IL CERVO SARDO. UN’ECCELLENZA ITALIANA di Giuliano Milana numero 33 luglio agosto 2025 editore maurizio conte

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IL CERVO SARDO. UN’ECCELLENZA ITALIANA

 

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Questo animale, con la sua eleganza e maestosità, rappresenta un’eccellenza italiana, testimonianza di una natura selvaggia e incontaminata che merita di essere conservata e valorizzata.

Nel suo libro L’ultimo cervo, Augusto Murgia scriveva:

 

«[…] l’ultimo l’abbiamo ucciso nel ‘38, Congera Piga ed io; esattamente quel giovedì…».[…] «Turchineddu» nel suo inconfondibile latrato, annuncia che la bestia c’è. Non si tratta di cinghiale, che il suo abbaiare sarebbe ben più rabbioso; e neppure di muflone, perché i suoi guaiti sarebbero molto più staccati, in quanto la velocità delle bestie lo impegnerebbe troppo. Evidentemente il cagnetto abbaia ad un animale fermo e col quale deve avere poca familiarità, a giudicare dai suoi ululati sordi e nervosi. 

[…] Ed ecco che un secco «colpo» di polvere «bianca» rintrona nell’aria, diffondendo nel bosco una sinistra eco di morte e nel cuore dei battitori la speranza di un buon bottino. 

Ma Turchineddu, dopo aver taciuto per un po’, si riode dalla svolta di una collina e pare che la sua voce venga da una zona fuori battuta. […] Ma un boato cupo e prolungato di polvere «nera» si ode in quel mentre a ridare a tutti la fiducia perduta. Non v’era dubbio: zio Loriga aveva chiuso la partita!

 

Così il Cervo sardo scompariva dai monti della Barbagia e, probabilmente, da molte altre aree della Sardegna. Negli anni ’50 e ’60 del ‘900 infatti, sull’isola, la popolazione di questo ungulato toccò i minimi storici, ne sopravvivevano circa 200, mentre in Corsica, nel 1969, la specie veniva dichiarata definitivamente estinta.   

 

Ma qual è la storia di questa specie (o sottospecie) e quali sono le sue vere origini? Descritto originariamente come un endemita sardo/corso (Cervus corsicanus) successivamente viene “declassato” a sottospecie del cervo europeo (C. e. corsicanus). 

Da allora il Cervo sardo è stato quindi considerato come un taxon introdotto in “tempi storici” (parautoctono), sia in Sardegna che in Corsica, presumibilmente già dall’inizio del Neolitico circa 8000 anni fa.

 

Il suo arrivo sulle due isole verrebbe giustificato dall’interesse che, da sempre, 

questa specie carismatica ed iconica ha suscitato nell’uomo, 

sia dal punto di vista strettamente utilitaristico, 

sia dal punto di vista sacro-rituale.


Va anche sottolineato come non sia l’unica specie ad aver vissuto queste vicissitudini. Di fatto tutta la mammalofauna terrestre attualmente presente in Sardegna è frutto di introduzioni in tempi storici. In merito all’origine dei cervi le teorie, nel corso del tempo, sono state diverse ma, recentemente, grazie a studi di genetica (mtDNA) condotti su campioni di tessuti subfossili comparati con campioni attuali, si è giunti a nuove ed importati conclusioni. I risultati delle indagini molecolari stabiliscono che C. e. corsicanus era, con molta probabilità, originariamente presente nella penisola italiana. Questo dimostra quindi che esistevano due popolazioni di cervi autoctone e geneticamente distinte nell’Italia continentale: una che abitava la regione settentrionale, il cervo della Mesola (C. e. italicus), l’altra la regione centro-meridionale, per l’appunto C. e.
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Cervo di taglia più piccola rispetto ai “continentali”, con un’altezza alla spalla di 75–90 cm per le femmine e 80-110 cm per maschi; di aspetto robusto e con gambe più corte; mediamente la lunghezza è di 175-185 cm per i maschi e 160 cm per le femmine, mentre il peso degli adulti va dai 70/80 kg nelle femmine ai 105-120 kg nei maschi.

Sebbene i cervidi possano cambiare le loro dimensioni corporee rapidamente 

come risposta all’insularità, confrontando le antiche rappresentazioni 

dell’arte sarda si intuisce che tali caratteristiche morfologiche 

erano già presenti durante l’età del bronzo.

 

I palchi sono più piccoli rispetto a Cervus elaphus, sono lunghi mediamente 65 cm e pesano circa 550 g nei maschi adulti. Le stanghe hanno in genere solo 3 punte, sebbene siano noti palchi con 12 punte, lunghi fino a 77 cm e con un peso di 1,1 Kg; le ramificazioni risultano più semplici, si hanno generalmente 4 o 6 punte contro le 16 – 24 del cervo europeo. L’ago e la corona sono generalmente assenti, mentre la parte terminale della stanga presenta una formazione allargata e tendente ad appiattirsi, fino a conferire una forma finale a forcella. Altra peculiarità che caratterizza la specie è il manto scuro, soprattutto durante l’inverno. Il Cervo sardo è dai più considerato una sottospecie del cervo nobile, ma diversi tassonomi seguono la revisione di Groves e Grubb del 2011 che ritiene più idoneo considerarlo una specie a se stante.   

 

Quali sono state le cause che hanno portato alla rarefazione della specie sulle due isole? 

I motivi del declino sono da ricondursi principalmente alla drastica diminuzione delle aree forestali, alla frammentazione del territorio, all’aumento del numero degli incendi, ad una caccia non pianificata ed alla competizione nell’utilizzo delle risorse naturali con l’agricoltura e l’allevamento. Alla fine degli anni Sessanta fu quindi inserito nella Lista rossa IUCN

 

L’estinzione della specie dalla Corsica risvegliò le coscienze e, per merito 

di campagne di conservazione portate avanti dall’Ente Foreste Sardegna 

(oggi Forestas) e dal WWF, la popolazione isolana 

tornò a crescere costantemente


Nel 2015 venivano stimati oltre 8000 individui, saliti nel 2018 (ultimo dato attualmente disponibile) ad un numero compreso tra i 10.000 e gli 11.000 individui. Successivamente, grazie ad individui provenienti dalla Sardegna, i cervi sono tornati anche in Corsica. Attualmente, proprio in virtù degli sforzi fatti e del nuovo contesto ambientale, favorevole agli ungulati, venutosi a creare, le popolazioni presenti sulle due isole sono in costante crescita ma, nei fatti, non è stato stabilito o teorizzato alcun limite massimo a tale crescita. 

 

(Continua)

 

 

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La fauna italiana vanta una biodiversità straordinaria, con specie uniche come il cervo sardo, simbolo di un patrimonio naturale di inestimabile valore. .

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Orso bruno marsicano e Parco Nazionale d’Abruzzo di Spartaco Gippoliti numero 33 luglio agosto 2025 editore maurizio conte

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ORSO BRUNO MARSICANO E PARCO NAZIONALE D’ABRUZZO

 

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Pochi sanno che la prima area protetta inaugurata in Italia, precisamente il 9 settembre 1922, fu un parco appenninico che nacque per iniziativa privata (Parco Nazionale d’Abruzzo) e fu riconosciuto dal Governo con Decreto dell’11 gennaio 1923. 

Pochi sanno che la prima area protetta inaugurata in Italia, precisamente il 9 settembre 1922, fu un parco appenninico che nacque per iniziativa privata (Parco Nazionale d’Abruzzo) e fu riconosciuto dal Governo con Decreto dell’11 gennaio 1923. Dietro questa pionieristica iniziativa troviamo l’ingegnere Erminio Sipari (1879-1968), nipote e cugino di due illustri senatori, il marchese Raffaele Cappelli ed il filosofo Benedetto Croce, ed egli stesso eletto alla Camera tra il 1913 e il 1929. Il provvedimento di tutela si rendeva estremamente urgente soprattutto per la salvezza dell’orso bruno appenninico.   
 
Tra il 1899 ed il 1912 l’area dell’Alta Val di Sangro aveva ricevuto una concreta protezione come riserva di caccia reale, ma decaduta tale tutela per gli alti costi che i Savoia avevano dovuto sostenere, e terminato il Primo Conflitto Mondiale, l’area era divenuta facilmente accessibile a cacciatori di Roma e Napoli. Mentre per l’altra perla zoologica dell’area, il camoscio d’Abruzzo Rupicapra ornata, anche sulla spinta del Senatore e Professore Lorenzo Camerano, il provvedimento di tutela legislativo era arrivato già nel gennaio 1913, per l’orso, potenziale predatore, ciò non era stato possibile.    
 
Lasciatemi introdurre a questo 

punto il ‘papà’ dell’orso marsicano; il medico e naturalista molisano 

Giuseppe Altobello (1869-1931), grande intellettuale 

studioso della natura e della cultura regionale

 
A Campobasso Altobello dà alle stampe il suo Fauna dell’Abruzzo e del Molise dove, nel 1921, descrive l’orso appenninico come una nuova sottospecie: Ursus arctos marsicanus. A questo punto la necessità di misure efficaci di protezione si fanno ancora più pressanti!    
Sipari ha le idee molto chiare. Occorre realizzare un parco nazionale che salvi i due gioielli naturalistici (camoscio e orso), permetta un razionale utilizzo delle risorse naturali (i pascoli ed i boschi) e avvii lo sviluppo turistico della regione

Sipari sta di fatto proponendo un nuovo modello di area protetta 

che gli costerà non poche critiche (per esempio dal Touring Club Italiano), 

ma che lo renderà di fatto un precursore dell’attuale visione 

del tema in Italia e non solo.

 

Non è qui il caso di ripercorrere la secolare e complessa storia del Parco ed il suo ruolo di traino del movimento conservazionistico italiano sotto la direzione di Franco Tassi.   

 

Ma cosa ne è dell’orso marsicano oggi? 

Mentre negli orsi riportati sulle Alpi trentine si assiste ad una spettacolare crescita demografica, fonte anche di non poche problematiche sociali, sugli Appennini il contingente sembra rimanere stabile. Il nuovo secolo ha prodotto nuove evidenze scientifiche a supporto dell’unicità del nostro orso marsicano che si caratterizza, tra l’altro, per l’estrema inoffensività nei confronti dell’uomo. 

È questo un fattore non secondario nella speciale relazione che lega gli abitanti del Parco con l’orso. Già nel 1962 l’allora direttore Francesco Saltarelli scriveva: “Quali dunque, i rapporti fra l’uomo e l’orso nel Parco d’Abruzzo? Non crediamo di essere evasivi se affermiamo che si può parlare di ottimi rapporti di coesistenza (mai l’orso ha assalito l’uomo), se non proprio di convivenza…”. Per questo, 

 

da oltre un decennio, la Società Italiana per la Storia della Fauna 

ha lanciato un appello per moltiplicare gli sforzi di tutela

di questo orso così particolare.

 
Ma cosa ne è dell’orso marsicano oggi?
Oltre che richiamando l’attenzione sulla carenza di risorse alimentari che affligge l’orso dopo l’abbandono di agricoltura e pastorizia, la Società ha proposto la costituzione di una ‘banca del germoplasma’ per la rara sottospecie di cui oggi si pensa non esistano più di 10 femmine adulte e la popolazione totale si aggiri sui 55 individui. Con tali bassi numeri, la perdita di variabilità genetica è altamente probabile e per la futura conservazione dell’orso sarebbe importante potere contare sul materiale genetico di orsi morti magari un decennio fa. Finora troppo poco si è fatto in questa direzione ma, come abbiamo detto, ragioni scientifiche ed economiche coincidono nel richiedere la conservazione di un esperimento evolutivo unico che ha avuto come teatro i nostri Appennini meridionali. 

 

 

 

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Bibliografia

SPARTACO GIPPOLITI

Arnone Sipari L., Guacci C. (a cura) 2019. Origini e primi anni di vita del Parco Nazionale d’Abruzzo nella “Relazione Sipari” del 1926. Palladino Editore, Campobasso.

Gippoliti S., Guacci C. 2017. Il Mammifero italiano più minacciato: l’orso marsicano. Un approccio interdisciplinare per la sua conservazione. Natura e Montagna, 64: 29-35.

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Gli abeti bianchi del Pollino tra i riti arborei e il cinema di Saverio De Marco Numero 33 luglio agosto 2025 editore Maurizio Conte

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In località Piano di San Francesco, un tratto di sentiero porta ad un affaccio 

su alcuni abeti monumentali, alti e colossali, tra cui un esemplare 

con una circonferenza di 7 metri a terra e stimato 500 anni di età.

 

Più sotto, davanti ad una fontana è presente una piccola statuina di San Francesco di Paola, santo legato indirettamente a questa specie arborea.

 

Cosa c’entra San Francesco? L’abete bianco è legato anche ad una dimensione sacraleed etno-antropologica. L’abete entra a far parte infatti dei riti arborei del Pollino, tipiche feste pagane di primavera, originariamente volte alla celebrazione della fecondità e della fertilità della terra e legate perciò ad una sorta di simbologia del matrimonio degli alberi, dove l’abete bianco rappresenta l’elemento femminile sempreverde e il faggio l’elemento maschile. Tali rituali pagani sono associati alle feste dei santi.

La Chiesa cattolica, non riuscendo a sradicarli, per controllarli vi sovrapponeva 

la festività cattolica: ne deriva pertanto una festività sincretica, dove tuttavia

 l’elemento pagano precristiano e quello cristiano 

si giustappongono senza fondersi.


Tali rituali comportano un “dramma cerimoniale” in cuitrovano spazio canti, musiche, esultanza, soste dei cortei, accompagnati da “allegri conviti” con abbondanza di cibo e grandi bevute di vino. Con “l’albero della cuccagna” eretto nella piazza e abbellito di doni, subentra una grande festa di popolo, caratterizzata anche da prove di destrezza acrobatica. Lo stesso “viaggio” dei tronchi dalla montagna al paese diventa una sorta di dramma per la difficoltà del trasporto e il rischio di incidenti, a volte accorsi (V. Lanternari 1977).

I riti arborei del Pollino sono momenti fondamentali per l’identità delle comunità locali 

e vi partecipano tutt’oggi anche numerosi giovani.

 

Molti sono gli emigrati che tornano in paeseper partecipare alla festa. Possiamo prendere come esempio la festa di Sant’Antonio diPadova a Rotonda, una delle più rappresentative del territorio del Pollino. In questo ritualelapitaè il faggio e l’abete larocca.Una volta anche il maschio era un abete, di cui vieneconservato il nome (la pita appunto). Il compito di tagliare e trasportare a valle i due alberiè affidato a due squadre diverse. Nella notte dell’8e del 9 giugno, i roccaioli raggiungono i boschi di Terranova di Pollino, tagliando una pianta di modeste dimensioni di abete, che rappresenterà appunto la cima. Nella stessa notte i pitaioli raggiungono la zona di Piano Pedarreto, nel comune di Rotonda, per abbattere un faggio prescelto di grandi dimensioni,che viene poi squadrato e lavorato con l’ascia. L’11giugno la pita viene trainata da una decina di coppie di buoi (paricchi). A Pedarreto, dalla foresta di faggio e abete bianco giunge anche la rocca e insieme, sebbene trasportati da gruppi separati iniziano il breve viaggio che li porterà nella piazza del paese, dove verrà innalzato il grande “albero della cuccagna”, frutto dell’unione “artificiale” tra il faggio e l’abete.

 

A Viggianello la sagra dell’abete è legata a San Francesco di Paola, a Terranova di Pollino a Sant’Antonio. Nel Pollino calabrese va menzionato poi il rito arboreo di Alessandria del Carretto, che il grande regista Vittorio De Seta filmò nel 1959. De Seta ne parla come una”sagra antica e meravigliosa”, con cui il paese celebra l’inizio della bella stagione

 

Nel documentario, all’alba un gruppo di uomini si dirige verso la montagna 

e i “maestri d’ascia” abbattono un alto esemplare di abete, 

che successivamente verrà trascinato a valle 

da alessandrini giovani e meno giovani,


accompagnati dalla musica di zampogne e totarelle.Verso l’entrata del paese le donne portano cesti pieni di prodotti tipici per il pranzo. Sempre nel film, giorni dopo viene così celebrata la festa di Sant’Alessandro, patrono del paese e allestito l'”incanto”, dove prodotti tipici e oggetti vari vengono messi all’asta: il ricavato sarà usato per pagare le spese della festa. L’abete viene poi innalzato nel pomeriggio nella piazza del paese, con la cima addobbata di doni come dolci, collane di fichi secchi ecc. Un atletico giovane riesce ad arrampicarsi fino in alto e si appende con le gambe ai rami della cima, a testa in giù, con le braccia aperte, ondeggiando e senza nessuna paura di cadere.

Dopo la conclusione della festa la gente si appresta a tornare verso casa, 

lasciandosi alle spalle i momenti di spensieratezza e allegria.

 

Lo stesso rito di Alessandria del Carretto, che è rimasto quasi intatto nei secoli, è stato filmato da un altro grande regista, Michelangelo Frammartino nel suo capolavoro “Le quattro volte”, premiato a Cannes nel 2010. Iprotagonisti di questo film non sono solo contadini e pastori, ma anche animali, alberi, natura inanimata, ovvero la terra stessa. Come suggerisce la testimonianza di Pitagora nel film, l’uomo è egli stesso tutte queste cose. La “terza volta” del film è rappresentata proprio dalle vicissitudini di un abete bianco, colto nel mutare delle stagioni, il cui destino è legato alla cultura della civiltà agropastorale. Il “senso del sacro” è espresso in questo film soprattutto nella venerazione della natura che caratterizza gli antichi riti arborei.

Ogni essere è legato all’altro, anzi, ogni essere entra a far parte di un altro 

e della sua rispettiva sfera di vita, per poi ritornare alla sua origine: 

efficace ad esempio la scena dell’albero che entra nel camino 

delle abitazioni e ne esce come fumo, espandendosi nell’aria


Quando, dopo che la festa èfinita, l’abete verrà venduto ai carbonai, essi erigeranno una catasta verticale con i suo iceppi, posta al centro della loro arena circolare di legna accatastata. Al centro del cerchio, nell’interstizio della catasta, verrà appiccato il fuoco, con un gesto augurale che vuole in qualche modo “benedire” il risultato del duro e delicato lavoro dei carbonai e “ringraziare” allo stesso tempo il “tutto cosmico”. E alla fine il fumo della legna ritornerà tra gli alberi,confondendosi con la nebbia che aleggia sulla foresta..

 

 

 

 

 

 

 

 

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L’abete bianco, Abies alba, è un’eccellenza botanica caratteristica delle foreste del versante nordorientale del Massiccio del Pollino, dove vive associato al faggio. L’areale di questa specie va dai 1400–ai 1850 metri circa di quota, altitudine oltre la quale dominano il faggio e poi il pino loricato (Pinus leucodermis)

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IL MAMMUT E LA CITTÀ RICOSTRUITA di Gianluigi D’Alfonso numero 28 maggio-giugno 2023 Editore Maurizio Conte

IL MAMMUT…  E LA CITTÀ RICOSTRUITA

 

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trovato in provincia dell’Aquila nel 1954, è tornato di recente ad essere esposto nel Forte Spagnolo Aquilano, rappresentando uno dei simboli della ricostruzione della città abruzzese dopo il terribile sisma del 2009.

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E sì perché il terremoto che colpì la città de L’Aquila alle 3:32 del mattino del 6 aprile 2009, tra le innumerevoli devastazioni che cambiarono il volto del bellissimo capoluogo abruzzese e provocarono il tragico bilancio di 309 vittime, determinò anche seri danni alla struttura del Forte cinquecentesco Spagnolo che ospitava l’esposizione del mastodonte nonché importanti lesioni a parte dello scheletro e della struttura portante del Mammut. 

 

Da figlio di genitori aquilani ricordo sin da piccolo, in occasione delle affascinanti visite presso la sala del bastione est del Forte Spagnolo a

questo raro esemplare di animale preistorico, di aver subito considerato 

il Mammut uno dei simboli di questa bellissima città.


Probabilmente perché anche lui “immoto manet” protetto all’interno della Fortezza Spagnola ed in questo suo troneggiare impersona plasticamente la robustezza e la fierezza delle genti d’Abruzzo. 

 

Ma facciamo un balzo indietro e ripercorriamo brevemente l’interessante storia del Mammuthus Meridionalis Vestinus,

tra i pochi esemplari rinvenuti in Europa in buone condizioni, per l’integrità 

dello scheletro e l’ottimale stato di conservazione, grazie al clima rigido, 

quasi dolomitico, che caratterizzava i territori abruzzesi.

Esso fu subito considerato uno dei reperti più importanti della preistoria italiana, uno degli esemplari più completi esistenti insieme a quelli esposti a Parigi, a Leningrado e negli Usa.   

 

La Conca dell’Aquila nella preistoria era occupata da un grande lago dove vivevano elefanti e rinoceronti, ippopotami, cervi e cinghiali e

nel marzo del 1954, a seguito di scavi per la ricerca dell’acqua, in località Madonna della Strada a Scoppito, fu rinvenuto lo scheletro quasi integro 

di un Elephas Meridionalis Nesti,


noto come Mammut, diffusosi nella penisola italiana all’inizio del Quaternario. 

 

All’esemplare maschio e anziano dell’Aquila, morto probabilmente di vecchiaia a 55 anni, attorno a 1.500.000 anni fa, fu attribuita la denominazione prima di Archidiskodon meridionalis vestinus, poi di Mammuthus meridionalis vestinus. Il Mammut era un “bestione” pesante all’incirca più di sedici tonnellate e alto più di quattro metri, molto simile ad un elefante, ma più robusto, con le zanne più curve e la bocca più sporgente

Il restauro seguì un percorso a più tappe. Successivamente alla sua scoperta, 

dopo circa sei anni di lavori di riparazione delle singole parti, fu esposto al pubblico 

nel 1960 nel bastione est del Forte Spagnolo, sezione paleontologica 

del Museo Nazionale dell’Aquila.

Alla fine degli anni ’80 si rese necessario un secondo restauro concluso nel giugno del 1991 effettuato in parte presso il Laboratorio di Restauro del Museo di Geologia e Paleontologia dell’Università di Firenze.

 

Si arriva, quindi, all’ultimo restauro post terremoto 2009

avvenuto anche grazie ad una generosa donazione di 600 mila euro della Guardia di Finanza che ha voluto contribuire così alla rinascita dell’Aquila dopo il sisma. L’intervento di restauro è stato realizzato dall’allora Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici dell’Abruzzo (oggi Segretariato Regionale per l’Abruzzo).

 

Il Mammut aquilano è ritornato nel 2022 a costituire una delle attrazioni 

del Museo Nazionale D’Abruzzo (MuNDA) de L’Aquila ma, soprattutto, 

il suo ultimo restauro con la sua “restituzione” 

al patrimonio culturale della città


ha significato un ulteriore importante passo in avanti verso la completa ricostruzione della città dell’Aquila per tornare a splendere nella sua antica e particolare bellezza.

 

 

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UN’ALTRA SARDEGNA di Gloria Salazar numero 27 gennaio febbraio 2023 Ed. Maurizio Conte

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UN’ALTRA SARDEGNA

 

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Un’isola dalle interminabili distese incontaminate e disabitate, dagli scenari sempre diversi (gli altipiani delle Giare, le montagne del Gennargentu, i tacchi dell’Ogliastra, gli stagni costieri, dove nidificano i fenicotteri rosa); punteggiati in cima alle falesie da cinquecentesche torri difensive, testimonianza del periodo di dominazione spagnolo.

 

Per secoli, infatti, l’isola è stata un crocevia nel Mediterraneo

 

ed una terra di conquista di cui porta ancora le tracce nella lingua, nella gastronomia e nelle architetture. Vestigia delle dominazioni straniere si ritrovano nei borghi, alcuni annoverati tra i più belli d’Italia. Ad esempio ad Alghero, “la piccola Barcellona”, (dove si parla il catalano), con le sue splendide fortificazioni; a Carloforte, nell’isola di San Pietro – una delle isole nell’isola – (dove si parla il genovese), che sembra un angolo di riviera ligure; a Bosa, con le case dalle facciate multicolori, dominata dal castello toscano dei Malaspina, e a Castelsardo (un tempo chiamato Castelgenovese e poi Castellaragonese) dominato da quello genovese dei Doria; ad Iglesias con la cinta muraria pisana ed i balconi “sivigliani”; ed a Buggerru, fondata da imprenditori francesi ed un tempo detta “la piccola Parigi”.   

 

Una regione italiana giustamente famosa per il suo mare cristallino e le sue spiagge caraibiche che spesso sono state utilizzate, al posto di quelle, per la pubblicità.

 

Ma anche una regione, al di la delle coste, ingiustamente sconosciuta.

 

Probabilmente perché mal collegata (con l’esterno ed all’interno), lontana da tutto e spesso dimenticata da tutti (perfino – e per fortuna- anche dall’Isis, che inizialmente non l’aveva inserita nelle mappe della “riconquista”), non ha beneficiato dell’arrivo di un turismo colto, come è successo invece in altre regioni d’Italia con gli inglesi, che hanno fatto la fortuna, ad esempio, della Toscana. Eppure questo isolamento ha consentito di preservarne la natura e mantenerne inalterate molte caratteristiche ancestrali che altrove si sono perse.   

 

La Sardegna perciò è molto più che un mare “da cartolina”, ha molto altro da offrire.  In primis la qualità della vita, che garantisce, insieme alla genetica, un primato di longevità ai suoi abitanti, studiato persino dai giapponesi, gli altri ultracentenari del pianeta.

 

Ma la Sardegna – la terra emersa più antica d’Italia 

– è un’isola di altri (sconosciuti) primati:


come l’olivo di Luras che di anni ne ha più di 4mila; il Pan di zucchero, il faraglione più alto del Mediterraneo; Piscinas, un deserto in miniatura, con dune costiere tra le più alte d’Europa ed una delle più belle spiagge del mondo secondo il National Geographic; Porto Pino con le dune bianchissime; la Grotta subacquea del Bue Marino, la più lunga d’Italia (70 km.); anche un canyon, Su Gorropu, “il più spettacolare del continente”.   

 

Nell’isola ci sono architetture megalitiche che possono rivaleggiare con quelle del nord Europa: i molti dolmen (come quello di Sa Covecadda a Mores), ed i circa mille menhir sparsi nel territorio, tra i quali il più alto d’Italia (quasi 6 metri) a Villa Sant’Antonio; anche noi abbiamo le nostre – piccole – Stonehenge, ma pochi le conoscono.

 

In Sardegna c’è un esercito di pietra che risale a più di otto secoli prima 

dell’esercito di terracotta cinese: i Giganti di Monte Prama,

 

tra le più antiche sculture a tutto tondo del Mediterraneo, alte quanto alcune di quelle dell’isola di Pasqua; c’è una necropoli preistorica, a Sant’Andrea Priu, con sepolture tra le più vaste del Mediterraneo; c’è persino una ziqqurat, simile a quelle della Mesopotamia, a Monte d’Accoddi, ma pochi lo sanno. Come pochi conoscono le terme romane di Fordongianus (antica Forum Traiani); le città romane di Nora e Tharros, in riva al mare; l’abazia romanica di Saccargia, la più maestosa delle tante chiese medievali isolate nella campagna; il tempio di Antas, al centro di una foresta; o il villaggio preistorico di Tiscali (che ha dato il nome alla società di comunicazioni), in una dolina. C’è anche un sito dichiarato dall’UNESCO patrimonio dell’umanità: la reggia nuragica di Su Nuraxi a Barumini; uno dei moltissimi ed imponenti nuraghe che torreggiano nell’isola.

 

Tutti monumenti immersi in un paesaggio intatto, sovrastato da una volta stellata 

che nei cieli della Penisola non riusciamo più a vedere.

 

 

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LA CUCINA MOLISANA Gemme del Sud numero 27 gennaio febbraio 2023 Editore Maurizio Conte

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LA CUCINA MOLISANA

 

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                Molise

 

  

Il Molise è una regione molto piccola, ma grazie al suo territorio così eterogeneo possiede una gran varietà di prodotti gastronomici tipici. 

 

I 36 chilometri di costa offrono una molteplicità di ricette a base di pesce, come le zuppe, il famoso brodetto, risotti e moltissimi modi di servire il baccalà. Il visitatore che si troverà a passare per l’antico Sannio, territorio montuoso e collinare con tradizione pastorale ed agricola, scoprirà una grande produzione di formaggi e salumi, aromi come il tartufo bianco, focacce e dolci tipici.
 

Alcuni di questi prodotti hanno alle spalle tradizioni lunghissime, come, ad esempio, 

il caciocavallo di Agnone. La sua presenza è testimoniata 

fin dai tempi della Magna Grecia

 

e la sua produzione è legata al periodo della transumanza. Questo formaggio è entrato a far parte dei Prodotti Agroalimentari Tradizionali Italiani ed è chiamato “formaggio archeologico” per la sua lunga storia e perché anticamente veniva fatto stagionare in grotte naturali. 

 

I prodotti molisani sono in larga parte legati alle tradizioni povere e contadine ed alle ricorrenze e feste popolari, e si basano su ingredienti semplici, soprattutto grano e legumi.

 

Secondo la leggenda, i famosi “cavatelli” – una pasta di semola di grano duro 

ed acqua – vennero realizzati in occasione di una visita 

dell’imperatore Federico II,

 

che pare ne andasse ghiotto. Costituivano il piatto principale di cene e banchetti, cucinati con fave, pancetta e piselli, e furono serviti anche al “Colloquium generale”, la riunione di tutti i funzionari e dignitari regi che si svolse a Foggia nel 1240. Oggi i cavatelli sono i protagonisti delle sagre che tra luglio ed agosto si svolgono in molti comuni molisani. 

 

Il Molise vanta la creazione di un’altra pasta fresca: i fusilli. Essi erano lavorati anticamente da alcune donne qualificate che tagliavano striscioline di impasto di circa un centimetro, le arrotolavano intorno ad un ferro da calza e le sfilavano, creando così la tipica forma arricciata. Questa laboriosa lavorazione aveva luogo nelle case delle famiglie agiate. La classica ricetta dei fusilli alla molisana prevede il condimento con il tradizionale ragù di agnello o di maiale, un piatto semplice, ma che richiama alla memoria secoli di storia popolare.

 

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Fresh uncooked cavatelli pasta.

 Foto da DEPOSITPHOTOS

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L’ANTICO BORGO DI CRACO Gemme del Sud numero 26 ottobre novembre 2022 ed. maurizio conte

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L’ANTICO BORGO DI CRACO

 

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Gemme del Sud

               Craco (MT)

 

 

 

A circa 60 chilometri da Matera si trova l’antico borgo medievale di Craco, un paese fantasma immerso nel suggestivo territorio lucano dei calanchi, formazioni collinari di rocce argillose. Abitato probabilmente fin dall’XI secolo d.C., su presenze umane più antiche, la sua storia attraversa i secoli fino a giungere nel Novecento.

 

Sorto sia su base rocciosa che su terreno soggetto ad erosione, agli inizi 

degli anni Sessanta del secolo scorso questo paese fu colpito 

da un evento naturale che ne decretò la sorte:  

 

Luna disastrosa frana costrinse gli abitanti ad abbandonare le proprie case ed attività per trasferirsi più a valle, a Craco Peschiera, lasciando il posto al silenzio e alla natura che si è riappropriata del proprio spazio. 

Aggirandosi per i vicoli del borgo, accompagnati da guide autorizzate poiché per motivi di sicurezza è vietato l’accesso libero, si possono ammirare la torre normanna, i palazzi nobiliari, le chiese, gli scorci dei vicoli con le case addossate le une alle altre e gli affacci mozzafiato sul paesaggio dei calanchi.

 

Grazie all’impegno di cittadini e Comune, l’antico abitato è tornato a vivere, 

diventando mèta turistica, set scelto da importanti marchi pubblicitari, 

location cinematografica di registi famosi 

e luogo di manifestazioni culturali.

 

La volontà di conservare la memoria del proprio passato si esprime nel MEC, il Museo Emozionale di Craco, che ha sede nell’antico monastero di San Pietro dei Frati Minori fondato agli inizi del XVII secolo e posto ai piedi del borgo. Qui, attraverso l’impiego di tecnologie multimediali ed interattive, il visitatore può immergersi nella storia dell’insediamento e conoscerne i protagonisti, scoprendo un territorio ricco di tradizioni, arti e mestieri e al tempo stesso godere di un’oasi di tranquillità.

 

Panoramic view of Craco. Basilicata. Italy.
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 Foto da DEPOSITPHOTOS

 

LA RIVIERA DEL CORALLO Gemme del Sud mumero 26 ottobre novembre 2022 ed. maurizio conte

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LA RIVIERA DEL CORALLO

 

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Gemme del Sud

               Alghero

 

La Riviera del Corallo, si estende lungo i 90 chilometri della costa di Alghero, con una grande varietà di paesaggi tutti da scoprire: lunghe spiagge di sabbia bianca, piccole calette e meravigliose formazioni rocciose verso il promontorio di Capo Caccia, circondate dalla vegetazione della macchia mediterranea. Il nome deriva dalla cospicua presenza nei fondali di corallo rosso, che costituisce una delle principali risorse del territorio.

 

La pesca del corallo in Sardegna ha origini antichissime: da sempre usato per scopi 

di culto, nel corso dei secoli è diventata un’importante risorsa economica, 

 

oggi preservata e tutelata anche in siti speciali all’interno dell’Area Marina Protetta di Capo Caccia e del Parco Regionale di Porto Conte. In particolare il Corallium Rubrum è definito “l’oro rosso di Alghero”, a sottolineare il forte legame tra la città e la sua più preziosa risorsa, sancito già nel 1355, quando il re d’Aragona Pietro IV il Cerimonioso concede ad Alghero lo stemma rappresentante un ramo di corallo in mezzo alle onde del mare, sormontato da quattro pali rossi in campo oro, insegna reale nota come “Pali di Aragona”. 

 

E proprio ad Alghero sorge 

 

il MACOR, un museo interamente dedicato al corallo, che offre un percorso 

alla scoperta della tradizione, della cultura e dell’identità 

di questa parte di Sardegna

 

attraverso aspetti storici, scientifici, economici e curiosità attorno al pregiato materiale, oltre alle opere d’arte che gli artigiani algheresi hanno creato e creano ancora oggi col corallo. Il museo, inoltre, è ospitato all’interno dell’elegante villa Costantino, unico edificio liberty visitabile in città, che conserva ancora la divisione interna degli ambienti come residenza familiare e gli elementi decorativi originali, motivo in più per andare a visitarlo.

 

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VOCI DEL CINEMA TRA LE SPONDE DI LISCA BIANCA di Aurora Adorno numero 26 ottobre novembre 2022 ed.maurizio conte

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VOCI DEL CINEMA 

TRA LE SPONDE 

DI LISCA BIANCA

 

 Stelle al Sud

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Appare in lontananza Lisca Bianca, a pochi chilometri a est di Panarea, come una donna adagiata sul mare che, beandosi dei raggi del sole e benedetta dalle acque galleggia in solitudine; distaccata da Dattilo e Bottare, è ciò che resta di antiche bocche vulcaniche prima unite in un unico scoglio.

 

Sull’isolotto cresce un tappeto grigio – verde di erbe che si estende come un vestito sul corpo di questa bella Riserva naturale; è l’Anthemis aeolica, anche detta Camomilla delle Eolie, un’erba che cresce solamente sull’isola.   

 

Vicino a Lisca Bianca nelle profondità del mare, giace sul fondo il relitto di un cargo inglese affondato nel 1885 di cui la poppa e la prua ancora intatti sono sommersi dalle acque silenziose del Mediterraneo.

 

 Non è possibile sbarcare sull’isola, se non per scopi scientifici o di ricerca, 

ma soltanto ammirarla da lontano, oppure girarci intorno con una barca.   

 

 Un’altra opzione è quella di perlustrare Lisca attraverso lo sguardo inquieto 

della macchina da presa di Antonioni: nel celebre cortometraggio del 1983 

dal titolo “Ritorno a Lisca Bianca” l’isolotto appare 

in tutta la sua selvaggia bellezza.  

 

Nelle urla furiose delle onde che si infrangono contro gli scogli a strapiombo sul mare è nascosto un segreto, forse terribile: «Anna, Anna». Rimbalzano tra le rocce le urla di Monica Vitti nella parte di Claudia e di Gabriele Ferzetti nella parte di Sandro il fidanzato di Anna (Lea Massari), una ragazza fragile che sparisce nel niente durante una gita alle Eolie.

 

Il documentario fa capo al film “L’avventura”, diretto nel 1960 dallo stesso Antonioni 

e prima parte della trilogia “esistenziale” o “dell’incomunicabilità” 

di cui fanno parte anche il film “La notte” e “Eclisse”.


Ma Anna non si trova, è sparita, e dopo il panico tra Sandro e Claudia scoppia la passione. 

«Pochi giorni fa all’idea che Anna fosse morta, mi sentivo morire anch’io. Adesso non piango nemmeno. Ho paura che sia viva. Tutto sta diventando maledettamente facile, persino privarsi di un dolore» confida Claudia ormai infatuata di Sandro, e nei suoi occhi chiari c’è tutto lo struggimento della Vitti, una donna vulnerabile alle prese con una passione proibita, forte, tanto da toglierle il fiato. Tra Noto e Taormina continua la storia d’amore: 

Sandro: «Claudia, ci sposiamo?» 

Claudia: «Come ci sposiamo?» 

Sandro: «Ci sposiamo io e te. Rispondi!» 

Claudia: «Rispondi. Cosa ti rispondo: no, non ancora, non lo so, non ci penso nemmeno. In un momento come questo, ma perché me lo domandi?» 

Sandro: «Mi guardi come se avessi detto una cosa pazzesca». 

Claudia: «Ma sei sicuro di volermi sposare? Proprio sicuro? Di voler sposare me?» 

Sandro: «Se te lo chiedo?» 

Claudia: «Già, ma perché tutto non è semplice. Dici che voglio vedere tutto chiaro. Io vorrei essere lucida, vorrei avere le idee veramente chiare, e invece».

 

Prosegue il dialogo tra gli amanti, e va a confondersi col vento che, 

come scrisse il drammaturgo francese, in queste isole suona. 

 

Come capita in certi amori, Sandro si concede una storia con un’affascinante scrittrice. Claudia lo perdona, è pronta a tutto, anche ad accettare una relazione tormentata, passionale, come quella che aveva portato Anna a sparire nel niente tra gli scogli di Lisca. 

Il mistero chiude il film come una nuvola che, tra il vulcano e la terra ferma, oscura il cielo senza mai sparire veramente.

 

Le Eolie, quel favoloso arcipelago che Stromboli illumina come un faro, 

scriveva Dumas

 

che, proprio come molti scrittori fecero a cavallo tra l’800 e il 900, ricordò le isole in un lungo diario di viaggio, tingendo le pagine con i colori pastello del nostro Mediterraneo.

 

 

 

 

 

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Stelle al Sud

 

Con la serie “Stelle al Sud” Myrrha va alla ricerca di alcuni tra i tanti personaggi celebri la cui arte si è in qualche modo intrecciata con la natura incontaminata di un Sud selvaggio e incantatore, divenuto per essi fonte di ispirazione, talvolta dimora d’elezione.

 

 

PARCO AYMERICH UN’OASI NEL CUORE DELLA SARDEGNA – Gemme del Sud – Numero 25 – Luglio agosto 2022 – Ed. Maurizio Conte

 

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PARCO AYMERICH UN’OASI NEL CUORE DELLA SARDEGNA

 

Gemme del Sud

           Laconi (OR)

 

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Il Parco Aymerich di Laconi, piccolo borgo tra Oristano e Nuoro, è il più grande parco urbano della Sardegna, un vero e proprio giardino botanico di circa 22 ettari appartenuto fino al 1990 alla famiglia Aymerich, feudatari del paese. 

Autore dell’originale riserva naturale, a partire dal 1830, fu don Ignazio Aymerich Ripoll, senatore del Regno d’Italia e appassionato collezionista 

di piante esotiche e rare, 

 

che cominciò ad importare dai suoi numerosi viaggi. 

 

Il Parco offre suggestivi sentieri naturalistici tra boschetti di lecci, carrubi, magnolie, olivastri, pini della Corsica. Di particolare interesse è la presenza di numerose specie di orchidee e quella, imponente, di un cedro del Libano, piantato nel 1835 quando aveva pochi anni, che oggi ha raggiunto un’altezza di 25 metri e una circonferenza di 415 cm. 

 

L’acqua è tra le maggiori attrazioni del Parco: abbondante in tutte le stagioni, crea spettacoli davvero insoliti per una regione come la Sardegna, notoriamente arida. Molto bella la Cascata Maggiore con i suoi 12 metri d’altezza.

Disseminate tra la vegetazione si possono ammirare diverse grotte 

e cavità naturali, la cui importanza è legata a vicende storiche: 

 

durante la Seconda Guerra Mondiale Laconi, come molti altri paesi sardi, accolse gli sfollati cagliaritani che fuggivano dai bombardamenti delle forze alleate che si abbatterono nel 1943 sulla città e il marchese Aymerich aprì il parco per offrire loro ricovero. 

 

Di grande suggestione, poi, sono le rovine del castello medievale, costruito nel XIII secolo. L’edificio presenta una sala principale dove è possibile vedere alcune sedute in pietra ed una bellissima finestra gotica che offre un panorama meraviglioso. 

 

Dal luglio del 1990 il Parco di Laconi è di proprietà della Regione Autonoma della Sardegna che l’ha acquistato dalla famiglia Aymerich.

 

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