifugia in una zona rupestre, la grotta dell’Abate, 

presso la spiaggia di Calalunga, tra Peschici e Vieste, ed è qui 

che sarebbe stato prelevato dal governatore di Vieste. 

 

Giuseppe Martella, appassionato cultore di storia garganica, riporta nei suoi appunti la seguente ipotesi: “…Papa Celestino trovò rifugio in una grotta di Peschici , quella che noi chiamiamo ‘a grott u papa’. Questa si trova nel bosco di pini a ridosso della punta di Calalunga che nella Carta Geografica dell’Atlante Geografico del Regno di Napoli di Rizzi e Zannoni del 1806 è detta Cannalunga, forse per la sua forma che si allunga nel mare.” 

Un singolare toponimo ci indica di come sia diffusa l’eco della presenza 

di Celestino V nei luoghi suddetti: l’insenatura da cui si diparte il sentiero 

che conduce al complesso rupestre è denominato in dialetto peschiciano 

u’ lale d’ la Croce ( spiaggetta della Croce).

 

La Croce è tipica della simbologia legata al personaggio: il logo dello stemma celestiniano è una Croce con una S intrecciata, simbolo dello Spirito Santo.   Il sopralluogo nella “Grotta dell’Abate” da parte della dott.ssa Giovanna Pacilio della Sovrintendenza Archeologica di Bari, effettuato una ventina di anni fa per verificare la natura dell’insediamento, non ha dato particolari riscontri. Ma la ricerca continua… 

 

 

Scritta nel 1966-67 da Ignazio Silone, L’avventura d’un povero cristiano apparve nel marzo del 1968 nella collana “Narratori italiani” di Mondadori, con una dedica emblematica: “la solita storia”. Dopo un silenzio di secoli della letteratura, l’Autore rilegge in chiave evangelica, non difforme dal Petrarca, la storia di Celestino V, simbolo della inconciliabilità della santità con il potere, postulando un cristianesimo “demitizzato”, sciolto dai legami temporali. La Chiesa, incarnata in Bonifacio VIII, diventa l’esatto pendant ideologico del partito politico, che chiede ai suoi seguaci il prezzo altissimo dell’anima. 

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IL MEZZOGIORNO FRA LINGUE E DIALETTI Parte IV di Francesco Avolio – Dicembre 2019

 

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IL MEZZOGIORNO FRA LINGUE E DIALETTI

 

 Parte IV

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 Correlato parte I

 Correlato parte II

 Correlato parte III

 

1 – Il lessico siciliano e i dialetti “galloitalici”


Raggiunto il 
Lilibeo, si può forse rimanere sorpresi nel ritrovare, un po’ ovunque in Sicilia, voci assai particolari come agugghia ‘ago’dumani ‘domani’, òrbu ‘cieco’, tuma tumàzzu ‘formaggio’, badagghiari ‘sbadigliare’, maritari ‘sposarsi, prender moglie’, scannari ‘uccidere’, tùnniri ‘tosare’, vùgghiri ‘bollire’ e altre ancora. Queste, infatti, oltre a individuare inattese concordanze con il Nord Italia (cfr., ad esempio, il piemontese tumatüma ‘formaggio’ o il ligure tùndar ‘tosare’), si oppongono con una certa evidenza alle corrispondenti voci calabresi settentrionali (e dell’alto Mezzogiorno) acucraicecàtucasualànźuràacciderecarosàvùlleresicuramente più arcaiche.

Il lessico siciliano (e calabrese meridionale), insomma, ci si mostra non di rado più innovatore e anche meno “tipico” di quello del Mezzogiorno continentale.


Come può spiegarsi una simile situazione? Nella testa di molti di noi, infatti, c’è l’immagine (o, se si vuole, lo stereotipo) di una Sicilia regione isolata e conservatrice. Sfrondando di molto un dibattito scientifico ormai annoso, possiamo dire che anche in questo caso c’entrano – sia pure indirettamente – gli Arabi, i quali, dopo la conquista normanna della Sicilia nell’XI secolo, furono spinti, a più riprese, ad abbandonare l’isola, lasciando dietro di sé ampie zone deserte. Per ripopolarle (e ricristianizzarle) alcuni feudatari, provenienti dal Monferrato ed imparentati con la nuova casa regnante, fecero venire coloni dai propri possedimenti (a quel tempo ritenuti generalmente parte della Lombardia), concedendo loro privilegi ed assegnando terre situate in maggioranza nelle zone più elevate, verdi e salubri dell’isola (le più simili a quelle d’origine).

Questi diedero così vita ad una (per noi, oggi) singolare e sconosciuta emigrazione 

dal Nord al Sud – vera anticipazione dell’unità d’Italia – 

e alla cosiddetta Lombardia siciliana;


i loro discendenti sono ancora lì, ad esempio a Novara di Sicilia e a San Fratello (ME), ad Aidone, Nicosìa, Piazza Armerina e Sperlinga (EN), ed hanno conservato, a volte per quasi 900 anni, lingua, costumi, e perfino specialità delle terre di provenienza. Ma un fatto altrettanto eccezionale è che i paesi citati sono solo, come si dice, la punta dell’iceberg: un tempo, infatti, essi – come dimostrano le ricerche storiche e linguistiche recenti svolte, fra gli altri, da Giovanni Tropea, Salvatore C. Trovato e Giovanni Ruffino – erano molti di più, e ciò spiega come mai il lessico siciliano sia stato profondamente permeato da voci di origine settentrionale, o, come dicono gli studiosi, “galloitalica”. Per dare un’idea più concreta della perdurante somiglianza tra i dialetti “galloitalici” di Sicilia e quelli attuali del Nord Italia, citiamo due versi di una filastrocca nella parlata di San Fratello: “Mi côc mi sti det, cu Maria sovra u pet” (mi corico in questo letto con Maria sopra il petto), in cui si osservano, ad esempio, la caduta sistematica delle vocali atone finali delle parole (tranne –a), la semplificazione delle consonanti intense (entrambi i fenomeni si vedono in det e pet) e il passaggio di -p- a -v- (in sovra), tratti assenti in Sicilia e in tutto il Sud, ma ancora oggi riconoscibilissimi dal Piemonte alla Lombardia e all’Emilia-Romagna (ma in det ‘letto’ troviamo anche una spia del contatto plurisecolare col siciliano, e cioè il passaggio della consonante -l-, originaria o ridotta da un precedente -ll-, fino a -d-; cfr. il siciliano bbèddu ‘bello’).

2 – Le radici della presenza greca in Calabria


Varcato di nuovo lo stretto di Messina, se ci spingiamo dopo Reggio Calabria, dapprima seguendo la litorale jonica verso Sud, e poi inoltrandoci lungo la strada che sale verso Bova superiore,

 

entriamo nella zona dove, come si è già accennato, è ancora parlata 

(ma forse, purtroppo, ancora non per molto) una varietà di greco 

(chiamata, sul posto, grico), e che comprende oggi solo gli isolatissimi 

e in parte abbandonati paesi aspromontani 

di Gallicianò e Chorìo di Roghùdi.  

 

Ancora qualche decennio fa, però, erano di parlata greca anche Bova e Roccaforte del Greco, Condofùri, Amendolèa e Roghùdi (paese evacuato nel 1970 in seguito a continue frane e smottamenti), ancora prima (sec. XIX) Cardeto e Montebello, nel XVIII secolo San Pantaleone, Pentedàttilo (che significa ‘cinque dita’), Bagalàdi, San Lorenzo, nel XVI secolo diversi altri centri posti a Nord dell’Aspromonte (Delianuova, Scido, Sinopoli; cfr. Figura 1), mentre ai tempi del Petrarca l’area grecofona includeva pressoché tutta la Calabria meridionale, fino a Squillace e Catanzaro (il suo maestro di greco, madrelingua, era infatti il monaco Barlaam, nativo di Seminara, RC).  

 

Una tale distribuzione, compatta, e indubbiamente diversa da quella, puntiforme, generata da tutte le immigrazioni tardomedievali e rinascimentali che hanno riguardato il Mezzogiorno (come quella albanese, croata, provenzale ecc.),

è stata uno degli elementi alla base dell’affascinante ipotesi di un collegamento

di questi dialetti ellenici – arcaici, ma privi di precisi riscontri nella 

Grecia continentale e insulare – con il greco 

delle antiche colonie della Magna Grecia


(lingua che, va detto, proprio nella Calabria meridionale si mantenne, a livello popolare, ben oltre l’epoca della conquista romana), ipotesi avanzata e sostenuta per decenni dal grande linguista tedesco Gerhard Rohlfs, con il consenso di quasi tutti i colleghi greci, ma avversato, al tempo stesso, da gran parte degli studiosi italiani, con i quali la polemica fu a tratti molto aspra.

3 – Tra Calabria e Lucania


Continuando a risalire la penisola, arriviamo in vista del massiccio del Pollino, tra Calabria e Lucania. Qui, e per l’esattezza a Mezzogiorno dei fiumi Sauro e Agri, e nella Calabria contigua a Nord del Lao e del Crati, si trovano alcuni fra i dialetti più conservativi del gruppo “meridionale”, dove sono rimasti sedimentati fenomeni rari anche nel resto del mondo neolatino o romanzo (i quali, però, è bene sottolinearlo, non danno luogo a drastiche rotture nei confronti delle parlate circostanti).

Questa zona è nota oggi agli specialisti come “area Lausberg”, dal nome 

dello studioso tedesco, allievo di Rohlfs, che la individuò nel 1939, 

descrivendola a fondo


(cfr. Figura 2). Tra le sue caratteristiche conservative ricordiamo un sistema di vocali accentate ancora molto vicino a quello del latino classico, e con precisi riscontri in Sardegna (filë ‘filo’ < FĪLUM, come nivë ‘neve’ < NĬVEM, stèllë ‘stella’ < STĒLLA, come bbèllë ‘bella’ < BĔLLAM, mòrtë ‘morta’ < MŎRTUAM come sòlë ‘sole’ < SŌLEM, crucë ‘croce’ < CRŬCEM come lunë ‘luna’ < LŪNAM), e il mantenimento delle consonanti finali latine -S e -T in alcuni modi, tempi e voci verbali, grazie allo sviluppo di una vocale finale d’appoggio: ad Aliano (MT) vìdësë ‘vedi’, a Teana (PZ) tènëdë na casë ‘ha una casa’, a Oriolo (CS) u sàpësë? ‘lo sai?’, a Maratea (PZ) tènisi ‘tieni, hai’, mi piàciti ‘mi piace’, cu ccapèrati ‘chi capirebbe’ ecc. La conservazione è tanto più rilevante se si fa caso al fatto che la caduta di -S e -T finali latine è molto ben testimoniata già nel I secolo d. C. proprio nel cuore dell’area meridionale, in numerose scritte e graffiti rinvenibili sui muri di Pompei.

4 – Dove finisce il Sud… verso Nord?


Ma, se continuiamo la nostra risalita, e, superando Napoli e la Campania, ci attestiamo nel Lazio meridionale, possiamo chiederci dove finisca il Mezzogiorno dal punto di vista linguistico. I confini amministrativi, infatti (peraltro in questa zona recenti, non anteriori al 1927; Gaeta e Cassino, oggi località laziali, appartenevano infatti alla Campania), non danno indicazioni chiare, e comunque – come si è già detto – non corrispondono mai, nemmeno altrove, a quelli linguistici.  

 

Nella seconda puntata abbiamo parlato di una fascia che unisce il Circeo, sul Tirreno (LT), alla foce dell’Aso (AP) sull’Adriatico, come limite settentrionale dell’area linguistica “meridionale intermedia” o “alto-meridionale”;

ora possiamo precisare che in realtà tale limite, come del resto altri, 

è solo approssimativo (è in buona sostanza quello della chiara e costante presenza della vocale -ë in posizione finale), essendo parecchi i paesi posti a Nord di esso che rivelano ancora tratti tipici del Mezzogiorno.


Come esempio possiamo prendere il dialetto del comune di Sonnino (LT), situato fra Terracina e Priverno, subito a Nord dello storico confine fra Regno delle Due Sicilie e Stato Pontificio (al quale ultimo apparteneva), che, pur mostrando già una fonetica tipica dell’area “mediana” (cioè quella che si estende a Settentrione dei dialetti “meridionali intermedi”), si presenta al tempo stesso fortemente permeato di meridionalismi al livello lessicale e non solo: accattà ‘comprare’ (nel Lazio prevale crombà), accìte ‘uccidere’ vs. ammazzàfatijà ‘lavorare’ vs. lavorà, ’ncignà ‘cominciare, iniziare (ad es. a tagliare un salame)’ vs. comenzà, e ancora dimméllodiccéllo ‘dimmelo, diglielo’ (nap. rimméllë, ringéllë), me sèndo bbóno ‘mi sento bene’ (nap. më sèntë bbuónë) ecc.

Ma anche se continuiamo verso Nord, i tratti meridionali non ci abbandonano 

del tutto, giungendo anzi in prossimità di uno dei due principali 

“spartiacque” linguistici della penisola: la linea Roma-Ancona.


Questa, come del resto l’altra grande demarcazione dialettale, e cioè la linea La Spezia-Rimini, è formata dal sovrapporsi e intrecciarsi di più “confini linguistici” o isoglosse, cioè da linee tracciate, su di una carta linguistica, unendo tutti i punti che, sulla carta stessa, si trovano all’estremità dell’area di diffusione di un certo fenomeno (fonetico, morfologico, sintattico, lessicale ecc.). Sulla linea Roma-Ancona, confluiscono quindi i limiti settentrionali dei tratti più tipici del Centro-Sud (comuni cioè ai dialetti meridionali e a quelli “mediani”), che a sua volta viene così distinto dall’area linguistica toscana o toscanizzata. Si arrestano qui, infatti, fenomeni importanti che abbiamo già incontrato come la metafonesi, il possessivo enclitico, il betacismo, il genere neutro, e antiche voci latine come femmina per ‘donna’ o frate per ‘fratello’ (cfr. Figura 3).

Ma perché questo confine batte proprio qui, e non altrove?


Possiamo concludere con le parole di uno studioso che si è occupato a fondo della questione: la linea Roma-Ancona è infatti

«un confine linguistico antichissimo, in quanto ricalca ancora abbastanza fedelmente la linea che diversi secoli prima di Cristo divideva nell’Italia preromana i territori 

delle popolazioni di lingua etrusca da quelli dei popoli del gruppo linguistico indoeuropeo, italici (Umbri, Sabini) e latini.


Per quanto concerne la Sabina poi, la bassa valle del Tévere da Amelia e Narni fin verso Farfa e Passo Corese segnò anche, nell’alto Medioevo, il limite occidentale dell’espansione del ducato longobardo di Spoleto.»1  

 

Torniamo, insomma, al punto da cui eravamo partiti: non una “arcaicità” linguistica disarmante e anche inspiegabile, ma, semmai, un sinuoso, seducente “filo della continuità”. 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

  

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RENZO ARBORE E IL SUO SUD PREDILETTO di Gaia Bay Rossi – Numero 15 – Dicembre 2019

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 RENZO ARBORE e il suo sud prediletto 

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nella sua bella casa romana, immersa nel verde, con la vista sulla città e naturalmente piena di oggetti dallo svariato grado di utilità, e poi libri, vinili, fotografie, il tutto condito da un mix di pop e colore. 

Renzo Arbore è un vero, completo, poliedrico artista, termine che, oggi così abusato, appare come una deminutio capitis per un personaggio come lui. E nello stesso tempo è un gran signore, un gentiluomo del Sud, colto, sensibile, aggraziato ed elegante anche nel pensiero e nelle parole, che riporto integralmente così come da lui espresse.

Myrrha, come ha letto, si dedica a dare rilievo a tutto ciò che di bello, 

importante e meritevole di divulgazione viene prodotto nel Mezzogiorno d’Italia. 

In primo luogo lo chiedo a lei, perché è lei stesso un’eccellenza del Sud: 

c’è qualcosa che vorrebbe sottolineare del nostro Sud 

per iniziare questa intervista?  


Beh, se vai sfruculiando un artista, non può non dirti che il Sud – lo dico senza nessun campanilismo – dal punto di vista artistico è forse più produttivo del Nord, ma non solo in Italia. Nel Sud del mondo, aiutati dal sole, c’è una vitalità artistica forse più ampia, più abbondante, non voglio dire migliore, di tutta la restante parte. Pensiamo alla cultura napoletana, alla cultura siciliana, e poi da tutti i punti di vista, anche musicale, umanistico, giuridico, il Sud è veramente un’eccellenza italiana che va fatta conoscere. Tutto questo riconoscendo che il Nord è sicuramente più produttivo dal punto di vista economico e che è molto ospitale nei nostri confronti, perché noi del Sud dobbiamo andare al Nord e far sposare la nostra creatività con l’operosità del Nord. Tutto questo naturalmente ricordando che la Capitale d’Italia è al centro e che ci sono due isole bellissime che sono la Sicilia e la Sardegna.

Con l’Orchestra Italiana ha girato sud e nord non solo dell’Italia ma del mondo.  

 

Devo dire che io ho veramente girato il mondo con la mia Orchestra Italiana, che da 28 anni è diventata l’orchestra stabile più longeva nella storia della musica, e sottolineo “orchestra stabile”. Più lunga, nel jazz, di quella di Duke Ellington che è durata quindici anni. E io con ‘sti napoletani duriamo da 28 anni e siamo andati per il mondo con le canzoni napoletane arrangiate da me.

 

Come Caravaggio, che non era di Napoli ma ha lavorato a lungo a Napoli 

ed è stato determinante per la formazione della pittura napoletana, 

così lei con l’Orchestra Italiana ha in qualche modo consolidato, 

accresciuto e creato una nuova memoria della canzone napoletana 

in Italia e nel mondo.  

 

Ti ringrazio che me lo riconosci, perché c’era un grande equivoco in cui erano caduti persino gli artisti napoletani. Gli artisti napoletani che avevano solo due maître à penser, vendevano la Napoli antichissima popolare e snobbavano la canzone napoletana borghese. C’era un’antipatia da parte di questi due personaggi che non nomino per le canzoni napoletane borghesi, perché queste canzoni bellissime, tranne in pochissimi casi, uno o due, sono state scritte tutte da borghesi, intellettuali finissimi, professori, dirigenti, avvocati e cantavano la Napoli popolare ma erano borghesi, e questo per loro era l’handicap. Così gli artisti napoletani, suggestionati da questi maître à penser così autorevoli, hanno creduto che queste canzoni fossero canzoni del passato. È come credere che la Traviata o la Toccata e fuga di Bach siano pezzi del passato. Non si accorgevano che queste canzoni hanno delle melodie, nelle quali noi italiani, e in particolar modo i napoletani, eccelliamo, che sono le più belle del mondo e le poesie, perché non le chiamiamo soltanto parole, le poesie più belle del mondo. Perché se uno prende Salvatore Di Giacomo, e quindi i grandissimi, come anche Ernesto Murolo, hanno scritto delle liriche meravigliose, sposate a una musica meravigliosa. Io non esito a dire, da colui che ha conosciuto e pratica tutta la musica del mondo, che le canzoni eterne più belle del mondo sono le canzoni napoletane. Poi ci sono le canzoni americane degli anni Trenta, ma sono canzoni molto più commerciali, molto meno profonde, sempre bellissime, Gershwin, Cole Porter; poi ci sono le canzoni brasiliane degli anni Cinquanta, ma quelle popolari forse più importanti dopo le canzoni napoletane sono le canzoni messicane, che tutti ritengono siano cubane o argentine, e invece no, sono messicane. Lì c’è un patrimonio bellissimo, ignorato dalla cultura mondiale, non si sa perché. Come lirica e come melodia le canzoni messicane sono fortissime, però quelle napoletane sono molte, ma molte, ma molte di più.

Le canzoni napoletane parlano spesso di amori tormentati o sofferti. 

 

Sì, è lo stesso soggetto delle canzoni messicane, anche quelle napoletane parlano di amori tormentati, gelosie, morti.

 

Quindi è vero quello che Einstein ha scritto alla figlia e cioè che l’amore
è “la più invisibile e potente delle forze, […] la quintessenza della vita”. 

 

Certo. Queste canzoni parlano d’amore, perché l’amore perbacco è quello lì, meraviglioso, che poi ha mille e mille sentieri. Perché io stesso mi meraviglio, ascoltando le canzoni napoletane antiche, ma non solo le più famose, di come sono andati a scovare certi tic di innamorati, certi momenti, certi vizi. Io ho fatto un film che si chiama Che mi hai portato a fare sopra a Posillipo se non mi vuoi più bene, anche questa è un’intuizione bellissima. Lei lo sta lasciando e lui si lamenta e dice: “Perché mi hai portato in questo posto magico, meraviglioso, degli innamorati, se non mi vuoi più bene”. Ecco, nelle canzoni napoletane ci sono mille di queste idee, anzi di più. Questa è la bellezza di queste canzoni del Sud che adesso sto tentando di far apprezzare dall’Unesco, sperando di farle riconoscere come Patrimonio dell’Umanità. È stata riconosciuta la pizza, che è una cosa straordinaria, spero anche nel valore aggiunto delle canzoni napoletane che sono cantate anche in Cina o in Corea dai loro tenori e soprani, peraltro con accenti meravigliosi. Dovunque sono andato in Cina, ho sempre trovato delle persone a cui ho fatto cantare ‘O sole mio e non puoi immaginare con quanta dedizione ed entusiasmo. Ma poi non solo in Estremo Oriente, anche arabi, tunisini, li ho visti cantare ‘O sole mio. Questa è, non la canzone napoletana più famosa del mondo, ma proprio la canzone più famosa al mondo. Dopo viene Summer Time, e dopo Let it be.

Il suo grande amico Luciano De Crescenzo, da me intervistato qualche anno fa 

per Myrrha, mi raccontò che ‘O sole mio non è stata scritta a Napoli, 

come tutti pensano, ma a Odessa. E questo spiega il perché 

di questa ode al sole, mentre se fosse stata scritta a Napoli, 

dove il sole c’è sempre, non si spiegherebbe. 

 

Sì, ma te lo dico da foggiano, che ha vissuto sette anni a Napoli e ci va spesso: a Napoli loro non capiscono che sono baciati dal sole in quella maniera straordinaria. Napoli è esposta completamente a sud, quindi dal porto, da Castellammare fino al monte di Procida è esposta a sud, così come anche Amalfi e Positano. Quindi il sole quando c’è, quasi sempre, bacia quella città in maniera totale e straordinaria.

A Napoli anche lei è rimasto incantato dal Cristo velato? 

 

È bellissimo. Io ci andavo quando ancora non lo conosceva nessuno. Pensa che mi portò uno studente di medicina. Mi disse: “Devo andare a vedere i due scheletri” (le macchine anatomiche esposte nella cavea sotterranea ndr). Perché in quelli il principe di Sansevero aveva fermato tutto l’impianto circolatorio, non si sa come. Aveva iniettato qualcosa che avrebbe dovuto fermare il sangue e invece era rimasto tutto, c’erano persino i capillari.  Comunque, a Napoli ci sono dei capolavori. Come dice Sgarbi, Napoli è una città che è già cultura. È la verità, Napoli con tutte le dominazioni, con quello che ha avuto, la Napoli sotterranea, è una città che trasuda cultura da tutte le parti e la trasmette. Poi ci sono altre cose meravigliose che i napoletani non sanno e che io individuo da pugliese. A Napoli, siccome non hanno molto il senso pratico come noi pugliesi, o come i romani, i milanesi ecc., fanno anche delle meravigliose cose superflue, inutili. E questo è il segreto della creatività! Perché uno dice: “Io sono appassionato di piante e voglio fare un innesto, voglio fare una cosa particolare”, e da quella semplice azione magari salta fuori una scoperta eccezionale. Non hanno quella cosa tipicamente italiana del “a che serve? Come ci guadagniamo? A chi lo vendiamo?”, loro non partono da questo criterio, ma dalla passione. Ho la passione di dipingere Napoli capovolta? Non venderò mai un quadro, ma lo faccio perché mi piace. Questo è molto singolare e bellissimo.  Ma finiamo di parlare di Napoli se no poi si incavolano i miei amici pugliesi. Anzi, a questo proposito ti racconto una cosa che abbiamo rilevato con il mio amico Lino Banfi, pugliese come me. Noi naturalmente, essendo pugliesi ma innamorati della cultura napoletana come tutti i pugliesi, abbiamo notato una cosa. Banfi, che è curioso, ha detto: “Sai perché i napoletani ridono più di noi? Perché noi pugliesi un po’ invidiamo quelli che stanno meglio di noi”. Noi diciamo: “Oh, guarda che bella moglie che ha il mio amico”, e la guardiamo con invidia, o anche quello che ha la macchina più grande, quello che ha successo ecc. Mentre i napoletani indulgono di più al sorriso perché guardano quelli che stanno peggio di loro. Il napoletano dice: “Meno male che non dormo nell’automobile come questo poveretto”. Hanno questo atteggiamento di essere contenti del loro stato e sono abbastanza soddisfatti rispetto a quelli che stanno peggio di loro. Hanno sempre avuto a che fare con la miseria, con le disgrazie, con le dominazioni, quindi hanno un atteggiamento che la rende una città sorridente, come dico io.

 

Prima di Napoli c’è stata Foggia. 

 

Sì, ho parlato bene di Napoli ma voglio parlare bene anche della mia fucina, Foggia, “reale e preferita dimora di Federico II”. Noi avevamo una proprietà che abbiamo venduto nel dopoguerra, che era proprio la tenuta di caccia di Federico II, in località Cervaro. È una città che non ha grandi vestigia dell’antichità, ma la provincia rispetto alla grande città ti permette di stare per strada e di conoscere tutti: il figlio del ricco, quello che scappa di casa, il delinquente, il poliziotto, il venditore di nocelle, il corteggiatore, la ragazza generosa, tutta una fauna umana. Io poi ho ancora la mia casa in centro, scendo e incontro dei passanti che sono già miei amici, che sono quelli del tennis o quelli con cui ho studiato, mi accodo e si fa la famosa passeggiata per il corso parlando di cose inutili. Che però ti educano, perché incontri quello che ti racconta come si smista la corrispondenza nei vagoni postali delle ferrovie e quell’altro che invece faceva il pilota degli aeroporti militari ad Amendola, il più grande aeroporto militare d’Italia. Insomma, tutte conversazioni interessanti e anche a volte totalmente inutili come quelle del bar notturno, che poi io ho messo anche in Quelli della Notte: “È meglio il mare o la montagna?” Quelle conversazionacce inutili… Così in quegli anni ho conosciuto un campionario umano molto, molto vasto. Dovevo, per sconfiggere la noia, organizzare delle cose culturali, ma anche degli scherzi notturni, quindi una maniera goliardica di passare la sera, perché senza le ragazze che andavano a casa alle otto noi ci ritrovavamo che non sapevamo che fare. Quindi la provincia è diventata una palestra e poi c’era il carattere di noi pugliesi, che abbiamo la grande voglia di sprovincializzarci. Sai, quello che si dice a Bari, “se Parigi avesse lu mare sarebbe una piccola Bari”, è in realtà una spia popolare della nostra voglia di sprovincializzarci. Abbiamo un po’ il complesso di appartenere al profondo Sud, anche se non è poi così profondo come la Sicilia.

Come diceva saggiamente Luciano De Crescenzo, 

“si è sempre meridionali di qualcuno”. 

 

Già. Il pregiudizio che si ha sul Sud in generale è inutile e dannoso. Tu di una persona puoi vederne i difetti e non calcolarne i pregi. Persino di Leonardo da Vinci puoi dire male, puoi dire che non portava a termine le cose, che era vanitoso perché si è autoritratto ecc.

Come vi siete conosciuti e riconosciuti (tra persone fuori del comune ndr

con Luciano De Crescenzo? 

 

Noi ci siamo conosciuti perché avevamo la stessa fidanzatina. Io stavo a Sorrento e avevo ‘sta fidanzatina, Luciano stava a Napoli e aveva ‘sta fidanzatina. La mia fidanzatina diceva: “Vado a Napoli perché sono amica di Luciano De Crescenzo, ingegnere”. Io le chiedevo: “Ma siete fidanzati?” “No”. E la stessa cosa diceva a Luciano su di me. Poi in seguito ci siamo conosciuti, ci siamo confrontati e da lì siamo diventati amici. Naturalmente, siccome era una fidanzatina occasionale estiva, è diventata la prima risata con Luciano, e sul piano della risata ci siamo intesi subito. Noi avevamo una matrice goliardica tutti e due. La goliardia che era ed è considerata una cosa deteriore, perché naturalmente c’è anche una goliardia deteriore, però era una fucina di risate da parte di intellettuali o di futuri intellettuali, che appartenevano tutti all’Unione Goliardica Italiana, pensa a Eugenio Scalfari, Luciano De Crescenzo, Bettino Craxi, Pannella, erano tutti UGI, e tanti altri intellettuali. Erano i ragazzi svegli di quella generazione, prima della mia, che stando all’università aderivano a questo movimento goliardico, per cui mescolavano il basso con l’alto, le leggi della chimica con le parolacce o la religione ecc., ma la matrice era quella ridanciana della goliardia. Questa era la matrice anche per me e Luciano. Poi coincidevano le passioni per la cultura napoletana e per la canzone napoletana che avevo praticato e bazzicato nei sette anni della mia permanenza napoletana. Perché io mi sono laureato in giurisprudenza, ma invece di metterci quattro anni ce ne ho messi sette, perché suonavo anche, frequentavo gli americani, dirigevo il circolo napoletano del jazz, frequentavo Roberto Murolo, Sergio Bruni, tutti i cantanti napoletani, e in più gli studi. Questa cultura con Luciano l’abbiamo condivisa, lui era di una generazione precedente, generazione straordinaria, perché era quella di Raffaele La Capria, di Antonio Ghirelli, di Giorgio Napolitano, di Franco Rosi, grande regista, di Domenico Rea, di Giovanni Ansaldo direttore del “Mattino”. C’era una cultura napoletana meravigliosa, tradizionale, c’era un grande rispetto tra il popolo e la cultura borghese napoletana, che poi è stata cancellata ed equivocata col laurismo. Con Luciano siamo stati amici fino alla fine. È stato sottovalutato dalla critica snob dei “non venditori di libri”, perché Luciano li vendeva. Ha venduto più di venti milioni di libri in tutto il mondo, è lo scrittore che ha venduto più libri al mondo, più di Umberto Eco. E comunque le vendite sono una cosa e il valore un’altra, e Luciano è sicuramente da approfondire. Ora sto rileggendo i suoi libri e ci sono tantissime idee e pensieri profondissimi.

Cosa sta preparando adesso?  

 

Adesso sto preparando due revival, uno con Banfi e Mirabella, un programma pugliese, e poi un programma napoletano ricordando i cento anni dalla nascita di Renato Carosone che ricorrono quest’anno. Speriamo di farlo con Stefano Bollani che è un grandissimo pianista, un’eccellenza italiana anche lui.  Poi mi sto dedicando molto al mio canale: renzoarborechannel.tv dove h24 vengono passate sia cose mie, sia programmi che mi piacciono, che condivido o che sono nelle mie corde: Edith Piaf, Yves Montand, Aretha Franklin, io praticamente faccio il video jockey, mi diverto a mettere dei video che poi servono sia per i millennials, che non li conoscono, ma anche per i nostalgici, Aldo Fabrizi, Lulù, Sandra e Raimondo. Questa è la cosa che più mi affascina, fare il video jockey.

 

Prima mi raccontava una cosa interessantissima sulle origini del jazz. 

 

Sì, ho fatto con Riccardo Di Blasi un programma di un’ora e mezzo per Rai 2 sulle origini siciliane del jazz che vengono sottaciute dagli americani. In realtà, il primo disco nella storia del jazz è stato scritto e composto da un siciliano, Nick La Rocca, trombettista di genitori siciliani, padre di Salaparuta e madre di Poggioreale (entrambe in provincia di Trapani ndr) che, con alcuni altri siciliani trapiantati a New Orleans, fondarono l’Original Dixieland Jass Band (poi trasformato in Jazz) che servì di ispirazione perfino ad Armstrong che lo dice nella sua biografia. Nick La Rocca ha fatto il primo disco nella storia del jazz che si chiama Livery Stable Blues e ha fatto un celeberrimo brano che si chiama Tiger Rag, uno standard che ha fatto il giro del mondo. Ma la verità è che il contributo dei siciliani, così come quello dei neri, dei francesi e dei canadesi che stavano a New Orleans in quel periodo è stato determinante per l’invenzione della musica jazz. A New Orleans c’è un museo italo-americano e c’è anche la più antica gastronomia italiana dove si va a mangiare gli anelletti e le cose siciliane. A New Orleans nel 1835 cominciarono ad arrivare gli italiani perché il governo americano, che aveva comprato la Louisiana dalla Francia, offriva dei terreni gratis a chi era disposto a coltivarli e quindi da Palermo, ma soprattutto dalla zona di Salaparuta, si trasferirono in tanti. Quindi lì c’è una cultura antichissima, perché non erano neanche emigranti, erano coloni. Grazie a questa trasmissione sulle origini siciliane del jazz sono diventato palermitano ad honorem!

Una chicca meridionale per chiudere? 

 

Voglio ricordare che l’America ha avuto i primi italiani amati dagli americani, come Rodolfo Valentino, un attore meraviglioso, che era pugliese di Castellaneta, e un altro pugliese di Foggia, anzi di Cerignola, che è amatissimo dagli americani, che lo fecero sindaco di New York e gli intestarono anche un aeroporto, ora il secondo a New York, che era Fiorello La Guardia. Spero sempre che qualcuno possa decidere di fare una fiction, perché è una storia bellissima, su questo personaggio che fu tanto amato dagli americani.

 

Bene caro Renzo Arbore, ci aspettiamo tante altre belle sorprese da parte sua! 

 

 

Azzurra Primavera
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IL MAESTRO DEI MAESTRI EDOARDO SCARPETTA di Fernando Popoli – Numero 15 – Dicembre 2019

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IL MAESTRO DEI MAESTRI EDOARDO SCARPETTA

 

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Da piccolo, preso da un infrenabile desiderio infantile prodomo del suo destino,

costruì un teatrino di legno dove si divertiva a far recitare dei pupi di stoffa 

con la sorellina Gilda, unica spettatrice.


All’età di nove anni il padre, funzionario statale, lo portò al celebre teatro San Carlino dove il grande Antonio Petito, famoso Pulcinella, recitava. La visione di quella maschera brutta, con rughe sulla fronte e sguardo inquietante gli rimase impressa e segnò la sua scelta, ammaliandolo completamente.  

 

All’età di quattordici anni fu scritturato dall’impresario Salvatore Mormone e debuttò al San Carlino nella commedia dialettale Cuntiente e guaje dove recitava in una piccola parte con poche battute. Quello fu l’inizio di una grande ascesa, il pubblico cominciò a notarlo, a seguirlo, ad apprezzare il suo talento dirompente e comunicativo, a punto tale che il grande

 

Antonio Petito, che pure in precedenza non l’aveva preso in considerazione, 

gli affidò la parte di Felice Sciosciammocca

 

(alla lettera: soffia in bocca), che faceva da spalla a Pulcinella, un personaggio divertente, ingenuo e svampito che è rimasto nel teatro napoletano per decenni.  

Petito scrisse alcune commedie su misura per lui Feliciello mariuolo de’ na pizza e Felice Sciosciammocca creduto guaglione ‘e n’anno” ottenendo un grande successo di pubblico che prese in simpatia definitivamente questo giovane attore. 

Scarpetta passò da una compagnia all’altra mietendo sempre unanimi consensi, quando c’era lui i teatri erano pieni.   


Intanto Petito era morto e il San Carlino versava in condizioni critiche, quasi disperate, fu allora che l’attore decise di rilevarlo; lo mise completamente a nuovo e iniziò lì una nuova stagione teatrale aggiornando il repertorio e modificando la sua recitazione ispirandosi ai vaudevilles francesi, rielaborandoli e reinventandoli sempre con il principio che il pubblico voleva ridere, ridere, ridere. 

In breve calcò i palcoscenici di tutti i teatri d’Italia consolidando la sua fama 

e arricchendosi; scrisse altre commedie, tra queste quella più famosa, 

tramandata ai suoi discendenti e a tanti altri attori napoletani: 

Miseria e Nobiltà.


La storia di un giovane nobile innamorato di una ragazza figlia di un cuoco arricchito, amore ostacolato per motivi di classe sociale dai genitori, dove Sosciammocca e un altro spiantato si fingono parenti nobili della ragazza per far superare l’ostacolo, con tutta una serie di situazioni comiche poiché ad un certo punto entrano in scena i veri nobili di quella casata.  

 

Miseria e Nobiltà ebbe un grande successo di pubblico e di critica insieme 

ad altre due commedie di Scarpetta: Nu turco napolitano e O miedeco d’e pazze.


Queste tre commedie furono in seguito portate sullo schermo dal grande Totòche fece di Sciosciammocca una memorabile interpretazione ancora oggi godibilissima da spettatori di tutte le età. Attore e commediografo consacrato, Scarpetta ebbe una vita sentimentale travagliata e

si unì a più donne dalle quali ebbe figli legittimi e figli illegittimi come i tre fratelli 

De Filippo che raccolsero da lui il talento e il fuoco sacro dell’arte teatrale

 

segnando in seguito una pietra miliare nella recitazione del teatro di tutti i tempi.
Nel 1889 ottenne un memorabile successo con 
Na santarella al TeatroSannazzaro di via Chiaia. Tutta Napoli, elegante e mondana, accorse al piccolo teatro, e con gli incassi della commedia l’attore si fece costruire una villa sulla collina del Vomero chiamata Villa la Santarella, dove sulla facciata principale fece scrivere la celebre frase «Qui rido io!», ancora oggi viva nella memoria dei napoletani.  

Ebbe anche una lite giudiziaria per i diritti di una commedia, La figlia di Iorio,con il Vate, Gabriele D’Annunzio, dalla quale però uscì vincitore ma anche amareggiato per l’insuccesso che ebbe la rappresentazione.

Nel 1909 si ritirò dalle scene, stanco e deluso, lasciò in eredità al figlio Vincenzo il personaggio di felice Sciosciammocca e scrisse un saggio sul commediografo Raffaele Viviani. 


Morì nel 1925 all’età di 72 anni e il suo funerale a Napoli fu imponente. Oggi riposa in pace nelle cappelle delle famiglie De Filippo, Scarpetta e Viviani al cimitero di Santa Maria del Pianto a Napoli.  

La sua arte è rimasta ed è spesso ripresa da altri attori napoletani, la sua dinastia si è estinta, dei suoi discendenti non è rimasto più nessuno ma il ricordo di lui è vivo nella memoria di tutti gli amanti del teatro. 

 

il maestro dei maestri del teatro popolare napoletano, il capostipite di una grande famiglia di attori ormai del tutto estinta, padre di Eduardo, Titina e Peppino De Filippo, di Vincenzo Scarpetta, di Eduardo Scarpetta in arte Passarelli, di Pasquale De filippo, e nonno di Luca De Filippo e Mario Scarpetta. 

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Fernando Popoli

EDUARDO, TITINA E PEPPINO

 

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CODEX… PATRIMONIO DELL’UMANITA’ di Cecilia Perri – Numero 15 – Dicembre 2019

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CODEX…  PATRIMONIO DELL’UMANITA’ 

 

è un evangeliario greco miniato, uno dei più preziosi esistenti al mondo, che contiene l’intero vangelo di Matteo, quasi tutto quello di Marco, del quale mancano solo i versetti 15-20, e una parte della lettera di Eusebio a Carpiano sulla concordanza dei vangeli stessi.

È costituito da 188 fogli, pari a 376 pagine, di finissima pergamena purpurea e in origine doveva certamente comprendere tutti e quattro i vangeli, in uno o due volumi. La scrittura utilizzata è la maiuscola biblica, il testo è distribuito su due colonne di venti righe ciascuna, di cui le prima tre che costituiscono l’incipit dei vangeli sono scritte con caratteri aurei, mentre le altre in argento.
Il Codex è inoltre

 

arricchito da quindici miniature considerate un assoluto capolavoro dell’arte bizantina

 

Probabilmente le miniature oggi conservate non sono tutte quelle che ornavano e illustravano l’evangelario, ma rappresentano certamente un folto nucleo che comprende rievocazione dei fatti neotestamentari, concepiti allo scopo di servire la liturgia della chiesa greca. Il ciclo miniato di Rossano è considerato più di una narrazione illustrata della vita di Cristo; gli studiosi hanno infatti evidenziato il rapporto con le letture della settimana santa nella chiesa bizantina, tradizione ancora in uso in molte comunità della Calabria, sottolineando come le composizioni attingano spesso da più vangeli contemporaneamente.   

 

Le scene raffigurate in sequenza sono: la resurrezione di Lazzaro; l’ingresso di Gesù in Gerusalemme; la cacciata dei mercanti dal Tempio; la parabola delle dieci Vergini; l’ultima cena e la lavanda dei piedi; la comunione degli apostoli; Cristo nel Getsemani; il frontespizio delle tavole delle concordanze; la lettera di Eusebio a Carpiano; la guarigione del cieco nato; la parabola del buon samaritano; Cristo davanti a Pilato; il pentimento e la morte di Giuda; la scelta tra Cristo e Barabba; il ritratto san Marco con la Sophia.

In dieci delle quindici pagine miniate, al di sotto della scena figurata vi sono le figure 

di quattro profeti che reggono con la mano sinistra un rotolo sul quale 

è una loro profezia, mentre con la destra indicano la scena 

che si svolge in alto, per stabilire la stretta connessione 

tra vecchio e nuovo testamento.

 

Protagonista indiscusso delle miniature è la figura di Cristo, raffigurato secondo l’iconografia bizantina. L’espressività dei personaggi, la resa armonica e moderna del movimento, l’uso dei preziosi colori, sono alcuni degli elementi che rendono davvero unico il ciclo miniato. Ciò che rende ancor più affascinante il Codex è la sua storia, ancora oggi avvolta dal mistero. Il Codex è ricordato per la prima volta a Rossano nel 1831 da Scipione Camporota, canonico della Cattedrale, ed è segnalato poi, fugacemente, nel 1846, dallo scrittore Cesare Malpica in un libro-reportage dal titolo La Toscana, l’Umbria e la Magna Grecia, ma viene presentato per la prima volta all’attenzione della cultura europea ed internazionale nel 1879 dai due studiosi tedeschi, Oskar von Gebhardt e Adolf von Harnach, che pubblicano un testo dal titolo Evangeliorum Codex Graecus Purpureus Rossanensis, battezzando ufficialmente il prezioso manoscritto di Rossano.

Molteplici sono ancora oggi gli aspetti problematici dibattuti dalla critica 

e riguardano la precisa datazione del Codex, 

 

il luogo in cui fu realizzato, i tempi e le modalità del suo arrivo nella città di Rossano. La datazione è circoscritta alla metà del VI secolo, mentre più complessa resta la questione relativa al luogo di realizzazione dell’evangelario: esso fu realizzato in uno scriptorium bizantino dell’Impero Romano d’Oriente, ma le diverse tesi oscillano tra la Siria, l’Egitto, la Palestina o la città Costantinopoli, anche se oggi gli studiosi tendono a riconoscere Antiochia di Siria il luogo più probabile di esecuzione.

Circa la committenza è plausibile pensare che sia stato commissionato 

da una figura proveniente dall’ambiente della corte di Bisanzio,

 

dalla famiglia imperiale o dall’alta aristocrazia di corte, per la preziosità dei materiali di cui si compone – pergamena purpurea, inchiostro d’oro e d’argento – il colore porpora era a quel tempo riservato all’imperatore e ai suoi stretti congiunti. Probabilmente fu portato a Rossano dai monaci iconoduli, intorno alla metà del VII secolo, al tempo delle persecuzioni iconoclaste, ma non è da escludere l’arrivo a Rossano coincidente con la sua elevazione a diocesi nel X secolo, che, tra l’altro, coincide con il periodo di maggior splendore della città. Una tesi più recente afferma come il Codex possa considerarsi un dono della principessa bizantina Teofano, sposa di Ottone II e imperatrice del Sacro Romano Impero, la quale nell’estate del 982 tenne corte in Calabria, proprio nella città che da millenni lo custodisce.   

 

Dal 1952 il Codex è conservato nel Museo Diocesano e del Codex a Rossano, piccolo borgo intriso di cultura bizantina, il primo museo diocesano ad essere istituito in Calabria.

Il prezioso manoscritto, riconosciuto il 9 ottobre del 2015 

quale Bene Patrimonio dell’Umanità

 

da parte dell’Unesco ed inserito nella categoria “Memory of the World”, dopo un attento restauro compiuto dall’ICRCPAL, è dal 3 luglio 2016 conservato e tutelato all’interno di un nuovo percorso museale suddiviso in due sezioni, una interamente dedicata al Codex e l’altra alla collezione museale, studiata al fine di valorizzare al meglio l’intero patrimonio artistico della Diocesi.

Un Museo nuovo, in grado di comunicare l’arte anche in relazione alle esigenze 

del visitatore moderno attraverso soluzioni multimediali, quali totem 

che permettono di sfogliare virtualmente il manoscritto, 

video e monitor touch-screen che consentono 

di compiere un vero e proprio viaggio nella storia 

e nell’arte del territorio diocesano. 

 

Il Museo è gestito dall’associazione “Insieme per Camminare”, nata per volere dell’Arcivescovo Mons. Satriano e composta da giovani con varie professionalità, accomunati da un profondo amore verso il territorio. 

 

 

 

 

 

 

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DICI SIBARI E SEI NELLA MAGNA GRECIA di Michele Minisci – Numero 15 – Ottobre 2019

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DICI SIBARI        E SEI NELLA MAGNA GRECIA 

 

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Sibari-toro cozzante in bronzo originale

oggi frazione del comune di Cassano allo Jonio, in provincia di Cosenza, ieri tra i centri più importanti e floridi della Magna Grecia, fu fondata tra il 720 e il 708 a.C. da un gruppo di Achei provenienti dal Peloponneso.  

In breve tempo, divenne la meta di migranti provenienti 

anche da altre aree dell’Ellade, 

a cominciare dalla città di Trezene, antico centro dell’Argolide orientale. Sull’origine e la fondazione della polis scrissero Aristotele e lo storico Strabone, che ancora costituiscono le fonti principali per gli studi in materia. 

 

Ci si è chiesti, spesso, quali potessero essere state le motivazioni che spinsero quegli uomini e quelle donne a lasciare i propri luoghi natii per approdare in terre sconosciute. Molto probabilmente, alla base della decisione, anche allora, c’erano ragioni di natura economica e sociale.

 

Migrazione economica ante litteram, insomma, che coinvolse, 

nell’arco di più decenni, molte migliaia di persone.

 

Le spedizioni erano precedute, solitamente, da una chiamata pubblica, rivolta a tutti coloro che desiderassero imbarcarsi. Attraverso una serie di proclami, gli abitanti di una città venivano informati delle prossime partenze e chi voleva far parte della spedizione andava a registrarsi, lasciando il proprio nominativo ai magistrati.   

 

Scrive lo storico Strabone:

 

«La città raggiunse anticamente tanta fortuna che esercitò il suo potere 

su quattro popoli vicini; ebbe assoggettate 25 città; inoltre con le sue abitazioni, riempiva tutt’intorno lungo il fiume Crati un cerchio di 50 stadi 

(ogni stadio corrisponde a 178 m)».

 

Un contributo notevole alla crescita ed allo splendore di Sibari lo diede senz’altro il territorio. La vasta pianura, vocata per la coltivazione dei cereali, e le colline circostanti, ambienti ideali per i vigneti; i monti, da cui attingere materie prime, come legno e argento, ma anche prodotti come miele e lana.  

 

La città della dolce vita (Triphè), passata alla storia per gli interminabili banchetti, per il sofisticato e ricco abbigliamento, per i giochi in onore degli Dei, per il “culto della tranquillità”. A proposito di quest’ultima, si narra che a Sibari le case erano coperte da teli per impedire ai raggi del sole di disturbare il dolce sonno degli abitanti e che dentro le mura della città erano vietati lavori rumorosi!  

 

Nondimeno, stando alle cronache dello storico Diodoro Siculo, Sibari fu anche protagonista di un’intelligente politica di integrazione a favore dei migranti, prevalentemente italici. A proposito di integrazione, oggi tanto problematica!  

 

Grazie all’accoglienza ed all’inclusione di un numero molto alto di persone, accrebbe, infatti, la sua forza e la sua capacità di espansione, potendo contare su un esercito molto potente e motivato.

Nel massimo del suo splendore, Sibari arrivò a controllare un territorio 

che si estendeva a sud fino alla foce del fiume Traente, 

al confine con Crotone, e a nord fino alla piana del fiume Sinni

 

Sul versante tirrenico la sua influenza arrivò fino a Temesa e Terina, tra le attuali Amantea e Lamezia Terme. Fu proprio per la sua politica espansionistica, evidentemente, che intorno al 520 a.C. entrò in conflitto con Crotone, città guidata da un forte spirito moralista, sotto l’egida della scuola di Pitagora.

All’origine degli attriti tra i due centri, secondo la tesi prevalente, ci sarebbe 

la cosiddetta “questione tirannica”, ovvero l’evoluzione democratica 

del regime sibarita, ad opera di Telys, l’ultimo tiranno di Sibari, 

e del suo impero. 

 

Telys è stato definito «un tiranno di stampo o estrazione democratica», giunto al potere con una rivolta popolare, dunque in maniera diversa dai dittatori tradizionali, che generalmente conquistavano il potere con un colpo di Stato, appoggiandosi all’esercito.

 

La sua politica fu di scontro totale con il potere oligarchico, tant’è che scacciò 

dalla città 500 ricchi aristocratici, confiscandone i beni,

 

ed avviò una vera e propria rivoluzione sociale su basi anti-plutocratiche. Gli esuli, com’è noto, trovarono rifugio a Crotone e questo costituì il casus belli che fece esplodere il conflitto tra le due città. 

 

La battaglia finale sarebbe avvenuta nel 510 a.C., in un’area compresa tra la città di Lacinia e l’attuale Piana di Sibari, nei pressi del fiume Traente.

Crotone si impose con le sue armate guidate da Milone, 

l’atleta olimpionico plurivittorioso divenuto stratega dell’esercito.

 

La città viene distrutta e cancellata definitivamente con la deviazione del letto del fiume Crati sull’abitato. 

La sconfitta di Sibari fu dovuta senza dubbio ad interventi esterni. In occasione della battaglia, fu chiamato infatti Dorieo, figlio della prima moglie di Anassandrida, re di Sparta, che giunse con le sue truppe su esplicita richiesta d’aiuto di Crotone.

Il sito archeologico di Sibari 

 

Il sito archeologico di Sibari è ubicato sulla costa Ionica della Calabria a breve distanza dalla foce del Fiume Crati.

Questa parte del territorio calabro, nota topograficamente come Sibaritide vide 

il sorgere, lo sviluppo, l’espansione e poi il declino della grande polis di Sibari; 

qui furono impiantati, in epoche successive alla distruzione della città greca, sovrapponendosi in parte alle sue rovine, prima il centro ellenistico di Thurii 

e poi quello romano di Copia.

 

Questa eccezionale stratificazione fa di Sibari uno dei siti più estesi ed importanti del Mediterraneo di età arcaica e classica.   

 

L’area del parco archeologico è divisa in settori, ognuno dei quali è identificato con il nome del cantiere di scavo: Parco del Cavallo, Prolungamento Strada, Casabianca, Stombi. Tutti i settori, tranne quello di Stombi, sono visitabili.

La visita al Parco Archeologico della Sibaritide rappresenta un percorso a ritroso 

nel tempo che dalla tarda antichità e dall’età romana scende 

ai livelli della Sibari arcaica dell’VIII secolo a.C.; 

 

bisogna però tener presente che, tranne poche eccezioni, i livelli più profondi e quindi più antichi non sono visibili e che quanto è in luce rappresenta la fase più recente, cioè quella della città romana di Copia. 

Il Museo 

 

Inaugurato nel 1996, il Museo della Sibaritide ospita interessanti reperti di epoca greca e romana (vasellame, lamine d’oro, sculture e decorazioni in terracotta), ma anche materiali recuperati in tombe indigene dell’età del Ferro e manufatti di provenienza greca, fenicia ed egiziana a testimonianza degli intensi traffici marittimi dell’epoca. Nel 2013 un’alluvione ha coperto di fango larga parte degli scavi, oggi fortunatamente recuperati.

La città di Sibari lascia una traccia importantissima nella Storia 

come una delle più importanti e sfarzose città del mondo occidentale,

il cui periodo storico di oltre duecento anni trascorsi proprio qui, nella nostra Calabria, onorano così questa regione bellissima e sventurata allo stesso tempo.  

 

Recentemente il sito Casa Bianca ha ricevuto dalla Unione Europea un contributo di 500.000 € per ampliare l’accessibilità del sito e i percorsi pedonali – come mi dice la dottoressa Adele Bonofiglio, direttore del Museo Archeologico della Sibaritide, e un altro milione di euro per la predisposizione di nuove vetrine per accogliere altri importanti ritrovamenti oltre all’ormai noto reperto bronzeo del 5° secolo a.C. il Toro cozzante.  

 

 

 

 

 

 

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Credit foto: gentile concessione Direzione Museo e Parco Archeologico di Sibari

 

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COSENZA CENTRO STORICO E TERRITORIO di Daniela Francini – Numero 15 – Ottobre 2019

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COSENZA  CENTRO  STORICO          E TERRITORIO

 

alcune idee per ridare al centro storico un ruolo territoriale. 

Come appare dalla carta dell’Angelica e del Pacichelli risultano evidenti due linee di attraversamento nel centro storico di Cosenza; per la prima, nella carta dell’Angelica, la via degli Orefici, il tracciato è chiaro; per la seconda, la scritta “via delli Padolisi” si trova ad un livello altimetrico superiore, nella via che oggi è denominata S. Francesco d’Assisi e poi via Giostra Vecchia.  

 

Il primo itinerario, partendo dai porticati, attraversa la Piazza dei mercanti (21) poi la Piazza Maestra al centro dell’itinerario, con il Duomo, (n.1) prosegue per la Piazza degli orefici (43) e si conclude a Porta Chiana (28);  

Il secondo itinerario storico è rappresentato sulla carta dal collegamento della fontana dello Mastro Andrea (n. 36), dalla chiesa di S. Francesco d’Assisi(n.2), dai Padolisi (26), da Capo Piazza (25) e si conclude anch’esso a Porta Chiana (28).  

 

L’inizio e la fine dei due itinerari sono rappresentati nella carta dai numeri in sequenza 29 e 28 che rappresentano rispettivamente l’ingresso, coincidente con i porticati (29) a piazza Valdesi e l’uscita a Porta Chiana(28).    

Oggi il secondo itinerario è riconoscibile salendo da Piazza Valdesi attraverso via Messer Andrea, arrivando a Piazza Berardi, proseguendo su via S. Francesco d’Assisi, percorrendo via della Giostra Vecchia, via Gaetano Argento passando sotto agli archi di Ciaccio, ed arrivando a Porta Piana. [Casella di testo] Al centro del primo itinerario è il Duomo, al centro del secondo itinerario è la Chiesa di S. Francesco d’Assisi.

La successione dei principali avvenimenti della chiesa di San Francesco d’Assisi mostra che in essa è rappresentata tutta la storia dei più importanti

avvenimenti della città 


e che nel suo intorno c’è la sovrapposizione storica di tanti secoli di ritrovamenti e di tante ricchezze ancora da scoprire.   

 

Il lavoro di restauro che abbiamo contribuito a realizzare è stato premiato da scoperte e ritrovamenti anche insperati: l’eliminazione dell’intonaco nella navata principale, nella zona del presbiterio e sugli archi della navata sinistra ha disvelato elementi in pietra locale pregiamente intagliati da maestranze roglianesi, riportati quindi in luce e accuratamente consolidati. Durante i lavori di restauro, si è rinvenuta un’incisione in una pietra della navata sinistra: ROGLIANO G.R.P.F.F.I.1613, datazione non riportata in alcun testo e che ha sottoposto la ricerca storica ad ulteriori approfondimenti.

La chiesa si riconferma testimonianza storica della scuola moglianese, 

maestri artigiani progettisti ed esecutori di opere di straordinaria fattura.


Ogni maestro si avvaleva di una squadra, fatta di manovali ed apprendisti attenti ad imparare, ad apprendere i sistemi di lavoro, le tecniche, il gusto estetico, la stessa cultura; da Napoli in giù ebbero una grande fama erano richiesti un po’ ovunque, specialmente dove le opere erano più impegnative e dovevano assumere i caratteri della solennità e della sontuosità. 

 

Ponti e portali le opere richieste agli scalpellini: gli scalpellini intagliano nella pietra i sogni degli uomini che quei palazzi e quelle chiese vedranno tutti i giorni e dovranno dire chi essi sono e come si pongono di fronte alla storia ed alla società.

Gli scalpellini prendono una pietra ne vedono all’interno una forma 

e con quella riescono a dare forma al confine stesso dell’architettura.


La tradizione assegna ad un gruppo di fratelli, pare fossero in sette, gli “sciardari”, così noti dal soprannome loro attribuito un ruolo d’avanguardia nell’arte calabrese del XVII sec. e un posto di primo piano nell’ambito della stessa dinastia di scalpellini ed intagliatori roglianesi; sciardari furono quei gruppi roglianesi le squadre al lavoro, le carovane fatte di architetti-capomastri, artigiani e manovali in partenza da Rogliano per prestare la loro opera in tutta la Calabria. Il termine deriva probabilmente dal togliere la Scarda, ossia ripulire la pietra dei suoi strati superficiali più deboli e predisporla alla lavorazione e così anche il legno.

Mastro Gerolamo, mastro Giliberto e gli sciardari rappresentano i riferimenti fondamentali che segnano in epoche diverse il fortunato percorso 

della scuola degli architetti e artigiani roglianesi


Oggi assistiamo alla decadenza dei mestieri tradizionali che da noi ormai da tempo non vengono più tramandati e sembra ormai persa ogni possibilità di perpetuare le tecniche, i modi e le regole artigianali di un tempo.   

 

Pochi sono infatti nella nostra regione gli scalpellini che lavorano ancora manualmente la pietra; dalla Chiesa di S. Francesco d’Assisi emerge quanto sia importante promuovere e rilanciare l’artigianato per un’adeguata preparazione sia teorica che tecnico pratica con il recupero dei mestieri tradizionali ed è importante anche per garantire un’attività di vero restauro e conservazione delle testimonianze artistiche del nostro passato.   

 

Il centro storico di Cosenza può contare sulla presenza di un nucleo architettonico di elevato interesse storico costituito dal complesso della Chiesa di San Francesco d’Assisi.  

 

Il Piano di recupero del centro storico può far riscoprire il significato dell’itinerario di storia e cultura della prima rigenerazione urbana a Cosenza e promuovere l’itinerario complementare di via S. Francesco d’Assisi.

Attraverso un riuso mirato di tale notevole struttura si potranno mettere in rete 

le diverse offerte culturali ed Il Centro Storico di Cosenza potrà costituirsi 

come un polo di eccellenza nel panorama calabrese.


Questo ed altro dal libro: “La storia interrotta” a cura di Daniela Francini, Carla Salamanca, Paola Luciano di recente ristampa. 

 

 

 

 

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TEATRO RENDANO TESORO DISTRUTTO E RINATO di Pietro Tarsia – Numero 15 – Ottobre 2019

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TEATRO  RENDANO  TESORO  DISTRUTTO E RINATO 

 

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Cosenza vanta uno dei teatri più importanti del Meridione la cui ultima “incarnazione”, il “Rendano”, è erede di una storia che inizia addirittura nel Rinascimento, con rappresentazioni di opere teatrali e musicali in città risalenti a quelle epoche.

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Alla fine del primo decennio del 1800 Re Ferdinando di Borbone promosse la costruzione di un teatro che però vide la luce solo nel 1830 il “Real Ferdinando”; poi nel 1857 per iniziativa di cosentini amanti dell’arte, di fronte al palazzo della Prefettura venne eretto un teatro in legno, il “Baraccone”, utilizzando gli arredi provenienti dallo smantellamento del Real Ferdinando.  

 

Nel 1877 il Comune decise di realizzare un Teatro Comunale in luogo del “Baraccone”, su progetto dell’ing. Nicola Zumpano, dell’Ufficio tecnico comunale. Ma solo il 20 novembre 1909 con Aida di Verdi, il Teatro Comunale verrà inaugurato.

 

Il Teatro disponeva di una sala con 3 ordini di palchi rivestiti in velluto rosso cremisi, decorazioni pittoriche ed in stucco realizzate da Giovanni Diana di Napoli nella sala, da Enrico Salfi nel soffitto che presentava in gruppi di figure allegoriche le 3 arti sceniche: la Musica, la Danza e la Drammatica.

 

Il sipario ideato da Domenico Morelli ed eseguito dal napoletano Paolo Vetri nel 1901, per fortuna visibile tutt’ora, mette in scena l’ingresso a Cosenza, nel 1433, di Luigi III d’Angiò, duca di Calabria e della giovane sposa Margherita di Savoia. Dopo il blocco delle rappresentazioni causato dalla Prima Guerra Mondiale, la ripresa avvenne nel 1920 e nel 1935 il Teatro venne intitolato al pianista e compositore Alfonso Rendano.

Nel 1943, una bomba destinata al vicino Castello Normanno-Svevo, 

sede della contraerea, colpì in pieno il teatro, distruggendone 

il soffitto e danneggiandolo gravemente. 

 

Il Comune incaricò l’architetto Ezio Gentile della progettazione in stile neoclassico, riproponendo quasi fedelmente lo schema originario con stucchi e decorazioni negli spazi interni (mentre venne realizzato all’ultimo piano un ampio foyer, poi intitolato al maestro e compositore cosentino Maurizio Quintieri)  ed io, venni investito della Direzione dei lavori, tuffandomi con passione in un’impresa, a buon diritto storica, in cui diedi “tutto me stesso”, non risparmiando certo tempo ed energie per la buona riuscita del progetto. Progetto improbo, reso tale dalle intuibili difficoltà di reperimento e selezione di materiali consoni, di controllo e guida delle maestranze neofite all’intento di ricostruzione e recupero di un edificio storico.

 

Grazie all’impegno di tutti quelli coinvolti, fra cui 

l’ing.Giovanni Travaglini, allora Provveditore alle Opere pubbliche 

per la Calabria, e non può certo obliarsi l’interesse primario e pressante 

dell’allora ministro dei Lavori Pubblici, il cosentino Giacomo Mancini, 

la ricostruzione ebbe termine con una alacrità e speditezza

 

oggi incredibili e purtroppo inusitati.   

 

Così già il 7 gennaio 1967 un moto di legittimo orgoglio ci ha consentito di partecipare all’inaugurazione del nuovo, vecchio, rinato “Rendano”, con le note della Traviata di Verdi che obliavano per sempre i rumori orridi di bombe e guerra ancora risonanti.

 

 

 

 

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800 ANNI DUOMO DI COSENZA di Mons. Francesco Nolè e Don Luca Perri Parroco della Cattedrale – Numero 15 – Ottobre 2019

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800 ANNI DUOMO        DI COSENZA 

 

vivrà un momento altamente significativo per la sua storia, giacché in quell’anno celebrerà l’Ottavo Centenario della dedicazione della Cattedrale di Cosenza, dedicata alla Vergine Maria Assunta in Cielo. 

 

 

La Diocesi, a partire dall’anno in corso, si sta preparando a ricordare e celebrare tale felice ricorrenza richiamando e sottolineando il significato religioso e la presenza testimoniale che ancora suggella e conserva il valore e la funzione della Chiesa Cattedrale nel tessuto civile e religioso della città e della terra dei Bruzi.  

 

Fare memoria dell’anniversario della consacrazione della Chiesa, che ospita la Cattedra, sarà stimolo a recuperare i legami di comunione in Cristo intorno alla figura del Vescovo e al suo Presbiterio, dei quali ogni Chiesa locale ha bisogno

 

Inoltre la collocazione della Cattedrale nel cuore della città antica di Cosenza deve essere di stimolo ad una rinnovata attenzione 

verso un patrimonio storico artistico,

 

quale il Centro Storico, che non può essere rilegato a periferia o peggio a problema urbano. 

La costruzione dell’attuale Cattedrale è dovuta ad un terremoto che il 24 maggio del 1184 sconvolse Cosenza e la Valle del Crati, procurando vittime e danni ingenti, e provocando la distruzione dell’antica Cattedrale Brutia che precipitò al suolo durante una celebrazione, travolgendo e uccidendo l’arcivescovo Ruffo con il clero e i fedeli.  

 

L’antica città dei Brettii, nota per la sua vivacità culturale, rinacque con lentezza, nonostante il delicato momento politico durante il tumultuoso regno di Tancredi.

Il 30 gennaio del 1222, alla presenza di Federico II, che portò in dono al Capitolo 

della Cattedrale la preziosa Reliquia della Stauroteca, il Legato Pontificio, 

cardinale Nicola di Chiaromonte, vescovo di Tuscolo, 

consacrò la nuova Cattedrale,

 

la cui ricostruzione fu promossa e seguita, dall’arcivescovo Luca Campano, già segretario di Gioacchino da Fiore e abate della Sambucina, il quale impresse nella nuova costruzione forme legate alla regola dell’Ordine Cistercense a cui apparteneva.  

 

Nel corso della storia, i tanti terremoti che sconvolsero la nostra terra, unitamente alla mano dell’uomo, alterarono l’impianto originario duecentesco e, solo

nel XIX secolo, sotto la guida dell’arcivescovo Camillo Sorgente, una serie di importanti restauri,

 

tramite la rimozione della veste barocca con cui nel Settecento era stata rivestita l’intera struttura, hanno restituito all’edificio l’aspetto primitivo.   

 

L’interno si presenta a croce latina, suddivisa in tre navate di otto campate ciascuna con copertura a capriate. Lungo la navata di sinistra, si aprono due cappelle risalenti al XVII-XVIII secolo: la prima dedicata alla Madonna del Pilerio, con l’icona bizantina del XII secolo del tipo Galaktotrophousa (Madonna che allatta il Bambino) alla quale i cosentini sono molto devoti dal 1576, anno della pestilenza da cui la Città fu liberata per l’intervento prodigioso della Vergine Maria; la seconda, appartenente alla Confraternita di Orazione e Morte, dedita alla sepoltura e al culto dei defunti, oggi destinata alla custodia dell’Eucaristia. 

Nella navata di destra si conserva il sarcofago detto di Meleagro, di epoca tardo antica, contenente resti umani appartenenti ad Enrico VII, figlio di Federico II.

La profonda abside, in parte ricostruita nel XIX secolo, ospita l’altare maggiore marmoreo in stile neoromanico e un pregevole crocifisso ligneo del XV secolo, proveniente dalla cappella ius patronato della famiglia Telesio. 

 

Nel transetto, incastonato nella muratura, fa mostra di se il mausoleo di Isabella d’Aragona, moglie di Filippo III d’Angiò, morta nel 1271 nei pressi di Martirano.  Nel suo insieme nobile ed austero, la Cattedrale di Cosenza, seconda per storia in Calabria solo a quella di Gerace, si presenta come il monumento più significativo della Città bruzia di cui rimane ancora un punto vitale per la sua storia di ieri e di oggi. 

 

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L’attuale Chiesa Cattedrale fu, infatti, solennemente inaugurata 

da un Legato Pontificio inviato da Papa Innocenzo III nel 1222 

alla presenza dell’imperatore Federico II di Svevia. 

 

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in collaborazione con 

Don Luca Perri Parroco 

della Cattedrale 

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STRUMENTI CIVILISTICI E TESORI DISVELATI di Francesco Saverio Sesti – Numero 15 – Ottobre 2019

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strumenti civilistici e tesori disvelati

 

del Peloritano il pittore contemporaneo “mediterraneo” per antonomasia, Salvatore Fiume, stupisce innanzi alle vestigia antiche di un borgo a strapiombo sulla costa, illuminato dalla luce dell’occaso sul mare e dal nome che gli evoca reminiscenze della aretusea natia: Fiumefreddo, Fiumefreddo Bruzio.

Vuol fermarvisi, vederlo, viverlo. E quivi un sindaco, il Sindaco, avvocato, umanista, anfitrione ineguagliato, lo accoglie e trattiene, facendogli profferta del paese intiero come di una tela a cielo aperto; pure sfidando i rigori normativi già rigidi, e di poi vieppiù pervasivi, di un malinteso tuziorismo, vincolistico e burocratico, della proprietà pubblica e della proprietà privata.

E l’artista, ispirato da quella luce dell’occaso, dalla bellezza 

delle sue muse, modelle somale, colte tra i vicoli, 

dalla balugine di Saraceni arrembanti dal mare, 

dipinge, scolpisce.


“dona”, fa “donazione” di affreschi conturbanti, di statue dinamiche che rivitalizzano ruderi di un antico maniero, volte di chiese, slarghi anonimi, e le genti, le genti del paese.  

Ed il Sindaco e l’Artista, e l’atmosfera fervida ed autentica di calabresità ospitale che inducono, attraggono intellettuali, professionisti, imprenditori, romani, milanesi, la borghesia professionale e delle magistrature del vicino capoluogo, che edificano alla Marina belle ville di stile moresco; e progetti imprenditoriali, e di sviluppo turistico, financo americani (di poi taluni cennati, di poi taluni impediti dal vincolismo montante ed ottuso, e fors’anco dalla improvvisa scomparsa del Sindaco).

 

Ed è così che principia a reviviscenza Fiumefreddo, Fiumefreddo Bruzio, 

uno dei “Borghi più belli d’Italia”. 


1960. Sila. Lago Arvo. Un sindaco comunista, un sindaco democristiano, un sindaco donna, comunista, l’uno di seguito all’altro, l’una congiunta all’altro, danno attuazione ad un vetusto, ambizioso piano di lottizzazione del 1951, auspicato per la nascita su quelle rive di un villaggio turistico, anzi pure di una stazione sciistica. E dei lotti fanno profferta – rectius, legittimisticamente, “assegnazione” – non a quisque de populo bensì ad esponenti della borghesia possidente, avvocati, notai, medici, magistrati, politici, del cosentino e del crotonese

E “vendono”“cedono” pur a prezzo “politico” i lotti, sotto condizione 

che vi edifichino rifugi consoni all’estetica rurale di montagna, 

utilizzando materiali e maestranze locali, e con l’obbligo 

di conservare gli alberi d’alto fusto.


Ed i borghesi vi costruiscono belle villette-chalet, di estetica alpina a latitudini africane. Ed un imprenditore-anfitrione ha l’ardimento, in un luogo ancora desueto, di voler ubicare un Grand Hotel, ove di poi scendono, ospiti dei contigui possidenti ed esponenti politici, epigoni molti della intellighentia politica e culturale, della élite imprenditoriale e professionale, meridionale ed italiana. Nasce così – e forse per troppo rimane immota – sulle rive di un sin lì anonimo invaso artificiale al servizio di una chiusa per la produzione di energia elettrica e pur dalla bellezza paesaggistica e naturalistica prepotenti, Lorica, la perla della Sila, ove si respira l’aria migliore d’Europa, candidata permanente, assieme all’Altopiano tutto, ad essere patrimonio dell’UNESCO per simbiosi paesaggistiche, naturalistiche ed ambientali.  

 

2002, o giù di lì. Cosenza. Centro cittadino, centro della Città “nuova”. Un imprenditore-mecenate newyorchese, di origini cosentine, collezionista sapiente d’arte moderna e contemporanea vuol lasciar traccia di sé – e della propria famiglia – ai posteri, vieppiù nel luogo natio.

E vuol far “donazione”, donazione “modale” di tante, molte opere, famose, 

soprattutto scultoree, alla Città, sol che si intitoli a sé, ed alla figlia 

prematuramente scomparsa, via o piazza del centro cittadino; 


e vi si dia adeguata collocazione, sì come già fatto dall’Urbe per altre donate, che vi destina ospitalità, all’Aranciera di Villa Borghese, intitolandola museo.  

 

Un Sindaco donna, giovane, di aneliti e sensibilità intellettuali formate e coltivate oltralpe, a Parigi, e memore della traccia ispiratrice del suo mentore politico, un grande, vecchio Leone socialista, subito coglie i desiderata e non esita a fronteggiare lo scandalo polemico dello stravolgimento della toponomastica del centro “nuovo” cittadino.

Anzi, si concepisce di accogliere quell’arte piuttosto che al chiuso museale, 

all’aperto, di “democratizzarla” lungo il corso principale, 

bensì ancora amorfo, cittadino.


Nasce così il MAB, il Museo all’aperto Bilotti, “germe” inoculato, embrione fervido di una “rigenerazione urbana” che un Sindaco, architetto, d’ispirazione politica affatto diversa, continua ed impronta, e rende diffusiva, con apporti inusitati d’arte e di architettura che indubitabilmente segnano un ambito urbano, quello della città nuova, altrimenti anonimo, e che assieme al fascinoso, vetusto centro storico ambisce, pur senza tradizione, ad attrarre flussi turistici.

Storie. Suggestioni, forse. Di uomini. Di luoghi. Di anelito a bellezza e sviluppo, 

magari incompiuti, magari imperfetti, magari opinabili, magari interrotti. Ma vividi!  


E che alla prospettiva, fors’anco un po’ “ristretta”, del civilista colpiscono e si stigmatizzano per la forma giuridico-economica in cui si è sostanziata la scaturigine di reviviscenza, addirittura di sorgiva, di paesi intieri, di paesaggi urbani e naturali, antropici e non, a me sì cari: Contratti.  

 

Contratti privatistici, civilistici comuni, donazioni, vendite condizionate, donazioni modali.  

 

Negotia, simulacri tipici di formalizzazione e composizione nei rapporti giuridici “privatistici” e tra privati di interessi distonici, che vi trovano contemperamento. Vieppiù quivi, ove gli interessi giustapposti erano, sono, spesso, pur in potenza, confliggenti.  

 

L’interesse privato, interesse egotistico per definizione, anche quando si estrinsechi in liberalità.  

 

E l’interesse pubblico, collettivo delle comunità rappresentate. Epperò “incarnato” nelle mozioni, sensibilità, intuiti di amministratori “ispirati” che, onde promuoverlo, non hanno esitato ad usare, funditus, lo spazio, vieppiù sempre più compulsato, di discrezionalità concessa alla funzione. E perseguito con metodo e nell’alveo “privatistici”.

Gli esiti? Parziali, imperfetti, magari opinabili; ma almeno dinamici, 

a fronte dell’immobilismo asfittico in cui spesso gli eccessi legittimistici 

e tuzioristici di procedimentalizzazione e vincolo, costringono 

(ed hanno costretto) l’azione amministrativa.


Esiti a mio giudizio efficaci, proficui, per l’induzione allo sviluppo, alla reviviscenza di luoghi e comunità.  

 

Esiti che interrogano il civilista, forse inconsapevole, forse ingenuo viandante dei sentieri stretti e labirintiaci del diritto pubblico, se non si sia forse troppo relegata a residualità, tra i tradizionali stigmi dell’azione amministrativa – buon andamento, imparzialità, legalità e financo nelle procedure di scelta del contraente – la favilla dinamica che sola può muovere quell’azione a risolutezza, efficacia e fors’anco ad economicità: la discrezionalità.

Discrezionalità,


nell’accezione tecnico-amministrativistica del termine.  

 

E che forse, se rettamente ispirata da un’idea politica, programmatoria, precisa e nitida, vieppiù se permeata da sensibilità culturale, e che metabolizzi ab imis la necessità di disporre le ovvie convenienze per auspicarsi l’apporto privato, sia strumento foriero di migliore efficacia e congruità e fors’anco garanzia, per l’induzione allo sviluppo di luoghi, di comunità.  

 

Discrezionalità: sol che si correli a Responsabilità; responsabilità soggettiva, responsabilità politica anzitutto, ergo giuridica, aquiliana, civile e penale.

Discrezionalità, Responsabilità del Pubblico, dal Pubblico. 


E che “incarnato” da chi ne curi, pro tempore od incidentalmente, funzione, tutela e promozione, nei rapporti giuridici di foro interno e, di più, nei rapporti giuridici di foro esterno, con i privati, sia “privato” innanzi ad altro “privato”. “Privato” magari poziore, dacché dotato di potestà extra ordinem, ma “buon padre di famiglia”, e “responsabile” per gli atti, per le mozioni. Sì che si persegua, nel metodo e nelle forme, l’interesse metaindividuale della collettività, della comunità che si rappresenti o per cui si agisca, come fosse interesse “proprio”, interesse “privato” del “Pubblico”.

Orbene, è vero: accanto agli esempi mentovati come per me proficui, 

positivi, quanti se ne potrebbero contrapporre di deteriori. 


Ma, di grazia, è forse men vero che brutture, abusi, abusivismi, dissimulati dal velo ipocrita della formale legittimità e della inidentificabilità ed irresponsbilità soggettive, abbiano proliferato parallelamente all’incedere progressivo nella normazione, ed in sua costanza, verso eccessi di procedimentalizzazione e vincolismo, vieppiù pervasivi siccome disposti per cautele ambientali, piuttosto che in funzione anticriminale (epperò, e magari, deprivati di efficace possibilità di controllo)? 

Arduo giudizio.

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