LE ARCHITETTURE MEDITERRANEE DIVENTANO ORDITO di Venera Coco – Numero 2 – Ottobre 2015

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Scostare il tessuto e scoprire la carnagione del Sud che ha assorbito, nella pelle e nella sabbia, tutta l’arsura di un sole indifferente al dolore, è la scoperta che alcuni stilisti hanno provato a raccontare. Stilisti che, attingendo dallo stupore dei loro sguardi, per creare invenzioni stilistiche, reinterpretano gli antichi fasti e gli intarsi che abili maestranze avevano creato per le chiese, le moschee e i palazzi.

Un vero e proprio eden, fatto di centinaia di piante provenienti da cinque continenti, piccoli ruscelli e costruzioni in stile moresco e Art Déco. Sedotto da “quest’oasi in cui i colori di Matisse si mescolano a quelli della natura”, lo stilista algerino trova la fonte d’ispirazione per i suoi preziosi caftani, come la djellaba, la tunica lunga con il cappuccio a punta, il jabador e il mantello burnus. Anche il designer franco-tunisino Azzedine Alaïa con la sua cosiddetta “soft sculpture”, fa rivivere sui suoi abiti la scultura soffice della stoffa da domare. L’architettura “arabisance” non viene rispettata alla lettera da Azzedine ma ciò che si capta immediatamente è quello speciale attaccamento all’essenzialità delle strutture berbere e al bianco, simbolo di rigore e purezza. I suoi abiti si avvicinano silenziosamente all’ambiente che li circonda, amalgamandosi ad esso. Le pieghe scolpite da Alaïa sono le stesse che il vento del deserto scava nella roccia, diventando anse nel corpo delle donne.

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LE ARCHITETTURE MEDITERRANEE DIVENTANO ORDITO

 

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Si tratta di creazioni nelle quali i colori riescono a riprodurre i toni della natura, gli accostamenti caldi e prorompenti che riportano alla memoria le luci abbaglianti di un territorio dalle stanche membra, che cede sia alla calura che all’incanto.

Svolazzi che diventano geometrie e che, pur mantenendo il rigore delle forme, si ritrovano intrappolati in un gioco di armonia.

Ed ecco che Yves Saint Laurent è riuscito a contaminare i suoi capi con i vividi colori del suo Giardino Majorelle a Marrakech.

A Cristóbal Balenciaga, invece, piaceva reinterpretare stili appartenenti ad epoche passate della storia spagnola

per poi arricchire le proprie collezioni, non a caso l’“Infanta”, s’ispira agli abiti ritratti da Diego Velázquez nei dipinti della principessa Margherita, e nella “Jacket of light”, si ritrovano i bolero dei toreri spagnoli. Nato a Getaria, ha interiorizzato la sua Spagna estrapolando elementi caratteristici del suo paese come il pizzo, il bolero e il contrasto tra rosso e nero. “The queen of textures”, così viene definita la stilista greca Mary Katrantzou, ha reso i suoi abiti strutturati una tela per stampe visionarie e dall’effetto trompe l’œil. La sua Atene rivive nella tridimensionalità e nelle forme geometriche, ma anche nei collage digitali che ripropongono i colori vivaci e i fregi mitologici che un tempo adornavano le sale dei templi greci. Appassionati di una delle tre Gorgoni, Medusa, e amanti del culto ellenico,

i reggini Gianni e Donatella Versace, dal 1978 ad oggi, danno vita a una libera commistione di elementi decorativi che vanno dalla Magna Grecia, al Barocco, fino alla Pop Art.

Il past forward diventa per loro una forma di sperimentazione, mescolando elementi couture a drappi da vestali, ma anche nuovi materiali, come pelle, maglia e minuteria metallica rigorosamente color oro e coloratissime sete stampate su cui sono impresse greche d’ordine corinzio e riccioli rococò. Il libanese Elie Saab, infine, ricrea su stoffe ricercate come pizzo, seta e chiffon, ricami con perline, paillettes e cristalli, talvolta solo per impreziosire determinate parti, altre volte i tessuti utilizzati ne sono completamente ricoperti. Elie risente dell’arte del ricamo, sfoggiata per impreziosire i costumi tradizionali durante le danze popolari dabke e raqs sharki, per costruire ogni suo dettaglio prezioso, seguendo però un mood incredibilmente femminile, sensuale e mai eccessivo. Gli abiti d’haute couture di Saab nascondono

bagliori lucenti color oro simili a quelli che rendono le danzatrici del ventre terre voluttuose di conquista.

I designer accostano quei pigmenti che ritrovano lo splendore di antichi popoli che lottavano per affermare la bellezza delle loro terre, abbellendole con pregiati intarsi, con maioliche, arabeschi e architetture simili ai luoghi del Corano. I tessuti si colorano dei toni del beige, dei marroni chiari, dei blu cobalto, dei silenzi, delle dune attraversate solo da un vento che scuote, con il proprio tormento, le vesti fascianti dei nomadi. Le collezioni nascono da queste terre e a questi luoghi ritornano per rendere uniche e pregevoli le movenze di chi si lascia catturare da uno stile che non teme confronti, perché sa che il Sud non è stato creato come un semplice luogo ma come archè divino.

 

“UN DOPPIO MOVIMENTO” di Giusto Puri Purini – Numero 3 – Gennaio 2016

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La prima, racconta con il fluire del tempo, la mutazione dal Classicismo all’Astrattismo, la materia “sottile” che esplode e si decompone, fino a diventare essa stessa “movimento”… (vedi tra gli altri il “Futurismo”).
La seconda, il Cinema, Arte più giovane, fotogramma per fotogramma, racconta il mondo per inquadrarne il procedere e sottolinearne il fantastico. Un Cocktail per diventare architetti?
Ora che lo sono da tanti anni, percepisco l’importanza delle due componenti ed il valore del loro intrecciarsi. Unite alla Cultura formativa, possono far nascere la “quadridimensionalità”, ovvero, la dimensione dello “spazio profondo”.

“UN DOPPIO MOVIMENTO”

 

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Enrico Prampolini diceva di Mino Delle Site: “Il colore è il suo naturale mezzo d’espressione ed egli lo usa per realizzare la quarta dimensione, scoperta entusiasmante e vitale del Futurismo”.

Lui, Delle Site da Lecce è salito a scoprire il mondo, io sono sceso verso sud, dopo averlo scoperto, e qui in un doppio movimento ci siamo incontrati.

Scriveva Bodini: “Delle Site presenta brani della sua anima che si manifesta.”

Il colore, quindi, per Mino Delle Site, che da Lecce, meravigliosa, dorata e barocca, terra dai toni caldi ai mezzitoni, ne fa un artista globale. Saturo d’interessi molteplici, dai paesaggi, alla moda, al design, alla pubblicità e poi all’aeropittura, lo portano negli anni 30 a Roma e poi in giro per il mondo, con quell’arioso e scientifico passato della sua terra.
Lo incontro, attraverso le sue belle opere, grazie alla figlia Chiara Letizia, in occasione dell’allestimento di un Salone di Rappresentanza al Circolo del Ministero Affari Esteri, che inevitabilmente diventa “la Sala Delle Site“, grazie naturalmente all’attiva partecipazione dei fratelli Vattani, Ambasciatori.

Lì percepisco le evoluzioni felici dell’aeropittura, i ghiribizzi cosmici, come li definisce Lorenzo Canova nella sua presentazione e quella delicatezza, tipica della terra salentina, dove ogni cosa è mutevole tra continue luci ed ombre.

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Ora ne parlo con cognizione di causa, essendomi in parte, dopo tanto girare, trasferito in un’antica masseria contadina, vicino a S.Maria di Leuca (Lecce), ristrutturata ed oggi, ecosostenibile, nel centro di quei vortici naturali, che caratterizzano gli ultimi 20 km del tacco d’Italia, tra due mari, lo Ionio e l’Adriatico.
Ecco, percepisco i luoghi dell’Arte e della formazione scientifica dell’artista, la sua appartenenza agli archetipi di quelle terre. Aleggiano come monadi nello spazio e sono messapiche, daune e peucezie, dall’Epiro veniva la madre di Alessandro il Grande, ad un tiro di schioppo da Otranto, andando a iniziare con il fiorire dell’architettura della pietra, dolmen, menhir, mura megalitiche, il grande ciclo formativo della cultura mediterranea.

 

TAMBURO, IL RITMO DEL CUORE di Titta Mancini – Numero 3 – Gennaio 2016

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Infatti, è essenzialmente poverissimo nella fattura, costruito con materiali facilmente offerti all’uomo dalla natura – pelle animale (di capra o capretto), legno e, a volte ma non sempre, pezzetti di latta o altro metallo di poco valore per i piattini (o cimbali) di accompagnamento lungo il bordo. 
Il nostro tamburello italiano o tamburo – ce ne sono di diverse circonferenze – è detto ‘a cornice’ proprio per la cornice di legno che contorna la pelle animale sulla quale il percussionista batte il tempo, dando origine alla vibrazione sonora, che costituisce la musica del tamburo, o se vogliamo, la sua voce.

TAMBURO, IL RITMO DEL CUORE

 

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Il tamburo è l’unico strumento musicale presente in tutte le culture del mondo, dagli indiani d’America all’estremo Oriente, dal nord Europa all’Africa, e il Mediterraneo dall’Italia al mondo arabo. Questo, in ogni epoca della storia. Ci sono testimonianze primitive dell’uso di strumenti a percussione di forma circolare. A noi vicine, le immagini dell’epoca fenicia o romana:

Una danza continua, le cui movenze ricordano i nostri antenati, il viaggio che dalla semina conduce al raccolto. Che lo si eserciti come ballo o che soltanto lo si apprezzi per il valore simbolico.

Sono soltanto esempi. L’iconografia ne è ricca, sia popolare laica, sia cattolica cristiana.
Dalle origini mitologiche all’uso nei campi, più di recente. La storia del nostro paese e, in particolare, del Sud, ci consegna la musica popolare come madre di ogni ritmo. Non a caso l’universalità dello strumento descritto, come si diceva, presente in ogni continente, nasce proprio dalla sua peculiarità:

le sacerdotesse fenice usavano suonare il tamburello nei riti propiziatori per la fertilità; i romani lo utilizzavano ad accompagnare le feste dionisiache, vino, canti e musica nelle ville di Pompei, e lo raccontano gli stessi affreschi salvati dalla distruzione della città antica.

Ci sono anche uomini e donne, per lo più anziani oggi, che hanno creato maniere di suonare, stili, che portano quindi il loro nome, alla maniera di…
Si accennava al mondo dei campi. Dal medioevo ad oggi la musica popolare, con il suono del tamburo, semplice, potente, evocativo, profondo o acuto, è servita a più scopi. Sul ritmo nascono rime e invocazioni, proteste e incoraggiamenti, riti propiziatori di derivazione pagana in favore della fertilità in senso lato, dell’amore come forma di corteggiamento, provocazione, sfida. Il lavoro nei campi e la fatica di guadagnarsi il pane, la necessaria ricompensa e la protesta in caso contrario, in nome di una sociale giustizia. Sono tutti temi che hanno attraversato il canto popolare dando corpo, voce e musica proprio a questi sentimenti di comunanza.

Il culto mariano, soprattutto nella regione Campania, ha riadattato la musica popolare in chiave religiosa, sacra; il popolo con le cosiddette ‘tammurriate’ (e qui il tamburo usato è di dimensioni più grandi, la tammorra) si rivolge direttamente alla Madonna

Il tamburo non è l’unico strumento del mondo popolare – spesso ad esempio è accompagnato da piccole nacchere o castagnette (così dette nel vesuviano), indossate e suonate dai danzatori sul ritmo della percussione – ma è certamente, il tamburo, l’oggetto musicale che meglio rappresenta nella sua stessa struttura la filosofia della musica nata dal popolo: una musica ancora viva nel nostro Sud e che continua a garantire il legame profondo che unisce l’uomo meridionale alla sua storia. E’ una musica circolare. Come il sole, come la luna, come il ciclo intero della vita.

il tempo sul tamburo rievoca, o addirittura imita, il ritmo del cuore. Il primo e più antico suono che l’orecchio umano abbia mai percepito, addirittura in se stesso.

(sette Madonne, secondo la tradizione quasi leggendaria, sette Sorelle, sei belle ed una nera), per una grazia che si chiede cantando e suonando. 
Il suonatore e i danzatori: nella cultura salentina, leccese, il tamburo accompagna invece il violino perché la musica ripetuta e ipnotica risvegli nella tarantata, quasi sempre donna, le capacità innate di guarigione, contro il veleno del ragno. E qui parliamo di pizzica: il morso vero o presunto, reale o immaginato, sempre certamente simbolico, l’espiazione del male e la liberazione attraverso la musica. 
Difficile sintetizzare in poche righe la sacralità che accompagna l’uso del tamburo anche laddove il rito o l’iniziativa musicale prende forma da una semplice necessità di aggregazione, come la festa, una tarantella via l’altra; c’è sempre nel sottofondo del ritmo il passo antico di una sonorità che ci appartiene, nel profondo. Quasi magica. Come la terra, la nascita, il cuore che batte.

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E forse ancor prima di nascere. Ecco il battere sulla pelle animale. E non c’è niente di scritto in questa musica che si tramanda di generazione in generazione, di padre in figlio, di nonno in nipote. E’ a trasmissione orale e manuale: il movimento delle mani, quella che regge lo strumento e quella che lo percuote, dall’impugnatura alla riproduzione del suono in tempo binario o terzinato, si impara osservando e provando assieme al maestro della tradizione, in genere un riconosciuto ‘grande vecchio’ del paese,

così al Sud, dove ancora è molto forte la cultura della musica sul tamburo e altrettanto forte la gelosia che accompagna la sapienza. Tecniche conosciute da centinaia di anni, ma riposte nelle mani di pochi.

Per accordare un tamburo servono acqua e fuoco, acqua per allentare la pelle, fuoco per renderla più tesa. Umidità e calore. E torniamo alle origini, per fare musica.

 

BRODERIES ET DENTELLES. “DERRIERE LA FENETRE D’UNE VIEILLE MAISON” di Venera Coco – Numero 3 – Gennaio 2016

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étaient les outils les plus courants dans les mains des jeunes Siciliennes qui préparaient anxieusement leurs trousseaux, en espérant pouvoir un jour exhiber leurs travaux avec l’audace propre aux maîtresses de maison. Pendant longtemps, les villes de cette île, complexe et mystérieuse, furent décorées de la beauté et de la finesse des broderies et des dentelles qui parvenaient à rendre précieux chaque recoin des maisons, chaque bannière des autels des églises, même ce qui se portait mais devait rester secret.

De la dentelle sicilienne, du macramé, du crochet et de la broderie, Domenico Dolce et Stefano Gabbana, ont fait un « must »: ce n’est pas un hasard si le mot dentelle fait immédiatement penser à la dentelle noire qui les a rendu célèbres.

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BRODERIES ET DENTELLES. “DERRIERE LA FENETRE D’UNE VIEILLE MAISON”

 

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Ces arabesques rappellent la créativité des artisans capables de travailler la céramique, le bois et l’argile. Au fond, il s’agit de transformer le fil en sculpture, un y appliquant une maîtrise patiente, que ces femmes mettent en oeuvre en répétant toujours les mêmes gestes, comme si elles chantaient une berceuse dont elles connaissent les paroles par cœur.
Ces oeuvres réalisées, point après point, dans une alternance harmonieuse de pleins et de vides, rendent les nappes et les draps précieuxCes arabesques rappellent la créativité des artisans capables de travailler la céramique, le bois et l’argile. Au fond, il s’agit de transformer le fil en sculpture, un y appliquant une maîtrise patiente, que ces femmes mettent en oeuvre en répétant toujours les mêmes gestes, comme si elles chantaient une berceuse dont elles connaissent les paroles par cœur.
Ces oeuvres réalisées, point après point, dans une alternance harmonieuse de pleins et de vides, rendent les nappes et les draps précieux

Les mains nerveuses tissent depuis des siècles dans les cours des maisons ce simple fil qui, par ses tours et ses acrobaties, tisse miraculeusement les arabesques à ajuster aux tissus pour les rendre précieux.

Ces broderies et ces dentelles rappellent la lave volcanique qui, en se refroidissant garde en elle l’air bleu et le parfum des genêts.

Les créations de Marras respirent l’excentricité et tournent autour de couches et d’incrustations de tissus et de broderies, qui racontent l’histoire mouvementée de sa terre, dans une succession d’influences et de cultures, et les rendent similaires à une roche sédimentaire.

En Sicile la dentelle se travaille toujours et la tâche est confiée aux femmes plus âgées, pliées sur leurs petits cadres ronds.
Les après-midi d’été, les cours des maisons anciennes deviennent leur refuge préféré loin de la chaleur de l’été. De « derrière la fenêtre d’une vieille maison», comme le chante Battiato dans «Mal d’Afrique», aux grandes multinationales du luxe, le chemin est court: les styles du passé se modernisent pour faire place à des versions plus contemporaines.

Fluide, magmatique et inoubliable, comme le feu qui jaillit de l’Etna, tel fut le défilé des modèles (à la fin du défilé automne / hiver 2013-2014) qui portaient sur leurs corps l’arrogance de la lave incandescente sur laquelle le jais jet le strass brillaient comme des joyaux . Le travail des brodeuses expertes enchante aussi la designer milanaise Luisa Beccaria qui a hérité de son mari, le noble Bonaccorsi de Reburdone, cette attitude typiquement sicilienne, et réalise des vêtements néo-romantiques de style préraphaélite, en broderie anglaise et macramé, mais aussi des jupes évasées qui incluent des pièces en dentelle.

Gonflées de crinolines, les robes de soirée en taffetas sont de véritables œuvres d’art de la Renaissance, légères et transparentes et savent comment mettre en valeur le travail laborieux qui produit les dentelles aériennes.

A Alghero également, dans la Sardaigne de Antonio Marras, les dentelles sont un élément essentiel de la culture de l’île. Dans la signature stylistique de la créatrice il y a a eu il y aura probablement toujours de la place pour la broderie, la dentelle de Bosa et les autres productions manuelles qui sont au coeur de l’artisanat sarde.

Si pendant longtemps on a essayé de donner de la légèreté aux vêtements, de les rendre aussi impalpables que des cristaux de sucre grâce aux dentelles et aux broderies, il ne faut pas oublier que cet effet est le résultat d’un travail savant et minutieux, qui cache les idées et les géométries de ceux qui réussissent à créer avec très peu, des nuages d’une telle beauté.

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MINO DELLE SITE COSMICO E PROFETICO di Lorenzo Canova – Numero 3 – Gennaio 2016

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un codice visionario di immagini lanciate nel futuro, uno spazio celeste in bilico tra immaginazione e realtà: dopo un secolo, Mino Delle Site continua a trasportare i suoi spettatori in un vortice di pittura sospeso tra cielo e terra, in un universo parallelo che ci rivela costellazioni ignote e ci fa scoprire volti nuovi del mondo che credevamo di conoscere.

Nel suo turbine futurista, Delle Site viaggia nel tempo unendo epoche e stili, fondendo in modo profetico la pittura al mondo digitale, aprendosi allo spazio della vita attraverso l’architettura e i mass media, lavorando nel cinema e preconizzando gli intrecci visivi della nostra epoca.

Delle Site, infatti, come tutti i grandi futuristi, da Marinetti a Boccioni o a Balla, ma anche come il suo amico Prampolini, paradossalmente può essere più apprezzato oggi che nella sua epoca, ammirando il suo metodo costruttivo fatto di rotture di tradizioni e di aperture di nuove prospettive, di fasci luminosi e di interazioni tra piani spaziali e visivi, anticipando sviluppi interattivi e i dati di una percezione del domani.

La pittura di Delle Site trova dunque una giusta collocazione in un contesto che oltrepassa addirittura la dimensione ristretta delle arti visive e si colloca in quel contesto allargato attuale che Marinetti aveva previsto, ad esempio, nella sua difesa della pubblicità come nuova forma d’arte lanciata sulle strade come nuovi musei urbani e nella sua volontà di utilizzo consapevole dei mass media. 
Così le immagini di Delle Site, come quelli di altri grandi aeropittori come Dottori o Tullio Crali, precorse da quelle di Boccioni e di Severini, presagiscono le nostre visioni della terra vista dai satelliti, le mappe di Google Earth e la nostra realtà aumentata dove tutto si fonde in un intreccio simultaneo.

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MINO DELLE SITE COSMICO E PROFETICO

 

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Le diagonali di Delle Site tagliano allora il quadro e lo ricompongono, le linee fissano orbite astrali e configurano viaggi interplanetari, le geometrie convergono verso punti di fuga allucinati e iperbolici: l’autore rende tattile l’accelerazione della pittura che si trasforma in un vettore di luce per fendere i territori sorvolati dall’artista-pilota con i suoi tagli cromatici che bruciano le coste, i mari, le nuvole e i cieli come razzi sparati dall’occhio sovrumano del pittore demiurgo. 
Così, quando saremo immersi nel delirio visivo delle metropoli contemporanee, come, ad esempio, tra gli schermi interattivi e sbalorditivi di Times Square o se ammireremo gli effetti speciali di Star Wars o di Interstellar, ci potremo ricordare di artisti come Mino Delle Site che hanno contribuito a creare questo immenso mosaico visivo contemporaneo incrociando la loro ricerca e dirigendola verso i confini infiniti di uno spazio oltreumano, dove la conoscenza trova nuove frontiere, dove il viaggio incontra nuovi porti e dove, forse, le dita stesse di Dio giocano con il firmamento ricomponendo in eterno l’ordine cosmico del giorno e della notte.

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Delle Site si apre quindi all’avvenire con una pittura raffinatissima che divora la tradizione per farla rinascere con nuove forme, diventa elettronico usando ancora i pennelli e le velature dell’olio e dei pigmenti, supera lo spazio e il tempo lanciando la sua pittura su rotte interstellari al di là della nostra galassia.

 

PIZZI E MERLETTI. “DIETRO UNA FINESTRA DI RINGHIERA” di Venera Coco – Numero 3 – Gennaio 2016

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racconta il professore Rocco Zito. Erano gli arnesi più comuni nelle mani delle giovani siciliane che preparavano con ansia i loro corredi, sperando di poter un giorno esibire quei manufatti con l’audacia delle padrone di casa. Per molto tempo le città di un’isola, complessa e misteriosa, sono state ornate dalla bellezza e raffinatezza di quei merletti e quei pizzi che riuscivano a rendere prezioso ogni angolo delle dimore, ogni vessillo sugli altari delle chiese, perfino ciò che poteva essere indossato e di certo rimanere segreto.

Di sfilati siciliani, macramè, uncinetto e tombolo, Domenico Dolce e Stefano Gabbana, ne hanno fatto un must-have: non a caso, il pizzo nero che ha reso celebre il loro fasciante tubino, ritorna immediatamente al pensiero quando si pronuncia la parola dentelle.

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PIZZI E MERLETTI. “DIETRO UNA FINESTRA DI RINGHIERA”

 

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Quegli arabeschi che ricordavano l’estro creativo di artigiani capaci di lavorare la ceramica, il legno e la creta. 
In fondo si trattava di rendere quel filo, simile ad una scultura, applicando di certo una paziente maestria, che quelle donne sapevano realizzare attraverso il ripetere di gesti uguali, come se cantassero una nenia di cui conoscevano a memoria le parole.
Quei rufoli realizzati, punto dopo punto, in un’armoniosa alternanza di pieni e vuoti, rendevano preziose le tovaglie e le vesti.

Le mani nervose, dentro i cortili, hanno intrecciato per secoli quel filo semplice e innocuo che attraverso giri e acrobazie tesseva miracolosamente arabeschi da applicare alle stoffe e renderle così leggiadre.

Trine e pizzi spesso simili a pietra lavica che raffreddandosi hanno trattenuto a sé l’aria azzurra e il profumo delle ginestre.

Gli abiti di Marras trasudano eccentricità e ruotano intorno a stratificazioni e incrostazioni di tessuti e ricami che, raccontando la storia travagliata della propria terra, in un succedersi di contaminazioni e culture, la rendono simile a roccia sedimentaria.

Ancora in Sicilia si lavorano i merletti e il compito è affidato alle donne più anziane, che si trovano chine sui piccoli e tondi telai. 
Nei pomeriggi d’estate, i cortili delle case antiche diventano le loro dimore preferite al riparo dalla calura estiva. Da “dietro una finestra di ringhiera”, come canta Battiato in “Mal d’Africa”, fino alle grandi multinazionali del lusso, il passaggio è breve: gli stilemi del passato si attualizzano per cedere il posto a versioni più contemporanee.

Fluido, magmatico e indimenticabile, come il fuoco che fuoriesce dall’Etna, lo scorrere delle modelle (alla fine della sfilata fall/winter 2013-2014) che trattengono sui loro corpi l’arroganza di lava incandescente sulla quale jais e strass brillano come lapilli. I lavori di esperte ricamatrici incantano anche la stilista milanese Luisa Beccaria, che ereditata dal marito, nobile Bonaccorsi di Reburdone, quell’attitude prettamente siciliana, realizza abiti neo-romantici in stile preraffaellita, in sangallo e macramè, ma anche gonne a ruota con tramezzi in pizzo.

Rigonfi di crinoline, gli evening gown in taffettà sono vere opere d’arte rinascimentali, leggeri e trasparenti sanno come mettere in risalto lavorazioni laboriose e merletti in filigrana.

Ad Alghero, ancora, nella Sardegna di Antonio Marras i merletti sono un caposaldo della cultura isolana. Nella cifra stilistica del designer c’è stato e probabilmente ci sarà sempre posto per tombolo, filet di Bosa, ricami e altre manualità che fanno parte del baluardo tipico dell’artigianato sardo.

Se per molto tempo si è tentato di dare leggerezza agli abiti, di renderli così impalpabili come cristalli di zucchero attraverso pizzi e merletti, non si può dimenticare che quell’effetto è il risultato di un lavoro sapiente e minuzioso, che nasconde al suo interno idee e geometrie di chi riesce a creare con molto poco nuvole di siffatta bellezza.

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GRIMALDI, LA SUA RICERCA DEL SUBLIME di Venera Coco – Numero 4 – Aprile 2016

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Nel corso del tempo ogni artista ha intravisto nelle proprie opere qualcosa di trascendentale, quasi un barlume di eternità. In quel chiarore ha riconosciuto una parte di sacro, un’espressione di sublime che ne ha segnato l’esistenza. Una ricerca, a volte introspettiva a volte estetica, che diventa immediata agli occhi di chi ne osserva le forme, i colori e l’armonia. 

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GRIMALDI, LA SUA RICERCA DEL SUBLIME

 

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Come un vero archistar di fama internazionale, Grimaldi va oltre la moda, immagina scenari differenti, come fece la sua maestra Fernanda Gattinoni.

Inconfondibile romantico, non poteva essere altrimenti. Grimaldi è originario di Salerno, una terra idilliaca e poetica, un luogo dalla mille sfumature che con le sue tonalità pastello, delicate e femminili, ispira gli abiti sognanti. Un uomo vero e sincero che non illude le donne proponendo modelli immettibili, ma riesce a illuminarle con linee semplicemente seducenti. 
Nessuna forma è esacerbata, anzi appare leggera, fluttuante come anche nel suo prêt-à-couture, che costruisce minuziosamente con sbiechi cuciti a mano, ultimati poi nei laboratori. Per questi capi lo stilista sembra giocare con atmosfere urbane, dove ogni pezzo è considerato al pari di una costruzione filiforme e sinuosa come i grattaceli ideati dalla commiata Zaha Hadid. È palpabile la transavanguardia, la sperimentazione, l’utilizzo di colori metallici.

Nonostante il suo eterno amore per l’haute couture, si reinventa ogni giorno, diversificando e trasferendo il proprio savoire-faire anche nel quotidiano. Ed ecco che il suo valore stilistico si palesa allo specchio quando le donne indossano quel ready-to-wear su misura che indovina e asseconda i desideri femminili, tanto quanto i suoi abiti d’alta moda. I modelli d’haute couture di Grimaldi ricordano l’effimero del vento che con braccia invisibili raccoglie una manciata di foglie per ricoprire, con leggiadria, le curve di chi ne trattiene le vesti. Altri sembrano toccare la goccia più debole di una nuvola che si scioglie sotto il peso di perle iridescenti.

Frange come petali di ninfee, come sottili tentacoli che accarezzano, quasi senza toccarne l’essere, per lasciarsi scorrere in una danza erotica.

Lunghe tuniche simili a infinite strisce di terra brulla si muovono sinuose come il fermento di un tubero che lotta. Bluse che si svincolano dalla sabbia come rettili, abbagliando i caldi del deserto con le loro squame cangianti. La magia sta tutta nelle sue mani, nel suo valore della tradizione, in sineddoche modaiole, dove la parte è importante tanto quanto il tutto e va considerata con estrema grazia.

Qualsiasi ispirazione riesca a trarre è certamente unico il risultato che propone alla donna del suo tempo.

Abile couturier riesce a raccontare per ogni abito un’avvincente storia il cui epilogo è sempre una dichiarazione d’amore alla sublime bellezza.

 

LA VIA DELLE MEMORIE di Vincenzo Donzelli – Numero 4 – Aprile 2016

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Le cose accadono e spesso non per caso. Ricordo ancora quell’umido pomeriggio di novembre del 2013 in cui ho ricevuto la telefonata del mio amico geologo Gianluca Minin, Presidente dell’associazione culturale Borbonica Sotterranea. Aveva un’importante proposta da farmi e mi aspettava, la domenica successiva alle nove in punto, alla Galleria Borbonica in prossimità del parcheggio Morelli.

Arrivati in cima all’impalcatura, mi ritrovai in un ambiente un po’ polveroso, dove un gruppo di almeno 30 volontari stava scavando … Restai sbalordita davanti a questi ragazzi molto giovani che lavoravano affiatati, con passione e anche divertendosi. A quel punto, Gianluca mi chiese se ero pronta a conoscere la principale ragione del suo invito; mi sorrise e mi chiese di girarmi: dietro di me vidi una lunga scala con decine di gradini che erano stati appena finiti di pulire dai volontari che erano di fianco a me.

Dal 30 gennaio di quest’anno, il nuovo percorso della Galleria Borbonica è attivo e aperto al pubblico con il suggestivo nome di La Via delle Memorie.

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LA VIA DELLE MEMORIE

 

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Gianluca mi guardava divertito e, di colpo, sorridendo, mi disse: “Sei pronta a scavare?”. Ero attonita, quasi sbalordita. Lui non si scompose e sempre sorridendo mi condusse a fare un giro all’interno della Galleria per presentarmi “alcune persone speciali che avevano una sorpresa per me”.

Quella mattina, restai senza parole di fronte a tanta bellezza; ero impressionata dalle opere realizzate dai Borbone e orgogliosa dei ragazzi che avevano ripulito tutto senza alcun aiuto economico. Gianluca mi guardò e mi disse che mi avrebbe portata dove i lavori di rimozione dei detriti e dei rifiuti erano ancora in atto. Dopo l’apertura della parte iniziale della Galleria, infatti, nell’agosto del 2013, lui e il suo socio avevano iniziato a scavare all’interno di una cisterna del Seicento, alla ricerca del passaggio verso il ricovero bellico di Palazzo Serra di Cassano. Quando arrivammo alla cisterna, Gianluca si fermò di colpo e mi disse che ci trovavamo esattamente al di sotto del Palazzo, in un punto limitrofo allo spazio di mia pertinenza. Lo ascoltavo in silenzio, mentre lui mi spiegava tutto il sistema di cunicoli e attraversamenti. Alla fine della spiegazione mi indica il passaggio che cercavano da tempo e che era emerso dai detriti. Quel passaggio consentiva di entrare in una serie di ambienti di epoche diverse, su più livelli, collegati da bellissime scale. Salimmo queste scale e mentre guardavo l’altissima volta che era sopra di me, Gianluca mi rivelò che tutto ciò che vedevo risultava, in gran parte, dal riempimento di detriti derivanti dai resti degli edifici bombardati nella parte alta di Monte di Dio e versati subito dopo la guerra nei pozzi. Era incredibile e il mio stupore cresceva con i suoi racconti. A un certo punto, mi fece salire su un’impalcatura che conduceva ancora più in alto da dove arrivavano i rumori di persone che parlottavano divertite. Ero impressionata dalla quantità di materiale che era stata spostata.

Non solo la Galleria fu restituita al patrimonio culturale di Napoli, ma la scoperta di diverse cavità non censite ubicate in aree limitrofe alla Galleria, ha permesso di migliorare la conoscenza del sottosuolo dell’area di Monte Echia e di studiarne i movimenti, utili a prevenire possibili smottamenti e altre calamità.

Non avevo idea di cosa volesse propormi, il solo pensiero che mi venne è che potesse chiedermi una collaborazione tra la sua associazione e l’associazione artistico culturale Interno A 14, che, da lì a poche settimane, avrei aperto, in un locale di proprietà della mia famiglia a Palazzo Serra di Cassano. Ero davvero curiosa e quella domenica mattina mi recai all’appuntamento con un pizzico di ansia. Conoscevo quella parte di sottosuolo che partiva dal parcheggio Morelli perché ne avevo sentito molto parlare, ma non l’avevo mai visitata. Quando arrivai al cancello della Galleria Borbonica, Gianluca era lì ad accogliermi. Già all’entrata, rimasi colpita dalla maestosità delle cavità che si ramificavano da quel punto in varie direzioni e poi, entrando, dal susseguirsi di giochi di volte, scavate nel tufo, e dagli archi di grandezze diverse.

“Questo – mi disse Gianluca senza scomporsi – è il nostro piccolo miracolo napoletano”! Era la storia di decine di volontari che ogni domenica mattina andavano a lavorare alla Galleria per rimuovere a mano tutti i materiali che ingombravano gli ambienti.

Durante il tragitto mi raccontò la storia della Galleria e di come lui, e il suo socio – e collega – Enzo de Luzio, avessero trovato tutto quello che, con grande sorpresa, stavo ammirando. Mi parlò dei rilievi statici che faceva nelle cavità del sottosuolo di Napoli che, dopo alcuni mesi, lo avevano condotto all’interno della Galleria Borbonica – che era in uno stato di totale degrado e abbandono, invasa da rifiuti e detriti sversati abusivamente negli ultimi 30 anni. Gianluca, tuttavia, non si scoraggiò. Cominciò subito i rilievi e i lavori di pulizia, coinvolgendo decine di volontari. Dopo cinque anni di interventi pazienti e impegnativi, tutta la città ha potuto ammirare la bellezza di un’opera civile totalmente dimenticata. Si trattava di un piccolo miracolo napoletano, dovuto alla capacità e alla tenacia di geologici, tecnici, studiosi e al lavoro di tanti ragazzi e ragazze della città.

Mi disse che le scale terminavano proprio sotto il pavimento del mio spazio. Rimasi di sasso.

Nel periodo bellico, per consentire il ricovero degli abitanti durante i bombardamenti, qualcuno aveva ampliato la scala già esistente nel Rinascimento che collegava il Palazzo con i suoi ambienti sotterranei. Restai in silenzio, osservando tutto ciò che mi circondava. Guardavo i volti dei ragazzi e lo sguardo di Gianluca e degli altri volontari dell’associazione Borbonica Sotterranea che quella mattina erano lì e che con tanto amore e passione avevano per anni scavato per riportare alla luce una simile bellezza. Gli dissi che ero onorata di poter collaborare con loro e di ripristinare il passaggio chiuso dopo la II guerra mondiale, che univa due realtà importanti come il Palazzo Serra di Cassano e la Galleria Borbonica. Da quel giorno sono passati due anni di intensi lavori di scavo e di prolungate attese per i permessi. Finalmente, il 14 novembre 2015 abbiamo potuto eliminare l’ultimo diaframma che impediva il congiungimento tra il Palazzo e il sottosuolo, restituendo così alla città di Napoli un percorso che, senza alcuna retorica, rappresenta l’orgoglio dell’iniziativa privata e del volontariato.

Da quel giorno, chi proviene dal sottosuolo può seguire il percorso di Palazzo Serra e sbucare con sua grande sorpresa all’interno del mio spazio polivalente dedicato alle arti e alla cultura – chiamato Interno A 14. In questi spazi abbiamo allestito un’area con una mostra permanente fotografica in onore dei volontari della campagna di scavo dell’associazione Borbonica Sotterranea dove si possono ammirare anche delle teche con alcuni degli oggetti ritrovati nel sottosuolo.

 

“DON’T SELL MARIO D’URSO SHORT” di Francesco Serra di Cassano – Numero 5 – Luglio 2016

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ha omaggiato con una grande mostra Mario d’Urso, il napoletano più conosciuto in America, il finanziere che ha stabilito il record di tre capodanni in tre continenti diversi e che per decenni ha orientato fondi d’investimento, portando milioni di dollari in Italia.

Uscito da Lehman con un cospicuo patrimonio, dopo pochi mesi (inizio 1984), entra a far parte della Kissinger Associates, diretta personalmente dall’ex segretario di Stato Usa. Quando lascia Lehman, Mario d’Urso è all’apice della sua carriera nel mondo della finanza e delle relazioni internazionali. In un profilo tracciato un anno prima dal giornalista Marco Mese si dice: “Quando giovanissimo se ne andò in America non aveva in mente Hollywood. Aspirava ad un mondo più esclusivo e arduo da conquistare: voleva arrivare a Wall Street, la leggendaria via newyorchese delle banche e degli affari. E oggi, al suo ufficio al 44° piano di un grattacielo, domina questa strada che, ormai dovunque, significa cuore della finanza. Mario d’Urso, 42 anni, proveniente da una famiglia di avvocati napoletani, è uno degli italiani di maggior successo all’estero. Come socio della Lehman Brothers Kuhn Loeb si è collocato ai vertici di una delle banche d’affari più importanti d’America. Il compito precipuo di d’Urso è ampliare e consolidare le ramificazioni della banca verso i paesi stranieri. Vola perciò da un capo all’altro del mondo per intrecciare relazioni d’affari. “In questo momento – spiega – devo occuparmi dell’America Latina e del Sud est asiatico, aree curate in precedenza da due partner che sono recentemente usciti dalla banca”. Mario d’Urso non è un banchiere di tipo italiano, tutto casa e ufficio: vive tra le sue residenze di New York, Londra e Roma, ama i night alla moda e cura il suo fisico d’atleta con molto sport: attrezzi, tennis, sci… ma le radici sono sempre le radici.

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“DON’T SELL MARIO D’URSO SHORT”

 

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Dolce vita e buoni affari. Un mix che per Mario, da subito, funziona perfettamente. Cerimonie e incontri serviranno, poi, al banchiere d’Urso per unire aziende, capitali, persone attorno a grandi progetti e alle grandi cessioni internazionali.

Mario d’Urso nasce a Napoli l’8 aprile 1940, da Alessandro d’Urso e Clotilde Serra di Cassano. È l’upper class partenopea, ricca, colta e cosmopolita, con diffuse parentele anglosassoni. Tra gli antenati due martiri della rivoluzione napoletana del 1799 e un firmatario della Dichiarazione d’indipendenza d’America.
Arrivato a Roma negli anni della guerra, Mario, primo di tre fratelli, si ambienta perfettamente nella città. Il padre, internazionalista di chiara fama, gira il mondo e frequenta, per lavoro e per amicizia, Giorgio Cini, Vittorio Valletta, gli armatori d’Amico, la potentissima ambasciatrice Usa Clare Boothe Luce.
Mario studia al Collegio San Gabriele, frequenta le ragazze Caracciolo, destinate a sposare gli Agnelli, ma anche donne borghesi e divertenti come Marina Punturieri, oggi Ripa di Meana, ragazzi brillanti come i Pratesi. Alla fine dei Cinquanta, i giovani-bene si divertivano a fare le comparse. E così, un occhio attento può ritrovare Mario d’Urso in varie pellicole di quegli anni. In quel periodo diceva di essere innamorato di Lorella De Luca, che andava a prendere a casa con una scala per farla uscire di nascosto, ma la sua principale compagna di uscite era la “vivacissima Marina”.

All’estero i rapporti con lo scià di Persia e il presidente delle Filippine Marcos mi permisero di combinare affari straordinari. Passavo, inoltre, le mie vacanze sia d’estate che d’inverno con l’avvocato Agnelli, Kissinger, Rockfeller, il presidente Kennedy e Onassis”.

La sua squadra alla Shearson Lehman, per molti anni, ha rappresentato il più ragguardevole gruppo di esperti in relazioni Italia – Usa: da Antonio Carosi a Ruggero Magnoni, da Andrea Farace a Lorenzo Ward, dai fratelli Gilardin a Roberto Magnifico ed Enrico Bombieri. Come direttore esecutivo dell’équipe, Mario d’Urso, conosciuto tra i finanzieri come Mario di Wall Street, ha assistito all’accumularsi tra il 1970 e il 1984 di più di cinque miliardi di dollari in valuta per le corporazioni appartenenti al governo italiano.
Mario lascerà la sua partnership in Lehman nel 1983, pur restando per alcuni anni consulente della società come advisor director.

Alla festa d’addio, che si tiene a Manhattan nel settembre 1983, viene proiettata una scritta luminosa intermittente che dice: “Don’t sell Mario d’Urso short”, ovvero “Non vendete Mario d’Urso al ribasso”.

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Dopo la maturità classica, studia giurisprudenza e si laurea a Palermo. In verità, si iscrisse contemporaneamente a due Università, una in Italia e una negli Usa. In quella di Georgetown a Washington, prende un master in Comparative Law nel 1965. Appena laureato entra nello studio di un prestigioso avvocato, Oscar Cox, legale del governo italiano in America. “Mi devo considerare molto fortunato – ha dichiarato in una delle tante interviste degli anni ’80 – perché non ho avuto molti ostacoli. Sono stato tra i primi italiani, negli anni Sessanta, ad entrare in contatto con un’importante investment bank come la Kuhn Loeb che nel 1977 si è fusa con la Lehman Brother.

Sin dal mio primo affare di prestigio, l’acquisto della Maserati da parte della Citroën, ho fatto carriera nella stessa banca. Nel 1967, a 27 anni, ero già partner e uno dei vari amministratori delegati della Kuhn Loeb

e questo fu molto importante per aumentare, a mano a mano, la partecipazione nell’utile della banca. L’Italia è stato il nostro cliente più importante. Dal 1968/69, periodo in cui è incominciato l’indebitamento italiano con l’estero, alla fine degli anni Settanta, abbiamo concluso, con il settore pubblico italiano, oltre tre miliardi di dollari di prestiti”.
Mario d’Urso, sin dall’inizio della sua carriera a Wall Street, imposta un modello nuovo di contatto con i clienti: “I banchieri di solito stanno in ufficio dalle 8 alle 18; io, invece, ho sempre voluto mescolare il lavoro con il privato e, così, sono diventato amico di capitani d’industria, capi di stato e così via. Per fare qualche nome…in Italia Guido Carli e Tom Carini.

Ma non è stata solo la finanza a caratterizzare la vita sociale e l’attività di relazioni di Mario d’Urso. Sin da giovane ebbe il pallino della politica.

“Mi porta fortuna”, assicura. Da tipico self-made man, a 16 anni già concludeva affari. “Ero andato in vacanza a Londra – racconta – e mi iscrissi a un corso presso una compagnia di assicurazioni marittime della City. Finì che i titolari della società mi affidarono la loro rappresentanza in Italia”.
E’ Capital a certificare il suo successo. Gli dedica la copertina del 7 luglio 1981 con un’intervista che riassume le grandi operazioni della sua attività in Lehman. “Quali operazioni considera le più importanti e qualificanti della sua carriera? R. Dal punto di vista della soddisfazione e dell’impegno, l’affare Citroën-Maserati è stato forse il più interessante. Mentre, in termini di dimensioni, i più importanti sono stati, nel 1973, il prestito da un miliardo di dollari al Crediop e quello di cui si scrisse molto di 500 milioni di dollari per Venezia. Per quest’ultimo prestito eravamo in tre a concorrere: la Lehman Brothers, la Banca Commerciale e la Khun Loeb. Alla fine Mattioli ci mise d’accordo, e le tre istituzioni gestirono insieme il prestito. L’idea di Mattioli fu profetica. Cinque anni dopo noi di Khun Loeb ci siamo fusi con la Lehman Brothers, e l’unico nostro azionista istituzionale, al di fuori di noi partner, è la banca Commerciale. Un altro bell’affare della mia banca concluso in Italia è la partecipazione della St.Gobain nella Olivetti. Qui abbiamo lavorato in parallelo con Guido Vitale, che da tempo seguiva le vicenda della società d’Ivrea e che nel 1973 mi aveva presentato Carlo De Benedetti. L’idea del matrimonio con la St.Gobain venne al mio collega Istel, lo stesso con cui avevo concluso l’affare Maserati quindici anni prima”.

Nell’animo di d’Urso cova un residuo di sana scaramanzia napoletana. Così, quando deve firmare un contratto molto importante tira fuori dall’armadio un vecchio abito del nonno e lo indossa.

Nel 1957, appena diciassettenne, fu uno dei leader del movimento federalista e tra i promotori, nel 1961, delle prime elezioni a suffragio universale per gli Stati Uniti d’Europa. Il capo del movimento, all’epoca, era il grande europeista Altiero Spinelli. Racconta lui stesso: “Tentai di forzare le frontiere di Francia e Germania con pullman di giovani, per protesta contro le formalità doganali. Spinelli si spaventò, ero troppo rivoluzionario”. 
Sarà però solo nel 1983 che Mario d’Urso, finita l’esperienza di amministratore in Lehman, proverà la grande scalata al Parlamento italiano. Decide di candidarsi alla Camera con la DC, con questo slogan: “Dopo molti anni di vita all’estero che mi ha permesso di acquisire un’importante professionalità nel campo della finanza internazionale, ho deciso di mettere questa mia esperienza al servizio dell’Italia. Sono convinto che se ce la mettiamo tutta, l’Italia può essere campione del mondo in tutto”. 
Il tentativo non riesce, ma ci sono brogli e Mario d’Urso risulta tra i primi dei non eletti con un grande numero di voti di preferenza personali (quasi 40 mila). Ci riproverà con la Dc ancora due volte nel 1989 (a Roma) e nel 1992 (nel collegio senatoriale di Milano 1), prima di essere eletto senatore con l’Ulivo nel 1996, nel collegio di Castellammare di Stabia/Sorrento. 
Nel 1995, intanto, Dini aveva ottenuto l’incarico di formare il governo tecnico per sostituire l’esecutivo a guida Berlusconi, travolto dall’avviso di garanzia durante il Summit internazionale a Napoli. Dini chiama Mario d’Urso a ricoprire l’incarico di Sottosegretario al Commercio con l’Estero a fianco del Ministro Alberto Clò. Il governo resterà in carica un anno e, poi, le urne sanciranno la vittoria di Romano Prodi che darà vita al primo esecutivo dell’Ulivo. 
Nella carriera di Mario d’Urso la politica ricopre una parentesi significativa ma di breve durata. Al termine della Legislatura, nel 2001, non viene ricandidato. È lui stesso a raccontare che Dini gli ha preferito un altro candidato e soprattutto che logiche interne alla coalizione lo hanno di fatto emarginato. Le elezioni le vincerà Berlusconi e il 15 luglio Carlo Rossella sul Foglio chioserà in questo modo: “Mario d’Urso consiglia champagne Philipponnat grand cru a chi in queste ore vuole bere per dimenticare”.

 

PALMIRA. LA SPOSA DEL DESERTO di Paola Pariset – Numero 5 – Luglio 2016

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Gli-Occhi

parlavano più delle parole – in un grande archeologo come lui, avvezzo alla pacata e fruttuosa ricerca degli scavi, che nei decenni resuscitarono Ebla, la sua biblioteca, i tesori fascinosi dell’antica Mesopotamia – a proposito della drammatica distruzione di resti intangibili di Nimrud e di Palmira, nell’incontro del 15 febbraio “Il Tempio distrutto. Una questione cosmopolitica”, all’Istituto Svizzero di Roma, in via Ludovisi.

Gli occhi specchio dell’anima di Paolo Matthiae tradivano l’immanità della tragedia e della barbarie di oggi, in cui le opere d’arte sono divenute – come, in tanti altri casi, il corpo brutalizzato delle spose, delle madri, delle sorelle – oggetto di ricatto e mercanzia bellica, che brucia al militare più delle proprie ferite e della propria morte.

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PALMIRA.

LA SPOSA

DEL DESERTO

 

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 E basterà ricordare (ma mai nessuno dimenticherà) la fiera resistenza dell’ottantaduenne direttore del Museo Archeologico di Palmira, Khaled Asaad, che, per non rivelare i luoghi di collocazione protetta dei reperti museali, ha subìto tortura e atroce decapitazione nell’agosto 2015, per mano dell’ISIS. Perciò, dinanzi a questo regresso della civiltà, il direttore dei Musei Vaticani Antonio Paolucci, in occasione dell’intervista alla SIAE per la sua firma su “Unite for Heritage” e la presentazione dei Caschi Blu della Cultura, il 16 febbraio scorso affermò: “Sarò qui…

credo che ogni operazione fatta per la cultura abbia in sé una valenza pacifica, anche se i cani della guerra sono più forti di qualsiasi buona intenzione”.

Infatti nessuna costruzione a volta o a cupola qui tradisce la monumentalità dell’estetica imperiale romana: ovunque, nella rettilinea via colonnata simile a quella di Damasco, nel Teatro Romano di impianto ellenistico col favoloso proscenio a edicole, nel Tempio di Baal di tipo ionico-corinzio, trionfano la limpida geometria, il rapporto delle perpendicolari, la rettilineità ellenica. Su questo olimpico universo interferirono nel secolo III dopo Cristo il mondo partico, sassanide, iranico, coi loro simbolismi astratti e metafisici, appartenenti alla religione di Ahura Mazda: le coeve sculture funerarie palmirene, di livello artistico molto alto, palesano questo impossibile eppure realizzato connubio. Fu questo il periodo in cui prosperò il potente Regno di Palmira, retto dalla ricchissima e bellissima regina Zenobia, che osò muovere contro Roma proprio dopo la terribile disfatta dell’esercito dell’imperatore Valeriano da parte del sassanide Shapur I a Edessa, nel 270: ma solo l’imperatore Aureliano sconfisse e catturò Zenobia in fuga sull’Eufrate, conducendola a Roma per il proprio trionfo, stretta in catene d’oro, come il quadro tardoromantico di Herbest Schmalz testimonia, con immaginaria fedeltà. Sappiamo che anche Diocleziano e Giustiniano misero mano a fortificazioni della città di Palmira, che restò base militare romana e poi bizantina, prima di venire definitivamente abbandonata.

Paolo Matthiae ricordava, e dinanzi ai suoi occhi scorrevano i decenni serviti a riportare alla luce antichissime città e i pochi minuti per seppellire il Tempio di Baal e l’intero santuario di Baalshamin a Palmira, nella polvere di un’enorme e letale esplosione. Palmira, la Sposa del Deserto: il suo manto nuziale non è candido, è color sabbia, e tale è rimasto dall’origine dell’umanità, da quando essa iniziò ad accogliere le infinite carovane in sosta, lungo il viaggio tra Occidente e Oriente, per lo scambio di mercanzie, stoffe seriche, spezie.

Palmira era l’oasi fresca delle palme che le diedero il nome, fresca per la sete di centinaia di migliaia di uomini, in lento cammino.

Oggi essa vive di ricchezze archeologiche, perpetuanti fra le sue sabbie desertiche lo splendore della Grecia antica, anche se nella storia precristiana di Palmira rientrano le mitiche fortificazioni di Salomone, di cui nessuno conosce le fondamenta. Quando essa fu raggiunta dall’espansionismo romano, divenne provincia orientale di Roma, pur mantenendo l’autonomia che già possedeva nel periodo ellenistico seleucide.

All’imperatore Adriano, profondamente cólto, che dal mitico centro mediorientale rimase affascinato, risalgono quasi tutti i reperti archeologici monumentali di Palmira giunti fino a noi, che recano il segno del di lui amore per la Grecità classica ed ellenistica.

Un fascino unico promana da queste inclite mura, che ascendono come fiori dalle sabbie desertiche, del cui colore si ammantano: qui ebbe luogo la fusione culturale fra Est e Ovest, fra il mondo classico greco e quello bizantino e medievale.

Perché questo fu il ruolo storico di Palmira. Ma essa dal 2015 non è più come prima. Gli scempi perpetrati dall’Isis hanno sollevato lo sdegno mondiale, ma non hanno fermato il Califfato. Ed allora gli occhi smarriti del professor Matthiae si sono armati di nuova energia: e la sua opera si indirizza – come quella dei suoi colleghi internazionali e dell’ICCROM – a sostenere l’operato di chi vigila sui beni rimasti in situ, dai livelli direttivi all’usciere, visto che, nel frattempo, altri 15 custodi e funzionari sono rimasti uccisi per difendere il patrimonio artistico e il loro ruolo non si svolge affatto nella sicurezza. “L’ICCROM – afferma il direttore Stefano De Caro – è figlia delle distruzioni, ma si sa bene che la soluzione è il dialogo, anche coi Talebani. Intanto, teniamo corsi di preparazione alla guerra, al pronto-soccorso dell’arte, ad impacchettare i monumenti”. Matthiae, dall’alto dei suoi 76 anni, ha compreso che a ciò conduce “l’odio dell’altro”, come ai tempi di Costantino e Teodosio, ma anche della Francia di Luigi XVI (pochissime le statue di lui rimaste), e non finisce qui.

Questo, dunque, non è più il momento di nuovi scavi, della conquista di nuove conoscenze, ma quello pratico della salvaguardia, delle ricostruzioni

con criteri filologici o meno, per mettere infine i popoli – dice ancora Matthiae – “in condizione di fare da sé, di gestirsi da sé. E non sotto tirannide”.