FURORE E IL FIORDO di Aurora Adorno – Speciale aglie fravaglie – Maggio-luglio 2020

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FURORE    E IL FIORDO

 

CASE

così come sopra le nostre teste” (Henry David Thoreau).

Esistono dei luoghi suggestivi, siti naturali sconosciuti ai molti, che hanno attratto raffinate celebrità di un passato non lontano e fatto la storia della musica, della danza, della pittura, del cinema e delle arti tutte.   

 

Non lontano dalla celebre Capri, l’isola che ha fatto da sfondo alle più belle storie all’italiana degli anni’50 con film come L’imperatore di Capri di Comencini, che vide il genio indiscusso di Totò girare tra i vicoli dell’isola o La baia di Napoli con Sophia Loren e Clark Gable già immortalati come star internazionali di altissimo livello,

angoli di paradiso sono stati apprezzati da raffinati estimatori. 

 Località come Furore appunto, il piccolo borgo marinaro, 

che ispirò uno dei più grandi o forse il più grande 

dei registi italiani: Roberto Rossellini,


padre del neorealismo, colui che più di molti ha reso celebre la nostra bella Italia immortalandone gli usi e le abitudini, e rendendo celebri luoghi dalla bellezza mozzafiato, senza tempo. 

Il regista si innamorò del magico Fiordo tanto da girare uno dei suoi lungometraggi intitolato appunto L’amore nel 1948. Pare che la storia sia stata ispirata al regista dalla compagna che visse con lui in quel di Furore e che

prese parte alle riprese: l’insuperabile Anna Magnani,

 

che proprio con questo film vinse il premio come migliore attrice protagonista.   

 

Furore si trova incastonata nella variopinta cornice della Costiera Amalfitana, tanto che a guardarla da lontano ci appare come il piccolo pezzo di un puzzle consacrato tra i borghi più belli d’Italia e considerato dall’UNESCO come Patrimonio Mondiale. 

Ancora d’amore si parla nel piccolo paese arroccato sull’altopiano di Agerola, difatti,

 

giunti nel centro storico si trova il Giardino della Pellerina 

e il viale denominato Cupido,

formato da quaranta pilieri laterali che ne tracciano il percorso, rivestiti di raffinate maioliche adornate da colombe variopinte. 

Il piccolo viale è percorso da panchine sulle cui spalliere sono incisi versi d’amore di D’annunzio, strofe di Vasco Rossi, Tiziano Ferro e di altri artisti internazionali; il percorso finisce nella piazzetta Afrodite in cui l’acqua zampilla nella Fontana dalle sette cannelle.   

 

Tra le casette bianche dai tetti rossi spicca Il muro dipinto, 120 opere tra dipinti e murales realizzati dal 1983 da artisti italiani e stranieri. In questo piccolo paese che conta pochi abitanti, si fa spazio il Fiordo, una profonda insenatura della roccia, sopra il torrente Schiato.

È dalle onde furiose che imperversano sugli scogli che ne deriva appunto 

il nome Furore, titolo di questa bella opera scolpita dalla natura stessa.

 

I vari percorsi di trekking e la vicinanza con Positano ed Amalfi la consacrano a meta ispirata e bella, lontana dal caos e dalle località turistiche chiassose e caotiche. 

Il paese che non c’è, così chiamato a causa della sua forma, come se le case fossero pennellate di colore che ad un certo punto spuntano lateralmente dalla montagna, conserva al suo interno la Chiesa a tre navate di San Giacomo, con i famosi affreschi e dalla quale si può ammirare il panorama mozzafiato.

 

Sembra quasi di vederla la Magnani, disperarsi per il suo amore, 

tra la natura rocciosa del paese, col sole che le illumina il viso 

negli anni che furono. 

Suggestivo l’omaggio che Rossellini fa all’inizio della seconda pellicola in bianco e nero, impreziosita dalle imperfezioni del tempo: questo film è l’omaggio all’arte di Anna Magnani

E quale amore più grande, di quello che apprezza e riconosce nell’altro la propria grandezza, il proprio valore, l’espressione pura dell’anima? 

Come lei stessa disse una volta: “Rossellini aveva capito, io sono fatta così: tutta istinto, nature, come dicono i francesi, nella vita e nel lavoro. Bisogna prendermi così se si vuole che faccia qualcosa di buono”.

In questo film diviso in due episodi: una voce umana, pièce teatrale di Jean Cocteau 

e il miracolo, il cui soggetto vede la firma del grande Federico Fellini, 

è espressa tutta la bellezza di Furore,

 

con la Magnani immensa nella sua semplicità, distesa nell’erba a scrutare il cielo mentre racconta ai santi le sue pene d’amore.   

 

Quanta grandezza in quest’opera, nelle riprese a campo lungo in cui l’obbiettivo mette in risalto, come in una sorta di microscopio, ciò che il personaggio sente e vede e come la natura circostante risponde.

 

Ed è proprio Fellini il San Giuseppe che convince la donna considerata dal paese non normale, che vive all’aperto, nella natura con le capre, 

di trovarsi davanti ad un inaspettato miracolo,

racchiudendo l’opera in una sorta di provocazione. Ecco che ancora una volta i luoghi nascosti del nostro bel paese vengono posti in risalto dall’arte.   

 

In essa artisti e poeti trovano ispirazione e la natura ancora una volta fa da protagonista, in uno scambio continuo che diviene dialogo tra la nostra storia, il presente e il futuro che guardando davanti a noi, con la chiesa di San Giacomo alle spalle, possiamo osservare. 

Ecco riassunta in Furore e nel Fiordo tutta la bellezza delle vecchie pellicole, dei dipinti e delle opere d’arte custodite in questo piccolo borgo pervaso dal profumo del mare che fa capolino sulla celebre e bella Costiera Amalfitana.  

 

Stelle al Sud 

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Stelle al Sud

 

Con la serie “Stelle al Sud” Myrrha va alla ricerca di alcuni tra i tanti personaggi celebri la cui arte si è in qualche modo intrecciata con la natura incontaminata di un Sud selvaggio e incantatore, divenuto per essi fonte di ispirazione, talvolta dimora d’elezione.

 

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PALERMO AL PROFUMO DI ROSE di Franca Minnucci – Speciale aglie fravaglie – Maggio – Luglio 2020

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PALERMO AL PROFUMO DI ROSE

 

il 18 maggio, e D’Annunzio firma dalle pagine de “La Tribuna“ un articolo dal titolo Piccolo Corriere. 

In quel servizio giornalistico il poeta abruzzese riporta, traducendo direttamente dalle pagine de “Le Figaro”, il viaggio che in quel momento Guy de Maupassant faceva in Sicilia e che lo scrittore raccontava sulla famosa testata francese. 

D’Annunzio conosceva Maupassant per essere discepolo amato di Flaubert, il più “gaulois” dei novellieri giovani, autore della Maison Tellier che aveva pubblicato per i tipi di Victor Harvard. Sapeva del nuovo romanzo, Bel Ami, che non era ancora giunto a Roma, ma la cui uscita lui aspettava trepidante.

 

Quello che più colpisce D’Annunzio è un racconto che Maupassant fa, 

visitando Palermo sulle orme di Wagner;

 

questo binomio, questo rincorrersi fra le vie di Palermo di così grandi personaggi non poteva sfuggire a D’Annunzio, che del musicista tedesco era follemente innamorato. Wagner era giunto in Sicilia nell’inverno del 1881, cagionevole di salute, era alla ricerca di climi dolci e mediterranei. Aveva fatto sosta prima in diverse città del Sud e si era fermato a Ravello sulla costiera amalfitana.

Era rimasto affascinato da Villa Rufolo,

 

che è all’interno di un grande parco, con resti imponenti di architettura arabo-normanna intelligentemente recuperati qualche anno prima con un avanguardistico restauro conservativo, e resi godibili dal nobile scozzese Francis Nevile Reid. Ancora oggi si respira il passaggio di Wagner in quei luoghi e ci sembra di vederlo, di incontrarlo, sentire ancora la sua presenza, le sue arie, le sue melodie nel festival di musica classica che vive di esecuzioni sinfoniche prevalentemente del compositore tedesco; e che ancora si tiene in quel luogo.

Wagner, ideando il Parsifal, è così suggestionato dagli ambienti del parco 

che colloca a Villa Rufolo il giardino dove si riuniscono 

i Puri Cavalieri custodi del Santo Graal,

 

immortalando per sempre quegli ambienti nell’opera! 

Dopo il soggiorno a Ravello, Wagner giunge a Palermo e viene ospitato per qualche periodo con la moglie, Cosima Liszt, e il figlio Siegfried al Grand Hotel delle Palme. 

E cosa racconta Maupassant? Di voler vedere l’appartamento occupato da Wagner in quell’albergo, da quell’uomo così geniale, perché «mi pareva», dice testualmente «che egli avesse dovuto metterci qualche cosa di suo e che io avrei sicuramente ritrovato in un oggetto da lui amato, una sedia, un tavolo qualunque cosa, qualunque segno potesse indicare il suo passaggio e la traccia di una sua mania, di una sua abitudine, insomma della sua vita. Allora in primo momento – dice Maupassant – io non vidi nulla, vidi soltanto un bell’appartamento d’albergo, elegante, poi mi indicarono invece i cambiamenti fatti da lui e cominciarono a mostrarmi, proprio in mezzo alla stanza, un posto che aveva un gran divano su cui egli accumulava i tappeti luminosi e ricamati d’oro.

Ma io a quel punto aprii l’armadio e un profumo dolce, possente, ne uscì. 

Come una carezza di un’aura che fosse passata sopra un campo di rose.


Allora il padrone dell’albergo che mi conduceva mi disse: “Sì, là dentro egli era solito chiudere la biancheria dopo averla impregnata di essenza di rose, l’odore non se ne è mai andato e non se andrà mai più.” Io respiravo quell’alito di fiori chiuso nel mobile, dimenticato, prigioniero, e mi pareva di ritrovare qualche cosa di Wagner, in quell’alito che egli amava, mi pareva di ritrovare un po’ dell’anima sua in quel nonnulla delle consuetudini care e segrete che formano la vita intima, quella più bella, quella più vera, di un uomo.»1 
 

Questo episodio legato ad un profumo, un evento così impalpabile, è di una forza espressiva, la più potente che si possa immaginare e mette insieme, fonde nello stesso momento, l’emozione di tutti. 

 

Un filo rosso che conduce da Wagner a Maupassant a d’Annunzio 

e che ha come teatro Palermo, 

 

come quinta il Grand Hotel siciliano noto a noi tutti, perché è stata una dimora di Wagner ma è stata anche una dimora importante nella vita e nel pensiero di Maupassant e di D’Annunzio Il poeta beve quel profumo, lo sente e lo sentirà per sempre come essenza della armonia, della bellezza della poesia e lo inseguirà tutta la vita in quel progetto del teatro en plain air. Un sensibile intellettuale come lui avverte da subito la grande potenza comunicativa e di rinnovamento del pensiero e del progetto wagneriano, quello di Bayreuth che sarà il sogno irrealizzato suo e di Eleonora Duse.

Wagner, nel suo soggiorno isolano, si innamora follemente dì Palermo, 

la città con i suoi colori, profumi, sapori gli entra nelle fibre, lo possiede, 

lo seduce e scioglie sempre più la sua ansia comunicativa 

e la sua ispirazione artistica.

 

La città che profuma di zagare e gelsomino, con i suoi mille giardini che la dipingono di verde e quel magico sole che gli fanno sempre ripetere: “Qui c’è soltanto primavera ed estate”. Fu molto ricambiato dai palermitani e amato dalle famiglie aristocratiche del tempo, i Lanza, i Mazzarino, i Tasca d’Almerita, che facevano a gara per ospitarlo nelle proprie residenze nobiliari, dove spesso egli si esibiva al pianoforte. Il soggiorno di Wagner in Sicilia era seguito da tutto il resto del mondo dove il grande musicista era conosciuto e amato.

 

Renoir si recò appositamente a Palermo per fargli il ritratto, il più noto fra tutti, 

quello che oggi si trova al  Musée  d’Orsay di Parigi.


Wagner finì di comporre il Parsifal il 13 gennaio 1882 e lasciò Palermo il 20 marzo successivo, con un concerto d’addio a Villa Tasca. Prima di congedarsi, fece omaggio, come ricordo, della bacchetta con la quale aveva diretto, per l’ultima volta, un piccolo
ensemble orchestrale nell’esecuzione della melodia “Tempo dei Porrazzi”, dedicata alla padrona di casa, donna Beatrice Tasca. Al suo ritorno in Francia, Guy de Maupassant aveva pubblicato un primo resoconto, ancora un po’ sommario, dei propri “vagabondaggi“. I racconti dei viaggi, nella versione definitiva, appariranno successivamente in tre volumi: Au Soleil (1884), Sur l’eau (1888) e La Vie Errante (1890). Quest’ultima in particolare contiene un brano notevolissimo, degno di divenire uno slogan per la Sicilia: è “La Sicile”, capitolo che narra il viaggio effettuato da Maupassant nella “perla del Mediterraneo” (la definizione è sua), quello della primavera del 1885 tradotto e pubblicato dal poeta pescarese, come abbiamo detto, nelle pagine della “Tribuna”.

 

Come gran parte dei viaggiatori stranieri, il narratore francese è attratto soprattutto 

dai monumenti antichi, che ai suoi occhi rendono l’isola mediterranea 

“un divino museo di architetture”. 

 

«La Sicilia – annota – ha avuto la fortuna d’essere stata posseduta, di volta in volta, da popoli fecondi, venuti ora dal nord ora dal sud, i quali hanno costellato il suo territorio d’opere infinitamente varie, in cui convergono, in modo seducente e inatteso, gl’influssi più distanti. Ne è nata un’arte speciale, sconosciuta altrove, in cui domina certo l’influenza araba, incalzata da ricordi greci e perfino egizi; in cui le severità dello stile gotico, introdotto dai Normanni, vengono mitigate dalla scienza mirabile della decorazione bizantina.»2

 

Con il ritmo e nei modi di un reportage, il narratore francese annota l’arte architettonica dei Greci di Sicilia, lo stupore della Cappella Palatina, “la meraviglia delle meraviglie” per la sua bellezza ”colorata e calma”, quel sublime miracolo di fusione di arte latina-bizantina-araba e di altri monumenti normanni.

 

Le suggestioni dell’area dello zolfo, la natura dell’Etna e di Lipari, il sole, i sapori, i colori della Conca d’Oro. Rimane sedotto, prima ancora di vederla, dalla Venere Landolina di Siracusa, la Venere Anadiomene che aveva “incontrato” per caso in un catalogo. «Nell’album di un viaggiatore avevo visto la fotografia di questa sublime femmina di marmo e me ne ero innamorato come ci si innamora di una donna. Fu forse per lei che mi decisi a intraprendere questo viaggio; di lei sognavo e parlavo in ogni istante, prima ancora di averla vista!» La sua visione lo turberà e lo ammalierà fino a fargli scrivere: «La Venere di Siracusa è una donna ed è anche il simbolo della carne (…) non ha testa che importa? E’ un corpo di donna che esprime tutta l’autentica poesia della carezza (…) la donna che nasconde e rivela l’incredibile mistero della vita.»3 Dinanzi a lei resta estasiato e attratto dalla carnalità di quel corpo sensuale e morbido e a lei dedica le pagine più intense del diario.  

Al di là di ogni sdolcinato sentimentalismo,

 

il diario di Guy de Maupassant, è uno dei più alti inni alla Sicilia di tutti i tempi.

 

Questo racconto – resoconto segna forse il contatto più sensuale che mai un narratore abbia avuto con una terra, una città. L’episodio dell’albergo delle Palme fa riferimento ad un raro modello estetico di fusione emotiva e sensoriale .Quel profumo unisce tre grandi della letteratura ed è artefice di una strana alchimia e di impalpabili vibrazioni. Si è tradotto in note, in armonie, in parole se è vero, come dice Friedrich Nietzsche, che ogni parola, ogni suono ha il suo odore e che c’è un’armonia e disarmonia degli odori ed anche dei suoni e delle parole. Il Profumo annidato e nascosto nei recessi delle loro anime è riemerso come emozione pura, come suggestione, turbamento, eccitazione e questo patrimonio unico, eccezionale rende omaggio e lode alla storia e alla vita di un paese, di una città: a quella fantastica Palermo profumata di rose che già i Punici avevano chiamata “Ziz”, e cioè fiore.

 

 

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1 – Gabriele d’Annunzio, “scritti giornalistici 1882-1888”, Milano, Mondadori Editore, 1996, p. 335 

2 – Guy de Maupassant, La Sicilia , Palermo, Sellerio,1990.p.128 

3 – Guy de Maupassant, op. cit., p. 247

 

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LA SOCIETÀ OPERAIA DI AVIGLIANO di Francesco Antonio Genovese – Speciale aglie fravaglie – Maggio-Luglio-2020

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LA SOCIETà OPERAIA        DI AVIGLIANO

 

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è costituito dallo spopolamento dei piccoli borghi dell’Appennino: uno sciame virale per coloro che restano, privati dalle difese immunitarie della socialità, delle competenze che si disperdono, del frutto di risorse investite che si godono altrove.

C’è persino chi, di questo silenzio che si è formato in luoghi dove un tempo era del tutto inimmaginabile (perché fu, piuttosto, il trambusto la cifra della vita che vi scorreva, per lo sbocco di famiglie numerose e di sciami di giovani, in cerca di una collocazione in qualche angolo, prima che del mondo, di quelle stesse località) ne ha fatto oggetto di una poetica che riesce davvero difficile da seguire. È nato perciò un più robusto movimento di pensiero che, utilizzando tecnologie di rapida connessione, si propone di ragionare sulla Civiltà dell’Appennino2, che è ovviamente un modo per

recuperare tutto l’osso, ossia quella linea di società, economia e cultura 

che un tempo costituiva la tensostruttura del Paese,


dalla punta della Calabria fino alle Cinque Terre liguri, per quanto soggetta a scosse di ogni genere. 

 

Faccio questa premessa sol perché mi interessa mostrare come nei borghi appenninici dell’Italia meridionale ci siano forze che tengono ancora viva la civiltà della dorsale, nei modi più diversi e, per certi versi, anche inimmaginabili a chi sia immerso nella quotidianità cittadina o dei luoghi frequentati. 

 

Ad Avigliano, in Basilicata, un agglomerato che si muove lungo creste variabili dai circa 700 mt di altitudine della parte valliva, che lo lega a Ruoti, e poi sale in direzione del gruppo montuoso del Monte Caruso, via via, fino a raggiungere i circa 950 mt delle ultime abitazioni urbane che, in cemento armato, si sono aggrappate ai punti più panoramici fronteggianti il Monte Li Foj di Picerno e, più in là ancora, verso est, la piccola – ma suggestiva – catena degli Alburni, la porta verso la Campania (ma, si ricorderà, ancora compresa nel recinto romano dell’antica Regione Lucana)3,

una vecchia istituzione associativa resiste, adottando forme social
di comunicazione con i propri iscritti e con la comunità locale in genere.
È la Società operaia di mutuo soccorso, nata nel 1874


«per volontà di un gruppo di 52 cittadini, appartenenti alle diverse classi sociali del Centro urbano di uno dei più popolosi comuni della regione, abitato in prevalenza da operai, artigiani e piccoli commercianti»4

 

In tempi risalenti cercò di sostenere anche le attività economiche dei soci e di aiutarli in momenti di particolari difficoltà (Nel corso della Grande Guerra, ad esempio, distribuì alle famiglie dei soci e della comunità ben 1.700 q.li di grano e di fiore di farina, a prezzo calmierato), come ha dimostrato uno scritto storico ricostruttivo di Gennaro Claps (storico e critico letterario nonché, a suo tempo, anche sindaco della città), la cui copertina mostra uno scorcio assai risalente di quella che sarebbe diventata la sede della biblioteca dell’associazione.

La vitalità del sodalizio è però dimostrata dal fatto che Essa ha saputo mutare 

con il passare dei tempi, adeguandosi (in modi più o meno tempestivi, certo) 

alle necessità del contesto urbano mutato. 


Sulla base delle donazioni (e dei contributi) di alcuni cittadini benemeriti, ha saputo costituire una biblioteca storica (intitolata al giurista e scrittore “Tommaso Claps”, personaggio vicino a Giustino Fortunato) con oltre 10 mila volumi, tra cui alcune cinquecentine e seicentine, ordinati e custoditi in una sala collegata con i locali storici del sodalizio, con scaffalature protette da vetrine, che si apre – attraverso porte e finestre – sulla piazza Gianturco, offrendo uno scorcio sul catino del centro storico, da dove emergono, fra le case in pietra scalpellinata, anche i picchi montuosi circostanti. 

 

La sala è il luogo suggestivo di affollate conferenze, assemblee, convegni.

È anche il luogo per la lettura di 5 quotidiani e di molte riviste; 

per l’utilizzo di varie postazioni informatiche dell’Internet Social Point

per la fruizione del WIFI-Free all’interno della sede sociale.


Ma l’associazione ha avuto un importante ruolo assumendosi l’impegno, che tuttora tiene vivo, quello di dare un premio al merito scolastico agli alunni delle scuole dell’obbligo (poi esteso anche oltre quelle, con una innovazione degli ultimi decenni) donando (assieme a un attestato di studio profittevole) soprattutto un libro di narratori (più o meno famosi) a ciascun premiato. Quel libro che, con puntualità annuale, ha saputo iniziare tanti ragazzi alla lettura e alla curiosità dell’esplorazione bibliografica e, per molti, anche a favorire l’incontro con il Mondo. 

Non si può immaginare quanto, una piccola provvidenza come questa, 

abbia potuto spingere tante generazioni di giovani 

a trovarsi un posto nel Mondo.


In altri locali del sodalizio ci sono ancora vecchi soci che si raggruppano attorno ai tavoli delle carte o che seguono qualche evento televisivo (quelle stesse sale che un tempo, ormai molto lontano, si affollavano la sera della quasi totalità dei soci che non possedevano il televisore – a cui aveva però pensato il sodalizio – e che si stupivano guardando immagini di un Mondo, ancora poco conosciuto). 

 

 

libro
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1 – Manlio Rossi Doria, La polpa e l’osso. Agricoltura risorse naturali e ambiente, Napoli, 2005.  

2 – Raffaele Nigro – Giuseppe Lupo, Civiltà Appennino, Roma, 2020.  

3 – «Dal Sele parte la III regione e comincia il territorio di Lucania e Bruzio […].» (Plinio il Vecchio, Naturalis Historia).

4 – L’intervista ad Andrea Genovese, presidente della SOMS di Avigliano, è raggiungibile con il link: http://www.aviglianonline.eu/news_dettaglio.asp?idto=2788.

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IL SANTUARIO DEL FULMINE SEPOLTO di Gianluca Anglana – Speciale aglie fravaglie – Maggio-Luglio 2020

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IL SANTUARIO DEL FULMINE SEPOLTO

 

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Potrebbe essere il titolo di un ultimo episodio della saga dell’archeologo-eroe da suggerire a Spielberg. E da ambientare unicamente in Italia. Sì perché, tra i suoi tesori, il Belpaese annovera anche le cosiddette tombe delle folgori. 

 

Nell’agosto di dieci anni fa, a Todi, in Umbria, si fece una scoperta: durante i lavori per la realizzazione di un parco venne alla luce un fulgur conditum, ovvero la tomba di un fulmine. Questo rituale, tipicamente italico, aveva lo scopo di espiare un luogo che era stato colpito da una folgore e consisteva nel sotterramento degli oggetti che ne erano stati distrutti: poiché si riteneva che la caduta di una saetta sulla terra fosse espressione dell’ira divina, l’area veniva recintata e consacrata, al fine di preservare il fuoco celeste. L’azione era quella del condere fulminem: lugubri sacerdoti italici sussurravano litanie, masticavano preghiere e

trasformavano un luogo da profanus in religiosus,

 

eventualmente inumandovi anche i resti del disgraziato che, nei casi di fulmini killer, avesse avuto la iella di trovarsi lì nel momento sbagliato. Il rito era collegato alla liturgia etrusca dei libri fulgurales.  

 

Secondo la Soprintendenza per i beni archeologici dell’Umbria, “la scoperta riveste un particolare interesse poiché rari sono gli esempi relativi a questo rituale”1. Uno di essi si trova nell’area monumentale di Pietrabbondante, a quasi mille metri d’altezza.  

 

All’interno del sepolcro del fulmine è stata ritrovata una statuetta: priva della testa e del braccio sinistro, rappresenta una divinità maschile seduta su un trono. È un oggetto d’arte italica che riproduce fattezze umane, stilizzandole senza alcun intento di imitazione naturalistica2.

Siamo in quello che fu il territorio dei Sanniti Pentri, 

genti aspre, indomite e molto bellicose:

 

prima di sottometterle ed assicurarsi l’egemonia sull’Italia peninsulare, Roma dovette inghiottire una lunga serie di conflitti e persino l’umiliazione delle Forche Caudine. Proprio qui, alle pendici del Monte Caraceno, i Pentri realizzarono un’area sacra, dove si conserva quasi solo il ricordo e praticamente nessuna traccia tangibile di un tempio ionico: fu infatti distrutto nel 217 a.C. dalle truppe di Annibale, quando sostarono in territorio sannitico durante la campagna d’Italia.  

 

Nel II secolo a.C., mentre una pace provvisoria consentiva all’economia delle popolazioni indigene di ripartire, si eresse una nuova area sacra: il ‘Santuario Italico’, il fulcro della Nazione Sannita che oggi si può ammirare.

 

La fortuna di questo luogo gli deriva anche dalla bellezza 

del panorama circostante: quello del Molise più autentico.

 

L’altura domina la valle del fiume Trigno e una terra selvaggia che pare infinita, nell’alternanza tra declivi dolci e rocce impervie, cifra costante della dorsale appenninica. Visioni da Enjoy the silence

Il sito è un inesauribile bacino di aggiornamenti scientifici: le risultanze archeologiche hanno spinto gli storici a rivedere alcune informazioni in merito ai Sanniti, la cui organizzazione statuale faceva perno più sulla appartenenza etnico-tribale che sugli ingranaggi costituzionali delle città-stato

 

L’attività di scavo continua a restituire informazioni.

 

Risale allo scorso mese di agosto, il rinvenimento, nell’area più antica del campo archeologico ovvero quella orientale, di un piccolo tempio di sei metri per sei, privo di podio, con pareti in muratura innalzate su uno zoccolo di pietra da taglio e cella unica quasi quadrata. La sua realizzazione fu sospesa poco dopo l’inizio dei lavori, probabilmente a causa della deflagrazione della guerra sociale. In base ai ritrovamenti, sembra plausibile che il manufatto fosse pensato per una divinità femminile3.

Ci sono voluti secoli, letteralmente, per riportare alla luce questo complesso

 

(in parte ad oggi sepolto), articolato in vari edifici tra i quali una domus publica4tabernae e portici. Sopra tutti domina il teatro-tempio sannitico. 

Il teatro, totalmente realizzato in pietra ed a staffa di cavallo, mutua dalle vicine città della Magna Grecia stilemi architettonici ellenizzanti. È un emiciclo. 

Sembra un parlamentino: se n’è affermata la funzione non soltanto sacra, ma anche politica5 e di rappresentanza per lo stato sannitico nella sua interezza, come farebbe ipotizzare la presenza, sui lati dell’ima cavea, di due figure speculari di Atlante in atto di sorreggere il globo. La gradinata dispone di sedili anatomici ed ergonomici, perché provvisti di una seduta confortevole atta ad accomodare il tratto lombare della schiena, i braccioli scolpiti in forma di zampe di grifo.  

 

Qui si svolgevano i ludi, celebrazioni connesse a ricorrenze religiose. Qui si riunivano i magistrati per prendere decisioni e si ricevevano i dignitari stranieri.

L’unicità di questo luogo è data dallo stretto dialogo urbanistico 

tra il teatro e il tempio: si stima che quest’ultimo 

sia il massimo edificio sannitico esistente.

 

Si ergeva su un podio, sulla cui muratura è tuttora visibile un’iscrizione in lingua osca (idioma che procede da destra verso sinistra)6, e si caratterizzava per la presenza di tre celle dedicate ad altrettante divinità. 

I Sanniti avevano una religione politeista, progressivamente arricchitasi anche di culti di matrice militare (Victoria) e civile (Honos) ed orientati alla venerazione della fertilità cioè della dea Ops Consiva, colei che i Romani conoscevano come Abudantia. Quello della fertilità è un tema ricorrente nelle comunità del Sannio, dedite all’agricoltura e alla pastorizia:

 

la Tavola Osca, risalente al III secolo a.C., ritrovata a metà ottocento poco lontano 

da Pietrabbondante, nei pressi di Agnone, ed oggi conservata 

al British Museum, è il Pantheon agreste dei Sanniti.

 

Si tratta di un documento eccezionale poiché fornisce informazioni preziose sulla fede nel Sannio, anche attraverso un elenco di divinità. 

Quella più importante è certamente Kerres, la grande Madre, la Terra dispensatrice di messi e quindi di vita. C’è lei in cima alla lista delle divinità di maggior riguardo, lei era quella da tenersi buona, e pazienza per il povero Díuveí Regaturei, il Signore delle piogge, versione annacquata del Giove Pluvio dei Latini, sistemato a metà processione, nella sezione inferiore di questa hit parade olimpica. Chi può dire se, proprio per questo sgarbo, Egli si fosse adirato decidendo così di scagliare sulla terra e sulla colpevole distrazione degli umani una delle sue saette, che poi solleciti sacerdoti si precipitarono a seppellire7

 

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1 – Cfr.: https://roma.repubblica.it/cronaca/2010/08/09/foto/fulgur_conditum-6175330/1/.  

2 – Cfr. Rapporto Preliminare – Scavi Archeologici dell’anno 2010, di Adriano La Regina e Luigi Scaroina con la collaborazione di Fabiana Carlomagno e di Rachel Van Dusen, 04/12/2010.

3 – A questa notizia la stampa locale ha dato vasta eco. V. in proposito: www.molisenews24.it oppure www.primopianomolise.it.  

4 – Primo esempio di domus publica documentata nella sua consistenza architettonica di età tardo repubblicana (v. Rapporto Preliminare – Scavi Archeologici dell’anno 2010, di Adriano La Regina e Luigi Scaroina con la collaborazione di Fabiana Carlomagno e di Rachel Van Dusen, 04/12/2010).  

5 – L’insediamento antico di Pietrabbondante acquista connotazioni ancora più precise in seguito al suo riconoscimento, da più parti proposto, con il sito antico di Cominium (Liv., X, 43, 5-7)· Tale toponimo (variamente attestato in ambiente italico) deriva dal nome che indica il comitium: la tipologia del teatro-tempio si collega appunto a quella dei comitia. Il questo caso in P. si potrebbe riconoscere proprio il luogo nel quale i Pentri convocavano i propri comitia (Enciclopedia dell’Arte Antica, 1996, su www.treccani.it).  

6 – È riportato il nome di un certo Stazio Claro, forse finanziatore di una parte della costruzione templare.

7 – Si precisa che quello di cui si parla è il Tempio B, mentre la tomba del fulmine è nelle adiacenze del Tempio A (di minori dimensioni).

 

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FAI: I LUOGHI DEL CUORE di Vincenzo Cardellicchio – Speciale aglie fravaglie – Maggio-Luglio – 2020

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FAI: iiLUOGHI DEL CUORE

 

che il FAI per questa inimmaginabile primavera del 2020 annoveri nella lista dei siti da votare come “luoghi del cuore” anche l’altipiano di Campitello di Sepino. 

Certo, dal primo posto occupato dalla città di Bergamo, in questi giorni tanto martoriata dall’aggressività della incombente pandemia, occorrerà aver pazienza per arrivare al suo posto, inizialmente assegnato al 79° rigo, per trovarlo in un magnifico, straordinario ed ineguagliabile elenco sempre in evoluzione e sempre più ricco di luoghi, castelli e palazzi italiani. 

 

Luoghi tutti effigiati da immagini eloquenti per bellezza, ricchezza, arte e storia.

 

Invece, di questo sito nascosto nel Molise, non c’è alcuna foto.

Tutto quasi regolare; del resto è da un po’ che il Molise stesso – 20^ e più giovane regione d’Italia – è definito “Il luogo che non c’è”.   

 

L’ultimo che in ordine di tempo ha riportato in prima pagina l’inesistenza della realtà molisana è stato il presidente della Liguria, Giovanni Toti, che in una diretta su Rete4 è scivolato sulle parole ingenerando l’equivoco che il territorio molisano non avesse coste e spiagge.

 

Certamente la regione sannita è più nota per le sue montagne 

e per le sue nevicate,

 

per le quali è in perenne competizione per sottrarre alla città di Boston il Guinness World Records per essere il luogo dove si deposita la maggiore quantità di neve nella più breve frazione di tempo.   

 

In verità l’interessato ha precisato, qualche giorno dopo, di aver voluto soltanto trovare un esempio che, per contrapposizione, potesse esaltare la particolare lunghezza della riviera ligure bagnata dal mare. 

 

Già, perché in verità

sono 37 i chilometri di spiagge molisane e su di esse 

si staglia l’antica città di Termoli,


l’unico autentico e perfettamente conservato borgo marinaro riverso sull’Adriatico, stretto da antiche mura, costellato di tradizionali trabucchi ed eretto a Sede vescovile, dopo il ritrovamento delle spoglie di S. Timoteo. Con una Cattedrale sotterranea che sostiene il peso di quella più “moderna”, dal XII secolo dedicata a S. Maria della Purificazione ma da sempre quotidianamente illuminata dai raggi del sole che si insinuano tra le antiche case dei pescatori in un imperdibile scorcio di mare.

 

Sulle orme della scoperta del “Molise che non esiste”

si sono ormai lanciati in molti ed autorevoli soggetti,

 

tra questi la rivista “Cosmopolitan”, che negli USA dal 1973 è riferimento di moda e viaggi per il suo pubblico prevalentemente di natura femminile; e la BBC, che ha aperto un lungo e lusinghiero reportage dedicato alla piccola regione italiana, esclamando “Chi non vorrebbe visitare una regione che non esiste?” 

 

E non minore eco ebbero le elezioni amministrative del 2018 dove il Molise, improvvisamente riscoperto,

 

fu addirittura paragonato allo stato dell’OHIO

 

quanto a capacità previsionale dell’esito delle consultazioni nazionali.  

 

Un brand quello di

“MOLISN’T – io non credo all’esistenza del Molise“

 

che i molisani stessi ormai utilizzano con un marcato senso dell’autoironia per riuscire a non essere più dimenticati nei palcoscenici dei teatri che contano sulla scena nazionale. 

 

Ma ciò che lascia più stupiti per l’inclusione dell’altopiano è l’esser stato privilegiato rispetto al suo Comune di riferimento che, per blasone, è assai più noto a studiosi e cultori delle nostre più antiche origini.

 

Sepino, infatti, è un centro di antichissima origine,


tra i più importanti del Sannio Pentro, posto a due chilometri dalle rovine d’epoca romana della località di Altilia, luogo storico di commercio e di sosta posto all’incrocio di due grandi vie di comunicazione (la più nota è quella del tratturo Pescasseroli-Candela), dal toponimo “luogo fortificato” e di cui si ha certezza documentale circa la sua esistenza già dall’età del Ferro. 

 

Città evoluta ed urbanizzata, Sepino fu flagellata da terribili terremoti che ne segnarono l’inevitabile declino, di cui approfittarono le legioni romane che la espugnarono nel 459° a.C.

 

Saccheggiata e totalmente distrutta dai Romani, vide i suoi abitanti 
doversi rifugiare ad Altilia una piana poco distante da Boiano. 

 

Di lì, a causa delle continue incursioni e devastazioni, i Sepinesi furono costretti a risalire su un’altura, attuale sede del Comune, che tornò ad essere di nuovo un centro di importanti scambi commerciali. Divenne poi Terra Regia e nel 1309 Roberto D’Angiò la concesse a Bartolomeo di Capua; da questa dinastia passò ai Caracciolo ed infine ai Carafa, fino all’abolizione della feudalità.  

 

Una storia davvero ricca e prodiga di testimonianze, segnata dalla presenza di belle e significative croci stazionarie, ma non questo è il luogo del cuore.

 

Torniamo ad Altilia, allora, portata alla luce negli anni ’50; 

 

è una imponente testimonianza di una cittadina romana a pianta quadrangolare con un perimetro di 1250 metri, racchiusa in mura turrite, con quattro porte poste ai limiti dell’incrocio del cardo e del decumano che ne determinano i quattro quartieri e segnatamente impreziosite nella Porta Benevento e nella Porta Bojano da ornati e sculture. 

 

Al centro il Foro e nei fianchi un Tempio, la Curia, le Terme di Silvano che la resero assai famosa, la Basilica di epoca augustea ed ancora i resti di importanti monumenti funerari.

Tutta questa meraviglia è impreziosita da una realtà irripetibile.

 

Questo luogo, infatti, non è stato mai completamente abbandonato ma è sopravvissuto ai secoli intatto, riutilizzato da contadini e pastori che lì hanno continuato a passare con carretti e greggi sopra le rovine romane, costruendo un paesaggio agrario che ha conservato le emergenze dell’edilizia rurale del Sei-Settecento intatte sino ai giorni nostri.  

 

Una macchina del tempo senza motore.

Ma non è Altilia il sito che il FAI segnala tra i luoghi del cuore. 


Ed allora dobbiamo salire su per Sepino ed incamminarci lungo un pianoro in continua ma morbida salita, sempre più verde, con una vegetazione sempre più alta, sempre più folta sino ad uno slargo naturale, enorme, che non ti aspetti, e dove il respiro reso ormai affannoso fa sì che i polmoni si possano riempire d’un botto di tanta aria pulita sino all’inverosimile, sino all’ubriacatura. 

 

Di questo luogo, nella mia memoria di prefetto, è ben lucido il ricordo e le relative conseguenti preoccupazioni.

Sconosciuto ai più nei giorni di lavoro, è invece una meta irresistibile

per i molisani amanti dell’aria aperta nei fine settimana. 

 

Ogni giorno di festa d’estate il pianoro si riempie di gioia di vivere, grida festose, bimbi che giocano, profumi di cibo ma anche pericolosi fuochi in prossimità dei boschi e qualche residuo di troppo per tanta allegria.  

 

A rimettere tutto a posto ci pensa da sempre l’alternanza delle amministrazioni civiche e l’amore dei concittadini che nelle forme più varie portano, loro sì, nel cuore quel luogo. 

 

Il giorno di Ferragosto il delirio! Un brulicare di auto, moto, bici ed appiedati vari che si inerpicano nei sentieri e lo invadono in ogni dove. E tra loro Polizia, Forestali, Vigili del Fuoco e Volontari di ogni genere tutti mobilitati per “salvare” il luogo del cuore dal troppo affetto. 

 

Pianificazioni d’ordine pubblico, disciplinari d’esodo, stazioni di controllo, presidi sanitari d’emergenza, punti di osservazione ne garantiscono la serena fruizione, il decoro ed il rispetto

 

 Ogni anno così, sempre senza troppi danni all’ambiente, con un garbato assalto 

che si auspica sempre più “tenero” e consapevole per quella meraviglia


a disposizione di tutti e che vale sempre la pena di ricordare non è un’eredità dei nostri padri ma un prestito dei nostri figli.  

 

Il vero ‘padrone di casa’ il figlio. 

 

Nei miei studi universitari ebbi la fortuna di laurearmi alla cattedra di Massimo Severo Giannini con una tesi sulla formazione normativa urbanistica della Toscana incentrata sulle tutele e l’utilizzo dell’area del Parco dell’Uccellina. 

 

Tra le categorie distintive delle Aree destinate a tutela non v’era annoverata quella dei luoghi del cuore, ma avendo rivisitato anni addietro l’area del Parco toscano reputo certamente meglio conservata questa matesina. 

 

Il mai troppo letto e mai troppo poco ascoltato prof. Sabino Cassese ha osservato nella materia che il percorso previsto dal decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112, che ha dato attuazione alla legge 15 marzo 1997 n. 59, per quanto attiene a musei ed a beni culturali ed ambientali prefigurava certamente nuovi conflitti istituzionali.  

 

A questa osservazione, Cassese ne univa un’altra non meno convincente, del tutto ragionevole e a posteriori risultata inequivocabilmente azzeccata: “… non va sottovalutato il problema che deriva dall’asimmetria tra un corpo di tecnici della tutela non affiancato da un corpo di tecnici della valorizzazione. In futuro, gli addetti alla tutela rimarranno isolati, rispetto a coloro che si interessano della valorizzazione? Oppure si aprirà la prospettiva opposta, secondo la quale gli esperti della tutela ridiventeranno la forza trainante del settore?”.

Bene, qui sull’Altopiano di Campitello di Sepino questa sintesi l’hanno trovata.  

 

Cultori dell’ambiente, amministratori, appassionati, amatori e spensierati gitanti hanno tutelato, rispettato ed in una parola amato il loro luogo del cuore consentendo a chi avrà

la fortuna di trovare la bussola per andare o tornare nella Terra che non c’è


di poter ancora godere dei suoni, dei colori e dei sapori della Natura così com’è, immutata da secoli. 

 

Tanta caparbia, disperata volontà di amare e rimanere legati ai luoghi del cuore non è servita a portare ricchezza economica, se non in minima parte, ma è valsa a tesaurizzare il più prezioso dei beni, l’unico che porta in equilibrio il Prodotto Interno Lordo ed il Benessere Equo Sostenibile del nostro povero mondo, l’ambiente in cui viviamo. 

 

 

 

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